Piccoli Truman crescono

di Fabrizio Rinaldi, 4 settembre 2018da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Ma tu, che lavoro fai? Quando rispondo: coordino un gruppo di persone in una struttura educativa, quasi mai la spiegazione suscita una qualche curiosità nell’interlocutore. In genere è seguita da un silenzio quasi imbarazzato, dal momento che la domanda era stata posta per riempire del tempo durante una conversazione futile. È dunque un modo per liquidare velocemente discorsi inutili e dirottare l’attenzione dell’interlocutore verso altri, con cui commentare magari l’ultimo modello di SUV.

Ma non và sempre così. L’altro giorno il figlio adolescente di un’amica ha insistito: Sì, vabbé, ma che cosa fai tutto il giorno? Il suo era un interesse genuino, ma o non erano sufficientemente chiare le mie parole o non riusciva ad incasellarle nella sua griglia mentale dei mestieri: in fondo non era tra quelli manuali o ben riconoscibili. Allora m’è venuta alla mente un’immagine suggeritami da un collega: Hai presente il film “The Truman Show”? Ecco, io sono il regista di quel baraccone per bambini “Truman”. Ho colto nel suo sguardo lo sconcerto, ma qualcosa deve averlo capito. Cosa francamente non lo so, anche perché è un paragone un po’ azzardato: ma almeno mi sono liberato della sua curiosità.

La storia è nota: fin dalla nascita Truman è inserito in un programma televisivo che trasmette a sua insaputa ogni attimo della sua vita. Il bambino non sa di vivere dentro un mondo fittizio creato attorno a lui. Comincia a camminare, a parlare, si relaziona con gli altri, s’innamora, fino a quando prende coscienza che c’è altro oltre quel mondo, e vuole esplorarlo, ma tutti glielo impediscono.

Quando il film uscì molti ci lessero un preciso riferimento alla società attuale, nella quale i sentimenti, gli oggetti, la comunicazione e, in generale, le scelte quotidiane, sono ridotti a beni di consumo gestiti dalle aziende e dai governanti – in questo preciso ordine –,a fini di guadagno e di potere e a discapito dei reali bisogni e del benessere della comunità.

In effetti ci sono riferimenti al mito platonico della caverna, che narra di prigionieri cresciuti sin dalla nascita in quello spazio chiuso, incatenati con le spalle volte all’ingresso, ignari dell’esistenza di un altro mondo al di fuori. A loro è concesso solamente vedere le ombre della realtà esterna proiettate sulla parete di fondo come da una lanterna magica. Un giorno uno di essi viene liberato e condotto all’uscita, dove con un misto di paura e meraviglia scopre poco a poco le stelle, il verde dei boschi e infine la luce accecante del Sole. Resosi conto dell’inganno nel quale era vissuto decide di tornare nell’oscurità per far conoscere la verità ai suoi compagni: ma questi non gli credono, pensano che sia impazzito a causa di ciò che ha visto e alla fine lo uccidono. In pratica scelgono di continuare a vivere nella finzione piuttosto che affrontare i pericoli (e le responsabilità) comportati dalla verità.

Come nello show di Truman, i miei collaboratori ed io cerchiamo quo-tidianamente di governare quella caverna, che nel nostro caso è una struttura ricettiva per classi della scuola primaria o, in estate, per minori della stessa età: e facciamo sì che le “ombre” proiettate siano piacevoli, divertenti ed “educative”, secondo precetti e indicazioni condivisi non con loro, ma con adulti che credono d’interpretarne i desideri, le necessità e anche le frustrazioni.

Per il tempo del soggiorno, in genere, siamo bravi a predisporre una programmazione alternativa a quella scolastica, colma di attività di esplorazione e di conoscenza. Le “ombre” che mandiamo in “scena” sono escursioni nel territorio, laboratori manuali ed espressivi, giochi organizzati e guidati. Il tutto sta in piedi grazie ad un progetto educativo elaborato negli anni per permettere agli educatori di gestire la naturale tendenza dei bambini a sottrarsi alle regole imposte da altri: facciamo trascorrere loro un breve periodo in un contesto inusuale e contemporaneamente “straordinario”, che consente esperienze di autonomia e di responsabilizzazione che per molti rimarranno purtroppo uniche.

Qui hanno infatti l’opportunità di vivere in una comunità differente da quella scolastica, con coetanei che non conoscono e con cui, gioco forza, devono imparare a condividere i tempi, gli spazi e la reciproca presenza (aspetto diventato estraneo). Questo li porta a sperimentare anche frustrazioni e sentimenti raramente provati prima. Nel nostro “laboratorio” viene testata – e da noi governata– quella che Umberto Galimberti definisce la “risonanza emotiva dei comportamenti”: certi atti “trasgressivi”, magari tollerati nell’ambito familiare o addirittura in quello scolastico, in una collettività come la nostra non possono essere accettati, perché ne minerebbero il senso stesso. Quel freno che oggi molti ragazzi sembrano non conoscere più, a causa di un crescente analfabetismo emotivo, da noi si sviluppa quasi spontaneamente in virtù della forzata e ritualizzata condivisione di un’esperienza che inizia sin dai primi gesti del mattino, dallo svegliarsi e dal lavarsi i denti assieme.

Questo apparato in linea di massima regge e funziona: tant’è vero che abbiamo alti “indici di gradimento”. Anche qui – come in ogni programma televisivo e quasi in ogni lavoro – l’impegno e l’aderenza alle promesse fatte, sono misurati attraverso un questionario, di quelli con faccine più o meno felici. Si rileva in questo modo quanto i bambini, i genitori e gli insegnanti stessi siano rimasti soddisfatti dell’esperienza fatta. È un riscontro fondamentale: l’indice di gradimento è ormai diventato un despota che ha il potere di far vivere o morire un’attività lavorativa. E ne siamo tutti complici: quando consultiamo Tripadvisor per decidere dove cenare e troviamo un ristorante con recensioni negative, tendenzialmente lo escludiamo. Se altri come noi fanno altrettanto lo condanniamo alla chiusura.

I ribelli che ho sempre amato sono inguaribili utopisti, animati da un’utopia con la minuscola: non quella dei grandi ideali con cui cambiare il mondo e affermare la società perfetta, ma l’utopia dell’istintivo, insopprimibile bisogno di ribellarsi. E anche quando la sconfitta appare ormai ineluttabile, quando la realtà vorrebbe imporre loro l’accettazione di un compromesso per “salvare il salvabile”, continuano a battersi per quella che Victor Serge definiva “l’evasione impossibile”.
PINO CACUCCI, Ribelli!, Feltrinelli 2003

Comunque, alla fine del film, Truman sceglie di uscire dalla realtà fittizia e di immergersi in quella vera, sia pure consapevole degli ostacoli che lo attendono; mentre i nostri bambini, al termine della settimana, non possono scegliere, ma devono tornare dai loro familiari. In genere sono contenti di tornare nella loro caverna domestica, qualche volta no, perché troveranno una realtà che li spaventa, che non li accetta o da cui vorrebbero fuggire: ma purtroppo la regia di questo show non è affidata a loro.

Proprio questi bambini restano maggiormente impressi nella memoria. Sono i ribelli di Platone e i Truman, quelli che più creano scompiglio nel nostro baraccone, che contestano il modello creato a loro uso e consumo e si oppongono a una sceneggiatura che vorrebbe gestire anche il loro rifiuto di quel modello.

Non mi riferisco naturalmente a marmocchi viziati, che oppongono resistenza solo per una volontà di protagonismo maleducato coltivata in loro dalle famiglie. Quelli sono ben contenti di tornarsene a casa, dove possono spadroneggiare in mezzo a una premurosa indifferenza. Parlo di una sparuta minoranza, di coloro che apparentemente si rifugiano dietro un rifiuto ostinato, ma in realtà intravvedono negli spiragli offerti dalla settimana “diversa” una via di fuga da una condizione a volte davvero insopportabile. Nei loro confronti si crea una situazione paradossale. Da un lato siamo noi a far conoscere loro possibili “mondi” o esistenze alternative, dall’altro siamo ancora e sempre noi a stabilire le regole di appartenenza e di sopravvivenza in questi mondi. Questa potrebbe sembrare un’operazione subdola di “domesticazione” totale, di asservimento persino delle fantasie di fuga di quei poveri ragazzi. E noi potremmo apparire come gli esecutori della strategia più avanzata e totalizzante del sistema. Ma non la vedo così. Il paradosso rimane, ma ha un suo risvolto positivo.

Mi spiego. Questi bambini, tutti, i ribelli come gli entusiasti o i rassegnati, vivono davvero costantemente in una realtà virtuale, in un sogno indotto che a volte può assumere anche le sfumature dell’incubo, ma di norma ha un andamento rassicurante e accattivante. Si nutrono di televisione e dei prodotti che essa promuove, materiali e spirituali, di smartphone e di pseudoamicizie virtuali, di videogiochi che alimentano la convinzione che tutto sia lecito e innocuo, che non esistano responsabilità personali, che sia sufficiente un click per chiudere e per avviare un gioco diverso. Né più né meno, del resto, di come vivono i loro genitori. Teoricamente questi bambini dovrebbero trovare una voce discordante nella scuola: ma così com’è ridotta e concepita oggi, la scuola non fa altro che inseguire pateticamente la realtà esterna (vedi la corsa agli ammennicoli tecnologici – LIM e compagnia bella – per attrezzare le aule, mentre sono del tutto scomparse le vecchie carte geografiche). Le occasioni per un risveglio, per intravvedere un barlume di esistenza non conformista, sono ben poche. E ritengo che una di queste poche possiamo crearla, e già in parte la stiamo creando, proprio noi.

Non sto parlando di una istigazione all’anarchismo, alla ribellione, al rifiuto delle regole. Tutt’altro. Sto parlando di educazione alla vera libertà, che è essenzialmente responsabilizzazione personale nelle scelte.

Vediamo cosa accade nella sostanza. Nella nostra azione coesistono due piani. Uno è quello della “normalizzazione”. Di fronte alle esplosioni di ribellione, ad esempio, cerchiamo di far rientrare tutto nel “gioco delle parti”: adeguiamo le “ombre”, facendole diventare ancor più ingannevoli e accattivanti, affinché il bambino attenui il desiderio di evadere dallo show. È il nostro lavoro, è il compito per il quale siamo qui, e che non si esaurisce nell’opera di “contenimento”. Non siamo dei parcheggiatori.

Del moto di ribellione rimane traccia in schede che evidenziano le “non conformità”, e che dovrebbero prevedere anche adeguate strategie “correttive”. E fin qui, rientra tutto in una sceneggiatura politicamente corretta, che anzi sarebbe doverosa, più ancora che corretta, se poi qualcuno davvero questi bambini li ascoltasse, e non si limitasse a certificarne la devianza da uno standard. Il problema è che nella maggioranza dei casi ciò non accade: e non accade non solo per trascuratezza o per incompetenza, che pure hanno la loro parte, ma per un vizio d’origine del sistema. Il sistema non è attrezzato a capire, ma solo a classificare.

È a questo punto che possiamo lavorare sul secondo piano. Abbiamo di fronte degli individui che vivono una situazione eccezionale, insolita, nella quale si chiede loro non di ottenere dei risultati, ma di esprimersi, non di mettersi in competizione, ma di collaborare: in sostanza, di divertirsi. E di farlo in modalità diverse da quelle cui sono normalmente abituati, alle quali sono stati avviati dalla famiglia e persino dalla scuola (da noi l’uso dello smartphone o dei videogiochi se lo scordano).

Se non lo fanno, se non stanno al gioco, e non per mania di protagonismo ma perché quel gioco appare loro futile, totalmente estraneo alla realtà in cui quotidianamente vivono, sta a noi, fuor di copione, dimostrare che futile e falsa, e comunque non unica, è invece proprio quella realtà. In sostanza, che la realtà non è quella già data, già scritta nelle pagine della sceneggiatura, ma quella che ciascuno riesce a costruirsi con l’impegno e con l’assunzione di responsabilità nei confronti di se stesso e degli altri. Questo non li renderà più felici, ma senz’altro li sorprenderà e li renderà un po’ più consapevoli, e desiderosi di scoprire altro.

Non c’è un metodo per ottenere questo risultato, non ci sono teorie pedagogiche a soccorrerci. Serve invece crederci, e mostrare sinceramente che ci si crede ai nostri ospiti: serve, insomma, l’esemplarità. Se non si crede in questa possibilità di dare a questa esperienza un senso più alto di quello della semplice vacanza, se non si è i primi ogni volta a “divertirsi”, nel significato etimologico del termine, che è quello di uscire dai percorsi già tracciati e imposti, allora conviene fare un altro mestiere.

Ogni settimana siamo chiamati a reinterpretare daccapo un copione prestabilito che rischia di ingabbiarci, di uccidere in noi ogni entusiasmo. L’interpretazione deve essere sempre eccellente, come se fosse la prima volta, affinché i nuovi ospiti considerino tutto ciò che offriamo come una loro esclusiva. La messa in scena per l’accoglienza deve essere calorosa, le spiegazioni accattivanti e le attività proposte le più coinvolgenti e didatticamente corrette. È quanto si aspettano tutti, i bambini, i genitori, i docenti che ospitiamo. È ciò che siamo tenuti a dare, e dobbiamo farlo con professionalità.

Ma possiamo fare di più, per noi e per loro. Sta a noi riconoscere le voci dissonanti dei Truman che risuonano nel buio della caverna, seguire lo scompiglio che provocano e governarlo: ma non troppo.

È il riconoscere le nostre ombre che ci permette di evadere.

Quindi, caro Truman, ti aspettiamo lunedì.

Bisognerebbe allenare e abituare gli adulti a capire i bambini. Un antico proverbio cinese dice: l’unica costante del mondo è la mutazione. Se uno cerca di fermarla si ferma lui e invecchia male. Fino a un certo punto gli adulti dovrebbero insegnare ai bambini, poi dovrebbero imparare da loro a conoscere il mondo. Il mondo reale, non quello artificiale degli affari.
BRUNO MUNARI, Da cosa nasce cosa, Laterza 2008

Collezione di licheni bottone

Marrakech Express

Prospettive e retrospettive
Dialoghi a distanza con Edoardo Ferrarese

di Edmondo Ferrarese (dal sito luomoconlavaligia.it), 2017

Si può dividere una fuga in quattro parti? Beh, dipende dai motivi che ti spingono a scappare, a mollare tutto. Perché a volte quei motivi non te li sei nemmeno scelti, sono venuti a far tremare la tua porta nella notte, costringendoti ad aprirla per scrutare l’esterno.

E se in questo caso il motivo fosse l’amicizia? Sopita però, sfilacciata dal tempo ma con alcuni nodi che ancora resistono. Perché quando quel ruvido bitorzolo passa sotto al dito non lo si può ignorare. Ed è proprio quello che mette in scena Gabriele Salvatores con Marrakech Express, primo capitolo della tetralogia della fuga. O trilogia della fuga, ma queste sono due scuole di pensiero diverse e non è il caso di iniziare una guerra civile.

Voi ora vedete solo un’immagine, ma quando un film è fatto bene può anche bastare solo quella. Quattro amici che viaggiano assieme, uniti da uno spirito comune. Eppure due hanno la bici, due no. La coppia a piedi è più avanti rispetto all’altra e non ha quella sorta di turbante in testa. Sembrano ancora tutti così uniti? Salvatores sa bene che solo il viaggio può consolidare l’amicizia. O distruggerla per sempre. È un demiurgo che muove ogni cosa, spostando i quattro come pedine su una scacchiera: un passo alla volta, una sfida alla volta. La meta? Marrakech, Marocco. L’obiettivo? Salvare un vecchio amico, il quinto. La vera sfida? Ogni minuto, perché il celeberrimo primo passo non sarà minimamente quello più difficile.

Ecco allora il deserto, le rocce frastagliate sul terreno, pronte a sfilacciare definitivamente quel filo. Si può resistere alla tentazione? Al voler dire “basta, io me ne torno a casa”? Dipende. Un modo c’è, semplice e perfetto: l’ironia. Nel microcosmo di Marrakech Express l’ironia è una colonna portante che tiene in piedi il traballante tempio di Marco, Ponchia, Paolino e Cedro (rispettivamente Fabrizio Bentivoglio, Diego Abatantuono, Giuseppe Cederna e Gigio Alberti). Un tempio che viene continuamente scalfito, regalando fessure ai granelli di sabbia, pronti ad infilarsi dentro qualsiasi insenatura. Ma sarà un male? Perché alla fine un viaggio è anche e soprattutto cambiamento. Una mutazione che sposta il nostro asse interiore, deviandolo dalle traiettorie che, volenti o nolenti, stavamo percorrendo.

Marrakech Express cambia la percezione dei suoi protagonisti, smuove quell’ambiente cristallizzato di fine anni ’80, scuote dalle fondamenta quella disillusione dubbiosa tipica dei giovani dell’epoca. Lo fa attraverso quattro voci che si intersecano, che si trovano a fare i conti con le proprie scelte, fra una partita di pallone sulla spiaggia e una citazione a Sergio Leone. Perché alla fine si può crescere anche da adulti, coltivando rapporti umani utili a scoprirci, a capire realmente chi siamo.

E, forse, riusciamo a farlo solo in condizioni estreme, andando in bicicletta nel deserto. Dove ogni elemento che hai messo in gioco sembra dirti che non potrai farcela, dove il bagaglio fisico ha il peso di una nuvola rispetto a quello emotivo (non a caso i quattro sono privi di valigie), dove si abbandonano le spoglie della civiltà e si torna ad essere buoni selvaggi. Ma buoni selvaggi in compagnia, che si prendono in giro come tra i banchi di scuola, giocando a fare i bambini quando la vita adulta ha ormai portato via ogni sprazzo di ingenuità.

Per questo Salvatores ci insegna che certi viaggi vanno fatti quando devono essere fatti, quei viaggi che ti fanno perdere le valigie tappa dopo tappa, come un’armatura arrugginita che si stacca fino a rivelarci per quello che siamo.

Quindi seguite il mio consiglio e partite con gli amici, però fatelo come dice Ponchia, cioè rapidamiente, mi raccomando.

Marrakech Express, film di Gabriele Salvatores con Diego Abatantuono, Gigio Alberti, Fabrizio Bentivoglio e Giuseppe Cederna.

 

I figli del deserto

Prospettive e retrospettive
Dialoghi a distanza con Edoardo Ferrarese

di Paolo Repetto, 2 maggio 2017

Carissimo Dario,

mi sa che abbiamo aperto una rubrica molto privata. Potremmo intitolarla “Il contrappunto”, oppure “Universi paralleli”. L’idea mi diverte, e soprattutto mi offre qualche motivazione a scrivere in un periodo di assoluta siccità. Non che scrivere sia obbligatorio, altrimenti non sarebbe un piacere, ma non mi rimane molto altro, e non vorrei perdere anche questo vizio.

Temo però a questo punto che le mie recensioni al recensore viaggeranno un po’ tutte sulla stessa falsariga. Saranno viziate dalla non comparabilità dei gusti e delle esperienze. Tanto per riagganciarci al tema della volta scorsa, la velocità delle trasformazioni avvenute nell’ultimo mezzo secolo mi ha sbalzato fuori dal treno, e ora sto seduto al bordo della massicciata a vederlo passare, poco curioso persino della direzione (il che non significa che non mi piaccia veder passare i treni).

Cerco di spiegarmi. I testi di Edoardo li leggo sulla web page di “L’uomo con la valigia”, e prevedendo ormai che mi chiederai un parere li leggo su due livelli. Al primo livello cerco di immaginare la platea dei lettori, e di immedesimarmi in loro, per quanto possibile, perché ho idea che siano tutti più giovani di me. Sono convinto che in quelle righe si riconoscano, e in questo senso anche il nuovo pezzo di Edoardo è perfetto. Non solo il ragazzo ha stoffa, ma sa scrivere in totale e sorprendente sintonia con l’oggetto della sua scrittura. In fondo Salvatores è un regista della generazione precedente, racconta un mondo e delle persone diversi dal suo e dai suoi coetanei. E invece Edoardo ti fa cogliere il sapore di Marrakesh Express senza dirti quasi nulla degli ingredienti, cosa tutt’altro che facile. C’è persino un po’ di effetto “virato seppia”, una sorta di salsa di soia che conferisce “esotismo”, sia ambientale che temporale. Quindi, tanto di cappello.

Poi passo al secondo livello (in realtà il procedimento è inverso, ma fa lo stesso). Leggo per me. Trovo che il pezzo è un ottimo saggio di bella scrittura. Ma tutto finisce lì. Il fatto è che non mi stupisce. Ora, io non penso come Giovanbattista Marino che sia “del poeta il fin la meraviglia”, o almeno, non lo penso nel senso che intendeva lui. Penso però che “il fin” debba essere quello di inocularti un piccolo tarlo. Il pezzo di Edoardo in effetti mi ha fatto riflettere, ma nella stessa direzione di quello della volta scorsa. Mi ha fatto riflettere sulla distanza che passa tra un settantenne e un ventenne (potrebbe essere probabilmente la stessa anche con un cinquantenne) rispetto a un tema come quello dell’amicizia. Mi riferisco ad una percezione indotta non dall’età, perché credo che l’amicizia non abbia età, ma dal senso che alla parola dà una diversa epoca. Dubito tuttavia che chi ha meno anni di me abbia la stessa reazione. Immagino che l’idea che solo il viaggio e la fuga possano cementare un’amicizia sia moneta corrente nella società liquida. E in questo senso sarebbe davvero assurdo pretendere da Edoardo qualcosa di diverso.

Qui è necessario un inciso. Non amo molto i film di Salvatores. Mi sembrano solo la versione intelligente di quelli di Boldi e De Sica (la versione intermedia è quella di Muccino senior). Non mi piacciono i personaggi che racconta e i rapporti che ipotizza tra questi personaggi. Soprattutto quando questi rapporti prendono il nome di amicizia. Intendiamoci, non che i personaggi e le dinamiche che intercorrono tra di loro non siano realistici, anzi, è forse proprio per questo che non mi piacciono. Salvatores racconta a mio giudizio realisticamente un mondo di fasulli (gli stessi che nella versione splatter o in quella patetica sono narrati dai Vanzina o da Muccino). Gente che ha bisogno di andare in Marocco, di creare situazioni artificiali ed effimere, di condividere esperienze estreme per tenere in vita un’amicizia che a quanto pare non è affatto tale, altrimenti non avrebbe problemi a sopravvivere anche nel Basso Monferrato. Che crede di riempire un contenitore vuoto con scherzi idioti, ripicche, partite di pallone improvvisate in ogni dove. Li rappresenta come un branco di idioti, ma mira a raccogliere attorno a loro complicità e simpatia. Se fai mente locale, da almeno tre decenni il cinema italiano gioca su questi registri.

Non amo dunque i film di Salvatores non perché siano anche loro fasulli, ma perché sono lo specchio veritiero di una generazione lasciata allo sbando in un deserto di valori (ecco semmai una simbologia efficace, credo del tutto involontaria, da cogliere nel film) da quella precedente, la mia (e qui però mi chiamo fuori: durante un dibattito, ad uno che se ne era uscito con “chi non si è mai fatto raccomandare scagli la prima pietra” ho tirato una bottiglietta, vuota, di plastica – pietre sul tavolo non ce n’erano. Non mi ha nemmeno denunciato).

Edoardo appartiene alla generazione ancora successiva, che dell’amicizia conosce la versione circolante su Facebook. È più che giusto che guardi ai quattro aspiranti beduini e alle loro disavventure come ad un mondo fascinoso e perduto. Soprattutto dopo che per mezzo secolo uno stuolo di maîtres à penser, intellettuali, cineasti, santoni, filosofi, hanno sparato a zero sui valori e sulle idealità e hanno inneggiato al pensiero debole. Ecco, se qualcuno personifica gli esiti della debolezza del pensiero “quando la vita adulta ha ormai portato via ogni sprazzo di ingenuità” a giustificarla, quelli sono proprio gli eroi di Salvatores. A dispetto di ogni catarsi finale. Se avrò occasione farò conoscere un giorno ad Edoardo un amico col quale durante questo ultimo mezzo secolo ho condiviso la montagna, ma anche e soprattutto la quotidianità del lavoro (in Ovada, uscita autostrada A26), che rivedo si e no un paio di volte l’anno, magari per una modesta salita al Tobbio, ed è come lo vedessi tutti i giorni, che stimo incondizionatamente, anche se non sempre le nostre opinioni convergono. Non ricordo che siamo mai stati assieme fuori d’Italia, se non forse per qualche gita scolastica. Abbiamo soccorso solo studenti affaticati o qualche escursionista in panne. Ma ad entrambi il mondo sembra più bello, e sarebbe comunque accettabile, anche solo perché lo abita l’altro.

Ciao Dario. Scusa la prolissità, ma te la sei cercata. A presto.

 

Il cielo stellato e l’etica di Alan Ladd

di Paolo Repetto, 30 maggio 2013

Non c’è cosa più difficile del far comprendere ad uno studente il senso e la grandezza del “tu devi” kantiano. Non certo per colpa di Kant, che ce l’ha messa tutta per spiegarsi, riuscendoci peraltro benissimo. E nemmeno va tirata in ballo l’inadeguatezza degli insegnanti: ce ne sono anche alcuni (pochi, in verità) che Kant lo hanno capito e lo amano, ma quando si tratta di trasmetterne la lezione etica incontrano gli stessi scogli. Io credo che il problema sia un altro, e che valga per l’etica pressappoco quello che sant’Agostino diceva del tempo: cos’è dunque? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. (Da notare che sant’Agostino non diceva di non saperlo: confessava solo di non essere in grado di spiegarlo).

Ora Kant, che era uno tosto, e a dispetto delle sue cautele davanti al noumeno pensava che in un modo o nell’altro si potesse spiegare tutto, si è messo di buzzo buono per arrivare ad una definizione razionalmente corretta e coerente dei fondamenti della morale (lui chiama così quella che io preferisco chiamare etica, e più sotto spiegherò il perché. Ma mi sembra etico non attribuirgli un uso lessicale che non è suo): e lo ha fatto svolgendo non una ricerca conoscitiva, ma un’indagine critica, sapendo cioè già perfettamente dove voleva arrivare, e quindi lavorando per esclusione, chiarendo semmai che cosa non è la morale, cosa non attiene alla sua sfera. Si potrebbe dire che ha fatto un giro completo per tornare al punto di partenza, ma che nel corso del giro ha fatto pulizia di un bel po’ di false idee. Il problema della gran parte degli studenti (e anche degli insegnanti) è dunque questo: lungo il giro si perdono per strada, e non sono più in grado di tornare là da dove sono partiti. Vediamo se una trattazione del tema “morale” in forma meno “filosoficamente corretta” può rivelarsi utile.

Prima di procedere, però, penso siano opportuni un paio di chiarimenti lessicali: riguardano l’uso che farò in questo discorso di voci apparentemente sinonime. Il primo chiarimento riguarda una voce verbale: per quel che mi concerne, un conto è capire, un altro è comprendere. Non sono affatto sinonimi, tanto che è possibile capire senza comprendere o, viceversa, comprendere senza capire. Nel nostro caso quando si parla di capire si intende decifrare, aver chiaro quello che Kant dice; quando si parla di comprendere si intende “farlo proprio, viverlo”. E se capire il ragionamento di Kant tutto sommato non è così difficile, farlo proprio, o meglio, ri-conoscerlo come proprio, non è da tutti. Il passaggio alla comprensione avviene infatti in maniera paradossale: si comprende Kant quando ci si accorge che il suo ragionamento non ci serve più. Ci ha portati sulla strada giusta, ma adesso dobbiamo camminare da soli (un po’ come Dante con Virgilio).

Il secondo chiarimento riguarda invece, come ho anticipato, i termini etica e morale. Nell’accezione più diffusa la morale viene definita come un insieme di valori condivisi in particolari epoche storiche da particolari gruppi sociali, e delle regole che vengono elaborate per affermarli e praticarli. L’etica, o filosofia morale, sarebbe invece la dottrina filosofica che ha per oggetto queste regole e questi valori, ma che all’aspetto “normativo” (l’indicazione dei valori e dei criteri) unisce anche un aspetto “descrittivo” (dei valori di fatto a cui si ispira). Insomma, la seconda sarebbe una sorta di narrazione della prima, e l’una e l’altra vanno comunque storicamente contestualizzate.

Io preferisco un uso forse filosoficamente meno corretto, ma che ha una sua ragion d’essere. Mi rifaccio direttamente all’etimologia dei termini, per ricavarne il riferimento a due sfere distinte. Etica ha la sua radice nel greco ethos, parola che indica l’abitudine (non a caso i romani la traducevano con habitus, il modo di apparire), il modo costante di comportarsi. L’habitus si riferisce alle persone singole, e d’altra parte nella cultura greca classica l’individuo veniva prima della collettività. Quindi, per me, l’etica concerne il comportamento di un singolo essere umano nei confronti dei suoi simili.

Morale deriva invece dal latino mos, (costume, usanza), e si riferisce appunto all’insieme dei costumi e delle usanze ereditate dagli antenati. Perfettamente in linea con il modo di pensare romano, che anteponeva la collettività all’individuo. Perciò la morale riguarda le norme di un gruppo, mentre l’etica riguarda il singolo. Se costui non si sintonizza sulle consuetudini e sulle norme comuni, quindi sulla morale del gruppo, non per questo sarà privo di una sua etica. Al contrario, chi si adegua pedissequamente a questa morale collettiva, senza viverla in modo problematico, non ha alcuna idea di cosa sia l’etica.

Solo per correttezza nei confronti di Kant utilizzerò quindi in queste pagine i due termini come sinonimi, ad indicare entrambi quella che io considero comunque una dimensione etica.

Ora possiamo finalmente tornare a Kant. Dire che oltre un certo punto non ci serve più non è infatti un buon motivo per buttarlo fuori. Anzi, Kant vive e ragiona con noi. Certo, non staremo qui a ripercorrere tutta la trattazione ordine geometrico demonstrata che fa nella Critica della Ragion Pratica: non è questo il tema che mi ero proposto e comunque la dimostrazione la si può trovare già bella e farcita in qualsiasi manuale di filosofia, o su Internet. Mi azzardo a dire che, ai fini del mio discorso, che è quello della comprensione, potrebbe riuscire persino inutile. Vediamone però almeno i passaggi fondamentali.

Intanto Kant definisce i limiti del suo campo di indagine, e taglia subito la testa al toro. In primo luogo non è suo compito dimostrare che esiste una coscienza, che quindi l’uomo ha in sé una dimensione morale, perché questo è un dato di fatto. Ci sarebbe magari da discutere sull’evidenza della cosa (e lo faremo), ma sul dato di fatto non ci piove. Almeno sino a quando ci si riferisce all’uomo nei termini generici della specie. Comunque, Kant parla di qualcosa che attiene allo specifico della natura umana: come uomini siamo mossi indubitabilmente da una inclinazione al male (altrimenti non si spiegherebbe perché il mondo funziona come funziona), ma siamo anche caratterizzati dalla coscienza del bene. Ciò significa che per lui il senso morale è innato. Non è dettato da una rivelazione, non si è educato storicamente, non dipende, come pensavano molti dei suoi contemporanei, dal clima, dall’ambiente, dalla tradizione. È in noi, e potrebbe anche bastarci il sapere che c’è.

Cerchiamo tuttavia di capire meglio. Il fatto che in ogni uomo esista un senso morale innato non vuol dire secondo Kant che esiste un pacchetto di valori ben precisi, perfettamente definiti: esiste invece quella che un neuropsichiatra contemporaneo, Mark Hauser, riprendendo la terminologia di Chomsky relativa al linguaggio, definisce una grammatica morale, ovvero una disposizione naturale della nostra mente a valutare positivamente o negativamente certe azioni e certi comportamenti. Non voglio fare di Kant un precursore della moderna neurobiologia, anche se la tentazione è forte: lasciamogli dire solo quello che ha effettivamente detto. E ciò che ha detto è che questa disposizione in noi c’è, non importa che ce l’abbia messa il padreterno o chi per esso, ed è tale per cui noi siamo portati ad esprimere un giudizio morale, ad adottare una scala di validità o meno rispetto alle nostre (e per estensione anche alle altrui) azioni. Ma il giudizio, e la scala stessa di valori, non ci sono suggeriti dall’esterno: la scelta è nostra, ed è operata in base alla nostra razionalità.

Qui azzardo un termine che Kant non usa, ma che è implicito. Il termine è: “evidenza”. Sta a voler dire che, razionalmente, la bontà o la negatività di certi comportamenti è evidente. Siamo in grado di distinguere benissimo se ciò che stiamo facendo è bene o male: se pianto alberi perché tengano su la terra delle colline, e lo faccio alla mia età, quando so già che non li vedrò crescere, sto agendo moralmente; se maltratto un disabile o faccio violenza ad un bambino, so che sto agendo male. Non c’è bisogno di tante spiegazioni: è evidente, e non c’è barba di cultura diversa che tenga.

In secondo luogo Kant non intende nemmeno proporre un nuovo sistema di valori, ma solo spiegare a quali condizioni quella che potremmo definire una generica consapevolezza diventa coscienza morale. Per questo motivo è stato accusato di ridurre la morale ad un puro esercizio di forma: in fondo, si dice, si limita a identificare le condizioni che rendono possibile l’esistenza di una morale, senza dirci poi quale questa morale ha da essere, cosa è bene e cosa è male. E per fortuna, vien da aggiungere: ce ne sono già troppi, da Ratzinger a Komeini e a tutti gli altri, che ce lo spiegano. Kant invece dice: non hai bisogno che te lo spieghi io, lo sai già, te lo detta la tua coscienza.

Certo, messa così pare il cane che si mangia la coda. Noi abbiamo una coscienza, ce lo dice il fatto che sappiamo distinguere tra il bene e il male, e sappiamo distinguere tra il bene e il male appunto perché abbiamo una coscienza. Non fa una piega. Ma non potremmo allora chiamarlo un “istinto morale” e darci un taglio? No, dice Kant, lo chiamiamo coscienza perché l’uomo non solo è consapevole, ma è addirittura legislatore di se stesso e arbitro delle proprie scelte: ciò significa che per quanto concerne la sfera morale è perfettamente autonomo, indipendente da ogni determinazione naturale e dalla soggezione a qualsivoglia autorità o finalità. A differenza degli altri animali l’uomo può scegliere, e scegliere suppone appunto la possibilità di decidere in perfetta autonomia tra vari comportamenti alternativi. Questi comportamenti possono essergli “dettati” da necessità o forze esterne, ma non imposti. È sempre lui, in ultima istanza, a decidere: e lo fa sulla base di un codice che lui stesso si è dato. Direi che è qualcosa di più del libero arbitrio: questa è “libertà”. Dopo coscienza, questo è dunque il secondo termine chiave: possiamo operare delle scelte perché siamo liberi.

Ma questa affermazione può essere ancora accettata, oggi, alla luce degli ultimi sviluppi delle conoscenze genetiche, neurologiche e psicologiche? I “falchi” della genetica non sarebbero d’accordo: i nostri comportamenti – direbbero – sono in realtà determinati per una percentuale altissima, tanto alta da consentirci solo una semi-libertà. Le “colombe” addolcirebbero la pillola: noi siamo certamente più liberi di qualsiasi altro animale, perché da un lato il nostro sistema nervoso è troppo complesso per poter essere determinato in ogni suo dettaglio dai geni, dall’altro perché siamo i depositari di una evoluzione culturale che sollecita uno spettro enorme di comportamenti possibili, e quindi garantisce una grande libertà. Ma non una libertà assoluta.

Ebbene, replicherebbe Kant, non mi importa un accidente di quanto siamo o meno determinati. È vero, siamo soggetti ad una serie di condizionamenti naturali, sociali, affettivi, ecc…; ma questo non significa che nel nostro intimo non ci rendiamo conto di come dovremmo agire, al di là di questi condizionamenti. E che volendolo davvero, non possiamo agire proprio così. Ora, delle due l’una: o pensiamo che Kant sbagli, e che non tutti possiedano una coscienza privata capace di dettare quei comportamenti che all’ingrosso chiamiamo morali, e allora dobbiamo assumerci i rischi e la responsabilità di questa nostra convinzione (che si fa? studiamo un test per identificare i senza coscienza, e poi si sterilizzano o si eliminano, oppure li tolleriamo, sperando che si estinguano per via naturale?): oppure crediamo abbia ragione, e allora come e perché questa coscienza si sia formata, e quali meccanismi la regolino, ai fini del nostro discorso ha in fondo un’importanza relativa. Ribadisco, a Kant interessa solo fino ad un certo punto il perché uno poi faccia o non faccia determinate scelte: vuole essenzialmente che sia chiaro che la scelta è possibile, e che se facciamo qualcosa che sotto sotto non ci piace, lo abbiamo voluto noi.

Il terzo termine è infatti “volontà”. Non solo noi possiamo scegliere. Noi vogliamo scegliere. Le scelte si possono fare anche controvoglia, per necessità, per debolezza, per ignoranza. La scelta morale è invece perfettamente consapevole: so di aver dettato io la norma, il che potrebbe anche indurmi a scendere a compromessi con me stesso: invece voglio essere coerente e adempiere sino in fondo al mio mandato morale. E questo a costo di qualsiasi sacrificio, perché è in verità la realizzazione del me che volevo essere quando ho dettato, consapevolmente e razionalmente, la norma. Quindi, l’atteggiamento morale non ha a che vedere con l’effetto, con il risultato, ma con il modo, o meglio, con l’intenzione.

La discriminante per Kant è proprio questa. Addirittura qualunque comportamento mirante ad ottenere un risultato positivo (un premio), o a evitarne uno negativo (una punizione), per lui non è morale. Non dice che non sia buono, auspicabile o addirittura encomiabile: semplicemente, non possedendo il requisito di una totale autonomia decisionale, non ricade nella sfera della moralità. Lo stesso vale per qualsiasi azione dettata dal sentimento, anche quando si tratti di amore o pietà o altri moti positivi dell’animo. Nemmeno la ricerca della felicità, che parrebbe un ottimo fine, risponde all’imperativo morale assoluto, “categorico”, come lui lo chiama: è condizionata infatti da una miriade di variabili, da ciò che intendono per felicità persone diverse, o le stesse persone in momenti e in situazioni diversi: e quand’anche non fosse la ricerca “egoistica” di una felicità individuale, ma quella “altruistica” di una felicità collettiva, varrebbero gli stessi limiti. Anche in questo caso, non vuol dire che non sia giusto cercare la felicità, massime se si cerca di realizzare quella di tutti: semplicemente, questo non ha a che fare con la legge morale.

Cosa cavolo è dunque questa legge? La legge morale è riassunta da Kant in una formula secca: il “tu devi”, appunto. Una formula che non ti dice “cosa” devi fare, che è slegata da ogni situazione specifica, da ogni valutazione di opportunità e conseguenze; ti dice “come” devi agire. La legge constata e certifica l’esistenza della norma. Non “di una” norma: “della” norma. Vediamo di capire, perché questo è il punto delicato.

Cosa significa che esiste una norma? La risposta contemporanea potrebbe essere che l’uomo, dovendo surrogare quegli istinti che dettavano “naturalmente” ai suoi antenati i comportamenti da adottare e da evitare, ha elaborato “culturalmente” delle norme comportamentali funzionali alla sopravvivenza della specie. Il che è più che plausibile, ma suona anche molto relativistico: perché la funzionalità è comunque un vincolo, è soggetta nel tempo a trasformarsi e ad essere diversamente interpretata, risponde a criteri quantitativi piuttosto che qualitativi, non è quindi cogente in assoluto. Una risposta del genere infatti a Kant non sarebbe bastata. Per lui la legge morale esiste solo per il fatto di esistere, in quanto tale, indipendentemente dagli scopi, dagli effetti, dai “contenuti”. Se vogliamo, è piuttosto quella forma che dà senso al contenuto: non supplisce ad un mancato adattamento biologico all’ambiente, al fatto che l’uomo sia l’unico animale a nascere “inadatto”; non garantisce la sopravvivenza della specie, semmai ne giustifica l’esistenza. È una presa d’atto dell’eccezionalità umana, e insieme un regolatore contro le derive possibili di questa eccezionalità. Come se l’uomo, orgoglioso ma anche spaventato della potenza che il suo cervello, la sua razionalità gli mettono a disposizione, proprio attraverso questa razionalità avesse deciso di disciplinare tale energia, di renderla costruttiva anziché distruttiva (in fondo è quello che dice Freud rispetto ad altre energie, quelle inconsce, quelle della libido).

Ora, teniamo conto del fatto che Kant pensava queste cose più di duecento anni fa. Nel frattempo c’è stato Darwin, c’è stata la genetica, c’è stato Freud, appunto, le neuroscienze hanno completamente rivoluzionata la conoscenza dei meccanismi di funzionamento della nostra mente. Tutto questo potrebbe indurci a ringraziare Kant per le sue belle parole, ma a liquidarlo come portatore di una visione antropocentrica, formalistica e utopistica, totalmente superata dai tempi. E invece credo che vada letto in altro modo. L’idea che Kant ha della legge morale in realtà prescinde da ogni possibile successivo aggiornamento o adeguamento o rivoluzionamento delle conoscenze: queste possono infatti aver contribuito a farci capire qualcosa di più su come essa sia nata, ma non hanno modificato granché per quanto concerne la consapevolezza che noi abbiamo della sua esistenza.

In sostanza: navigando a braccio tra le legittime nebbie del linguaggio e delle formule kantiane, che non potevano essere che quelli, alla fine arriviamo in vista di una concezione di questo genere: siamo uomini, e questo, a dispetto della simpatia per gli oranghi che andava di moda nei suoi anni, marca una differenza; e siamo adulti: ciò significa che abbiamo nelle nostre mani il nostro futuro, e dobbiamo assumercene la responsabilità. Possiamo sbagliare, ma non possiamo più permetterci di scaricare su altri, e neppure di giustificare con la nostra ignoranza e debolezza, la responsabilità dei nostri errori. Sappiamo quel che dobbiamo fare, perché ci è evidente; sappiamo come dobbiamo farlo, perché noi stessi dettiamo le regole. Sappiamo anche che se ci comportiamo in maniera eticamente corretta diamo un senso alla nostra esistenza, altrimenti la buttiamo. E che farlo o non farlo dipende solo dalla nostra volontà. Mi sembra che sia tutto quello che è necessario e sufficiente sapere. D’altro canto, l’orologio vivente di Köenisberg non scrive un manuale per l’installazione e il corretto uso della lavatrice. Ti dice come devi usarla, come impostare i programmi, come va fatta la manutenzione, ma sotto c’è una filosofia: usala, perché fossero anche solo stracci, nel pulito si vive meglio.

E veniamo all’altra accusa rivolta a Kant, quella di un eccessivo rigorismo: l’imperativo “tu devi” dettato dalla razionalità (perché in fondo la coscienza non è altro che razionalità, lucidità assoluta) sembra non lasciare spazio alcuno alle ragioni del sentimento, o per dirla alla Kant del sentimentalismo etico. Anche qui, credo che il problema sia nell’interpretazione, nel fatto che troppi sono più kantiani di Kant stesso. Il nostro professore non dice affatto che non dobbiamo lasciare spazio al sentimento: è invece infastidito da quello che chiama il “fanatismo morale”, ovvero dalla pretesa che l’uomo sia buono per natura e non debba compiere sforzi per mantenere un comportamento eticamente corretto. Conosce benissimo gli uomini, sa che appena possibile si comportano, e soprattutto si giustificano, secondo i dettami del cuore, o delle viscere, piuttosto che quelli del cervello. Facciano pure: ma non vengano poi a dire che “dovevano” comportarsi così, che l’impeto del cuore era più forte di loro, che non c’era altra scelta. Non è assolutamente vero, insiste Kant: per quanto elevati e nobili, non possono essere i sentimenti a determinare la volontà: la scelta l’hai sempre, altrimenti non potremmo parlare di morale. Ciò che dovresti fare, per comportarti moralmente, lo sai benissimo. La moralità è autodisciplina: e la soddisfazione, il senso, possono venire solo al termine di una lotta dura con se stessi, come avviene ad esempio in montagna, con la tentazione continua di mollare tutto e scendere. Poi vedi un po’ tu, ma non cercare scuse. Questo non è rigorismo: è solo dire le cose come stanno.

E qui entra in ballo un ultimo termine, che mi sembra il più significativo anche per chi lamenta il puro formalismo di Kant. Il termine è “rispetto”: rispetto di sé, rispetto degli altri, rispetto della norma. Il rispetto della norma, dato che questa è autonomamente dettata dalla nostra razionalità, e dato che la razionalità è ciò che ci caratterizza e ci distingue come “umani”, è in automatico rispetto di se stessi in quanto umani. E dato anche che la stessa norma appartiene a tutti gli uomini, al di là di ogni differenza di colore, di cultura, di status, è in automatico rispetto degli altri in quanto umani. Quindi, per riassumere, la norma etica è il rispetto stesso della norma. Che non c’entra un accidente con il freddo formalismo.

D’altro canto, a mostrare come stiano poi davvero le cose ci pensa la vita. La morale “aspra e fredda” di Kant, messa alla prova nei rapporti umani, ne esce molto meglio di quella “calda” dei suoi romantici detrattori. Prendiamo ad esempio il rapporto e la differenza tra Kant e Fichte.

Il primo, apparentemente ancorato ad una rigida e formale ritualità, ad una “normalizzazione” totale dell’esistenza e dei rapporti, metodico nei modi e metodista nel sentire, è poi quello che ha convitati tutte le sere per cena, per il puro piacere di stare con gli amici, o che presta soldi ai suoi studenti senza alcuna garanzia di rivederli. È aperto, comprensivo, pacato anche nel disaccordo. Proprio perché ha fiducia nella norma estende questa fiducia a tutti, e ciò in qualche maniera induce gli altri a ripagarla, a meritarsela. Per questo uno studente gli restituisce un prestito dopo trent’anni, e si fa dare informazioni per saldare un altro suo debito: ha continuato a sentire per tutto quel tempo la voce del “tu devi”, e ora è fiero di obbedirle.

Fichte, al contrario, che è un tipo agitato da caldi sensi e da vibranti entusiasmi, finisce per litigare con chiunque, per vivere un’esistenza acida e rancorosa, per non accettare la minima critica, per rendersi villano e ingiusto nei confronti di chi non la pensa come lui (e dello stesso Kant, del quale inizialmente era un entusiasta ammiratore). Parte ateo, giacobino, difensore del contratto sociale, della sovranità popolare, del diritto alla rivoluzione, e finisce spiritualista e codino. Il primo dovere “formale” citato nella sua Dottrina morale è “agisci secondo la tua coscienza”, che sembra Kant, ma è distante anni luce: perché Kant dice “agisci secondo le regole dettate dalla tua coscienza”, e intende una volta per tutte, mentre la coscienza di Fichte, e la sua storia lo dimostra, è piuttosto ballerina. Lo so benissimo che la natura incalza, se c’è uno che lo sa sono proprio io che non sono mai riuscito a tenerla a briglia: ma resta il fatto che cominciare ad appellarsi a questa (ed è ciò che Fichte fa nei Fondamenti del diritto naturale), trarre dall’inclinazione naturale la materia e da quella spirituale la forma della morale, significa già avere rinunciato alla vera libertà, quella almeno di pensare “qui e ora” ad un mondo “giusto”, ad una vita “come se”, e non farne solo il limite ideale cui tendere. Perché rimandare sempre al futuro la “moralità” induce a sacrificarle anche pesantemente il presente e chi lo abita, e a pretendere che sia condivisa da tutti, invece di assumersi la responsabilità di viverla subito, indipendentemente da come la mettono gli altri.

È allora davvero solo “forma” la morale kantiana? non è che la forma, se rispettata e fatta propria per intima convinzione e non per un ossequio fariseo ai rituali, diventi stile, e senso stesso dell’esistenza? Che il rispetto della forma sia comunque il primo passo necessario per introiettare il rispetto di sé, e conseguentemente degli altri?

Spero si sia capito che qui volevo arrivare. La lezione di Kant, almeno quella che ne ho tratto io, è: comincia da te stesso. Comincia tu a comportarti eticamente, visto che sei in grado di sapere come farlo e di scegliere se farlo, senza lasciarti condizionare da tempi, ambienti, credenze, convenienze e tradizioni. In questo senso voglio intendere il suo uso di trascendente: quello della norma che trascende ogni contingenza, che non può mai essere messa in sonno, nell’attesa o addirittura in funzione di tempi migliori.

Ora possiamo davvero congedarci da Kant, immagino con somma gioia e sollievo di studenti, insegnanti o esperti kantiani, per provare a camminare con le nostre gambe. Confesso di avvertire già un po’ di fatica, perché quando mi sono messo a scrivere volevo partire da quattro righe su Kant per poi parlare d’altro, e ora mi ritrovo ad aver tirato giù una decina di pagine. Tutto sommato, però, per quanto mi riguarda non è stato inutile (non so per chi legge). Sono stato costretto a ripensare a quello che ho letto di e su Kant, e soprattutto a chiedermi quanto e come l’ho capito. Perché una certa tendenza a interpretare le cose a modo mio l’ho sempre avuta, ed è possibile che abbia prevalso anche stavolta.

Quello che davvero volevo raccontare non era naturalmente Kant, ma piuttosto come sia possibile riconoscere il bene e il male, e l’imperativo categorico, anche molto tempo prima di incontrare Kant e di leggere la Critica della ragion Pratica. Che è poi la dimostrazione più lampante di quello che Kant nella Critica dice: tieni occhi ed orecchie aperte, e impara l’alfabeto della ragione. Sentirai parlare la tua coscienza, e potrai tradurre nei termini giusti la sua voce.

Dal momento che tratto di senso etico, parlo naturalmente a titolo individuale: ma credo che lo stesso avvenga, in un modo o nell’altro, per tutti. Io ho riconosciuto l’imperativo categorico molto precocemente. Avevo si e no otto anni, e l’ho incontrato sotto le spoglie di Alan Ladd, lo Shane de Il Cavaliere della valle solitaria. Descrivere oggi cosa poteva significare un film negli anni cinquanta per un ragazzino di campagna, e un film western per di più, e quel western in particolare, è impossibile. Infatti non ci provo nemmeno, e mi limito a dire di cosa si trattava.

Shane arriva con un vecchio giaccone con le frange nel tipico villaggio del West; non sappiamo da dove venga, e lui sembra non sapere dove intende andare. Trova momentanea ospitalità in una fattoria, il padre agricoltore, la moglie biondina e carinissima, un bambino più o meno della mia età all’epoca: e poi la casa in tronchi di legno, la stalla, i recinti. Si sdebita aiutando nei lavori: ma è capitato nel bel mezzo di una guerra tra contadini e allevatori, e deve prenderne atto alla veloce. Ogni volta infatti che un contadino si reca al villaggio, dove accanto al magazzino c’è naturalmente il saloon (in realtà il paese è tutto lì, magazzino e saloon), i cow boys del grande ranch escono a provocare, e scoppiano i guai. Quando ci si trova in mezzo Shane mostra di che pasta è fatto, e aiuta il suo ospite Van Heflin a dare una ripassata a suon di cazzotti ai prepotenti. I prepotenti però le lezioni non le capiscono: mandano quindi a chiamare un famoso pistolero, che non ricordo come si chiami ma è interpretato da un giovane e già cattivissimo Jack Palance, il quale non perde tempo e ammazza un colono vicino della famiglia. A questo punto Shane deve scegliere: non avrebbe alcuna voglia di essere coinvolto in una guerra, probabilmente ne è uscito da poco; non è la sua causa, non deve difendere la sua terra né la sua famiglia. Non lo riguarda sotto alcun aspetto. Sa però che tirandosi indietro manderebbe diritto a farsi ammazzare il suo nuovo amico, determinato a difendere a costo della pelle i suoi diritti. E allora prende la decisione: olia la pistola, indossa il cinturone, rende l’agricoltore inoffensivo e si presenta al suo posto per la resa dei conti. Naturalmente si rivela più veloce e più preciso di Jack Palance, e lo fa secco. Poi sale a cavallo, raccoglie i suoi quattro stracci, saluta il ragazzino e riparte. Camus avrebbe detto: solidaire, solitaire.

Un classico. C’era dentro tutto, in continuità con quello che avevo appreso e amato nell’infanzia, le fiabe di Grimm con soldati o animali musicanti, l’angelo della giustizia divina, i primi fumetti western, e già in proiezione verso quello che avrei amato nell’adolescenza, Ettore e il sergente Blueberry, Corto Maltese e il giovane Holden. Ma c’era anche qualcosa di nuovo, perché i protagonisti delle fiabe agiscono comunque per un fine materiale, la mano della principessa o la conquista di un regno, quelli testamentari per ristabilire un ordine divino, mentre Shane agiva solo per coerenza con se stesso e con un personalissimo e insieme universale senso della giustizia. Di nuovo c’era l’ombra di Kant. Diceva in fondo le stesse cose, e questo spiega perché al liceo, quando ho incontrato Kant, non ho scoperto nulla, ho avuto solo delle conferme. Io tra l’altro, data l’età e un ritardo tutto mio di sensibilità per queste cose (ho sempre considerato la presenza femminile nei western un inutile impiccio), non avevo colto le implicazioni sentimentali, in realtà piuttosto intuibili, tra Shane e la moglie carina dell’agricoltore: le ho scoperte solo più tardi, leggendo il libro dal quale il film era stato tratto. Non erano un fattore secondario, rispetto alla scelta morale: Shane sceglie di rinunciare ad una donna di cui si è innamorato (e che a sua volta è combattuta tra l’affetto per il marito e un confuso sentimento che non conosceva), salvando la vita del suo uomo. Se non agisse così non avrebbe più rispetto per se stesso, lo mancherebbe agli altri, non rispetterebbe la norma. Sceglie quindi di agire nel modo più totalmente disinteressato, a dispetto dei sentimenti (l’amore, l’egoismo, la paura), delle leggi degli uomini e di quelle divine. Si comporta in modo perfettamente autonomo: è un uomo giusto, un uomo etico. Quando si tratta di prendere una decisione non è nemmeno sfiorato dal dubbio: gli è tutto evidente. Gli è evidente perché vede la situazione attraverso gli occhi del ragazzino: sa che il ragazzo lo ha eletto a suo eroe e a suo modello. Il ragazzo guarda il padre, lo ama, lo ammira, ma capisce che non è del tutto libero di agire come vorrebbe. Guarda Shane, e sa che Shane può scegliere. Il ragazzino è la voce della coscienza, una coscienza nitida, pulita, semplice. Che gli dice: “tu devi”.

È stato tutto semplicissimo. Io ero quel ragazzino, che in prima fila fremeva: avanti, tira fuori dagli stracci questa benedetta pistola e dagli una lezione. Non era difficile capire per chi fare il tifo, la regia aveva predisposto tutto: da una parte Alan Ladd, biondo e occhi azzurri, dall’altra Palance, con il volto di cuoio e gli occhi strizzati e cattivissimi. Ma non si trattava solo di questo: da una parte c’erano la prepotenza, la slealtà, la viltà di chi se la prende coi più deboli, dall’altra il coraggio, la dignità, la generosità. Era tutto estremamente evidente. E anche se più tardi ho cambiato radicalmente i miei gusti fisiognomici, e Jack Palance è diventato uno dei miei attori preferiti, quelli etici sono rimasti tali. Il che, al postutto, non significa che poi mi sia sempre attenuto all’etica di Shane, ma che quando non l’ho fatto ero cosciente di non farlo, e non mi piacevo affatto.

Io non so se nel nostro corredo genetico sia prevista una grammatica morale. Credo di si, credo che come siamo predisposti (o meglio, lo siamo diventati per via evolutiva) a cogliere particolari colori, particolari frequenze sonore, particolari forme, allo stesso modo siamo portati a preferire particolari valori. Il che non significa che siamo “moralmente determinati”, e questo lo può capire chiunque, basta guardarsi attorno. Significa che sappiamo quel dovremmo fare, e possiamo scegliere di farlo o di non farlo. Non sto parlando di scelte epocali, di vita o di morte: l’etica si esercita nella quotidianità, in un rispetto degli altri che è prima ancora rispetto di sé: è etico, se si è dato appuntamento ad una certa ora, arrivare puntuali, perché in caso contrario non si rispetta il tempo altrui, e prima ancora non si rispetta un impegno liberamente preso con noi stessi. È etico fare bene il lavoro che si è tenuti a fare, per gli altri, chi ne beneficia, chi ce lo commissiona, ma prima ancora per se stessi, perché facendo bene le cose si conferisce loro dignità, e questa dignità, indipendentemente dal fatto che venga apertamente riconosciuta, si riverbera su di noi, in quanto ci dà la coscienza di aver adempiuto al “tu devi”.

Credo quindi che esista una grammatica morale, ma credo anche che in molte menti sia stampata a caratteri poco visibili, o con molti refusi. Kant direbbe: non è possibile, in quanto uomini siamo tutti esseri razionali, e in quanto razionali siamo tutti dotati di una coscienza, e questa coscienza è uguale in tutti. Ma Kant stesso era cosciente di parlare con la voce dell’ottimismo, dell’ottimismo della volontà, del dover essere. Tutta la sua opera è un inno alla gioia per l’uscita dell’uomo dalla minorità. Questo non significa che non si rendesse conto di quanti “minori” ci sono in realtà: solo, sperava diventassero maggiorenni.

Non è stato così. Non lo sarà mai. Ma questo non inficia la grandezza e la validità dell’analisi morale di Kant. Il fatto è che Kant parla dell’uomo, e il mondo è abitato dagli uomini. Kant parla di Shane, e il mondo è abitato anche dai Jack Palace, o peggio ancora, dai suoi mandanti, che non hanno nemmeno il coraggio di affrontare Shane di persona. Ma è abitato soprattutto da un sacco di persone che si ritengono costantemente in credito nei confronti della vita, che non hanno capito che la vita non consta di quello che ti è dato, ma di quello che riesci a farne, che riesci a metterci di tuo: e quindi si sentono sempre defraudati, incavolati con se stessi e con gli altri, e non si piacciono perché intuiscono che la norma c’è, ma non capiscono di esserne loro stessi gli autori, e non si sentono tenuti a rispettarla. Si perdono la bellezza del senso del dovere (ecco un altro termine chiave), il piacere di sentire che alla vita si deve qualcosa, la si deve vivere anziché limitarsi a farla trascorrere, l’idea che l’esistenza è un’opportunità, e che noi abbiamo la straordinaria responsabilità di lasciarci alle spalle qualcosa che insieme le dia un senso e permetta anche a chi verrà dopo di noi di darglielo.

Ora, il fatto che non tutti lo capiscano va tenuto presente (sarebbe difficile far diversamente), così come quello che l’indicazione di Kant è un traguardo ideale: ma nulla di tutto questo deve diventare un alibi per tirarsi indietro.

Dicevo che il ragazzino capisce che Shane può scegliere perché è solo, libero da impegni affettivi o di altro genere. Shane ha per tetto un cielo di stelle, lo stesso cui Kant guardava con ammirazione e venerazione. Ma quella di Shane non è solitudine: è libertà e autonomia piena, e questa libertà, anziché sgravare dalle responsabilità, ne crea una ancora più grande, perché non consente alcun alibi. Shane non lascia un’eredità biologica, che è controllabile fino ad un certo punto, dipende dalla combinazione dei geni: ne lascia una etica, e di questa, direbbe Kant, ha il controllo totale.