di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997
Se ne discute con Gianni, mentre con calma affrontiamo le prime pendici del Tobbio. L’aria è tiepida, il silenzio incanta la vallata, non è giorno da salita agonistica. Il passo si ritma sui pensieri e sulle parole, ne sottolinea le pause e le improvvise accelerazioni. Il tema è lo stesso che ritorna, con sospetta insistenza, negli ultimi nostri incontri, a testimonianza del disagio che entrambi stiamo vivendo. Si parla delle donne e dell’amicizia, della possibilità o meno di far convivere le due cose, e di come e quanto influisca la presenza femminile sulle modalità della socializzazione. L’impressione comune di partenza è che sodalizi esclusivamente maschili riescano più costruttivi, e inducano a rapportarsi a livelli più alti, rispetto a quelli misti. È una constatazione che nasce dall’esperienza di periodiche sedute conviviali. Ci siamo resi conto che ogniqualvolta sono state aperte alla presenza femminile il discorso non ha decollato, o ha volato comunque basso. Potendo tranquillamente escludere che ciò sia dipeso dalla “qualità” della presenza stessa, è da ritenere che abbiano avuto una funzione inibitoria nei confronti di tutto il gruppo i legami affettivi esistenti tra alcuni dei suoi componenti: ma probabilmente c’è qualcosa di più, qualcosa che non ha a che vedere con la contingenza specifica delle relazioni. Ed è infatti su questa tesi che conveniamo.
L’ipotesi è che esista un livello di solidarietà e di sintonia attingibile solo in sistemi relazionali unisessuali: e che ciò accada perché all’interno di tali sistemi ciascuno dei soggetti risulta più libero. Nessuno infatti, in una situazione almeno teoricamente paritaria, è indotto a farsi carico di un supplemento di responsabilizzazione, come invece automaticamente accade quando il rapporto coinvolge persone dell’altro sesso (e questo vale sia quando esista un coinvolgimento affettivo vero e proprio, sia a livello di semplice amicizia intersessuale). Sappiamo benissimo che si tratta di una generalizzazione, e che spesso la dinamica del rapporto si inverte. Sappiamo anche che questo atteggiamento nasce da un equivoco di fondo, da una presunzione di superiorità maschile e dal conseguente ruolo protettivo del quale il maschio si sente investito. Sappiamo tutto. Sta di fatto, però, che questo retaggio storico, a dispetto di ogni liberazione ed emancipazione, è divenuto un dato psicologico consolidato: e lo è, checché se ne dica, per entrambe le parti. Inoltre è abbastanza naturale che in situazioni di sodalizio intersessuale si creino complicazioni, intrecci, vincoli binari. Se la sintonia con un sodale di sesso opposto è perfetta, questa percezione si traduce prima o poi in un sentimento affettivo, che pur non sfociando necessariamente in un legame innesca la stessa dinamica. Diciamo dunque che in un sistema unisessuale ciascuno è più libero perché deve pensare solo a sé, e che ciò, paradossalmente, invece di creare sistemi difensivi, quali insorgono a salvaguardia dei rapporti di coppia, e tradursi in esasperato egoismo, ingenera una forma superiore di altruismo.
Sono considerazioni banali, ma sono anche le uniche che ci consentono di spiegare da un lato la nostra sensazione di partenza, dall’altro la tendenza ricorrente, che non possiamo fare a meno di riscontrare, soprattutto ai livelli culturali alti, alla costituzione di sodalizi ad orientamento decisamente misogino o alla scelta di legami intellettuali che potremmo definire “omofili”. Queste scelte possono nascere da situazioni obbligate (la difficoltà e la pericolosità implicite in una particolare esperienza, ad esempio le esplorazioni, le azioni militari, ecc…), ma più frequentemente rispondono al bisogno di una sintonia che è avvertita possibile solo là dove sono chiaramente definiti i reciproci spazi di libertà. È possibile anche che questi sodalizi assumano, in determinati casi, una connotazione omosessuale; ma ciò non invalida la verità dell’assunto. Infatti in situazioni del genere l’automatismo della responsabilizzazione aggiuntiva si pone in termini diversi, e quando ciò non accada, quando prevalga cioè la componente omosessuale su quella omofila, si ricade nell’ambito della relazione intersessuale.
A questo punto (e abbiamo ormai guadagnato l’ultimo bastione della direttissima, salito il quale saremo in vista del rifugio) ci sembra opportuno definire meglio l’idea di “spazio di libertà” che abbiamo posto come discrimine tra le due situazioni. A me viene in mente che il modo stesso della nostra ascensione ne costituisce un esempio concreto. Siamo saliti ciascuno col proprio passo, senza preoccuparci dell’altro, e stiamo arrivando in vetta assieme. Gianni ritiene che sia troppo semplificatorio, e che se l’ascensione avesse comportato altri gradi di difficoltà, se per esempio avessimo dovuto arrampicare in cordata, avremmo necessariamente sincronizzato i ritmi. Piuttosto, aggiunge, proprio da quest’ultimo esempio si può trarre un’indicazione più consistente: in tal caso, infatti, la libertà di ciascuno sarebbe quella di esigere dall’altro un determinato comportamento, l’assunzione di eguali responsabilità. Il che, tradotto nelle situazioni da cui aveva preso l’avvio il discorso, significa potersi porre su un piano di eguaglianza che non è riducibile a quella dei diritti, sacrosanta, o delle potenzialità, discutibile o quantomeno ambigua, ma investe le modalità del sentire, l’ottica con la quale si guarda al mondo e al significato della vita. La libertà insomma di parlare la propria lingua e scegliere come interlocutori solo coloro che la capiscono, senza il bisogno di quella traduzione al femminile che, a dispetto di tutta la buona volontà da una parte e dall’altra, finisce comunque per stravolgere o impoverire il significato originario.
E siamo in vetta. Termina la salita, si esaurisce anche il discorso. Di qui si può guardare ora solo in giro, o in basso. Ci accorgiamo, e ce lo diciamo l’un l’altro, contemporaneamente, che una presenza femminile, ora, non ci peserebbe poi più di tanto.