Antigone e la confraternita degli opliti

di Paolo Repetto, 23 gennaio 2021

Nell’intervento “Dalla parte di Creonte“ Nicola Parodi ha attualizzato, trasponendoli nella realtà odierna, due momenti di quello che potremmo definire l’esordio del “modello occidentale”: la vicenda di Antigone, emblematica per molti aspetti della esclusione di genere, e la nascita della “morale oplitica”, con le sue risultanze “democratiche”. A suo tempo anch’io avevo affrontato, ne “La vera storia della guerra di Troia“, gli stessi argomenti, sia pure trattati solo nel contesto originario, e ho pensato che potrebbe essere utile riproporre in questa occasione, a supporto delle considerazioni di Nicola, un paio di stralci da quello studio. Potrà apparire un gesto di scarsa eleganza, smaccatamente autoreferenziale, visto che sarebbe stato sufficiente il link che rimanda a quello scritto: ma non mi importa affatto. La realtà è che mi fido poco della memoria di chi mi legge e meno ancora che delle semplificazioni tecnologiche per risvegliarla. Inoltre, oggettivamente, le pagine che riporto sono disperse in mezzo ad altre centocinquanta, e queste ad un mio ipotetico e pigro lettore mi sento in dovere di risparmiarle.

Ecco dunque i due brani estrapolati. Magari potranno spingere qualcuno a leggere anche il resto.

Il cittadino-combattente (pag. 52-53)

Con la crescita demografica successiva al VII secolo la fame di terra moltiplica gli attriti. Le scaramucce tra villaggi diventano ora vere e proprie campagne belliche e coinvolgono un numero sempre maggiore di combattenti. Da locali i conflitti diventano regionali. Le bande lasciano il posto agli eserciti, e per forza di cose il nucleo di questi ultimi non è più costituito dalla cavalleria, ma dalle falangi degli opliti. L’evoluzione delle tecniche militari consente la partecipazione attiva alle guerre anche a coloro che possono disporre solo di un armamento semplice: una cerchia sociale molto più ampia si trova quindi ad essere protagonista nei conflitti e chiede quale contropartita di diventare tale anche nei momenti decisionali. I privilegi della aristocrazia dei cavalieri sono sempre meno accetti, mentre si fa strada una concezione più “democratica” delle prerogative politiche. Se ne ha già un accenno, sia pure in termini totalmente spregiativi, con la vicenda di Tersite nel secondo libro dell’Iliade.

Lo schieramento oplitico comporta una radicale trasformazione delle modalità di combattimento. Le azioni della fanteria sono forzatamente collettive; necessitano di legami molto più forti tra i combattenti, che devono farsi sicurezza l’un l’altro, in un assetto nel quale non trovano più posto l’iniziativa e la virtù del singolo, ma sono fondamentali il coordinamento e l’azione comune. Cambiano quindi anche le virtù richieste al guerriero: lucidità, autocontrollo (la sophrosyne), resistenza e capacità di obbedienza, in luogo dello scatenamento anarchico e indisciplinato. E cambia la percezione stessa del nemico: l’avversario che Aiace conosceva e guardava negli occhi, sia pure prima di ucciderlo, era comunque un individuo, e veniva riconosciuto come tale. L’oplita ha di fronte solo una massa indistinta e feroce, che di umano ai suoi occhi conserva ben poco.

Nella prima fase dell’età classica non esistono più grandi differenze tra le diverse aree della penisola. La cittadinanza, tanto in Atene come a Sparta, a Tebe o a Corinto, è riservata a coloro che sono in grado di esercitare l’arte della guerra, ovvero di provvedere al proprio armamento e al proprio addestramento: per un lungo periodo (a Sparta sempre) a tutti gli altri, non solo agli schiavi e alle donne, ma anche agli iloti e ai nullatenenti, sono delegati i compiti lavorativi e domestici.

Le tensioni si scaricano però anche al di fuori della penisola, incrementando la diaspora ellenica sia verso occidente, in quella che sarà la Magna Grecia, che verso la sponda asiatica dell’Egeo. I Greci, gli Ioni in particolare, si affidano sempre di più al mare. La vicenda stessa di Troia rievoca già un episodio di colonizzazione oltremare, ma sono soprattutto le peripezie di Odisseo a raccontarci i rischi e i modi di questa vocazione (ereditata peraltro dalla civiltà minoica, e alimentata dal desiderio di sottrarsi al nuovo ordine dorico). Il rapporto col mare diventa, soprattutto per le pòleis costiere, fondamentale, e non solo sul piano economico. Segna profondamente ogni aspetto della mentalità, a partire da quello politico. Lo sguardo rivolto al mare e quello rivolto alla terra sono diversi. Il primo induce a una “desacralizzazione” della natura molto più radicale: “Il mare è natura in un senso differente da quello della terraferma: è estraneo e ostile e come tale richiede, perché lo si possa addomesticare, artifici tecnici, e la nave è l’unico strumento che consente all’uomo di dominare gli sconfinati e pericolosi oceani. Sotto questo profilo la nave è simbolo di movimento, di espansione commerciale e di progresso. La peculiarità del progresso è il fatto di non conoscere alcuna sorta di limite, di ordine, di confine […] Il passo verso un’esistenza puramente marittima provoca, in se stesso e nella sua interna ulteriore consequenzialità, la creazione della tecnica in quanto forza dotata di leggi proprie […] L’incondizionata fede nel progresso è sintomo del passo compiuto verso un esistenza marittima”. (C. Schmitt, Terra e Mare)

Ad Atene l’accentuarsi della vocazione all’imperialismo marittimo radicalizza la “democratizzazione” del potere. All’epoca delle guerre persiane diventa necessario dotarsi di una flotta che almeno in parte riequilibri lo sfavorevole rapporto di forze. Ma la guerra per mare comporta una novità: a combatterla, nei ruoli di marinai e rematori, sono uomini non più tenuti ad armarsi a proprie spese, e in larghissima misura sono i rappresentanti di quel ceto dei non possidenti escluso in precedenza dalla partecipazione politica, che entra ora nelle assemblee e si presta a diventare massa di manovra per i demagoghi.

Le donne in scena (pag. 76-85)

Una situazione pressoché analoga a quella dell’Aiace, con sviluppi e implicazioni molto più articolati, la ritroviamo nell’Antigone, messa in scena da Sofocle pochi anni dopo (442). Anche qui ci sono cadaveri insepolti, anche qui esplode lo scontro tra due concezioni della legge, impersonate da Antigone e Creonte. Antigone è sorella di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che dopo essersi accordati per regnare alternativamente su Tebe un anno ciascuno sono venuti a conflitto (al solito, chi il potere ce l’ha, in questo caso Eteocle, non ci pensa minimamente a mollarlo, in barba ai patti). Polinice ha messo assieme un esercito nel quale spiccano sette grandi guerrieri (sono i famosi Sette contro Tebe di Eschilo, capostipiti di un filone che passando per I sette samurai e I magnifici sette ha costituito un punto fermo del mio immaginario adolescenziale) e ha marciato sulla città, ma ha trovato la morte nell’assalto decisivo, dandola peraltro a sua volta ad Eteocle. Dopo la vicendevole eliminazione dei due fratelli la spedizione si esaurisce e il nuovo re di Tebe è Creonte, il quale come primo provvedimento emana il divieto assoluto di inumare il corpo di Polinice. Vuole che venga lasciato insepolto, in pasto ai cani e agli uccelli, a monito per chiunque, dentro e fuori la città, osasse provare ancora ad attentare all’ordine costituito. Creonte giustifica questo suo provvedimento appellandosi al nòmos, in particolare al nòmos despòtes, alla legge cioè sovrana che governa la pòlis.

Contro questo decreto si ribella Antigone, determinata a dare sepoltura al fratello in contrasto con la legge della pòlis e in nome, invece, di una legge superiore, divina, quella che ha trovato corpo nel diritto consuetudinario proprio del gènos.

Nell’Aiace Ulisse alla fine faceva trionfare il buon senso ed evitava guai peggiori: qui invece le cose finiscono davvero male, anche rispetto ai parametri della tragedia sofoclea. Muore Antigone, che imprigionata si suicida. Muore il fidanzato di lei e figlio di Creonte, Emone, che ne ha trovato il cadavere e volge contro se stesso la spada, dopo aver provato ad ammazzare il padre. Muore infine suicida per il dolore anche la moglie del re, Euridice. Tutto questo dopo che Creonte, sia pur tardivamente, aveva deciso di fare marcia indietro e consentire la sepoltura. Ma a rendere significativa la tragedia non è il finale, quanto piuttosto tutto il dibattito che implica, e che si iscrive appieno nel processo di transizione di cui abbiamo parlato sopra. Si fronteggiano la legge della società e quella della comunità, il diritto “positivo” fondante del moderno e quello eterno, “divino”, universale. A difesa di quest’ultimo non si mobilita però alcuna divinità. Anche in questo caso gli dei brillano per la loro assenza. Sono stati ormai interiorizzati e parlano per voce del coro.

Sotto il profilo umano Sofocle parteggia in maniera sfacciata per Antigone, dandoci di Creonte l’immagine di un despota stolido e sospettoso, che legge in chiave di dissenso politico ogni richiamo all’umanità o alle ragioni del cuore (il dialogo col figlio è da manuale). Anche verso la fine, nel colloquio con l’indovino Tiresia, il re non è affatto scosso dalle accuse che gli vengono mosse (“e un altro invece, che appartiene agli Inferi,/ qui senza tomba e senza onor lo tieni,/ cadavere nefando; e tal diritto/ non appartiene a te, non ai Celesti/ d’Olimpo; e pure, è tuo questo sopruso”), ma solo dal vaticinio neppur troppo velato delle disgrazie che si va attirando: “E l’Erinni dei Numi e dell’Averno/ t’agguatano perciò, vendicatrici,/ sterminatrici, perché tu procomba/ nei medesimi mali”).

Trasportati nello scenario precedente, Creonte sosterrebbe le ragioni di Menelao, Antigone quelle di Teucro, ma con gli argomenti di Odisseo. In realtà, però, sul filo del diritto una qualche ragione viene riconosciuta anche a Creonte: quando afferma ad esempio che i giusti non possono ottenere gli stessi onori dei criminali, e che i vincoli di sangue con Antigone, che è tra l’altro sua nipote, non devono indurlo a fare eccezioni alla legge. Quello che gli viene rimproverato è piuttosto il peccato, il solito, di hybris, la pretesa di far valere questa legge addirittura al di sopra di quelle divine.

La novità vera è però che sul comportamento irragionevole di Creonte, sulla sua determinazione ad imporre una autorità che tra-scende, per i modi prima ancora che per la sostanza, nell’arbitrio, perseguendo la propria stessa rovina, pesa enormemente l’avere come antagonista una donna. Che non si tratti di un fattore secondario lo dimostra la ripetuta insistenza su questo aspetto. Creonte non pare il tipo da accettare comunque di essere contraddetto: ma che a farlo sia una femmina lo affronta in maniera particolare. È spiazzato, ossessionato dal timore di perdere la faccia cedendo alle sue richieste, di apparire debole al suo confronto: “Costei die’ prova della sua protervia/ quando le leggi imposte vïolò:/ dopo la colpa, una seconda volta/ proterva ora si mostra, che dell’opera/ insuperbisce e ride. Ed uomo adesso/ più non sarei, ma questa uomo sarebbe, / se non avesse pena, anzi trionfo.” E deve quindi ribadire agli altri, ma prima di tutti a sé, il concetto: “Io finché vivo non prenderò mai ordini da una donna”.

L’ossessione non doveva essere solo sua. Antigone lancia una bella sfida anche agli spettatori della tragedia. Proviamo a immaginare come quel pubblico, tutto maschile, doveva vivere la sua ribellione. Magari poteva provare simpatia per la giovane, ammirazione per il suo coraggio, rispetto per il suo appellarsi ad una legge superiore, ma qui non era in ballo solo il contrasto con Creonte, rischiavano di saltare anche quelle convenzioni sociali che regolavano ormai da tempo la convivenza tra i due sessi in maniera più o meno omogenea in tutta la Grecia. Qui l’hybris non macchia solo il re, ma anche la sua oppositrice. Che poi Antigone sia diventata col tempo un’icona della resistenza ad ogni dispotismo, ben al di là delle intenzioni di Sofocle, per il quale la giovane non persegue alcuna volontà eversiva ma è mossa solo dall’attaccamento ai valori e agli affetti familiari, è un altro discorso. A noi interessa il parallelismo possibile con la vicenda di Aiace, e più ancora la sottolineatura da parte di Sofocle di questo atteggiamento, per i tempi inaudito e inaccettabile in una donna.

Manca ancora però un tassello per poterci agganciare al tema che avevo annunciato. Nell’una e nell’altra tragedia Sofocle fa riferimento, sia pure nelle forme del drama, ovvero di un confronto in atto, ad un atteggiamento mentale ormai consolidato. In realtà dà per scontato il nuovo modello e ne indaga semmai le più sottili implicazioni psicologiche, la terra bruciata fatta attorno all’eroe che vuole mantenersi all’altezza del suo ethos e la solitudine scelta dall’eroina.

Il passaggio cruciale, lo scontro tra le due mentalità, tra il nuovo modello “politico” e razionale e quello tradizionale, era già stato affrontato (e in qualche misura risolto) invece quasi due decenni prima, quando Eschilo nell’Orestiade aveva portato l’attacco alla vecchia concezione del vincolo di sangue.

La vicenda è nota. Per poter fare vela verso Troia Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia alla dea Artemide, scatenando l’odio della moglie Clitennestra. Quando dopo dieci anni fa ritorno ad Argo, la consorte gli lascia giusto il tempo di rimettere piede nel suo palazzo e vendica la figlia. Trascorrono altri dieci anni e il secondo figlio, Oreste, rimasto sino ad allora in esilio, su ordine di Apollo uccide sia la madre che l’amante di quest’ultima, Egisto. Per il suo atto matricida però viene perseguitato dalle Erinni, le antiche divinità “terrene” deputate a vendicare i delitti, in particolare quelli compiuti contro i propri famigliari, che lo inseguono per tutta la Grecia. Fin qui (queste vicende sono raccontate nell’Agamennone e ne Le Coefore) tutto regolare: una spirale di violenza e di odio, una catena di omicidi e di conseguenti vendette che promette di non avere più fine. A meno che non si arrivi a riconoscere da parte di tutti un potere esterno con facoltà di emettere giudizi insindacabili. Questo è quanto avviene ne Le Eumenidi, e costituisce il passaggio decisivo ed epocale.

Oreste, assistito da Apollo che lo ha istigato al matricidio e non vuole ora abbandonarlo, si reca ad Atene, sull’Areopago, dove la dea Atena ha convocato dodici saggi che dovranno discutere il caso ed emettere un giusto verdetto. Si inscena un vero e proprio processo, nel quale l’imputato finisce per avere un ruolo secondario. Il dibattimento vede protagonisti infatti da un lato le Erinni, portatrici di una giustizia ancora arcaica, che non transigono sulla necessità di far espiare il peccato attraverso una punizione vendicativa, dall’altro gli dei solari, Atena e Apollo, che incarnano un nuovo concetto di giustizia, razionale e civile. Questi ultimi sono consci che la faida, estendibile potenzialmente a tutta l’umanità, deve essere necessariamente interrotta, pena l’impossibilità di una vita comune, di una società civile. Ma la soluzione non è semplice. Nemmeno Atena, la personificazione della razionalità, che chiama anche gli uomini ad assumersi la responsabilità di decidere, sembra in realtà in grado di sciogliere il nodo. Una mezza via d’uscita la indica Apollo, che interpreta in maniera molto moderna il suo ruolo di avvocato difensore: cerca infatti di declassare il reato, sostenendo che il crimine di Oreste non può essere considerato un delitto contro il proprio sangue, dal momento che l’eredità di sangue passa solo attraverso il padre. Alla fine la votazione dei giudici dà un risultato di parità, e risulta quindi decisivo il voto di Atena, naturalmente favorevole all’assoluzione di Oreste. Ma la dea sa bene che non può essere solo questione di numeri: una tradizione tanto radicata, non solo nella storia, ma nella natura umana stessa, non può essere liquidata d’imperio. Atena si rivolge quindi al coro delle Erinni, che lamentano di essere state umiliate dalla sentenza e promettono resistenza, e le invita a diventare le custodi del nuovo diritto, ovvero a trasformarsi in Eumenidi: “Credete a me: non v’affliggete troppo. / Vinte non foste: il numero dei voti/ fu pari: e spregio a te non vien. (…) Ed io con certa fede a voi prometto/ che in questa terra di giustizia avrete/ riposte sedi, e onor dai cittadini, / presso l’are sedendo, in troni fulgidi”.

L’avviso vale naturalmente anche per gli uomini: “Or la mia legge udite, Attiche genti, / voi prime elette a giudicare questa/ causa di sangue. Al popolo d’Egeo/ anche i venturi dí, questo consesso/ … darà sentenza […] Esso il rispetto/ ed il timore ai cittadini in cuore/ indurrà, che non mai, né dí, né notte,/ vïolino giustizia, e che le leggi,/ d’Atene i cittadini mai non mutino:/ ché, se di fango e umor fradici, l’onda/ limpida inquini, ber più non la puoi./ Vita consiglio ai cittadini miei/ né senza freno, né servil: né lungi/ dalla città si scacci ogni timore:/ qual uom giusto sarà, se nulla teme?/ Voi temetelo dunque e rispettatelo:/ esso schermo dell’Attica sarà,/ e salute d’Atene; e alcun degli uomini/ il simile non ha, né fra gli Sciti,/ né di Pelope il suol: tale consesso,/ venerando severo incorruttibile/ della terra d’Atene propugnacolo,/ vigile su chi dorme, io stabilisco./ Questo ammonisco ai cittadini miei/ che sia per l’avvenire. Adesso alzatevi, / prendete i voti, ed ossequenti al giuro, / equa sentenza pronunciate. Ho detto”.

Col che, la questione parrebbe chiusa. Ma nelle pieghe della vicenda se ne annida un’altra, strettamente connessa alla prima ma molto meno messa in risalto dalla critica successiva. L’attacco di Eschilo passa attraverso la demonizzazione del genere femminile, nella figura di Clitemnestra. È lei la vera protagonista delle prime due tragedie, Agamennone e Le Coefore, come carnefice prima e vittima poi, e sotto le spoglie di fantasma anche de Le Eumenidi. È l’unica che agisce dall’inizio alla fine per volontà propria, e non su istigazione o per ordine degli dei – quelli nuovi, quelli olimpici. È anche vero che nasce decisamente male, figlia di un’adultera e condannata per una maledizione di Afrodite ad essere adultera a sua volta, così come la sorella Elena, e che funge da pedina per il compimento di un’altra maledizione, quella gravante sulla stirpe dei Pelopidi: quindi una certa determinazione nel suo destino agisce. Ma i particolari messi in rilievo da Eschilo (l’eccitazione sessuale che dice di aver provato nell’uccidere il marito, ad esempio) vanno in un’altra direzione e la candidano ad incarnare per i Greci il prototipo della perfidia e della mostruosità femminile.

Nell’Odissea, durante la visita all’Ade Ulisse incontra anche l’ombra di Agamennone, che definisce l’uxoricida: “quel perfido mostro”. È un risentimento comprensibile, visto che la moglie lo ha massacrato nel sonno a colpi d’ascia. Ma non si può negare che Agamennone quella fine se la fosse cercata. Aveva infatti sposato Clitennestra dopo aver sconfitto il primo marito di lei, Tantalo, e aver ucciso sfracellandolo contro una roccia il loro figlioletto. Le aveva fatto generare quattro altri figli e aveva poi sacrificato, per esorcizzare una maledizione di Artemide, proprio Ifigenia, la più cara a Clitennestra. Non meraviglia che quest’ultima abbia maturato e covato, negli anni della sua assenza, un odio sempre più implacabile contro il marito, il quale per giunta si presenta accompagnato da una nuova concubina, la sventurata Cassandra, che porta in grembo un figlio. Ma di questo Eschilo non sembra tenere molto conto. Quella che ci mostra è una donna violenta, crudele, falsa, priva di senso materno, assetata di potere, nonché adultera e assassina: insomma, una donna che si comporta come solo potrebbe un uomo (e qui sta evidentemente la sua vera mostruosità). Quando in Agamennone racconta il suo crimine “così ho fatto – dice – e non lo negherò, in modo che egli non potesse fuggire né difendersi contro la morte. Una rete senza uscita, come per i pesci, gli avvolgo intorno, sinistra veste fastosa. Lo colpisco due volte, e in due gemiti gli si sciolgono le membra; e su lui caduto aggiungo un terzo colpo, offerta votiva all’infero Ade, salvatore dei morti. Così, cadendo, egli esagita l’anima: e soffiando fuori un violento getto di sangue, mi colpisce con nero spruzzo di sanguigna rugiada: e io ne godo, non meno che un campo seminato per il ristoro mandato dal cielo su gemme che si schiudono […]” (vv 1380-1392).

L’insistenza di Esiodo su una sensualità torbida è confermata quando Clitennestra ricorda l’uccisione di Cassandra, e dice che “aggiunse condimento al piacere del mio letto” (vv. 1446-1447) .

Questa donna che si serve di un’ascia bipenne (il simbolo del potere) per fare a pezzi il marito – e che con quell’ascia e le braccia e le vesti lorde di sangue sarà sempre rappresentata nell’iconografia antica – è il costante incubo maschile: è la vecchia società dal sangue che resiste con i suoi mezzi propri, l’inganno, il tradimento, la crudeltà, alla nuova organizzazione del potere e della società. A Clitennestra vengono imputate tutte le possibili colpe: tradisce il marito e poi lo uccide, non esita a tentare di uccidere anche il figlio, mette la figlia in condizione di non procreare, per evitare possibili futuri vendicatori, consegna la città nelle mani di un tiranno usurpatore. Fa insomma né più né meno quello che Agamennone, e prima di lui suo padre e gli altri maschi della stirpe dei Pelopidi avevano sempre fatto: ma lo fa in nome di un ordine vecchio, e la sua vera colpa è questa. Oreste la uccide non tanto per vendicare l’assassinio del padre quanto per rispristinare in Argo la legalità. Fa prevalere il senso dello stato su quello della famiglia.

Clitennestra segue quindi la sorte di Aiace, perché rappresenta il vecchio ordine, la giustizia primitiva fondata sulla passione, anziché sulla razionalità. L’uno e l’altra rappresentano uno stadio sociale primordiale, il primo come situazione contingente, la seconda come condizione permanente. La sua violazione del nuovo ordine è infatti duplice: non solo ha ucciso un sovrano, ma ha ucciso un uomo: “d’infamia se stessa macchiò/quel mostro funesto e le donne future/ tutte, se di buone ne nascano alcune” dice l’ombra di Agamennone ad Ulisse (OD. XI, 432-434).

L’uccisione di Clitennestra è l’ultimo atto della legge del taglione e il primo del nuovo ordine. Come recita il coro delle Eumenidi, da adesso varranno leggi che guardano all’interesse della comunità, al bene di tutti, che non può essere affatto garantito in un regime di vendetta. Ma questo non significa che la guerra, ovvero il processo di demonizzazione della donna, sia finita. C’è un altro personaggio che riesce ad assommare tutte le componenti del negativo, perché rappresenta una cultura totalmente altra, una minaccia che viene dall’esterno, e al tempo stesso personifica anche il pericolo che alligna all’interno.

Se c’è una figura estranea alla cultura della pòlis, è quella di Medea. È una donna, una barbara, e in sovrappiù una maga. Come donna presenta tutti i tratti della debolezza femminile, ma aggravati dal rifiuto della subalternità, e accentuati perché proviene da un mondo barbaro, nel quale non valgono le regole ormai vigenti in Grecia. Come barbara infatti appare indecifrabile e sanguinaria. Come maga poi (il nome stesso la classifica tale: dal sanscrito medha, che è anche radice di medicina) è nipote (o sorella, secondo una variante del mito) di Circe, ed è sacerdotessa di Ecate, dea madre della notte e compagna di Ade. Quindi è consacrata al culto della grande Dea, alle divinità terrene primordiali, quelle che come le Erinni sono spazzate via, in Grecia, dal passaggio all’ordine patriarcale.

La figura di Medea ha ispirato fiumi di letteratura, oltre ad una fervida fioritura di immaginazione iconografica. Nell’antichità il mito è stato riproposto in mille versioni diverse, a partire da quelle offerte nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e nelle Metamorfosi di Ovidio sino a quelle delle tragedie di Seneca e del tardo latino-cristiano Draconzio (V secolo). Ma a noi qui interessa l’originale (o quasi: sembra che sullo stesso soggetto fossero già state scritte altre tragedie): la Medea di Euripide.

Se si badasse solo alla storia, come Euripide la racconta, il comportamento di Medea, pur non giustificato, sarebbe per lo meno comprensibile. È una donna tradita dall’uomo che ama, dopo che per salvarlo e per seguirlo ha compiuto ogni possibile efferatezza: ha ucciso il proprio fratello, disperdendone poi le membra in mare per frenare l’inseguimento del padre, e ha fatto uccidere con l’inganno lo zio spergiuro di Giasone dalle sue stesse figlie. Una volta approdata a Corinto, assieme al suo uomo e ai figli che da lui ha avuto, spera che le sue vicissitudini siano terminate: ma si trova di fronte al tradimento di Giasone, che nella prospettiva di impalmare una ragazza molto più giovane e di succedere per tramite suo al trono non ci pensa due volte a ripudiare Medea, e pretenderebbe anche che lei si rassegnasse. Visto fallito ogni tentativo di farlo recedere, la donna scatena la vendetta: prima fa morire con una veste avvelenata la promessa sposa e il padre di lei che è accorso a soccorrerla, poi arriva persino ad uccidere i propri figli, per straziare il cuore e l’orgoglio di Giasone e interromperne la discendenza. Alla fine della tragedia se ne va da Corinto, e non di soppiatto, ma sul carro del sole, portandosi appresso i cadaveri dei figli e lasciando Giasone ad inveire impotente.

Con tutto questo la sua figura giganteggia in una luce non soltanto negativa, come accade invece a Clitennestra. Per come rappresenta Giasone, egoista e meschino, interessato soltanto alla conquista del potere e pronto ad usare come mezzo il suo fascino sulle donne (Odisseo non è il solo), Euripide sembra in fondo totalmente schierato dalla parte dell’eroina, almeno sul piano del sentimento. Giasone paga il prezzo più atroce per la sua meschinità, ed è anche sbeffeggiato e umiliato nel finale: “Alla terra mi reco io d’Erettèo, / e con Egèo, figliuolo di Pandíone/ abiterò: tu, com’è giusto, morte / farai da tristo, ché sei tristo: avranno/ amaro fine le tue nuove nozze”.

Se lo si analizza un po’ più in profondità, però, il gioco mostra il suo rovescio. La grandezza tragica del personaggio di Medea sta proprio nella continua lotta tra la razionalità e le passioni che la dilaniano, e questo spiega l’attenzione, se non proprio la simpatia, che Euripide le riserva. Medea è una donna debole e forte allo stesso tempo, in grado di riempire la scena da sola col suo conflitto interiore. Forte perché padrona della sua vita e non disposta a piegarsi davanti a nessuno, e debole perché sola, disperata ed intenzionata a distruggere tutto ciò che rappresenta il suo passato. Alla fine, comunque, risulta chiaro che di un essere del genere non ci si può assolutamente fidare. Ciò che teorizzeranno pochi anni dopo Platone e Aristotele, ovvero che la donna non è in grado di compiere scelte perfettamente razionali, ma è sempre possibile preda dell’emotività e delle passioni, qui è già chiaramente esplicitato. A differenza di Clitennestra, che non è mai attraversata da dubbi, Medea passa in continuazione dalla feroce volontà omicida al pentimento, dalla tentazione di lasciar perdere alla riaffermazione dei suoi propositi. È anch’essa smisurata, per certi versi più ancora di Clitennestra, ma è pericolosa soprattutto per la componente di umanità che ancora alberga in lei, e che la rende anche oggetto di compassione. Questo almeno ad una lettura moderna, perché è probabile che al momento in cui la tragedia venne messa in scena per la prima volta il sentimento degli spettatori fosse molto diverso.

L’elemento di novità, anche per i contemporanei, stava piuttosto nel fatto che la tragedia è essenzialmente incentrata sugli umani. Gli dèi in pratica non intervengono mai: tanto da spingere Giasone, verso la fine della vicenda, ad inveire contro di essi, accusandoli, senza ricevere risposta, di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli. Ma il tentativo di scaricare su di loro la responsabilità non è affatto convincente. “Avete fatto tutto voi”, sembra dire Euripide, che giudica colpevole non solo Medea, esecutrice materiale dei delitti, ma anche Giasone, reo di aver ingannato la protagonista per un “letto migliore”.

Non stupisce comunque che nel 431, l’anno in cui venne presentata in concorso per le Grandi Dionisiache, la tragedia non sia andata oltre il terzo posto. Al di là del rapporto sempre conflittuale di Euripide col pubblico ateniese, l’immagine proposta doveva risultare davvero inquietante. Per la prima volta nel teatro greco (almeno per le opere note) è protagonista la passione intima di una donna, una passione violenta e feroce. Ma la tragedia contiene anche una forma di critica al modello familiare tradizionale in vigore nella Atene del V secolo a.C. Allo sdegno ed alla disperazione di Medea per le nuove nozze del marito, Giasone ribatte con motivazioni che all’ateniese medio potevano apparire sensate: la necessità di generare nuovi figli per la città e l’ambizione di assicurarsi una posizione sociale adeguata. E anche la convinzione di aver già fatto già molto per Medea, portandola via dal mondo barbaro in cui viveva prima (la Colchide). Ma dal dialogo serrato tra i due, in cui la moglie enumera i rischi del matrimonio per una donna, vengono fuori anche delle incontestabili e scomode verità: “Anzitutto (noi donne) dobbiamo versare una robusta dote e prendere un marito che sarà il padrone della nostra persona, senza sapere se costui sarà buono o cattivo” accusa Medea, lamentando che “separarsi dal marito è una disgrazia, ripudiarlo non si può… L’uomo quando si annoia esce con gli amici e si distrae, mentre noi siamo condannate a vedere una sola persona per tutta la vita” e concludendo amaramente con la celebre invettiva: “(gli uomini) sostengono che, mentre loro rischiano la vita in guerra, noi donne viviamo sicure in casa. Falso! Preferirei combattere tre volte in prima linea piuttosto che partorire una volta!” Al che Giasone non sa rispondere altrimenti se non accusandola di essere, come tutte le donne, attaccata solo al letto.

Dallo scontro tra due culture diverse, una considerata più moderna e civile (Corinto), l’altra più barbara e arretrata (la Colchide), nel quale la gerarchia dei valori in campo doveva apparire evidente, è invece la forza negativa della duplice diversità di Medea ad uscire oggettivamente vincitrice, con un messaggio finale che è in effetti un non-messaggio, perché non offre soluzioni. Tutto ciò anche rapportandoci ai criteri dell’epoca, e senza dubbio al di là delle intenzioni di Euripide. Rimane l’ultima desolata considerazione di Giasone: “Oh, niuna tanto/osato avrebbe delle donne ellène/ da me neglette, che te scelsi a sposa, / te mia nemica, te rovina mia,/ leonessa e non donna, e ch’hai natura/ selvaggia più della tirrena Scilla”, che al di là del riferimento a Pericle, per il suo legame con l’asiatica Aspasia, suona come un monito agli spettatori, un richiamo al sano “mogli e buoi dei paesi tuoi”.

Aria del Tobbio

(senza mascherina)

di Paolo Repetto, 5 ottobre 2020

La salita dice il vero
e s’illumina il pensiero
(da “Ottonari prosciolti”)

Torno sul Tobbio, per la prima volta dopo l’esplosione del Covid. In realtà c’ero già andato con Franco e Vittorio all’inizio dell’estate, per festeggiare l’uscita dal blocco, ma siamo incappati nella famigerata “nuvola di Tobbio”, quella che staziona sulla vetta anche in certe giornate limpide, col cielo completamente terso sino all’ultimo orizzonte. Dal momento che la prospettiva era di inzupparci da capo a piedi e cercare poi a tentoni la porta del rifugio, a tre quarti della salita abbiamo deciso di rinunciare.

Oggi invece sono tornato da solo. La giornata sembrava reggere, è previsto un peggioramento per fine settimana e con ogni probabilità per tutte le settimane successive, stante che siamo ormai entrati nell’autunno. Ho deciso così, su due piedi.

L’ho presa molto bassa (in realtà non avrei potuto fare diversamente: ma mi piace pensare di avere scelto io) e questo mi ha dato modo di lasciare libero corso a tutto ciò che mi attraversava la mente, oltre che di riconoscere pietre e passaggi e alberi lungo la salita. Non è cambiato granché, come sarebbe naturale, ma è stata rinnovata la segnaletica e sono comparsi dei cartelli che invitano a non cercare scorciatoie, a camminare sul sentiero. In un paio di punti sono stati innalzati persino dei piccoli steccati, a ribadire il divieto di passaggio. In effetti il sempre più diffuso malvezzo di “tagliare”, soprattutto in discesa, sta creando sui fianchi della montagna delle bruttissime ferite: si porta a nudo la roccia e viene impedita la crescita della vegetazione. Nella fascia più bassa il terreno è tutto una cicatrice, la gente ha fretta di riguadagnare la macchina. (Mentre considero mestamente queste cose mi sento però come la volpe della favola di Esopo: anch’io fino a qualche anno fa salivo e scendevo cercando di tirare linee dritte, e se non lo faccio più è in realtà solo perché ginocchia e polmoni non me lo consentono.)

Il sentiero continua ad essere molto sconnesso (e meno male!), non favorisce un ritmo costante ma impone continui cambiamenti di passo, scavalcamenti, saltelli da un masso all’altro. Ho cercato tuttavia di mantenere un respiro regolare, perché questo aiuta a distendere e a fissare anche i pensieri. Durante le sue escursioni Nietzsche si fermava ogni tanto per annotarli su un taccuino, io non avevo il taccuino e non mi sarei fermato comunque, per cui mi limiterò ora a cercare di ripescare dalla memoria ancora fresca qualche scampolo di riflessione. Alla mia età occorre economizzare anche la materia grigia, mettendo degli ideali post-it su tutto. Proporrò queste cose in sequenza, per esigenze di chiarezza, ma in realtà si sono susseguite e accavallate con un certo disordine, senza alcun apparente filo logico a tenerle assieme. Naturalmente, nel lasso di tempo intercorso tra la “produzione” e la trascrizione molte idee sono andate perse, mentre per altre, per dar loro un senso, ho dovuto tagliare e ricucire.

Provo comunque a ricostruire il doppio percorso, quello fisico e quello mentale.

1)    La prima cosa su cui mi sono trovato a riflettere, già dopo le rampe iniziali, è che alla partenza non avevo guardato l’orologio. Il ritmo delle mie camminate, e più in generale quello di tutta la mia vita, è sempre stato dettato dall’ossessione del tempo. Un po’ per carattere, un po’ per necessità oggettive, ho vissuto costantemente di fretta, come il coniglio bianco di Alice. Anche le escursioni in montagna o le semplici camminate erano condizionate da questo assillo. Ricordo un trekking di quarant’anni fa, in compagnia di mio fratello. Abbiamo percorso un tratto della Gran Randonnée della Corsica, considerata uno dei percorsi più impegnativi in assoluto, in nove giorni anziché nei quindici previsti dalla guida, raddoppiando quindi quasi sempre le tappe giornaliere. Non si trattava fare i fenomeni, avevamo a disposizione solo quell’intervallo di tempo e dovevamo sfruttarlo al massimo.

Oggi non ho evitato intenzionalmente di guardare l’orologio: mi sono proprio dimenticato, e così ho potuto fare a meno di consultarlo anche una volta in vetta. Non aveva importanza che ora fosse. Il paradosso è che ormai, malgrado il tempo a mia disposizione si accorci in maniera sempre più tangibile, e sono le lancette del mio corpo a dirlo, riesco a vivere con maggiore calma. Oddio, continuo a sentirmi in ritardo rispetto a un sacco di cose, dalle letture agli adempimenti più banali, ma non mi preoccupo più di tanto: si riduce il tempo, ma si ridimensiona anche l’importanza degli atti che compio (o che non compio). Evidentemente il cervello, come le gambe, ad un certo punto si adegua, sia pure con una certa riluttanza.

La diversa percezione del tempo è però solo un aspetto del cambiamento. Non è molto importante ciò che faccio, che penso, che scrivo, ma nemmeno lo è più ciò con cui mi rapporto. Voglio dire che la speranza di influire in qualche maniera significativa sulle realtà sociali o naturali che mi circondano ha lasciato il posto ad una rassegnazione “attiva”: che sia ininfluente o meno, faccio ciò che mi pare giusto qui e ora, indipendentemente dai riscontri. Libero il mio tempo futuro da aspettative e da impegni. Temo però che a una rassegnazione analoga, e nemmeno molto “attiva” stiano già approdando molti giovani che tempo da trascorrere, da riempire e da giustificare ne hanno ancora parecchio: e la loro non è una bella prospettiva.

Realizzo anche, ad un certo punto, che ho lasciato a valle la mascherina. Ma non credo ci saranno assembramenti nel rifugio. La mia era l’unica auto posteggiata all’attacco del sentiero. E comunque, mi sembra assurdo (e al tempo stesso significativo di quanto siamo cambiati in questi ultimi mesi) anche essermi posto il problema.

2)   Le vie della mente sono infinite come quelle del Tobbio, e molto più tortuose. Prima di incrociare il sentiero che sale da Voltaggio una bizzarra associazione di idee mi riporta al film visto un paio di sere fa, Miss Marx (il primo dal febbraio scorso). L’impressione a caldo non è stata positiva, lo premetto subito, l’ho trovato anzi piuttosto noioso. Tuttavia, a ripensarci, la ricostruzione storica, sia pure nella sua schematicità, nella sobrietà delle ambientazioni, è risultata efficace. Ne è venuta fuori una perfetta rappresentazione della distanza tra le idee e i progetti dei teorici della rivoluzione sociale e la realtà con la quale si confrontavano. Non so quanto la regista abbia consapevolmente cercato questo effetto, forse il suo intento era circoscritto ad evidenziare, attraverso la figura complessa e la vicenda tragica di Eleanor Marx, le contraddizioni tra l’impegno pubblico e le scelte private di una antesignana del femminismo. Ma per il modo in cui è narrata, e prima ancora nella sua verità storica, la vicenda si presta a diventare emblematica di un difetto di fondo non imputabile alla singola figura, alle incertezze del carattere di Eleanor: a non reggere sono tutto l’impianto teorico, e il conseguente atteggiamento, che supportano di norma la militanza rivoluzionaria, ostinatamente sganciati da quella che è la prosaica realtà della natura umana e dei rapporti sociali.

Ci sono sequenze molto eloquenti nelle quali le masse dei diseredati stanno confinate sullo sfondo, dietro i cordoni della polizia, mentre i “rivoluzionari” borghesi, le avanguardie pensanti, le arringano a distanza. Allo stesso modo la quotidianità di questi teorici, i loro rapporti interpersonali, la scelta e lo studio dei problemi, le discussioni, le risoluzioni, tutto ha un che di molto salottiero, si svolge in interni decorosi e tutto sommato “ovattati”.

La storia di Eleanor è poi doppiamente emblematica. La povera ragazza predica l’emancipazione e il riscatto femminile, ma rimane poi legata ad un uomo che la sfrutta e la tradisce, lui stesso personificazione dell’ipocrisia dell’intellettuale borghese, del radical chic, come si direbbe oggi. Eleanor in realtà non conosce affatto la miseria delle masse cui si rivolge, e quando viene a contatto con essa prova quasi più orrore che compassione. Lei stessa ha già alle spalle, in casa, una storia di ambiguità e menzogne che si cela dietro rapporti familiari apparentemente idilliaci (la vicenda del figlio illegittimo avuto da Marx con la donna di servizio, mai riconosciuto, e attribuito, per convenienza, ad Engels).

Insomma, mano a mano che mi approssimo al valico della Dogliola mi vado convincendo che forse il film così brutto non era, che mi ha infastidito solo perché sono un viscerale e non sopportavo di vedere una donna lasciarsi trattare in quel modo, senza la forza di venirne fuori. Ma proprio questo voleva ottenere l’autrice. E allora, devo ammettere che c’è pienamente riuscita.

3)   A quanto pare ho tenuto il ritmo giusto, perché l’ultimo tratto di sentiero, solitamente quello più fastidioso, quasi non lo avverto. I polmoni inviano regolarmente ossigeno al cervello, e questo tiene la direzione. Passo dunque in dissolvenza dalle immagini del film alle impressioni tratte da due letture recenti, che col film hanno molto a che vedere.

La prima di queste letture riguarda un testo singolare, Il socialismo degli intellettuali (1905), del quale sono venuto a conoscenza per puro caso. Anche l’autore, Jan Waclaw Machajski, un polacco, è rimasto per me un perfetto sconosciuto sino ad un paio di mesi fa, malgrado una traduzione italiana della sua opera sia stata ripubblicata proprio lo scorso anno, a più di secolo dalla prima comparsa, da una casa editrice anarchica. Ho dovuto prendere atto ancora una volta della mia disinformazione – mi accade ormai troppo spesso – perché le tesi che Machajski sosteneva nel 1905 sono molto vicine a quelle che io stesso ho maturato autonomamente da un pezzo. Machajski tra l’altro non spuntava dal nulla: aveva alle spalle un lungo percorso di agitatore politico in seno all’internazionalismo socialista, ma soprattutto l’esperienza di undici anni di deportazione in Siberia, nel corso dei quali aveva avuto tempo e agio di approfondire l’opera e il pensiero di Marx, cogliendone quelle ambiguità di fondo che poi avrebbe denunciato nella sua opera più famosa.

In sostanza, Machajski mette in discussione il ruolo di “guida rivoluzionaria” che il marxismo ortodosso riconosce all’intellighenzia, ai “lavoratori intellettuali”. Sostiene che l’intellighenzia costituisce una classe economica a se stante, che ha in fondo tutto l’interesse a perpetuare lo sfruttamento del proletariato. Detto in parole più semplici, ci vuol pure qualcuno che lavori per consentire a qualcun altro di pensare. A suo vedere il socialismo in generale e il marxismo in particolare sono nati per portare avanti gli interessi di questa classe, e la “socializzazione dei mezzi di produzione”, sottraendo il potere alla borghesia imprenditoriale e ai trust capitalistici, non farebbe altro che trasferirlo ad essa, lasciando sostanzialmente invariate le condizioni dei lavoratori. Ammetto che è una tesi decisamente rozza, e la sintesi che ne ho fatta io lo è ancor più, ma nella sostanza coincide sorprendentemente con quello che mio padre, che non aveva mai letto Machajski, e se per questo nemmeno Marx o Lenin, pensava in proposito. E che in maniera magari un po’ più articolata penso anch’io.

Può anche apparire una tesi pericolosa, perché sembra preludere e plaudire a quella “ribellione delle masse” di cui parla, con giustificato timore, Ortega y Gasset, o alla delegittimazione delle élites che tanto va di moda oggi. In realtà, Machajski dice semplicemente che tra ciò che pensa e vuole il proletariato e ciò che vorrebbero pensasse e desiderasse gli intellettuali c’è una bella differenza, e che questi ultimi tendono ad essere autoreferenziali al punto da infischiarsene o da essere irritati da questa differenza. Il che è tutto vero. Ho in mente come Marx liquidò un delegato degli operai inglesi al primo congresso dell’Internazionale, John Weston (un buon vecchio, un povero diavolo, un sempliciotto, un carpentiere!), confidando infastidito a Engels che “non è facile spiegare agli ignoranti tutte le questioni economiche che vi si raggruppano intorno” e “sono esitante, perché aver per avversario «Mr. Weston» non è proprio molto lusinghiero”. Piccolo particolare: a Londra “mr. Weston” (carpenter!) rappresentava le associazioni dei lavoratori, Marx solo se stesso. Non importa se poi nella polemica su prezzi e salari avesse ragione il primo o il secondo. È un problema di atteggiamento, lo stesso che ho riscontrato sempre, studiando la storia delle rivoluzioni o vivendo di persona quella parodia della rivoluzione che è stato il Sessantotto.

È un ritornello sul quale torno da un pezzo, e che non mi stancherò mai di ripetere. Nelle “Riflessioni sulla violenza”, uscito tra l’altro tre anni dopo il libro di Machajski, George Sorel diceva che “Gli intellettuali non sono gli uomini che pensano: sono le persone che fanno professione di pensare e che prelevano un salario aristocratico in ragione della nobiltà di questa professione”. Un salario integrato da un status sociale privilegiato, quello di detentori del sapere anche per conto terzi. Precisamente a questa fenomenologia dell’intellettuale si riferisce Machajski. Che naturalmente lo fa con un linguaggio e con delle argomentazioni usurati dal secolo trascorso, con un costante riferimento polemico alle posizioni della socialdemocrazia dell’epoca e alla realtà del movimento dei lavoratori che aveva sotto gli occhi. Per questo leggere “Il socialismo degli intellettuali” non è una passeggiata. Dice con chiarezza le stesse cose che in Miss Marx sono solo suggerite, ma tirandola in lungo per quasi trecentocinquanta pagine è ancor più noioso.

Eppure valeva la pena. É tutt’altro che un libro superato. In fondo ancora oggi devo sentir parlare di proletariato (sempre meno: ormai si preferisce la moltitudine) e di lavoro da Agamben, da Toni Negri o addirittura da Diego Fusaro, gente che se prendesse in mano una falce, un martello o una chiave inglese si farebbe del male, e che non ha mai conosciuto la precarietà. E devo vedere delegittimate le competenze da Maffesoli o dal suo emulo Baricco, con una interpretazione totalmente distorta del baconiano “sapere è potere”. Non avranno preso il potere, gli intellettuali, ma senz’altro hanno saputo difendere bene, e giustificare ancora meglio, i loro privilegi.

4)   L’altra lettura mi ha impegnato per quasi una settimana, anche se non è stata faticosa quanto la mole del volume (650 pagine) e soprattutto l’argomento avrebbero lasciato credere. Si tratta della biografia di Togliatti (Palmiro Togliatti, Mondadori 1974) scritta da Giorgio Bocca. Anche questa non era nella lista d’attesa delle mie letture, nemmeno in quella a scadenze remote. È arrivata al traino de Il provinciale, dello stesso Bocca, a sua volta occasionalmente scoperto ai primi di settembre nella baita in cui ero ospite di un amico. Di Bocca, per motivi che non sto ora a spiegare, non avevo una stima assoluta: ma queste due letture l’hanno senz’altro rafforzata.

Dunque, a leggere il Togliatti sono stato spinto più che dall’argomento, che sinceramente non aveva per me alcuna attrattiva, dalla curiosità di vedere come Bocca trattava il personaggio. E sono stato ampiamente ripagato.

Per Togliatti non ho mai provato la minima simpatia. Si tratta certamente di un sentimento preconcetto, che risale addirittura all’infanzia, complice mia madre, degasperiana di ferro, che vedeva il leader comunista come il fumo negli occhi. Anche mio padre, però, che negli anni del dopoguerra si era spostato da una militanza social-comunista piuttosto critica e disincantata ad un atteggiamento che definirei anarco-individualista, non era uomo da poter considerare senza ironia il culto tributato dai compagni al “migliore”. Ho ancora in mente una discussione orecchiata nella vecchia bottega di ciabattino almeno sessantacinque anni fa, che si svolgeva tra lui e un suo apprendista-lavorante, il buon Nanini (anche lui zoppo, secondo la tradizione per la quale i rivoluzionari più accesi sono quelli affetti da handicap fisici). All’esaltazione che Nanini faceva di Togliatti, e di riflesso di Stalin, mio padre oppose una sola battuta: “Credi che sarebbero capaci di riparare un paio di scarpe, di tirare su un muro o di potare un vigneto?” Non aveva letto Machajski, ma era arrivato alle stesse conclusioni.

L’antipatia ereditaria si è andata ancor più rafforzando quando ho cominciato a vedere immagini del “migliore” sui giornali, nei cinegiornali de “La settimana Incom” e in televisione, al telegiornale o nelle tribune politiche. Togliatti sprizzava antipatia da tutti i pori – e questo lo dice chiaramente anche Bocca. E giustamente si chiede come sia stato possibile, ad esempio, che milioni di persone ne abbiano sinceramente pianto la scomparsa e si siano strette attorno alla sua bara.

Ora, apparentemente questa risposta Bocca non se la dà, ma in realtà continua a suggerirla pagina dietro pagina. Lo fa attraverso una ricostruzione accurata, documentatissima, ben scritta, la cui lettura consente di andare ben oltre la vicenda del dirigente comunista.

È una risposta semplice e complessa al tempo stesso.

È semplice perché in fondo Bocca apparenta l’idealità politica ad una fede religiosa. L’una e l’altra promettono salvezza, la prima in terra, la seconda in cielo, ed è assodato le masse hanno bisogno di questo messaggio. In tal senso Togliatti e gli altri dirigenti comunisti, primo tra tutti naturalmente Stalin, hanno goduto della stessa presunzione di infallibilità della quale gode il papa, anche quando le loro decisioni e le loro azioni apparivano incomprensibili, contraddittorie o addirittura ripugnanti. Non c’era Togliatti in quella bara, a quel funerale, ma un’idea, un’idea in nome della quale un sacco di gente aveva sofferto, si era sacrificata, aveva operato.

E fin qui ci sta, è una risposta che avevano già dato molti altri. Ma questo è solo il quadro generale. La biografia intende raccontare ben altro. Intanto strappa il velo sulle lotte intestine, sia su quelle che hanno insanguinato per un trentennio l’URSS che su quelle poco meno cruente che hanno travagliato la vita dei vari partiti comunisti europei, e nella fattispecie di quello italiano. E ne viene fuori un vero viperaio. Ma nemmeno questa era materia del tutto nuova.

Quel che intriga davvero è invece il fatto che Bocca sembra giustificare, o almeno “comprendere”, ognuna delle scelte di Togliatti, arrivando alla conclusione che in fondo non avrebbe potuto agire altrimenti. Ma questo perché il difetto stava nella scelta di fondo.

Partendo dal presupposto che il primo vero obiettivo fosse la conquista del potere, che questa condizione sia imprescindibile per la transizione al socialismo, e che solo una grossa forza di partito può renderla possibile, così come solo una ferrea capacità organizzativa consente di reggere l’urto della reazione e scoraggiare le derive interne, non rimanevano altre scelte se non quelle compiute da Togliatti.

Tutti i risvolti negativi del personaggio, che Bocca non trascura di sottolineare e dei quali evidenzia senza fare sconti i tragici effetti, ai fini del raggiungimento di quello scopo si rivelano i più efficaci. Togliatti non ha tenuto le redini del partito per trent’anni (e che anni!) per un caso. Era il più adatto, dice Bocca. Ciò che non dice esplicitamente, ma lascia chiaramente intendere, è che il problema stava nell’aver scambiato i mezzi per i fini, la presa (e la conservazione) del potere con la realizzazione del socialismo, senza badare ai costi umani e alle aspirazioni reali delle masse, e trattando anzi queste ultime davvero come tali, spostandole ad arbitrio in una direzione o in un’altra.

Se Togliatti attraversa quasi indenne un mezzo secolo così burrascoso, e scampa ai pericoli interni ed esterni, e fa prevalere ogni volta il suo punto di vista, è perché antepone all’idealità l’efficienza: costruisce una macchina politica formidabile, la guida magistralmente e con freddezza: sa riconoscere i percorsi migliori ed evitare ogni ostacolo, o nel caso travolgerlo senza farsi distrarre dalle perdite. C’è un solo problema: ha perso di vista molto presto, o forse non ha mai conosciuto, i passeggeri ai quali doveva fare da guida, ha tassativamente imposto di non parlare al conducente, ma soprattutto ha dimenticato quale avrebbe dovuto essere la meta originaria.

5)   Io ho invece ben chiaro qual è per oggi la mia, e finalmente la raggiungo. In cima non trovo nessuno. Da ovest stanno arrivando un po’ di nuvole, mentre comincia a soffiare una brezza freddina. Sulla maglietta bagnata non è il massimo. Non credo che rimarrò molto. Fumo la rituale sigaretta, cambio la maglia e faccio un salto nel rifugio, per leggere il libro di vetta. Voglio accertarmi che Michele Magnone sia in salute e prosegua nelle sue salite quotidiane. Infatti trovo annotati ieri, e ier l’altro, e il giorno avanti, con i suoi simboli meteorologici consueti, e scorrendo indietro nei giorni di settembre vedo che non ne ha mancato uno. Nessun commento, nessuna indicazione dei tempi di percorrenza o dell’itinerario seguito. Presenza pura che aleggia e lascia impronta solo sul libro.

Michelino sale regolarmente il Tobbio da almeno quindici anni, per trecentosessantacinque giorni l’anno. Ha ormai stracciato tutti i record di perseveranza e certamente anche quello delle salite assolute, quindi non è questo a motivarlo. E nemmeno il fatto che circoli voce di queste imprese, che si sia creato un mito, che esista una piccola nicchia di suoi fans, anche di timidi emulatori, e che a questo punto non voglia deluderli. Credo piuttosto si tratti di un genuino bisogno fisico, psicologico e spirituale: di una dipendenza positiva. L’ultima volta che l’ho incrociato sul sentiero, qualche anno fa, era in forma perfetta: e ha un paio d’anni più di me.

Colpisce che nessuno, per quanto magari possa considerare la cosa un po’ bizzarra, pensi che a Michele sia saltata qualche rotella. Lo si è pensato di altri, che per qualche tempo han continuato a salire con la stessa regolarità, uno addirittura due volte al giorno. Ma la diagnosi scaturiva più dalle giustificazioni e dalle esternazioni che lasciavano nel libro di vetta che dalla pratica in sé. Michele non ha mai dato una spiegazione, non ha scritto un rigo di commento. A un tale che seduto a ridosso del muro della chiesetta gli chiedeva: “Come mai sale tutti i giorni?” ha risposto: “E lei come mai è salito oggi?” “Perché è bello”, ha ribattuto l’altro. “Vede che allora lo sa?” è stata la chiusura. Questa l’ho sentita con le mie orecchie. Mi sembra la migliore delle motivazioni. Togliatti non l’avrebbe condivisa.

Ripongo il libro di vetta e faccio un giro attorno al rifugio e alla chiesetta, guardando in basso in ogni direzione, casomai scorgessi salire Michele. Non di vede anima viva, cosa abbastanza rara in questa stagione. Gli unici rumori sono il sibilo del vento, che comincia a rinforzare, e il suono dei campanacci che arriva dai pratoni del Figne, dove pascolano le mucche. Decido di tornare a valle.

6)   Quando prendo a scendere si riaffaccia alla mente l’immagine di Eleanor Marx, forse per scacciare quella di Togliatti. Per una singolare coincidenza pochi giorni fa sono tornato a riflettere sulle singolarità dei comportamenti femminili, a seguito di una mail di Nico Parodi che mi segnalava un articolo dal titolo “Donne, non siate crocerossine”. In quell’articolo l’autrice constatava amaramente che troppe donne sono attratte dai maschi egoisti, narcisi, iracondi, e spiegava questo atteggiamento irrazionale con la propensione delle donne alla cura, frutto della selezione naturale che ha favorito il successo riproduttivo delle donne maggiormente dotate di questa attitudine. Insomma, il classico atteggiamento infermieristico: io ti salverò.

Nico ritiene però che se di selezione naturale vogliamo parlare bisogna farlo seriamente. E cita allora Dawkins, che offre questa spiegazione alternativa: “In una società in cui i maschi competono fra loro per essere scelti dalle femmine come i compagni migliori, una delle cose più positive che una madre può fare per i propri geni è fare un figlio che diventi a sua volta un maschio attraente. Se può assicurarsi che il proprio figlio sarà uno dei pochi maschi fortunati che una volta cresciuti prenderanno parte al maggior numero di copulazioni, avrà una folla di nipoti. Il risultato è che una delle qualità più desiderabili che un maschio può avere agli occhi di una femmina è, molto semplicemente, di essere sessualmente attraente. Una femmina che si accoppia con un maschio superattraente ha più probabilità di avere figli attraenti per le femmine della generazione successiva che le produrranno un gran numero di nipoti”.

Nico si (e mi) chiede quindi se la scelta femminile sia dettata dalla propensione alla cura o dall’influsso dei geni, che spinge la donna a cercare l’opportunità di generare maschi “copulatori”, capaci di garantirle una discendenza molto nutrita. (Secondo lui le donne propenderanno certamente per la prima possibilità, perché in fondo starebbe a significare una disposizione positiva: i maschi – lui scrive “i maschilisti” – per la seconda.

È una domanda che io stesso mi sono posto per almeno cinquant’anni, dai dieci ai sessanta (prima naturalmente non me la ponevo, dopo ho fortunatamente cessato di pensarci). Senza darmi mai una risposta credibile, con ogni probabilità perché ero sempre in qualche modo emotivamente coinvolto. Ho solo maturato la convinzione che questo atteggiamento sfugga al campo del razionale, e mi sono posto come uno spettatore ogni volta stupefatto.

Penso comunque che di fronte ad una cosa del genere tutti i maschi siano totalmente disarmati. Malgrado l’aiuto che può venire da Dawkins. E tuttavia, qualche riflessione ho provato ad azzardarla. Io credo esista davvero nelle femmine una “propensione alla cura”, giustificata se non altro dal diverso tipo di investimento che operano nella riproduzione. Che questa quindi sia una caratteristica originaria, di natura biologica. Credo anche però che tale caratteristica sia stata soggetta a “derive” culturali, provocate dagli innumerevoli mutamenti nei ruoli, sia pure solo di superfice, che si sono determinati soprattutto in occidente, per effetto ad esempio di fenomeni come il cristianesimo e la rivoluzione industriale (che a dispetto delle apparenze non sono stati fattori di emancipazione, o lo sono stati solo in un certo senso).

Voglio dire che la propensione alla cura si è “evoluta” in una propensione alla “guida”, nella quale interviene una scommessa. Si sceglie l’elemento meno affidabile, proprio per le sue caratteristiche spiccate di auto-affermazione, quindi di egoismo prevaricatore o meschino, e si cerca di mettergli un guinzaglio. In questo modo, se la cosa riesce, si ottengono due risultati: si fanno figli che a loro volta dovrebbero avere maggiori probabilità di risultare “attraenti” (e quindi moltiplicazione dei nipoti, successo “genetico”) e si soddisfa un bisogno individuale di autostima (Oliver Goldsmith lo sintetizzava in “Ella si umilia per vincere”). La donna crocerossina è a mio giudizio mossa soprattutto da questa seconda motivazione: “Io prendo un disgraziato, o uno stronzo, e ne faccio un uomo, a immagine di quello che io ritengo dovrebbe essere un uomo, ma che come già tale, visto che non mi lascerebbe margine d’azione, non mi interessa”.

È un’immagine semplicistica, ma penso non sia molto lontana dal vero. D’altro canto, è ciò che dice anche l’autrice dell’articolo. Credo tuttavia che questo atteggiamento vada, come si suol dire, “contestualizzato”. In effetti la possibilità di scegliere, nella società umana, le donne ce l’hanno realmente solo da un paio di generazioni. Prima il loro “umiliarsi per vincere” era solo una strategia di sopravvivenza in situazioni che erano loro imposte. Può essere che proprio per questo motivo abbiano affinato talmente le loro capacità di difesa da trovarsi oggi portate ad esercitarle anche in un contesto mutato: che vadano a cercarsi le grane per darsi conferma di un loro sotterraneo potere. Non lo so. Probabilmente una donna direbbe che sono tutte stronzate, prodotti di risulta di un maschilismo inveterato, e forse avrebbe ragione. Ma riesce oggettivamente difficile darsi spiegazioni diverse.

7)   Questo esercizio dissacratorio (Eleanor, Marx padre, Togliatti, gli intellettuali progressisti in massa, la sensibilità femminile) non può che rimandarmi quasi automaticamente al recente stupidissimo fenomeno dell’abbattimento dei monumenti. Non amo in maniera particolare i monumenti. In genere mi sono indifferenti, quando li noto è solo perché sono decisamente brutti. Mi è capitato di rado di trovarne interessante qualcuno, o di pensare che era doveroso. Ma se amo poco i monumenti, amo senz’altro meno chi li abbatte, persino quando il gesto può apparire giustificato da una particolare odiosità del personaggio. Ho sempre l’impressione che chi si affanna a picconare o a tirare corde e ganci sia pronto ad erigerne immediatamente un altro, a qualcuno o a qualche causa altrettanto esecrabile. E non è solo un’impressione. D’altro canto, suona particolarmente stonato il coro di chi a questo scempio ha plaudito in nome del “politicamente corretto”: Palmira era un’icona dell’imperialismo romano quanto Colombo o Cook o altri “scopritori” possono esserlo di quello occidentale, ma solo nel primo caso un brivido di orrore è corso nelle vene di chi pensa “progressivo”. E non mi risulta che qualcuno abbia invocato la decapitazione delle statue di Gengis Khan, del Saladino o di Shaka Zulu.

Abbattere o decapitare le statue non ha comunque a che fare con l’iconoclastia. Non c’è mai stata un’altra epoca altrettanto schiava delle immagini della nostra, e credo addirittura che nella gran parte dei casi, soprattutto per le scene cui ho assistito in televisione e che hanno monopolizzato per un paio di settimane i social, il movente reale per i partecipanti al sabba fosse proprio quello di essere immortalati in immagini “storiche”. Ha invece molto a che fare con l’imbecillità (e su questa c’è poco da dire, ha attraversato equamente ogni epoca, più o meno allo scoperto ma sempre onnipresente), ma soprattutto, nello specifico attuale, con un rapporto decisamente (e volutamente) distorto con la storia.

Partendo dal presupposto che la storia è stata scritta (e i monumenti sono stati eretti) dai vincitori, si procede, anziché a correggerla, a cancellarla. Solo però per riscriverne un’altra, che non dovrà fondarsi sugli elementi concreti, sulla documentazione “oggettiva” di cui siamo in possesso, sulle ricostruzioni che siamo in grado oggi di effettuare incrociando i dati, ma sulle diverse memorie che degli stessi avvenimenti hanno le varie parti in causa. Col risultato che ad un minimo di idea di “percorso” storico, inteso come successione di eventi che hanno esercitato la loro influenza nel tempo e nello spazio, che sono tenuti assieme non da una volontà divina o da un filo di superiore razionalità, ma da una più o meno esplicita causalità reciproca, che dunque per essere davvero compresi necessitano di una cifra di lettura unificata, sia pure con tutti i contrappesi e gli accorgimenti possibili, a questa idea temo dovremo presto rinunciare.

8)   Pensare a queste cose mentre si scende dal Tobbio mette a rischio di cadute, oltre che generare crisi di sconforto. Cerco allora di distrarmene badando a dove poso i piedi e riempiendomi gli occhi della vallata del Gorzente dall’alto. Inconsciamente però consulto anche per la prima volta l’orologio, e all’improvviso mi viene in mente che avevo programmato per fine mattinata un passaggio all’ufficio comunale, per rinnovare la carta d’identità, scaduta da un pezzo. Ho già la foto, il bollettino pagato e tutto quel che serve, devo cercare di concludere oggi. Allungo il passo, quindi, ma senza esagerare. Perché nel frattempo questa storia della carta d’identità e della fotografia ha destato un’altra folata di pensieri.

Intanto bisognerebbe ristabilire la correttezza dei termini. Quella che sto per rifare non è una carta di identità, ma un documento di identificazione. L’identità non può certo essere costretta in quel tesserino di nove per sei centimetri: ma nemmeno se fosse un volume di millecinquecento pagine. Il fatto stesso che ogni dieci anni uno debba rifarla è emblematico. Sarebbe più pertinente chiamarla “certificazione dello stato storico dell’identità”: ma nemmeno questa dicitura corrisponde al vero.

Provo a fare la conta dei dati che sono richiesti per rilasciare una carta d’identità (almeno, di quelli considerati nel documento cartaceo). Ti chiedono quando sei nato (dato storico) e dove, dove risiedi (dati geografici), di che sesso sei, quanto sei alto, quanto pesi, di che colore hai occhi e capelli (dati morfologici), se sei sposato o meno, che lavoro fai (dati sociologici) e se hai segni particolari. Altrove chiedono anche l’etnia e la religione, noi per il momento questi ce li risparmiamo. Sono dati disgiunti, di per sé neutri, che acquistano un senso solo una volta incrociati (sarebbe bizzarro un sessantenne zoppo, alto come Brunetta, che dichiarasse come professione la pratica sportiva della pallacanestro) ma nella sostanza poi di te dicono nulla. In buona parte debbono essere infatti costantemente aggiornati, e non solo quelli fisici: cambiano senz’altro con l’età il colore dei capelli, qualche volta il peso e dopo i sessanta persino l’altezza, ma spesso anche lo stato civile, la residenza e la professione. Oggi poi le cose si sono ulteriormente complicate, può cambiare anche il sesso. E lì hai voglia a definire una identità.

Siamo identificabili, ma non conoscibili. A quest’ultimo scopo sono molto più significativi i dati che non ci vengono richiesti, ma sottratti: di me, che pure non compaio sui social, c’è chi sa ormai praticamente tutto. Cosa leggo, qual è il mio orientamento politico, se pratico qualche sport, se ho qualche disturbo fisico o psicologico, tutto insomma quello che serve a vendermi qualcosa. Come apro una pagina su internet mi sbattono in faccia libri, trapani, compressori, scaffalature per libreria, offerte di abbonamento a riviste o a repertori on line. Credo leggano persino le cose che posto sul sito (e questo non mi spiacerebbe). Del peso, del colore degli occhi e dei capelli, del luogo di nascita possono fare benissimo a meno.

Il problema è che a breve l’ufficio di anagrafe farà a meno anche dell’elemento chiave della carta, la fotografia: siamo passando a fattori di identificazione invariabili, le impronte digitali o il DNA.

Questo mi spiace. L’immagine fotografica è senz’altro uno dei dati più mutevoli, quindi meno affidabili, ma nella fredda burocraticità della carta portava davvero qualcosa imparentato con l’identità. Credo che nessuno conserverebbe i documenti scaduti se fossero senza foto, mentre molti (io compreso) li conservano proprio per le fotografie.

Il primo documento d’identità mi è stato rilasciato a quattordici anni. Si chiamava certificato di identità personale, perché la carta vera era prevista solo per i maggiorenni. Ne ero orgoglioso, in qualche modo mi sembrava un riconoscimento del mio ingresso nel mondo degli adulti. Ero solo un po’ scocciato per via della fotografia. In effetti non sono mai stato molto fotogenico, e a quattordici anni lo ero ancora meno. Discorso diverso per la prima carta d’identità vera e propria. Lì la fotografia era venuta benissimo, stentavo persino io a riconoscermi. Ne ho fatto dei duplicati, ho continuato ad usarla per documenti di ogni genere per anni, passaporto, tessere sportive, abbonamenti ferroviari, tesserino universitario, fino a quando hanno cominciato a contestarmela perché sembrava quella di mio figlio. Una è finita addirittura nel documento per l’acquisto degli anticrittogramici, di vent’anni dopo. Ne conservo ancora qualche copia. La giocavo volentieri dopo i primi approcci, per sorprendere le amiche, che in genere esclamavano: “Ma guarda, come eri carino!” Le foto finite sulle carte d’identità successive avvalorano la mia tesi sull’ambiguità del concetto. Le ho ancora tutte: col ciuffo e l’aria sbarazzina, con i capelli lunghi, con taglio corto e baffetti alla Charles Bronson, con baffi alla Gengis Khan, con barba da antropologo, con baffoni nietzschiani, completamente sbarbato, con capelli a spazzola, con taglio da ergastolano. Tutta questa varietà non suggerisce qualcosa, non parla di una identità costantemente mutevole? Se le guardo tutte assieme mi scopro personaggio pirandelliano, uno e centomila (nessuno, per il momento, non ancora).

Mi spiace perché ultima foto è venuta piuttosto bene, quantomeno mi sembra restituisca abbastanza onestamente come sono in questo momento, forse qualcosina in più: e invece sul documento digitale verrà rimpicciolita sino essere in realtà indecifrabile. In compenso, al momento di rilevare le impronte si è scoperto che non una delle tre digitazioni che mi hanno chiesto di effettuare con l’indice destro ha dato un risultato compatibile con le altre due. Refrattario ad ogni tipo di identificazione, anche a quelle più sofisticate.

Ormai sono in fondo. Davanti alla cappelletta degli Eremiti, nel punto di attacco del sentiero, incontro una famigliola svizzera, padre, madre e due figlie piccole, massimo cinque e quattro anni. Dò loro qualche ragguaglio sulla lunghezza e sulle difficoltà del percorso, e li avviso che con le due bimbe non saranno in vetta prima di tre ore, il che, considerando che è quasi mezzogiorno, significa essere di ritorno a sera. Sorridono e ringraziano: ok, va bene così. Mi dico che con genitori di quella tempra vengono su per forza dei ragazzi svegli. Potenza degli svizzeri! Poi mi viene in mente che Emiliano mi ha preceduto lassù a cinque anni, salendo in poco più di un’ora, Chiara se l’è fatta da sola a tre anni e mezzo, sia pure mugugnando un po’, Elisa a dieci anni mi mollava a metà strada per non rallentare il suo passo. La mia parte, almeno in questo senso, l’ho fatta anch’io.

Un po’ di sentieri li ho fatti conoscere, a loro e ad altri. E vorrei che di me conservassero una foto che nei documenti non è comparsa mai. Di spalle, con lo zainetto e con la maglietta zuppa. Lì mi riconosco sempre.

Il distruttore di donne

di Vittorio Righini, 25 marzo 2020

In una situazione di emergenza i nostri “Punti di Vista” risultano forse un po’ troppo schematici, e comunque non sufficienti a soddisfare le forzatamente crescenti curiosità di lettura. Inauguriamo quindi una rubrica di anomale recensioni, di autori e di testi, attingendo agli appunti e agli epistolari dei Viandanti. Per la gran parte riguarderanno, come è da attendersi da un sodalizio di viandanti, il tema del viaggio, ma ci si troverà molto altro. A noi i suggerimenti arrivati sono stati utili. Speriamo riescano altrettanto opportuni e intriganti per chi ci segue.

Ciao Paolo,
c’è un autore che non so quanto tu conosca. È Lawrence Durrell.
Nasce nel 1912 a Jalandhar, in India, a quei tempi ancora colonia inglese, perché il padre, ingegnere ferroviario, sta lavorando alla costruzione della ferrovia. La ferrovia per Darjeeling (che ha fornito il titolo a un film a mio modesto parere mediocre) è un notevole prodotto dell’ingegneria meccanica inglese, e la sua ultima parte, a scartamento ridotto, è un’attrazione turistica per arrivare appunto alla città di Darjeeling, patria del miglior tea al mondo e balcone sotto l’Himalaya, con gran vista del Kangchenjunga, di ben mt. 8586. (Ora, in puro stile Sjoberg, se vuoi divagare e guar-darti la ferrovia di Darjeeling, guarda questo bel video, fino alla fine, però … www.youtube.com/watch?v=Fw4XUHdBR5I).

Probabilmente Lawrence nasce a Darjeeling, e viene registrato a Jalandhar, parecchio lontana; è chic pensarla così, e sta nel personaggio. Va a scuola dagli undici anni in poi in Inghilterra, a Canterbury prima, a Oxford poi, ma con pessimi risultati; la sua infanzia libera in India e il carattere ribelle lo allontanano dalla severa educazione inglese. A quindici anni è pianista jazz e poeta, qualunque cosa tranne che studente.

Nel 1935 convince la madre (tornata in Inghilterra dopo l’improvvisa morte del marito in India) a trasferire l’intera famiglia, compresa Nancy Myers, sua prima moglie, a Corfù. È di questo periodo il suo primo importante libro, Il Libro Nero, surrealismo e sessualità contorta alla massima espressione (censurato in Inghilterra fino al 1973). È sempre di questo periodo l’origine della sua lunga amicizia con Henry Miller, col quale scambierà moltissime lettere perché i due autori si raccontano e si trovano perfettamente uno con l’altro. Nel 1941 per la guerra deve lasciare Corfù, e lavora per l’Intelligence del Ministero degli Esteri Inglese ad Alessandria d’Egitto. Qui sposa la sua seconda moglie, dalla quale trarrà ispirazione per Justine, primo libro del Quartetto di Alessandria, le sue opere più famose e conosciute. Dopo una parentesi in Argentina e poi in Iugoslavia, l’Intelligence lo trasferisce a Cipro, dove vive con la figlia Sappho Jane, ma si separa dalla moglie. Nel 1960, a causa della guerra contro gli inglesi lascia Cipro e si trasferisce in Provenza. Si sposa una terza volta, ma nel 1967 la moglie muore, e nonostante attraversi un periodo di successi (è tra i candidati al Nobel della Letteratura), vive un pessimo momento, compresa una brutta malattia. Si sposa intanto per la quarta volta, un matrimonio che dura solo sei anni. Nel 1985 la figlia Sappho Jane si suicida accusando il padre di incesto psicologico. Il fratello ultimogenito Gerald, famoso naturalista, zoologo e scrittore, lo definisce ‘‘un distruttore di donne’’. Muore nel 1990 per un ictus.

Ora vediamo la famiglia Durrell: L’ultimogenito è Gerald, l’autore del delizioso e simpaticissimo ‘‘La mia famiglia e altri animali’’, nel quale descrive la vita della sua famiglia a Corfù, dal 1935 fino a quando l’eco della guerra suona troppo vicino alla tranquilla isola greca. Come dicevo sopra la madre, che era di certo una donna originale ma pragmatica, subissata dalle insistenti richieste del primogenito Lawrence e di sua moglie Nancy si era fatta convincere a trasferirsi sull’isola greca insieme a tutti i figli (Lawrence appunto, l’originale fratello Leslie, la stralunata sorella Maggie e Gerald): ufficialmente per motivi di clima e di salute, ma in realtà anche per il modesto costi della vita a cui si sarebbe dovuta rapportare rispetto a quello della fredda (e costosa) Inghilterra.

Trascuriamo per un attimo il fatto che Lawrence non è stato il marito o il padre ideale, e guardiamo invece alla sua produzione letteraria. Ho letto il quartetto di Alessandria, cioè quattro libri di storie complicatamente amorose, con intrighi e situazioni sociali e politiche varie, scritti nella seconda metà degli anni ‘50. In ognuno di questi libri si incontrano quattro punti di vista diversi sulla stessa storia, sugli stessi intrighi, perché per l’autore la verità è relativa, e la personalità di ogni personaggio vige solo in funzione del punto di vista del lettore, della sua interpretazione. Durrell ha poi lasciato una vastissima produzione in prosa, molti altri libri che ebbero però minore successo. Ma non di questi ti volevo scrivere, perché per me ben più interessanti sono quelli, sottostimati, che vengono considerati come libri di viaggio o guide, e tali invece non sono affatto.

Sono quattro (o cinque, come vedremo). Per la Giunti Editore: La Grotta di Prospero, relativo al soggiorno a Corfù; Riflessi di una Venere Marina, relativo al soggiorno a Rodi; Gli Amari Limoni di Cipro, relativo al soggiorno a Cipro. Questi primi tre libri vedono la luce tra il 1945 e il 1953, e sono il frutto di una lunga permanenza sulle tre isole citate. Sono molto più di una guida, molto più di un libro di viaggi, sono tre libri di profonda cultura, scritti in modo virtuoso, con riferimenti sempre det tagliati, e di gradevolissima lettura, anche per chi non è così filo-ellenico come lo è il sottoscritto.

Poi, venticinque anni più tardi, un editore propone a Lawrence di fare un viaggio spesato per la Sicilia e di raccontare l’isola a modo suo. Durrell coglie l’opportunità al volo, e addirittura si accoda a un Tour ‘‘tutto compreso’’ della Sicilia, dal nome Carosello Siciliano (come poi il titolo del libro stesso). Ispirato dalle lettere che dalla Sicilia la sua amica Martine gli aveva scritto negli anni precedenti (un’amica del periodo di Cipro, trasferitasi poi in Sicilia, che morì prima del viaggio di Durrell e che invitò molte volte l’autore ad andarla a trovare per mostrargli quanto la Sicilia fosse, realmente, l’Attica Occidentale), l’autore, da buon opportunista qual era, ma anche per la fiducia che nutriva verso i consigli che Martine gli scriveva sulla nostra bella isola, accettò l’offerta. Se l’uomo non merita davvero una grande stima, l’autore la merita fino in fondo, perché anche in questo libro (pur mercenario) riesce a presentarci la Sicilia in modo colto, lirico a volte, con una scrittura perfetta, capace di farci comunque scoprire cose nuove e che non avevamo considerato prima, o di farcele immaginare con occhi diversi. Lo trovai anni fa della Bompiani Editore nei Grandi Tascabili, è del 1977.

C’è un quinto libro del 1978, The Greek Island, che possiedo solo in inglese e presenta delle belle fotografie, ma è prevalentemente una raccolta fotografica, priva delle caratteristiche peculiari dei precedenti, sebbene corredata da un testo dell’autore (abbastanza interessante ma piuttosto generico, data la vastità dell’argomento trattato).

Mi sento quindi di raccomandarti l’autore, penna eclettica, mente raffinata, cultura enciclopedica, e al tempo stesso innovativo e originale, e i suoi quattro libri tematici, sebbene non sarà una ricerca facile (ma questa per te è una priorità, non una difficoltà).

È ovvio, bisogna sempre ricordare che questi racconti ci parlano di atmosfere che oggi non ci sono più: ma io se dovessi tornare a Corfù, Rodi, Cipro e Sicilia, ci andrei con uno di questi libri nella borsa.

PS.: peccato che l’autore abbia ignorato Creta; ne sarebbe uscito un quinto delizioso libro su questa meravigliosa grande isola.

 

Il ritorno dell’acchiappatore nella segale

di Fabrizio Rinaldi, 30 giugno 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Se davvero avete voglia di sentire questa storia … vi dico subito che il “cacciatore nella segale” non è un ricercatore di rarissime specie di frumenti, il cui uso è riservato a pochi sapienti, come qualcuno – spero pochi – può aver ipotizzato.

È sulla cattiva strada anche chi, al sentir parlare di “ritorno”, pensa ad un’ambientazione western.

Il mio titolo allude invece alla traduzione letterale di quello del libro più famoso di Jerome David Salinger: The catcher in the ray, in italiano diventato Il giovane Holden.

Quanto al “ritorno”, sta a significare che fisicamente è tornata fra le mie mani la copia del libro che avevo letto e prestato anni fa. È questa eventualità, decisamente rarissima, che vado ad analizzare: il fortunato caso in cui, dopo parecchio tempo, i libri prestati tornano al legittimo proprietario.

Di norma i casi sono due: o il libro ti viene restituito in tempi ragionevoli o, più sovente, puoi ritenerlo perduto.

In quest’ultimo caso la nostra memoria, forse per difendersi dal torto subito, fa un’operazione non so quanto inconscia: cerchiamo di dimenticare a chi abbiamo prestato il prezioso libro, anzi, di scordarci proprio di quel libro, di averlo posseduto e di averlo letto.

È una reazione che s’innesca per proteggere e preservare ciò che riteniamo più importante, cioè il legame con l’altra persona, rispetto al quale il libro, per quanto amato, passa in secondo piano.

Ma non è così facile. La mente non si lascia ingannare per troppo tempo, e il dolore – anche fisico – per l’assenza del libro in questione ristagna, e ogni tanto riemerge.

I “percorsi mentali” che intraprende un lettore assiduo diventano dopo un po’ dei sentieri, segnalati da stupa non di pietre, ma di libri letti. Questi libri identificano il viaggiatore letterario più della carta d’identità: questa invecchia, mentre il piacere di aver letto Pessoa, Chatwin, Rigoni Stern e Sbarbaro rimane sempre vivo. Certi autori segnano il carattere come le cicatrici la pelle. Ora, proprio perché l’identità del lettore rimane immutata, la tendenza è quella di ripercorrere gli stessi passi lungo le mulattiere letterarie, sedersi ogni tanto sulle pile di libri che siamo certi di possedere ed accorgersi che la pila è più bassa del solito. Frugando nella libreria personale alla ricerca del libro che è tornato alla mente scopriamo che non si trova dove dovrebbe essere. Lo cerchiamo in altri ripiani, ma non c’è verso: il libro, di cui ricordiamo il colore della copertina, le frasi sottolineate, addirittura l’odore, è definitivamente sparito.

Allora ci sforziamo, inutilmente, di ricordare a chi lo abbiamo dato, fino poi ad arrenderci, incolpando magari l’avanzare dell’età. In realtà non credo sia questa a farci scordare il beneficiario della nostra fiducia. La mente cancella la persona a cui avevamo dato il libro, come se avesse compreso che evidentemente non era all’altezza della nostra stima, e la rimuove dalla memoria.

Non è questo il mio caso. Io ricordavo invece benissimo la beneficiaria.

Quando abbiamo a che fare con il mondo femminile tutto si complica – e non credo valga solo per me. Entrano in gioco i sentimenti, specie quelli adolescenziali: all’epoca provavo per questa persona un’infatuazione di quelle che lasciato il segno, anche se è vero che col tempo ci si ricorda più dell’infatuazione che della persona.

Nonostante abbia avuto occasione ogni tanto di incontrarla, non le ho mai chiesto indietro il mio Holden, perché temevo mi dicesse che non rammentava di averlo ricevuto o, peggio ancora, di averlo letto. Sarebbe evaporata l’idea di lei che mi ero costruito e che si era scolpita nella mia mente. Mi piaceva pensare che quel libro l’avesse letto e che quell’oggetto fosse rimasto l’unico tramite del nostro rapporto, di un rapporto beninteso totalmente idealizzato e mai concretizzato.

Sono un povero idiota!

Questo è il guaio con le ragazze. Ogni volta che fanno una cosa carina, anche se a guardarle non valgono niente o se sono un po’ stupide, finisce che quasi te ne innamori, e allora non sai più dove diavolo ti trovi. Le ragazze. Cristo santo. Hanno il potere di farti ammattire. Ce l’hanno proprio.
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Il ritorno a casa del mio Holden non è stato del tutto fortuito. Se ne è fatta intermediaria mia moglie, che casualmente è collega della ragazza. Le è bastato chiedere il libro indietro per ottenerlo immediatamente: una semplice richiesta, quella che a me era parsa impossibile per anni.

Mia moglie ha avuto l’opportunità unica di farmi un regalo del tutto inaspettato, permettendomi di tornare in possesso della copia sottolineata dell’Holden. Ma ha avuto anche l’occasione di sfrugugliare nella mia vita adolescenziale, e di verificare quale tipo d’interesse eventualmente la tizia in questione avesse provato o potesse ancora provare per me, e io per lei: insomma, ha attivato quel gusto sommerso di indagare nel passato del proprio compagno che non è esclusivo, ma è senz’altro tipico delle donne, e che prescinde dal fatto che ci siano sospetti di rimpianti o meno. Ha realizzato un capolavoro. Spero non mi fraintenda – anzi, sono certo che non lo farà –, ma è innegabile che il modo in cui si sono sviluppati gli eventi le abbia offerto un grosso vantaggio in quella eterna partita a scacchi che è il matrimonio.

Il cerchio intanto si è chiuso: un’assenza sofferta è divenuta presenza tranquillizzante nella mia libreria. Ho eliminato la copia surrogato acquistata dopo lo smarrimento e ho reintegrato al suo posto la vecchia edizione Einaudi un po’ sgualcita, con il quadrato bianco in copertina.

La ragazza, ormai donna e madre, Il giovane Holden lo ha letto e riletto (lo ha confermato a mia moglie), e lo dimostra anche lo stato di consunzione del libro. Per un feticista dell’oggetto libro sarebbe un colpo al cuore, mentre per me ha acquisito un valore infinitamente maggiore che se fosse rimasto a dormire inutile per tutti questi decenni nello scaffale della letteratura americana.

I libri vanno infatti affidati a chi riteniamo degno della loro lettura. Certo, la separazione è dolorosa, spesso si ha il presentimento che possa essere definitiva. Ma a volte proprio la loro assenza induce a nuove letture, fa posto ad altri libri, apre a connessioni letterarie diverse e a nuovi sentieri. Un libro troppo sacralizzato rischia di creare dei recinti e di chiudertici dentro: la distanza, magari anche solo momentanea, rende più laico il rapporto.

Il ritrovamento dell’Holden mi ha ad esempio incoraggiato a rileggerne alcune parti. Ho realizzato quanto sia, a tratti, lontano dal mio modo d’essere di oggi, ma ho anche compreso il perché all’epoca mi piacque tanto. La lettura non suscita più l’entusiasmo ingenuo di allora, non la stessa identificazione. I decenni trascorsi si sentono. Però hai molto più chiaro ciò che il libro ti ha trasmesso, e in questo caso ha trasmesso a milioni di altri lettori.

Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelapesca dove. O se volavano via. 
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Il ragazzo che si chiede dove vattelappesca vadano le anatre d’inverno, quando il lago gela, fa quello che tutti i giovani in un modo o nell’altro fanno (o almeno, facevano): si pone delle domande apparentemente assurde, dei quesiti senza risposta, che lo inducono comunque a immaginare un mondo differente, un pensare ed un agire non “conformi” . Gli adulti non si pongono questo genere di domande perché devono badare alle esigenze quotidiane, hanno la mente piena di apprensioni e ben poco tempo per fantasticare sul dove vadano le anatre d’inverno.

Ma non sempre. Io, per mia fortuna, non ho smesso di cercarle ogni tanto, quelle maledette anatre …

Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzi che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia. 
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Lo so che è una pazzia. Lo so benissimo anch’io, come so che Holden è sostanzialmente un inconcludente, uno che attende che il mondo gli passi accanto per afferrarne qualche brandello, senza avere la benché minima idea di cosa realizzare nella vita.

Ma come si fa a resistere all’assurda e poetica immagine che va a scovare per descrivere il mestiere che vorrebbe fare, un mestiere unico nel suo genere: l’acchiappatore nella segale, colui che trattiene i bambini che corrono nella direzione sbagliata, verso il dirupo. Ci sono degli innocenti, inconsapevoli del pericolo che sta loro davanti, più fragili ancora del protagonista (che è tutto dire). E lui fa la differenza, con un gesto semplice ma decisivo, perché comprende quale possa essere la deriva, e agisce.

Lo fa a suo modo, acchiappandoli prima che la voragine delle scelte di vita sbagliate li inghiotta. Ai bambini offre una seconda possibilità, una differente visione di sé stessi e della situazione in cui si stanno cacciando. Ammette anche i suoi limiti, quando afferma appunto “Lo so che è una pazzia”. Sa che nessuna altra opportunità potrà salvarli, senza una volontà di cambiamento da parte loro.

Esistono ancora acchiappatori capaci di suggerire una visione difforme del comune pensiero? Lo spero tanto, perché altrimenti la segale che abbiamo davanti agli occhi ci impedirà di vedere il burrone verso cui ci dirigiamo.

Io intanto mi piazzo in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco


Collezione di licheni bottone

L’educazione di Gertrude

L’educazione al femminile: Tre conversazioni

di Paolo Repetto, aprile 2010

A metà del IX capitolo de I promessi sposi, mentre si accinge a descrivere l’incontro tra Lucia e la monaca di Monza, Manzoni introduce una digressione storica, attraverso la quale illumina il lettore sul passato e sulla personalità della seconda e gli fornisce le chiavi per interpretare la diversa disposizione delle due donne nel colloquio. Come accade per la presentazione storica di altri personaggi, dall’Innominato a Carlo Borromeo, la digressione s’inserisce perfettamente nel contesto della vicenda, senza appesantirla, e guadagna alla narrazione quella veridicità e quella fondatezza storica che tanto stavano a cuore all’autore. La drammaticità del caso ha poi ritagliato alla figura della monaca di Monza un posto di primo piano nell’interesse dei lettori, dei critici e degli storici che hanno approfondito lo studio delle sue sventure: ma questo con ogni probabilità non rientrava negli intenti del romanziere, al quale Gertrude serviva invece, più che come elemento di tensione drammatica, come fattore di contrasto, da opporre all’immagine di Lucia per far risaltare le virtù positive di quest’ultima.

Gertrude personifica al femminile una delle tre possibilità che sono date all’uomo: la grazia, il peccato, l’ignavia. Per carattere è esclusa dalla terza scelta: ha il carattere di una protagonista, non di una comparsa. Le rimangono solo le prime due, e lei sceglie il peccato. Potrebbe anche sembrare che Manzoni, attribuendole una personalità dominante, l’abbia voluta escludere a priori dal numero dei giusti, di quegli umili che ha eletto a protagonisti, destinandola alla malvagità e non concedendole alternative. Ma le cose non stanno così. Altre personalità forti compaiono nel romanzo, come l’Innominato e Carlo Borromeo, ma scelgono la via del bene, mentre ad optare per il male sono i deboli di spirito, i prepotenti alla Don Rodrigo.

Nel caso di Gertrude Manzoni sembra tenere un atteggiamento più complesso. La donna è una “sventurata”, che arriva a macchiarsi dei peggiori delitti in un crescendo di infamia e di protervia; ma c’è, all’origine di questo traviamento, qualcosa che non dipende da lei, qualcosa che se non la giustifica (perché avrebbe anche potuto scegliere il sacrificio in umiltà) ci aiuta almeno a comprenderla e ad averne compassione: c’è la violenza, ora subdola e insinuante, ora palese, che ha caratterizzato la sua educazione. Le motivazioni che inducono l’autore a soffermarsi sui particolari dell’infanzia e dell’educazione di Gertrude sono diverse.

In primo luogo c’è una necessità narrativa. Se il personaggio fosse stato ripescato dalla storia ed introdotto nel romanzo sulla sola scorta degli atti del processo il suo ruolo non avrebbe potuto andare oltre quello dell’ospite speciale, del pretesto per conferire una patina di storicità alla vicenda. Manzoni vuole invece presentare al lettore non una figurina storica, ma una donna a tutto tondo, con la sua passionalità, i suoi difetti, le sue disperazioni, da mettere a confronto con Lucia. Deve pertanto ricostruire, seguendo il suo ferreo criterio di verosimiglianza, la formazione della personalità di Gertrude, portare per mano il lettore a capire chi c’è veramente dietro quella grata e cosa la spingerà a comportarsi come si comporterà nei confronti della stessa Lucia.

In secondo luogo c’è il particolare interesse di Manzoni per il problema dell’educazione, che va ben oltre lo specifico della vicenda e che è testimoniato da vari interventi, in diverse fasi della sua vita (il più famoso rimane la Lettera a Ruggero Bonghi). Per ricostruire l’atmosfera e i modelli educativi in vigore nella famiglia di Gertrude l’autore non ha dovuto fare grandi sforzi di fantasia, perché quell’atmosfera e quei modelli erano ancora presenti nella sua epoca, ed egli stesso li aveva conosciuti sia nella casa paterna sia nei collegi ecclesiastici ai quali era stato affidato durante l’infanzia. Come accade per il. problema politico, anche in questo caso Manzoni parla al passalo ma si riferisce al presente.

C’è poi una motivazione etica. La vicenda della monaca di Monza e delle infamie che si consumano dietro le mura di un convento, di un luogo sacro, mette il dito su una piaga, quella delle vocazioni non sincere, e più in generale dell’ipocrisia che si nasconde troppo spesso dietro l’ufficialità della professione cristiana. Per un neo convertito come Manzoni, per di più arrivato alla fede cattolica attraverso la frequentazione giansenista e calvinista, nessun compromesso è tollerabile nella pratica della fede; e meno che mai è accettabile che la copertura religiosa sia utilizzata al fine di una meschina autodifesa (don Abbondio) o per abusare del potere che conferisce (Gertrude).

Nel racconto dell’educazione e della forzata monacatura di Gertrude è implicita la denuncia di un costume corrente e la richiesta di una riforma dello stesso.

Manzoni risponde infine, a modo suo, al richiamo di una tradizione letteraria ormai consolidata e destinata a conoscere grande fortuna nella letteratura romantica: quella dell’infanzia perseguitata o sventurata, in generale, e nello specifico quella del difficile o crudele destino delle fanciulle. A quest’ultimo tema e a quello dell’educazione sono dedicate le prime due parti di questo lavoro, mentre alla terza è riservato l’approfondimento delle motivazioni etiche e letterarie della pagina manzoniana. La forma di condizionamento che abbiamo definito “educazione” e che è operata nei confronti di Gertrude ha conosciuto nel corso della storia un’eccezionale continuità. Sono cambiate le forme della religiosità e della politica, le modalità espressive della cultura, i costumi, le idee, un po’ tutto insomma ciò che concerne i rapporti tra gli uomini, ma le finalità e i principi ispiratori dell’educazione al “ruolo femminile” sembrano essere rimasti sostanzialmente gli stessi. I1 primo di questi principi è che in fondo alla donna un’istruzione ampia e diversificata non serva.

Lo sostenevano già i filosofi e i letterati del mondo classico, lo hanno ribadito i teologi medievali, i riformatori e i pedagogisti dell’età moderna. Da sempre questa posizione, che è stata via via giustificata dalle teorie o dalle dottrine scientifiche, religiose e sociali più diverse, si fonda tacitamente su una semplice considerazione economica, e cioè che l’investimento nell’istruzione di una fanciulla (tanto più in epoche nelle quali l’istruzione ha costi alti e la linea ereditaria è maschile) non è remunerativo per l’economia familiare, poiché le ragazze sono comunque destinate a lasciare la famiglia. All’epoca di Gertrude questo principio continuava in linea di massima ad essere considerato sacrosanto e a riguardare la gran parte dell’universo femminile, senza distinzioni di casta o di ceto; ma con l’Umanesimo e col Protestantesimo, e con la conseguente nascita dello spirito borghese, anche il ruolo della donna cominciava ad essere riconsiderato. Non le era attribuita alcuna autonomia o facoltà di scelta e di decisione, ma era chiamata a collaborare attivamente alla riuscita economica della famiglia: e per metterla in condizione di farlo occorreva coltivarne alcune doti pratiche. Nell’età moderna pertanto il principio è mitigato nel senso che un po’ di istruzione nelle donne non guasta, ma deve essere rigorosamente finalizzata all’economia domestica. Già nella prima metà del ‘500 l’umanista Luis de Vives trattava l’argomento nel De institutiones foeminae Christianae, proponendo la linea educativa che si sarebbe imposta nei secoli successivi, sino ad essere perfettamente sintetizzata da Rousseau, che ne era un convinto sostenitore: “La donna deve imparare molto, ma solo quelle cose che le è utile sapere”. Dove per conoscenze utili si deve intendere quelle che incoraggiano l’obbedienza ai doveri e alle virtù familiari. All’atto pratico queste finalità educative si concretizzarono nell’istituzione di ordini religiosi femminili dediti appunto all’istruzione “mirata” delle fanciulle, dalle Orsoline alle Madri Pie, nella nascita di scuole specializzate di vario livello, da quelle per le orfanelle ai collegi esclusivi, dove variava molto il trattamento alimentare e disciplinare ma ben poco il tipo di istruzione impartita, e nella proliferazione di manuali e trattati pedagogici che ribadivano tutti lo stesso concetto.

All’epoca in cui Manzoni scriveva qualcosa cominciava a muoversi, almeno ufficialmente, un po’ per effetto dell’Illuminismo, un po’ sotto la spinta di una presenza più attiva, in ruoli da protagoniste, delle donne nella cultura romantica. Per quanto concerne Manzoni stesso, che sotto questo profilo è erede del pensiero illuminista, l’atteggiamento pare piuttosto ambiguo, o perlomeno cauto: da un lato descrivendo l’educazione di Gertrude denuncia una forma di condizionamento inaccettabile, dall’altro sembra propenso a sottoscrivere l’opinione dì Vìves e di Rousseau, pur avendo avuto modo di vivere a contatto con donne molto colte, come la stessa madre Giulia Beccaria o l’amica Sofìe de Condorcet. O forse proprio la figura materna, amatissima ma per nulla corrispondente a quell’ideale di “modestia” che l’autore incarna in Lucia, gli suggerisce la necessità di contenere entro certi limiti l’emancipazione culturale della donna.

E questo ci porta direttamente al secondo principio, quello per cui un eccesso di cultura nella donna risulta addirittura dannoso. Il principio ha una sua giustificazione, potremmo dire storica, dal momento che, in effetti, ogni volta che le donne hanno conquistato o ottenuto un minimo di considerazione sociale, e quindi anche un diverso spazio culturale (con l’avvento del cristianesimo, ad esempio, o con quello della società industriale), le basi del tradizionale dominio maschile sono state scosse, e per rinsaldarle si è dovuto ricorrere alla caccia alle streghe, in modo più o meno cruento. In questo senso dunque l’istruzione femminile risulta pericolosa (per l’ordine tradizionale) in quanto porta la donna a prendere maggiormente coscienza del ruolo subalterno cui è relegata, a non accettarlo e a mettere quindi in pericolo l’intero sistema dei rapporti di forza.

Da ciò conseguono direttamente le finalità tradizionali dell’educazione femminile, che sono quelle di preparare le giovinette essenzialmente e soltanto ai loro ruolo di spose, di madri e di massaie.

Il caso di Gertrude ci porta però a considerare una forma di condizionamento femminile più specifico, legato ad un periodo e ad una società particolari: quella della monacazione forzata. Come spiega con semplicità e chiarezza Manzoni, nelle famiglie aristocratiche le ragazze conoscevano, oltre a quella del matrimonio combinato per interesse, un’altra, forse peggiore, forma di coercizione: il convento. Anche in questo caso valeva una considerazione economica. Per dare in sposa una ragazza la famiglia era costretta a fornirle un’adeguata dote, in denaro o in beni, mentre la soluzione del convento risultava decisamente più economica. Il padre di Gertrude è così determinato a trasmettere intatto il patrimonio familiare al primogenito da imporre l’assunzione dei voti a tutti i figli cadetti, maschi e femmine: tanto più a Gertrude, che è l’ultimogenita. L’educazione della fanciulla è quindi finalizzata, sin dalla nascita, a farle accettare la sua sorte come naturale e senza alternative. Tratteremo più avanti i modi di questo condizionamento; per il momento è sufficiente ricordare che l’imposizione di una scelta claustrale ha continuato ad essere esercitata, nella società occidentale, fino alle soglie della nostra epoca, soprattutto per coprire o cancellare intollerabili perdite dell’onore da parte delle fanciulle e delle famiglie stesse. Ancora oggi, del resto, in molte aree del terzo mondo l’assunzione dei voti religiosi rimane per molte giovani l’unico modo per sfuggire alla miseria e ad una condizione familiare di vera e propria schiavitù.

Si è già sottolineato come la ricostruzione dell’infanzia di Gertrude, pur risultando pienamente verosimile (perché fondata sull’esperienza diretta dello stesso Manzoni e sulla sua conoscenza dei comportamenti sociali e familiari) rappresenti nel contesto dell’intera vicenda la parte più decisamente letteraria, nel senso che è totalmente frutto dell’invenzione narrativa dell’autore. Manzoni aveva tuttavia anche presenti, nello scrivere queste pagine, dei modelli narrativi particolarmente diffusi nel Settecento e nella cultura romantica. Il tema dell’educazione femminile era stato toccato, infatti, da innumerevoli autori, sia nel teatro (Goldoni, Molière, ecc) che nel romanzo (De Foe, Richardson, ecc) da posizioni e con atteggiamenti diversi. In genere, quando la trattazione aveva il senso di una denuncia, ad essere messi in discussione erano i modi, severi ed antiquati, e non la sostanza o la finalità. Erano rappresentate fanciulle soggette ad una disciplina feroce e stupida, e si sottolineavano gli esiti negativi, a volte addirittura tragici, di questa pratica. Nei rari casi in cui venivano raccontate esperienze felici, con genitori illuminati e atmosfere serene, il risultato era comunque la perfetta integrazione della giovane nel suo ruolo domestico: anche perché in fondo a raccontare erano sempre gli uomini.

Manzoni si allinea perfettamente a questa tradizione: ad un’educazione sbagliata e costrittiva corrisponde una pessima monaca, ad una disciplina amorevolmente trasmessa corrisponde Lucia, la perfetta moglie e madre. Le cose si complicano quando cominciano a raccontarsi, in opere dal carattere fortemente autobiografico, le donne stesse. È il caso ad esempio di Charlotte Bronte, che in Jane Eyre rievoca la drammatica esperienza di un sistema educativo capace di spegnere nella donna ogni scintilla di fantasia, di intelligenza e di autonomia. Con le Bronte, con Jane Austen (che non ha raccontato nei suoi romanzi questa esperienza, ma l’ha in parte vissuta, almeno sino a quando il padre, ben diverso dal principe manzoniano, non decise di ritirarla dalla scuola femminile tradizionale e di darle una libera e moderna educazione in casa), con le altre scrittrici che cominciano a fiorire soprattutto in Inghilterra e in Francia nell’età del Romanticismo il tema dell’educazione femminile, collegato a quelli più generali delle pari capacità intellettive della donna e della necessità di modificare i rapporti tra i due sessi, diventa comune. Poco alla volta anche l’atteggiamento maschile comincia ad essere riveduto, come dimostra Thackeray ne La fiera delle vanità, dove è rappresentato il conflitto tra i modelli educativi proposti alle due figlie dal padre, favorevole ad un’educazione libera ed aperta, finalizzata solo a sviluppare l’intelligenza e le capacità, e dalla madre, rimasta legata all’idea che l’unico ruolo femminile sia quello domestico. Meno comune, ma anch’esso frequente, soprattutto nella letteratura d’appendice del secondo Romanticismo, sarà il tema della monacatura forzata. Basti ricordare, tra le opere più significative, la Storia di una capinera di Verga.

Le pagine nelle quali Manzoni racconta il percorso educativo di Gertrude presentano moltissimi motivi di interesse, sia sul piano della tecnica narrativa che su quello della posizione etica dell’autore. Cercheremo di coglierne ed approfondirne alcuni tra i più significativi. Gertrude viene introdotta sulla scena del racconto come la nostra infelice, ne uscirà come la sventurata. In mezzo c’è una storia che il lettore segue già con la consapevolezza che si tratterà di un dramma e già conoscendo, in fondo, la disposizione d’animo dell’autore al riguardo. È una tecnica opposta a quella della narrazione oggettiva, nella quale il narratore finge di conoscere gli sviluppi di una vicenda assieme al lettore. Viene eliminato l’elemento della sorpresa, delle possibilità diverse di sbocco: il lettore viene da subito guidato ad accostarsi alla storia con una particolare disposizione. Sappiamo che Gertrude sarà un’infelice anche prima di sapere per quali motivi, e leggeremo la sua storia preparati a viverne la drammaticità. Manzoni però non si limita ad anticiparci la chiave di lettura della vicenda: ci offre anche gli elementi per interpretare il suo sentimento al riguardo. Nel caso di Gertrude l’autore fa un’eccezione al suo rigorismo morale e sembra ammettere che qualche volta il male non sia solo una scelta, e una responsabilità di chi lo compie, ma quasi un destino. Gertrude non incarna certo le virtù cristiane, ma bisogna ammettere che tutto e tutti, in famiglia come nel convento, sembrano congiurare affinché queste virtù non le conosca nemmeno.

Un altro elemento narrativo importante è costituito dalla figura del padre. È una delle tante sfaccettature attraverso le quali Manzoni dipinge un’unica figura, quella del gentiluomo aristocratico. Ne abbiamo già conosciuti in precedenza altri aspetti: la prepotenza meschina e vile in don Rodrigo, l’impudenza sfacciata nel cugino Attilio, l’arroganza del potere nel Conte zio e quella del rango nell’avversario di Ludovico. Lungo il racconto ne incontreremo altri ancora, come la fossilizzazione intellettuale in don Ferrante, ecc. Il padre di Gertrude vi aggiunge la grettezza e l’aridità dei sentimenti, estesa persino all’istinto più naturale, quello paterno. Non è improbabile che, almeno per certi tratti di questa figura, Manzoni si sia ispirato al carattere del proprio padre, il conte Pietro; ma è un’intera classe sociale, e il suo modo di intendere il prestigio e il potere, ad essere messa sotto accusa.

Uno dei momenti più toccanti della storia giovanile di Gertrude è quello del passaggio dalla condizione di povera innocentina, ignara della sua sorte, alla consapevolezza di dover sottostare ad un obbligo, e al conseguente rifiuto. Gli stati d’animo successivi vengono analizzati magistralmente dall’autore, dall’innocenza alla disperazione, e quindi dall’abbandono al peccato. Nel corso della trasformazione, il progressivo smarrimento di Gertrude è sottolineato dai comportamenti estremi entro i quali ella si dibatte: ora, infatti, invidia le compagne destinate al matrimonio, le odia e cerca di ferirle con cattiverie e sgarbatezze, ora ne ricerca invece la compagnia e il conforto. Quando arriva il momento della prima uscita dal monastero, dopo otto anni di noviziato, ogni sua volontà positiva è definitivamente schiacciata, ma agli occhi del lettore la poverella risulta ormai solo una vittima. Ha tentato di essere sincera, di esporre anche le sue ragioni, e ne ha ricavato solo una gran collera del principe, che le viene comunicata con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione dalla badessa. Non le rimangono alternative all’ipocrisia: “La giovinetta intese, e non osò domandar più in là”.

Per quanto riguarda più strettamente il nostro tema, e cioè l’educazione di Gertrude, è da notare che tra gli argomenti utilizzati dai genitori per indirizzare la fanciulla alla vita monastica non ce n’è alcuno di carattere religioso o morale. Le si parla di prestigio, di potere, del rango e del comportamento più confacente allo stesso, ma mai di possibili gioie dello spirito o di doveri morali. La modestia, l’umiltà, la carità – le virtù richieste ad una buona cristiana e tanto più ad una monaca – non sono nemmeno prese in considerazione. Le cose non cambiano in convento, dove alla bambina viene riservato un trattamento di riguardo che la distingue dalle altre e contribuisce a coltivarne il senso di superiorità, oltre che ad isolarla dalle sue coetanee. La religione”, dice Manzoni, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come mezzo per ottenere una felicità terrena”.

Infine, un’ultima considerazione. Manzoni sottolinea il carattere insinuante e subdolo di questa educazione: “Nessuno non le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentalmente in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri”. A Gertrude vengono dati, già dalla prima infanzia, dei balocchi che la condizionino a ciò che per lei è già stato deciso: bambole vestite da monaca, santini ecc., e persino i complimenti o i rimproveri che le vengono rivolti sono finalizzati ad abituarla al suo ruolo. “Che madre badessa!” è la lode massima per il suo aspetto.

In fondo si ha la sensazione che le cose, per le ragazze, non siano cambiate molto dai tempi di Gertrude. Oggi non si vedono proporre santini, ma sin dai primi anni di vita sono inondate di Barbie, di kit per indossatrici, per creatrici di moda o, nelle famiglie meno ambiziose, per cuoche provette: e poi arrivano i modelli televisivi e cinematografici, quelli dei rotocalchi e tutto l’apparato di persuasione che impone di essere belle e vincenti, simili a questa o a quest’altra. Una pubblicità televisiva recita: “o sei gazzella o sei leone” e sintetizza molto bene quello che in fondo da ogni parte, in famiglia, nelle compagnie, a scuola, sul lavoro, viene loro ogni giorno ripetuto e che il padre di Gertrude, più esplicitamente, esprimeva dicendole: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso”. Quando sarai madre badessa, quando cioè sarai quella che io voglio che tu sia.

 

Contro l’educazione al femminile: le ribelli del Romanticismo

L’educazione al femminile: Tre conversazioni

di Paolo Repetto, aprile 2010

Le opinioni che Manzoni esprime sull’educazione femminile, in positivo e in negativo, attraverso le vicende parallele ed opposte di Gertrude e di Lucia, sono di fatto comuni a tutta la società occidentale della sua epoca. La convinzione di un’inferiorità intellettuale femminile, e quindi dell’inutilità di qualsiasi progetto educativo serio e paritetico, è altrettanto diffusa nel mondo protestante come in quello cattolico, nell’Inghilterra della rivoluzione industriale come nella Francia illuminista e rivoluzionaria, nel Romanticismo tedesco come in quello italiano. Sono innumerevoli gli scrittori contemporanei di Manzoni che manifestano apertamente il loro pregiudizio antifemminista, e l’elenco comprende tutti i maggiori, da Coleridge a Byron e a Keats, da Chateaubriand a Stendhal e ad Hugo: tutti costoro insistono particolarmente sullo pseudo-intellettualismo femminile, e volgono i loro sprezzanti attacchi soprattutto contro le donne colte. Questo atteggiamento rispecchia un modo di pensare senz’altro scontato, che è stato proprio di tutte le classi sociali, e quindi anche di quella intellettuale, in ogni epoca: ma testimonia anche, per l’insistenza sul tema della cultura e per il tenore particolare della polemica, dell’esistenza di qualcosa di nuovo e di come questo qualcosa venga avvertito come elemento di disturbo, o addirittura come un pericolo, per una società maschile fondata su una presunzione di superiorità.

In realtà il dibattito sull’opportunità o meno di un’educazione femminile, o “al femminile”, si è aperto in Europa già da diverso tempo, almeno dall’età della Controriforma. Risale infatti a questo periodo la creazione delle prime congregazioni che avevano come scopo specifico l’educazione femminile, ad esempio le Orsoline, e che formulavano progetti educativi particolari. La novità è costituita, a dire il vero, più dall’attenzione rivolta al problema che dalle soluzioni: il modello proposto è infatti quello dell’educazione alla modestia, alle virtù domestiche, alla sottomissione coniugale. E tuttavia già il fatto che venga riconosciuta l’opportunità, anche per una donna, di un regolare corso di studi, è un elemento di rottura, al quale si aggiunge il fatto che la cultura è un virus difficilmente controllabile, che una volta inoculato, in qualsiasi forma, ha poi sviluppi imprevedibili.

Questi sviluppi cominciano ad essere avvertiti già nel ’600 e provocano reazioni diverse: da un lato c’è infatti l’attacco feroce e sarcastico, quello contenuto ad esempio nella satira di Molière; dall’altro c’è un’attenzione sempre più profonda che porta, ad esempio, Fenelon in Francia e il dottor Johnson in Inghilterra a scrivere specifici trattati sull’educazione femminile, nell’intento di sottrarla al controllo esclusivo della Chiesa e di fare prevalere i caratteri laici, economici e sociali su quelli religiosi. Su quest’ultimo aspetto si concentra ulteriormente il dibattito nell’età illuministica. L’affermazione delle idee di diritto e di uguaglianza tra gli uomini porta alla ribalta il problema della discriminazione sessuale, ma la risposta non viene dai filosofi della ragione, che in sostanza sono tutti concordi nel continuare a considerare quella femminile come una condizione inferiore, o al più di minorità; a sollevare il problema, sono stavolta le donne in prima persona, le donne che cominciano ad essere protagoniste economiche con la rivoluzione industriale e protagoniste politiche con quella francese, e che soprattutto cominciano ad essere protagoniste culturali e a far sentire la propria voce attraverso la letteratura.

Nel 1792 compare in Inghilterra “A vindication of the rights of women” di Mary Wollstonecraft, l’opera che apre ufficialmente il dibattito sulla questione femminile. La Wollstonecraft è sposata con William Goodwin, uno dei precursori dell’anarchismo, e morirà dando alla luce Mary Shelley, l’autrice del famoso Frankenstein. Non è la prima donna a trattare il problema della condizione femminile, che in qualche modo era già stato toccato da alcune scrittrici, soprattutto francesi, nel ’600 e nel 700; ma è la prima che si pone fuori dagli schemi e dai pregiudizi ereditati dell’età medioevale. È aiutata in questo indubbiamente sia dalla condizione familiare, in quanto il marito la incoraggia in questa sua battaglia, sia dal fatto che in Inghilterra esiste una tradizione ormai consolidata di tolleranza. Sì consideri infatti che solo un anno dopo, nel 1793, in pieno periodo rivoluzionario, la francese Marie Olympie de Gouge paga con la vita la sua richiesta alla Convenzione di cancellare la discriminazione sessuale sulle libertà di parola e di voto. Entrambi gli eventi si collocano in un momento di grande trasformazione, quando cioè è ormai acquisito il concetto illuministico di diritto, e in modi diversi, attraverso riforme o rivoluzioni, esso comincia ad essere applicato alla realtà politica e sociale.

Si potrebbe notare in proposito come il problema della condizione femminile torni di attualità ogniqualvolta si producano nella storia dei cambiamenti di grande rilievo: è il caso della rivoluzione filosofica portata da Socrate, successivamente di quella morale prodotta dal Cristianesimo, poi ancora dall’età rinascimentale, dalla rivoluzione Industriale e, per arrivare più vicini a noi, dalla contestazione degli anni sessanta. Ogni volta la questione femminile si ripropone in coda ai movimenti di liberazione sociale, e ogni volta si ripetono, da parte dei diversi sistemi, delle reazioni durissime, che mirano a ricollocare le donne in una posizione subordinata. Possiamo ricordare gli attacchi di Aristofane ne “Le donne in Parlamento”, oppure l’equazione donna-peccato creata dai padri della chiesa, a partire da san Paolo ma soprattutto dal V secolo dopo Cristo; o ancora la satira di Molière contro le donne colte, e la caccia alle streghe promossa dalle diverse chiese. Di questa reazione spesso sono portavoce anche gli stessi propugnatori delle nuove idee di libertà. Nel suo scritto, ad esempio, la Wollstonecraft polemizza con il più democratico degli illuministi, Jean Jacques Rousseau, che nell’Emilio, parlando di educazione al femminile e confrontandola con quella del protagonista, riafferma tutti gli stereotipi sul carattere femminile e quindi sull’inutilità di una educazione libera.

La voce della Wollstonecraft ha in realtà un peso relativo nel dibattito politico della prima metà dell’800, e in effetti la questione femminile comincerà a trovare sbocchi istituzionali concreti solo dopo il 1860. Essa tuttavia corrisponde ad un modo di sentire diffuso, che troverà espressione naturalmente prima nella letteratura che nell’ambito politico. Saranno le scrittrici inglesi e francesi a mettere sotto accusa la subordinazione femminile e di conseguenza l’assenza di ogni progetto educativo che non fosse finalizzato a questa subordinazione. In Inghilterra, in ragione anche dei cambiamenti prodotti dalla rivoluzione industriale nella mentalità corrente, sono moltissime le voci femminili che si levano a chiedere una diversa considerazione della propria potenzialità, delle quali danno testimonianza proprio con le loro opere. Le più importanti tra queste voci sono indubbiamente quelle di Jane Austen, di Charlotte Bronte e di Elizabeth Barrett Browning. Non è un caso che esse appartengano tutte alla prima metà del secolo: nel periodo immediatamente successivo, infatti, il dibattito passa dal piano letterario a quello politico, le questioni dibattute hanno un carattere sempre più pratico (il diritto al voto, il diritto di famiglia, ecc…) e alla letteratura e alla poesia è riservato uno spazio più privato ed intimistico. Non mancano certamente le scrittrici anticonformiste di alto livello, come George Eliot, che adotta non a caso uno pseudonimo maschile, ma per trovare una voce che tratti il tema della condizione femminile in maniera altrettanto rivoluzionaria occorre arrivare a Virginia Woolf.

Tutte e quattro le autrici a cui si fa riferimento hanno una caratteristica in comune, che è paradossalmente quella di aver ricevuto un’educazione non in linea con i modelli previsti per le fanciulle delle loro epoche. Da un lato quindi esse possono essere considerate delle privilegiate, dall’altro questo privilegio lo hanno pagato scontrandosi poi con una società che non era pronta ad accettare donne educate secondo modelli non tradizionali. Proprio questo scontro le ha rese più lucidamente coscienti della forma di repressione esercitata sulla donna già attraverso l’educazione.

Jane Austen viene inviata dal padre in una scuola femminile tradizionale, ma viene poi ritirata quando il genitore si convince che l’istruzione che le viene impartita non ha alcun valore educativo e decide di provvedere personalmente ad aprirle orizzonti più ampi. La Austen è cosciente, oltre che ben felice, dell’eccezionalità sua esperienza educativa, e lo è al punto da coglierne anche gli aspetti negativi. Infatti ironizza sulle conseguenze di un’istruzione che avvenga solo attraverso la letteratura, per quanto libera ed ampia, perché questa induce le donne a pensare solo in termini letterari e a non confrontarsi con la realtà. La protagonista del suo romanzo forse più famoso, Emma, è un esempio concreto di questa deformazione di prospettiva. Educata liberalmente, ma nutrita solo di letteratura, scambia la vita per un romanzo e vorrebbe esserne l’autrice; si impegna quindi a tessere trame amorose e a combinare e a disfare coppie, fino a quando non provvederanno la vita e un suo saggio e paziente spasimante a farle capire le regole del gioco. La Austen sente quindi il disagio dell’assenza di un vero modello educativo al femminile e l’ambiguità di un’educazione magari paritaria, ma fondata su modelli maschili.

Alla protagonista di un altro suo romanzo, The Northanger Abbey, che è una grande lettrice, viene chiesto se legga anche libri di storia, ed ella risponde che lo fa solo per dovere, ogni tanto, perché non parlano di alcunché che la interessi e la coinvolga. Questo non significa che la giovane non ami la storia: non ama una storia che sembra escludere totalmente la presenza femminile e dà importanza solo a quanto è stato realizzato secondo i modelli maschili. In sostanza la Austen ha già intuito, forse più che capito, che la soluzione del problema non sta solo nella parità dei diritti per quanto riguarda l’educazione, come per tutti gli altri aspetti, ma soprattutto nella creazione di eguali opportunità. Anne, la protagonista di Persuasion, a proposito del matrimonio dice: “Non abbiamo altra scelta, trascorriamo il tempo relegate in casa, quietamente, a tormentarci. Voi siete costretti all’attività. Avete una professione, occupazioni e impegni che vi riportano al mondo”. Gusto, stile, capacità di apprendimento, hanno in una donna ben poche occasioni dì manifestarsi. E quando queste occasioni vengono faticosamente conquistate, magari da chi come la Austen vive costantemente tagliata fuori dagli ambienti culturali, il pregiudizio non viene affatto intaccato: cambia solo la forma in cui si esprime.

Se la Austen vive la sua condizione di donna “colpevolmente intelligente dall’alto di una lucida e un po’ distaccata ironia, ben diverso è l’atteggiamento che caratterizza le eroine di Charlotte Bronte. Le protagoniste dei suoi romanzi, prima tra tutte Jane Eyre, non sono né romantiche sognatrici né signorine beneducate che mortificano la loro intelligenza in attesa di un buon partito: sono giovani ribelli, lottatrici determinate a negare ogni condizione di sudditanza femminile, e a farlo prima di tutto attraverso il lavoro e l’emancipazione economica. I capitoli iniziali di Jane Eyre sono tutti all’insegna della rivolta, della formazione di un carattere che si forgia nell’ostinato rifiuto di regole e rapporti inaccettabili e disumani: e questa ribellione prosegue poi nei confronti dell’ambiente del collegio e del tipo di educazione in esso impartito. “Lei sa che il mio scopo, allevando queste ragazze, non è quello di abituarle al lusso e alle comodità, ma di indurle alla fatica, renderle pazienti ed umili”. Magari spingendo le privazioni e i sacrifici tanto avanti da portare le più deboli fino alla morte, e operando una vera e propria selezione in funzione del ruolo futuro già scritto. Questa è la missione della quale il direttore del collegio si sente investito e alla quale partecipano quasi tutte le sue collaboratrici. Ed è a questo progetto che Jane si oppone testardamente, imparando a disciplinare la sua rivolta senza minimamente attenuarne la forza. È significativo che al primo anno della esperienza collegiale, quello della ribellione, delle punizioni e dell’orrore, la Bronte dedichi cinque capitoli e liquidi poi in un paragrafo i successivi otto anni, quelli vissuti come allieva prima e come istitutrice poi in una situazione divenuta più accettabile e, anzi, stimolante. Il fatto è che l’autrice riversa in questa parte iniziale del romanzo le esperienze più drammatiche e più formative della propria biografia. Orfana di madre a soli sei anni, terza di cinque sorelle in una famiglia con un solo figlio maschio, al quale vengono riservati, almeno in un primo momento, tutta l’attenzione e l’impegno educativo del padre, Charlotte vive le situazioni descritte nel romanzo personalmente: le due sorelle maggiori muoiono proprio in conseguenza della durezza della vita di collegio (come l’amata compagna di Jane, Helen Burns) e lei stessa e la sorella minore Emily vengono richiamate a casa dal padre appena in tempo per non subire la stessa sorte. Nella casa paterna essa completa la sua educazione in un’atmosfera di libertà e di vivacità intellettuale straordinaria, caratterizzata da un fertile sodalizio letterario con le sorelle Emily e Anne: ma si ritrova anche a dover assumere responsabilità da capo-famiglia e ad affrontare una situazione economica tutt’altro che florida. Lo fa alla sua maniera, accettando mansioni di governante prima e di istitutrice poi ben poco gratificanti, ma guadagnandosi la vita e l’indipendenza con il lavoro, come le sue eroine.

Nella sua ultima opera, la biografia in versi di Aurora Leigh, Elizabeth Barrett Browning ci presenta invece un caso di “educazione al femminile” che è in netto contrasto con la sua personale esperienza. La vera storia del suo sviluppo intellettuale è infatti rivelata da numerosi saggi autobiografici, alcuni dei quali scritti già durante l’adolescenza. Comincia a “frequentare la poesia” a quattro anni, e a sette già si dedica a “formare il gusto”, oltre che a leggere la storia di Roma, della Grecia e dell’Inghilterra. Studia latino e greco e compone versi in entrambe le lingue, a quattordici anni vede pubblicato (privatamente) il suo primo poema e a diciannove licenzia la sua prima raccolta di poesie. Il tutto avviene sotto l’amorevole quanto tirannico controllo del padre, in un rapporto che ricorda quello di Monaldo e Giacomo Leopardi: come per il poeta di Recanati lo studio e la poesia sono la risposta ad una naturale inclinazione e a scelte culturali che nessuna costrizione può condizionare. Che significato hanno dunque le amare e sferzanti considerazioni di Aurora sulla educazione e sulla condizione femminile, (ins. Lessi molti libri femminili …). La Barrett, come Jane Austen, è perfettamente consapevole della eccezionalità della propria storia, resa ancora più eccezionale dalla fuga d’amore con Robert Browning e dagli anni di “suprema felicità” vissuti con quest’ultimo in Italia. Scrive la biografia di Aurora proprio in quegli anni (il poema è pubblicato nel 1855) nella coscienza che ciò di cui lei ha potuto godere, un’educazione libera e un rapporto affettivo basato sulla stima e sul rispetto reciproco, è – negato alla quasi totalità delle donne. Si potrebbe dire che il fatto di essersi realizzata, come donna e come letterata, invece di farle dimenticare la condizione delle altre, gliela renda ancora meno sopportabile. Sa che il suo successo è dovuto in gran parte al suo temperamento: “Ho un intelletto per natura indipendente, che respinge quella subordinazione d’opinione che in genere si considera un necessario attributo della dolcezza femminile. Ma questo è un argomento sul quale sempre reagirò con energia, perché sento in me una coscienza quasi superba della mia indipendenza […]”.

Ma sa anche che quella “educazione al femminile” che le è stata risparmiata ha sempre avuto la finalità e il potere di spegnere gli spiriti indipendenti e creativi come il suo. “I read a score of books on womanhood / To prove, if women do not think at all, / They may teach thinking (to a maiden aunt / Or else the author), – books that boldly assert / Their right of comprehending husband’s talk / When not too deep, and even of answering / With pretty “may it please you” or “so it is,” – / Their rapid insight and fine aptitude / Particular worth and general missionariness, / As long as they keep quiet by the fire / And never say “no” when the world says “ay”, / For fatal is fatal, – their angelic reach / Of virtue, chiefly used to sit and darn, / And fatten household sinners, – their, in brief, / Potential faculty in everything / Of abdicating power in it: she owned / She liked a woman to be womanly / And English women, she thanked God and sighed / (Some people always.sigh in thanking God), / Were models to the universe. And last / I learnt cross-stitch, because she did not like / To see me wear the night with empty hands / A-doing nothing […]”. (Aurora Leigh, vv 427-449).

E ancora: “By the way, / The works of women are symbolical. / We esw,prick our fingers, dull our sight, / Producing what? A pair of slippers, sir, / To put on when you’re weary – or a stool!” / Or else at best, a cushion, where you lean / And sleep, and dream of something we are not / But would be for your sake. Alas, alas! / This hurts most, this-that, after all, we are paid /The worth of our work, perhaps. In looking down / Thopse years of education (to return) / I wonder if Brinvilliers suffered more / In the water-torture …flood succeding flood / To drench the incapable throat and split the veins…/ Than I did. Certain of your feebler souls / Go out in such a process; many pine / To a sick, inodorous light; my own endured […]”. (Aurora Leight, vv 455-472)

Virginia Woolf definisce Jane Austen e Charlotte Bronte le scrittrici della “età epica della letteratura femminile”. Nel saggio Una stanza tutta per me ne esalta l’indipendenza intellettuale e psicologica e la capacità di resistere ai condizionamenti educativi ed ambientali, anche se non manca di sottolineare quanto entrambe, nei comportamenti pratici, fossero poi figlie della propria epoca. Riconosce dunque l’importanza del loro ruolo, ma vuole andare oltre il significato storico delle loro opere, vuole entrare nel merito del problema artistico. Per la Woolf è importante che le donne abbiano cominciato a far sentire la loro voce: ma è altrettanto importante che imparino a modulare questa voce, in maniera tale da conquistarsi il diritto di essere ascoltate. In altre parole, sono importanti l’inventiva, il coraggio, il talento, anche se non sono sufficienti a creare una grande scrittrice. Ci vuole qualcos’altro, ciò che possiamo definire lo stile. Jane Austen si inventò uno stile perfettamente naturale ed elegante, adeguato alle sue esigenze, e non se ne distaccò mai. Perciò, con meno genio letterario di Charlotte Bronte, ha detto infinitamente di più … Tutte le più antiche forme letterarie erano cristallizzate e fissate, all’epoca in cui (la donna) iniziò a scrivere. Solo il romanzo era abbastanza giovane da essere duttile in mano sua: un’altra ragione forse che ci spiega perché la donna scriveva romanzi. La prima ragione cui la Woolf allude è che le scrittrici da lei prese in considerazione lavoravano in condizioni nelle quali era impossibile una vera concentrazione, in soggiorni comuni o in mezzo a continue interruzioni: e, più in generale che le donne mai hanno avuto uno spazio loro, fisico o economico, che consentisse una vera e propria indipendenza, pratica e intellettuale. La conquista di questa indipendenza (uno spazio tutto per sé ) è la condizione per esprimere tutte le proprie potenzialità; l’altra condizione, subordinata alla prima, è la conquista di uno stile proprio, che consenta di fare della differenza non più un handicap sofferto e da superare, ma un simbolo distintivo, una qualità da rivendicare. La Woolf rappresenta il momento di passaggio alla maturità del femminismo: quello dal diritto alla parità al diritto alla diversità. Ma ritiene che anche la diversità debba esprimersi su un piano comune, quello dell’arte, che nella sua universalità supera ogni barriera e concilia ogni differenza, sessuale, sociale e culturale. L’insistenza della Woolf sullo stile finisce per farle decisamente preferire la moderata Austen alla combattiva Bronte, e per farle amare su tutte la raffinata Barrett Browning, della quale scrive una divertente biografia, raccontata dal punto di vista del cagnolino della poetessa, Flush. Ciò può portare a scorgere nel suo femminismo un certo snobismo aristocratico. In effetti la visione che la Woolf ha della questione femminile è aristocratica: ma non tanto in senso snobistico, quanto per il fatto che la sua idea di realizzazione al femminile non può limitarsi, malgrado l’impegno diretto anche nelle lotte delle suffragette, alla conquista di diritti e di opportunità paritarie. La donna deve aspirare, secondo la Woolf, a qualcosa di più di ciò che spetta per diritto a tutto il genere femminile, e cioè uno spazio tra gli uomini: deve conquistarsi la stanza per sé in quanto individuo, persona singola. E questo non dipende più dal suo sesso o dalla sua condizione. Dipende dalla sua intelligenza.

 

Corinne ed Emma: il sogno e la caduta

L’educazione al femminile: Tre conversazioni

di Paolo Repetto, 1998

All’origine della “letteratura al femminile”, e quindi anche dei mutamenti nel concetto di “educazione al femminile” che si produssero nell’ottocento, si colloca indubbiamente Corinne, di Madame De Stael. Può apparire strano per una lettrice moderna che questo libro abbia esercitato tanta influenza, e non solo all’epoca in cui apparve, ma almeno per tutta la prima metà del XIX secolo, quando già circolavano opere di valore ben diverso come quelle delle Bronte, di Jane Austen e della Barrett Browning. E tuttavia proprio queste autrici, e con loro un’innumerevole schiera di altre letterate o “donne di genio”, sono le prime testimoni del ruolo fondamentale che il mito di Corinne ebbe sul risveglio sociale e letterario dell’“altra metà del cielo”. “Corinne fu nell’ottocento la lettura giovanile di un tipo particolare di fanciulle: le giovinette di intelligenza e talento superiori alla media e provviste dell’ambizione di rendersi celebri fuori della cerchia domestica” (E. Moers) Tutte queste giovinette, al di qua e al di là della Manica, ma anche dell’Atlantico, lo lessero, e tutte ne trassero lo stimolo ad uscire dal ruolo subordinato, intellettuale come sociale e politico, al quale la mentalità del tempo le confinava. Variava, naturalmente, il giudizio sul valore letterario dell’opera, ma era concorde quello sul suo effetto trascinante. Per Elizabeth Barrett Browning “Corinne è un libro immortale, che merita di essere letto settanta volte, cioè una volta l’anno per tutta la vita”; allo stesso modo la pensava Mary Shelley. Ad altre, come la Austen o Charlotte Bronte, una sola lettura era stata più che sufficiente, ma lo consideravano comunque un libro fondamentale.

In effetti la storia di Corinne, al contrario di quelle delle eroine letterarie da lei ispirate, appare oggi del tutto improbabile, e la lettura risulta molto faticosa. La bellissima “poete, écrivain, improvisatrice” entra in scena quando ha già raggiunto il culmine del successo, e addirittura al momento in cui viene incoronata in Campidoglio nel corso di una cerimonia tanto enfatica quanto assurda. Le informazioni sulla sua vita precedente ci vengono fornite attraverso vaghi e confusi flashback, e soprattutto in un finale che rende la vicenda alquanto rocambolesca. Corinne è figlia di un lord inglese e di una nobildonna romana, e proprio in Italia riceve, dopo la morte della madre, la prima educazione. Richiamata in Inghilterra dopo il secondo matrimonio del padre (lei ha quindici anni) soffre un rapporto freddo e ostile con la matrigna, la quale incarna tutta l’aridità e la chiusura nordica, e cerca di soffocare nella giovinetta ogni talento artistico e ogni vitalità “meridionale”. Dopo sei anni di questa prigionia Corinne fugge nuovamente in Italia e qui, non si sa come, perché il libro non ne parla, può dare sfogo alla sua genialità e raggiungere il successo. Non altrettanto felice è la sua carriera sentimentale. Si innamora infatti di un nobile scozzese, sceso nella penisola per il tradizionale Grand Tour, dal quale è inizialmente corrisposta, ma che sceglie alla fine un amore più tranquillo e convenzionale, proprio nella persona della sorellastra di Corinne, Lucile. L’esito della vicenda è poco felice per tutti i protagonisti. Oswald si annoia mortalmente nel matrimonio con Lucile (e non poteva essere diversamente, dopo che ha conosciuto la carica vitale di Corinne). Corinne muore dopo aver visto appassire, in seguito alla delusione amorosa, anche i suoi talenti artistici. La figlia di Oswald e Lucile, e nipote di Corinne, sembra più portata a seguire le orme della zia che i severi insegnamenti della madre, e quindi renderà difficilissima la vita a quest’ultima. Il tutto è condito di innumerevoli complicazioni, scene madri, citazioni classiche, paesaggi descritti alla maniera delle guide turistiche che cominciavano all’epoca ad andare di moda.

Da cosa nasce allora il fascino, il mito di Corinne? Direi più da quello che Corinne rappresenta che da quello che è, come figura letteraria. Nel romanzo sono già condensati tutti i grandi temi del dibattito sulla questione femminile, con la differenza, rispetto a A vindication of rights of women della quasi contemporanea Mary Wollstonecraft, che i problemi sono qui vissuti più sentimentalmente che razionalmente. Intendo dire che mentre nel testo della Wollstonecraft c’è una chiara consapevolezza della condizione femminile globale, e quindi si rivendica una emancipazione generalizzata, che derivi da un cambiamento non solo della mentalità, ma anche delle strutture socio-economiche e delle istituzioni politiche, nel romanzo della De Stael la consapevolezza è individuale, ristretta, e riguarda una condizione particolare, quella della “donna di genio”. Quando Corinna insiste a studiare e a coltivare il suo talento, la matrigna “mi aveva risposto che la donna […](pag. 304).

La soluzione, in questo caso, non sta nella trasformazione della mentalità e delle strutture, ma nel “cambiamento d’aria”: via dalla chiusura e dalle convenzioni delle civiltà più evolute, verso luoghi nei quali l’arretratezza sociale consente in realtà maggiore indipendenza, libertà d’azione e spregiudicatezza – quindi verso l’Italia. È come dire che l’emancipazione è possibile solo a livello individuale, e non forzando la mano al futuro, ma rifugiandosi nel passato (il che coincide perfettamente con l’atteggiamento dei primi romantici nei confronti del progresso e delle rivoluzioni sociali ed economiche di fine settecento).

Altro tema fondamentale è quello della scelta relativa al tipo di realizzazione da perseguire. In altre parole: la realizzazione artistica o culturale e quella sentimentale non possono coesistere, almeno in un mondo come quello in cui vivono Madame de Stael ma anche Jane Austen e Charlotte Bronte (unica eccezione, la Barrett Browning). Non possono coesistere perché il mondo maschile, perfettamente incarnato da Lord Oswald, non è pronto né disponibile ad un confronto paritario, e dalla donna si attende sottomissione e adorazione: può essere momentaneamente affascinato da una personalità femminile forte come da una cosa eccezionale e curiosa, ma non accetta di veder messo in discussione il suo ruolo anche intellettualmente dominante. Di fronte a questo atteggiamento le eroine di tutta la letteratura al femminile, da Corinne in avanti, che pure sembrano aspirare soprattutto al grande amore o alla “felicità” coniugale, in verità non hanno scelta. Sono già condannate dalla loro nuova consapevolezza al fallimento, che si esprime a seconda dei casi nella rinuncia o nella rassegnazione. O si rassegnano a non essere interamente se stesse, e si rifugiano, come Jane Eyre, all’ombra protettiva di un uomo magari non padrone, ma almeno guida indiscussa, o rinunciano come Corinne al sogno amoroso, per difendere una malinconica libertà.

E tuttavia, abbiamo visto che qualche eccezione sembra possibile. Ho già citato il caso della Barrett Browning, che vive anni (pochi, per la verità) di felicità coniugale e assieme di intensa creatività artistica: ma la sua è una situazione un po’ particolare, nel senso che anche all’interno di questa coppia c’è una personalità decisamente dominante, ed è la sua. Ancora più prossima ad una Corinne realizzata appare George Sand, che dopo aver fugacemente interpretati nella prima giovinezza i ruoli convenzionali di moglie e madre sceglie di vivere la realizzazione culturale, e ci riesce benissimo, conciliando il successo con i doveri materni e le passioni amorose con l’arricchimento e lo scambio intellettuale. Tanto la Barrett quanto la Sand diverranno, in modo diverso, figure di riferimento ideali per il mondo letterario femminile: ma ideali significa, per l’appunto, irraggiungibili ed inimitabili.

E le altre? Non mi riferisco alle “donne di genio”, alle aspiranti o affermate scrittrici, attrici, pittrici ecc., delle quali ho parlato sin troppo. Intendo tutte le altre, quelle alle quali la scelta non è nemmeno concessa e che per costrizione o per vocazione si sono accontentate dell’educazione convenzionale, sono state nutrite sin dall’infanzia di doveri, ruoli, modestia, soggezione. Cosa accade quando sono queste altre a non sopportare più il proprio stato? Anche se spiace dirlo, la migliore descrizione di una situazione del genere è offerta da un uomo, Gustave Flaubert, con il suo romanzo Madame Bovary.

All’educazione di Emma Flaubert dedica un intero capitolo. Essa si svolge all’interno di un convento, e si alimenta di letture che nulla hanno a che vedere con Corinna e con le eroine femminili del primo ottocento. Il capitolo sesto inizia proprio con “Emma aveva letto Paolo e Virginia, e aveva sognato la casetta di legno […]”. Più oltre si parla di Lamartine, o delle vite di donne sante, illustri e infelici. Insomma, tutto il repertorio romantico, quello legato al sogno, all’evasione, all’esotismo, digerito nella quiete sonnolenta del convento, e quindi più lentamente e profondamente assimilato. Da una simile intossicazione non si guarisce più: si può accettare momentaneamente la prosaicità della vita con Charles Bovary, magari per fuggire alla noia mortale della vita di campagna, ma si continua ad aspirare alla poesia: “Ma in fondo al cuore aspettava un avvenimento […] ogni mattina, nello svegliarsi, ella sperava per quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, si stupiva che nulla accadesse. Poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava trovarsi all’indomani”.

Emma finisce per non accontentarsi più dell’attesa. Fa in modo che le cose accadano, ogni volta confondendo il suo sogno con la realtà e ogni volta risvegliandosi più disillusa. Tutto nella sua vita viene trasfigurato dalla volontà ostinata di uscire dal pantano, tutto le ricade addosso. Accetta la propria gravidanza come una ulteriore occasione: “Desiderava un figlio: sarebbe stato forte e bruno, e avrebbe avuto nome Giorgio, e anche questa idea di avere un figlio maschio era come la rivincita, in speranza, di tutte le sue impotenze passate. Un uomo, perlomeno, è libero: può errare attraverso passioni e paesi, superare ostacoli, assaporare tutte le più remote felicità. Ma una donna è sempre vincolata, inerte e nello stesso tempo flessibile; una donna si trova di fronte alle mollezze della carne e, contemporaneamente, ai legami della legge. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordone, palpita a tutti i venti; c’è sempre qualche desiderio che la trascina, e qualche convenienza sociale che la trattiene […].

Partorì una domenica, verso le sei del mattino, allo spuntar del sole.

È una femmina! – disse Carlo.

Essa voltò il capo, e svenne” (cap. III, parte II).

Madame Bovary è letto generalmente come il romanzo della “povertà” spirituale della borghesia, che denuncia la mancanza di valori forti e radicati, il vuoto morale, l’ipocrisia e l’adesione a idealità di facciata tipici (secondo uno stereotipo che ha origine nel Romanticismo) di questa classe. Ora, è indubbio che Emma incarni molte delle caratteristiche attribuite alla piccola borghesia, provinciale e velleitaria: ma prima che un simbolo essa è una figura di donna vera, che in qualche modo cerca di ribellarsi al monotono e inutile scorrere dei giorni e chiede alla vita emozioni, sensazioni e significati più grandi. Il suo fallimento non è determinato solo da una debolezza del carattere, ma anche dalla mancanza di risorse culturali: è frutto di una società (e quindi di un modello educativo) che alla donna non geniale non lascia chance, non concede margini per una realizzazione diversa da quella domestica. Questo, Flaubert non ha bisogno di dirlo esplicitamente: lo dice la storia stessa, che corre verso la catastrofe finale con assoluta naturalezza, come lungo un percorso obbligato.

L’unica, magra consolazione (o forse un avvilimento ancor peggiore) deriva dal fatto che la realizzazione, in verità, non è concessa a nessuno, meno che mai ai rappresentanti del mondo maschile che ruotano attorno ad Emma, dal marito ai seduttori di turno. Tutte le vite che si intrecciano nel romanzo appaiono in fondo meschine, tutti i rapporti sono falsi e convenzionali, non c’è spazio neppure per sogni liberi e autentici, perché anche questi sono modellati sui clichés romanzeschi. Alla fine l’unica che ci muove veramente a compassione è la povera Berte, che finisce a lavorare in filanda, e avrà ancor meno possibilità di sua madre. Tuttavia la compassione va estesa anche alle sue probabili figlie, nipoti e pronipoti, per le quali i sogni saranno moltiplicati dal cinema e dalla televisione, anche se la realtà rimarrà desolatamente la stessa.

 

Misoginia?

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

Se ne discute con Gianni, mentre con calma affrontiamo le prime pendici del Tobbio. L’aria è tiepida, il silenzio incanta la vallata, non è giorno da salita agonistica. Il passo si ritma sui pensieri e sulle parole, ne sottolinea le pause e le improvvise accelerazioni. Il tema è lo stesso che ritorna, con sospetta insistenza, negli ultimi nostri incontri, a testimonianza del disagio che entrambi stiamo vivendo. Si parla delle donne e dell’amicizia, della possibilità o meno di far convivere le due cose, e di come e quanto influisca la presenza femminile sulle modalità della socializzazione. L’impressione comune di partenza è che sodalizi esclusivamente maschili riescano più costruttivi, e inducano a rapportarsi a livelli più alti, rispetto a quelli misti. È una constatazione che nasce dall’esperienza di periodiche sedute conviviali. Ci siamo resi conto che ogniqualvolta sono state aperte alla presenza femminile il discorso non ha decollato, o ha volato comunque basso. Potendo tranquillamente escludere che ciò sia dipeso dalla “qualità” della presenza stessa, è da ritenere che abbiano avuto una funzione inibitoria nei confronti di tutto il gruppo i legami affettivi esistenti tra alcuni dei suoi componenti: ma probabilmente c’è qualcosa di più, qualcosa che non ha a che vedere con la contingenza specifica delle relazioni. Ed è infatti su questa tesi che conveniamo.

L’ipotesi è che esista un livello di solidarietà e di sintonia attingibile solo in sistemi relazionali unisessuali: e che ciò accada perché all’interno di tali sistemi ciascuno dei soggetti risulta più libero. Nessuno infatti, in una situazione almeno teoricamente paritaria, è indotto a farsi carico di un supplemento di responsabilizzazione, come invece automaticamente accade quando il rapporto coinvolge persone dell’altro sesso (e questo vale sia quando esista un coinvolgimento affettivo vero e proprio, sia a livello di semplice amicizia intersessuale). Sappiamo benissimo che si tratta di una generalizzazione, e che spesso la dinamica del rapporto si inverte. Sappiamo anche che questo atteggiamento nasce da un equivoco di fondo, da una presunzione di superiorità maschile e dal conseguente ruolo protettivo del quale il maschio si sente investito. Sappiamo tutto. Sta di fatto, però, che questo retaggio storico, a dispetto di ogni liberazione ed emancipazione, è divenuto un dato psicologico consolidato: e lo è, checché se ne dica, per entrambe le parti. Inoltre è abbastanza naturale che in situazioni di sodalizio intersessuale si creino complicazioni, intrecci, vincoli binari. Se la sintonia con un sodale di sesso opposto è perfetta, questa percezione si traduce prima o poi in un sentimento affettivo, che pur non sfociando necessariamente in un legame innesca la stessa dinamica. Diciamo dunque che in un sistema unisessuale ciascuno è più libero perché deve pensare solo a sé, e che ciò, paradossalmente, invece di creare sistemi difensivi, quali insorgono a salvaguardia dei rapporti di coppia, e tradursi in esasperato egoismo, ingenera una forma superiore di altruismo.

Sono considerazioni banali, ma sono anche le uniche che ci consentono di spiegare da un lato la nostra sensazione di partenza, dall’altro la tendenza ricorrente, che non possiamo fare a meno di riscontrare, soprattutto ai livelli culturali alti, alla costituzione di sodalizi ad orientamento decisamente misogino o alla scelta di legami intellettuali che potremmo definire “omofili”. Queste scelte possono nascere da situazioni obbligate (la difficoltà e la pericolosità implicite in una particolare esperienza, ad esempio le esplorazioni, le azioni militari, ecc…), ma più frequentemente rispondono al bisogno di una sintonia che è avvertita possibile solo là dove sono chiaramente definiti i reciproci spazi di libertà. È possibile anche che questi sodalizi assumano, in determinati casi, una connotazione omosessuale; ma ciò non invalida la verità dell’assunto. Infatti in situazioni del genere l’automatismo della responsabilizzazione aggiuntiva si pone in termini diversi, e quando ciò non accada, quando prevalga cioè la componente omosessuale su quella omofila, si ricade nell’ambito della relazione intersessuale.

A questo punto (e abbiamo ormai guadagnato l’ultimo bastione della direttissima, salito il quale saremo in vista del rifugio) ci sembra opportuno definire meglio l’idea di “spazio di libertà” che abbiamo posto come discrimine tra le due situazioni. A me viene in mente che il modo stesso della nostra ascensione ne costituisce un esempio concreto. Siamo saliti ciascuno col proprio passo, senza preoccuparci dell’altro, e stiamo arrivando in vetta assieme. Gianni ritiene che sia troppo semplificatorio, e che se l’ascensione avesse comportato altri gradi di difficoltà, se per esempio avessimo dovuto arrampicare in cordata, avremmo necessariamente sincronizzato i ritmi. Piuttosto, aggiunge, proprio da quest’ultimo esempio si può trarre un’indicazione più consistente: in tal caso, infatti, la libertà di ciascuno sarebbe quella di esigere dall’altro un determinato comportamento, l’assunzione di eguali responsabilità. Il che, tradotto nelle situazioni da cui aveva preso l’avvio il discorso, significa potersi porre su un piano di eguaglianza che non è riducibile a quella dei diritti, sacrosanta, o delle potenzialità, discutibile o quantomeno ambigua, ma investe le modalità del sentire, l’ottica con la quale si guarda al mondo e al significato della vita. La libertà insomma di parlare la propria lingua e scegliere come interlocutori solo coloro che la capiscono, senza il bisogno di quella traduzione al femminile che, a dispetto di tutta la buona volontà da una parte e dall’altra, finisce comunque per stravolgere o impoverire il significato originario.

E siamo in vetta. Termina la salita, si esaurisce anche il discorso. Di qui si può guardare ora solo in giro, o in basso. Ci accorgiamo, e ce lo diciamo l’un l’altro, contemporaneamente, che una presenza femminile, ora, non ci peserebbe poi più di tanto.