Corinne ed Emma: il sogno e la caduta

L’educazione al femminile: Tre conversazioni

di Paolo Repetto, 1998

All’origine della “letteratura al femminile”, e quindi anche dei mutamenti nel concetto di “educazione al femminile” che si produssero nell’ottocento, si colloca indubbiamente Corinne, di Madame De Stael. Può apparire strano per una lettrice moderna che questo libro abbia esercitato tanta influenza, e non solo all’epoca in cui apparve, ma almeno per tutta la prima metà del XIX secolo, quando già circolavano opere di valore ben diverso come quelle delle Bronte, di Jane Austen e della Barrett Browning. E tuttavia proprio queste autrici, e con loro un’innumerevole schiera di altre letterate o “donne di genio”, sono le prime testimoni del ruolo fondamentale che il mito di Corinne ebbe sul risveglio sociale e letterario dell’“altra metà del cielo”. “Corinne fu nell’ottocento la lettura giovanile di un tipo particolare di fanciulle: le giovinette di intelligenza e talento superiori alla media e provviste dell’ambizione di rendersi celebri fuori della cerchia domestica” (E. Moers) Tutte queste giovinette, al di qua e al di là della Manica, ma anche dell’Atlantico, lo lessero, e tutte ne trassero lo stimolo ad uscire dal ruolo subordinato, intellettuale come sociale e politico, al quale la mentalità del tempo le confinava. Variava, naturalmente, il giudizio sul valore letterario dell’opera, ma era concorde quello sul suo effetto trascinante. Per Elizabeth Barrett Browning “Corinne è un libro immortale, che merita di essere letto settanta volte, cioè una volta l’anno per tutta la vita”; allo stesso modo la pensava Mary Shelley. Ad altre, come la Austen o Charlotte Bronte, una sola lettura era stata più che sufficiente, ma lo consideravano comunque un libro fondamentale.

In effetti la storia di Corinne, al contrario di quelle delle eroine letterarie da lei ispirate, appare oggi del tutto improbabile, e la lettura risulta molto faticosa. La bellissima “poete, écrivain, improvisatrice” entra in scena quando ha già raggiunto il culmine del successo, e addirittura al momento in cui viene incoronata in Campidoglio nel corso di una cerimonia tanto enfatica quanto assurda. Le informazioni sulla sua vita precedente ci vengono fornite attraverso vaghi e confusi flashback, e soprattutto in un finale che rende la vicenda alquanto rocambolesca. Corinne è figlia di un lord inglese e di una nobildonna romana, e proprio in Italia riceve, dopo la morte della madre, la prima educazione. Richiamata in Inghilterra dopo il secondo matrimonio del padre (lei ha quindici anni) soffre un rapporto freddo e ostile con la matrigna, la quale incarna tutta l’aridità e la chiusura nordica, e cerca di soffocare nella giovinetta ogni talento artistico e ogni vitalità “meridionale”. Dopo sei anni di questa prigionia Corinne fugge nuovamente in Italia e qui, non si sa come, perché il libro non ne parla, può dare sfogo alla sua genialità e raggiungere il successo. Non altrettanto felice è la sua carriera sentimentale. Si innamora infatti di un nobile scozzese, sceso nella penisola per il tradizionale Grand Tour, dal quale è inizialmente corrisposta, ma che sceglie alla fine un amore più tranquillo e convenzionale, proprio nella persona della sorellastra di Corinne, Lucile. L’esito della vicenda è poco felice per tutti i protagonisti. Oswald si annoia mortalmente nel matrimonio con Lucile (e non poteva essere diversamente, dopo che ha conosciuto la carica vitale di Corinne). Corinne muore dopo aver visto appassire, in seguito alla delusione amorosa, anche i suoi talenti artistici. La figlia di Oswald e Lucile, e nipote di Corinne, sembra più portata a seguire le orme della zia che i severi insegnamenti della madre, e quindi renderà difficilissima la vita a quest’ultima. Il tutto è condito di innumerevoli complicazioni, scene madri, citazioni classiche, paesaggi descritti alla maniera delle guide turistiche che cominciavano all’epoca ad andare di moda.

Da cosa nasce allora il fascino, il mito di Corinne? Direi più da quello che Corinne rappresenta che da quello che è, come figura letteraria. Nel romanzo sono già condensati tutti i grandi temi del dibattito sulla questione femminile, con la differenza, rispetto a A vindication of rights of women della quasi contemporanea Mary Wollstonecraft, che i problemi sono qui vissuti più sentimentalmente che razionalmente. Intendo dire che mentre nel testo della Wollstonecraft c’è una chiara consapevolezza della condizione femminile globale, e quindi si rivendica una emancipazione generalizzata, che derivi da un cambiamento non solo della mentalità, ma anche delle strutture socio-economiche e delle istituzioni politiche, nel romanzo della De Stael la consapevolezza è individuale, ristretta, e riguarda una condizione particolare, quella della “donna di genio”. Quando Corinna insiste a studiare e a coltivare il suo talento, la matrigna “mi aveva risposto che la donna […](pag. 304).

La soluzione, in questo caso, non sta nella trasformazione della mentalità e delle strutture, ma nel “cambiamento d’aria”: via dalla chiusura e dalle convenzioni delle civiltà più evolute, verso luoghi nei quali l’arretratezza sociale consente in realtà maggiore indipendenza, libertà d’azione e spregiudicatezza – quindi verso l’Italia. È come dire che l’emancipazione è possibile solo a livello individuale, e non forzando la mano al futuro, ma rifugiandosi nel passato (il che coincide perfettamente con l’atteggiamento dei primi romantici nei confronti del progresso e delle rivoluzioni sociali ed economiche di fine settecento).

Altro tema fondamentale è quello della scelta relativa al tipo di realizzazione da perseguire. In altre parole: la realizzazione artistica o culturale e quella sentimentale non possono coesistere, almeno in un mondo come quello in cui vivono Madame de Stael ma anche Jane Austen e Charlotte Bronte (unica eccezione, la Barrett Browning). Non possono coesistere perché il mondo maschile, perfettamente incarnato da Lord Oswald, non è pronto né disponibile ad un confronto paritario, e dalla donna si attende sottomissione e adorazione: può essere momentaneamente affascinato da una personalità femminile forte come da una cosa eccezionale e curiosa, ma non accetta di veder messo in discussione il suo ruolo anche intellettualmente dominante. Di fronte a questo atteggiamento le eroine di tutta la letteratura al femminile, da Corinne in avanti, che pure sembrano aspirare soprattutto al grande amore o alla “felicità” coniugale, in verità non hanno scelta. Sono già condannate dalla loro nuova consapevolezza al fallimento, che si esprime a seconda dei casi nella rinuncia o nella rassegnazione. O si rassegnano a non essere interamente se stesse, e si rifugiano, come Jane Eyre, all’ombra protettiva di un uomo magari non padrone, ma almeno guida indiscussa, o rinunciano come Corinne al sogno amoroso, per difendere una malinconica libertà.

E tuttavia, abbiamo visto che qualche eccezione sembra possibile. Ho già citato il caso della Barrett Browning, che vive anni (pochi, per la verità) di felicità coniugale e assieme di intensa creatività artistica: ma la sua è una situazione un po’ particolare, nel senso che anche all’interno di questa coppia c’è una personalità decisamente dominante, ed è la sua. Ancora più prossima ad una Corinne realizzata appare George Sand, che dopo aver fugacemente interpretati nella prima giovinezza i ruoli convenzionali di moglie e madre sceglie di vivere la realizzazione culturale, e ci riesce benissimo, conciliando il successo con i doveri materni e le passioni amorose con l’arricchimento e lo scambio intellettuale. Tanto la Barrett quanto la Sand diverranno, in modo diverso, figure di riferimento ideali per il mondo letterario femminile: ma ideali significa, per l’appunto, irraggiungibili ed inimitabili.

E le altre? Non mi riferisco alle “donne di genio”, alle aspiranti o affermate scrittrici, attrici, pittrici ecc., delle quali ho parlato sin troppo. Intendo tutte le altre, quelle alle quali la scelta non è nemmeno concessa e che per costrizione o per vocazione si sono accontentate dell’educazione convenzionale, sono state nutrite sin dall’infanzia di doveri, ruoli, modestia, soggezione. Cosa accade quando sono queste altre a non sopportare più il proprio stato? Anche se spiace dirlo, la migliore descrizione di una situazione del genere è offerta da un uomo, Gustave Flaubert, con il suo romanzo Madame Bovary.

All’educazione di Emma Flaubert dedica un intero capitolo. Essa si svolge all’interno di un convento, e si alimenta di letture che nulla hanno a che vedere con Corinna e con le eroine femminili del primo ottocento. Il capitolo sesto inizia proprio con “Emma aveva letto Paolo e Virginia, e aveva sognato la casetta di legno […]”. Più oltre si parla di Lamartine, o delle vite di donne sante, illustri e infelici. Insomma, tutto il repertorio romantico, quello legato al sogno, all’evasione, all’esotismo, digerito nella quiete sonnolenta del convento, e quindi più lentamente e profondamente assimilato. Da una simile intossicazione non si guarisce più: si può accettare momentaneamente la prosaicità della vita con Charles Bovary, magari per fuggire alla noia mortale della vita di campagna, ma si continua ad aspirare alla poesia: “Ma in fondo al cuore aspettava un avvenimento […] ogni mattina, nello svegliarsi, ella sperava per quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, si stupiva che nulla accadesse. Poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava trovarsi all’indomani”.

Emma finisce per non accontentarsi più dell’attesa. Fa in modo che le cose accadano, ogni volta confondendo il suo sogno con la realtà e ogni volta risvegliandosi più disillusa. Tutto nella sua vita viene trasfigurato dalla volontà ostinata di uscire dal pantano, tutto le ricade addosso. Accetta la propria gravidanza come una ulteriore occasione: “Desiderava un figlio: sarebbe stato forte e bruno, e avrebbe avuto nome Giorgio, e anche questa idea di avere un figlio maschio era come la rivincita, in speranza, di tutte le sue impotenze passate. Un uomo, perlomeno, è libero: può errare attraverso passioni e paesi, superare ostacoli, assaporare tutte le più remote felicità. Ma una donna è sempre vincolata, inerte e nello stesso tempo flessibile; una donna si trova di fronte alle mollezze della carne e, contemporaneamente, ai legami della legge. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordone, palpita a tutti i venti; c’è sempre qualche desiderio che la trascina, e qualche convenienza sociale che la trattiene […].

Partorì una domenica, verso le sei del mattino, allo spuntar del sole.

È una femmina! – disse Carlo.

Essa voltò il capo, e svenne” (cap. III, parte II).

Madame Bovary è letto generalmente come il romanzo della “povertà” spirituale della borghesia, che denuncia la mancanza di valori forti e radicati, il vuoto morale, l’ipocrisia e l’adesione a idealità di facciata tipici (secondo uno stereotipo che ha origine nel Romanticismo) di questa classe. Ora, è indubbio che Emma incarni molte delle caratteristiche attribuite alla piccola borghesia, provinciale e velleitaria: ma prima che un simbolo essa è una figura di donna vera, che in qualche modo cerca di ribellarsi al monotono e inutile scorrere dei giorni e chiede alla vita emozioni, sensazioni e significati più grandi. Il suo fallimento non è determinato solo da una debolezza del carattere, ma anche dalla mancanza di risorse culturali: è frutto di una società (e quindi di un modello educativo) che alla donna non geniale non lascia chance, non concede margini per una realizzazione diversa da quella domestica. Questo, Flaubert non ha bisogno di dirlo esplicitamente: lo dice la storia stessa, che corre verso la catastrofe finale con assoluta naturalezza, come lungo un percorso obbligato.

L’unica, magra consolazione (o forse un avvilimento ancor peggiore) deriva dal fatto che la realizzazione, in verità, non è concessa a nessuno, meno che mai ai rappresentanti del mondo maschile che ruotano attorno ad Emma, dal marito ai seduttori di turno. Tutte le vite che si intrecciano nel romanzo appaiono in fondo meschine, tutti i rapporti sono falsi e convenzionali, non c’è spazio neppure per sogni liberi e autentici, perché anche questi sono modellati sui clichés romanzeschi. Alla fine l’unica che ci muove veramente a compassione è la povera Berte, che finisce a lavorare in filanda, e avrà ancor meno possibilità di sua madre. Tuttavia la compassione va estesa anche alle sue probabili figlie, nipoti e pronipoti, per le quali i sogni saranno moltiplicati dal cinema e dalla televisione, anche se la realtà rimarrà desolatamente la stessa.

 

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