Naufragi con telespettatori

di Paolo Repetto, 5 novembre 2022

Suave, mari magno turbantibus Aequora Ventis
e terra magnum alterius spectare Laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse Malis Careas quia cernere suavest.

(È dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le acque,
guardare dalla terra la grande fatica di un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia immune.)

La metafora con la quale Lucrezio apre il secondo libro del De rerum natura ha conosciuto una grande fortuna, ed è arrivata a noi con un lungo viaggio attraverso la letteratura (ricordo solo Ariosto e Benjamin, ma quanto a naufragi – i propri – anche Leopardi non scherza), l’arte (ad esempio, “Il Naufragio” di Turner, “Tempesta a Belle-Ile” di Monet, “La grande Onda” di Hokusai), la musica (“La tempesta di mare” di Vivaldi, il primo atto dell’Otello di Verdi, ecc.). In realtà non era tutta farina del sacco di Lucrezio: il suo contemporaneo – e curatore editoriale – Cicerone accenna ad una immagine simile che compariva in una tragedia perduta di Sofocle, anche se il senso non era esattamente lo stesso. Il frammento di Sofocle infatti dice: “Oh quale maggiore piacere può esservi che, toccata la terraferma e sotto un tetto, udire con i sensi assopiti cadere fitta la pioggia”. Lo stesso vale per un paio di versi superstiti del semisconosciuto Archippo: “Com’è dolce guardare il mare dalla terra, non dovendo navigare”. La versione circolante in Grecia già cinque secoli prima è dunque in apparenza meno insensibile alle sofferenze altrui di quella di Lucrezio (in apparenza, perché il poeta latino non voleva affatto esprimere un atteggiamento di egoistica indifferenza): là il naufragio non era neppure nominato, forse per scaramanzia, e comunque a incombere, a costituire una malaugurata possibilità era quello proprio, non l’altrui. Cicerone, che non a caso era un avvocato, portato alle interpretazioni più maliziose, scrive invece (ad Attico) “Desidero contemplare da terra il naufragio di costoro, come disse il tuo amico Sofocle”, chiamando Sofocle a testimoniare e ad avallare con la sua autorevolezza un pensiero che era in realtà molto più prossimo al detto confuciano “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”.

A me interessa però, al di là delle interpretazioni, l’attualità di quella immagine, che oggi non è più soltanto metaforica. Siamo infatti quotidianamente spettatori, stando al riparo di un tetto e seduti su un comodo divano, di naufragi reali o di altri accidenti che ai naufragi sono apparentabili, sia la natura o siano gli uomini a provocarli: ma lo facciamo con atteggiamento sofocleo, questo si, coi sensi assopiti, intorpiditi dal profluvio di altrui disgrazie che ci viene riversato addosso. E siamo ormai talmente assuefatti da non accorgerci che in mezzo al mare in tempesta ci siamo anche noi, sballottati qua e là dalla potenza della tecnica e più ancora da quella del capitale, e contemporaneamente incapaci di distogliere lo sguardo dal teleschermo, di guardarci attorno senza farci irretire da ogni sorta di illusionisti. Come gli spettatori pirandelliani siamo direttamente coinvolti nella vicenda, ma non abbiamo la minima idea della parte che stiamo recitando.

Naufragi con telespettatori 02

A giocare con le metafore ci si prende gusto: e allora vado fino in fondo. Ce n’è appunto una sulla vita come teatro che a mio giudizio rende a pennello la nostra situazione, ed è riportata da Kierkegaard in Enter-Eller: “In un teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco”.

È un’immagine perfetta: il mondo che va a fuoco, l’umanità spettatrice che pensa sia una barzelletta, il giornalista-clown che ha talmente abituato gli spettatori al falso o all’inutile da non essere più preso sul serio. (Kierkegaard ce l’aveva a morte coi giornalisti. Scriveva anche: “Se Cristo venisse oggi sulla terra, com’è vero che io vivo, non prenderebbe di mira i sommi sacerdoti, ecc. – ma i giornalisti …”. Aveva capito tutto).

Ma torniamo alla metafora di Lucrezio. In effetti il suo atteggiamento un po’ egoistico lo è: come dice lui stesso, le disgrazie altrui non sono affatto piacevoli, ma ti danno un’idea di quel che ti stai scansando. E questo probabilmente, ai suoi tempi, un po’ di consolazione l’arrecava. Oggi però è molto più difficile pensarci immuni da qualsivoglia pericolo: lo abbiamo già constatato sulla nostra pelle con la recente pandemia, ne abbiamo la riprova oggi con la guerra che è tornata a giocarsi alle porte di casa nostra, cominciamo persino ad accorgerci che i problemi ambientali e i cambiamenti climatici ci toccano tutti indifferentemente. E tuttavia, anche di fronte a quelli che non sono più solo segnali, ma realtà che incidono profondamente sulla nostra esistenza, sembra che la consapevolezza del nostro coinvolgimento sia ancora ben lontana. Ci pensiamo ancora spettatori sulla riva e tiriamo un sospiro di sollievo, come se il carico di disgrazie elargite dagli dei agli uomini rispettasse delle quote fisse, e a noi fosse risparmiato ciò che cade sugli altri.

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Nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri Susan Sontag cita un piccolo saggio in forma di lettera pubblicato nel 1938 da Virginia Wolf, Le tre ghinee. In questo saggio la Woolf faceva riferimento alle immagini che testimoniavano la distruzione fisica e la carneficina disumana provocate dalla guerra civile spagnola, immagini che le venivano recapitate dal fronte repubblicano quasi quotidianamente. Secondo la Woolf “la macchina bellica ha un genere sessuale”, e quel genere è maschile: la guerra è uno sport praticato dai maschi, per cui la scrittrice confessava di sentirsi quasi impotente. Ma evocando la condivisione delle stesse terribili immagini – “stiamo guardando insieme gli stessi corpi privi di vita, le stesse case in macerie” – riteneva che queste fossero talmente scioccanti da affratellare le persone di buona volontà, da far loro superare ogni divario di genere relativo alla guerra e alla violenza. Credeva insomma che venire a contatto col dolore, sia pure attraverso la sua rappresentazione, non potesse lasciare indifferente nessuno.

La Sontag, che ha scritto il suo libro nel 2003, sessantacinque anni dopo quello della Woolf – sessantacinque anni che hanno visto una guerra mondiale e un continuum interrotto di conflitti locali, guerre civili, azioni terroristiche, a bassa intensità ma ad altissimo numero di vittime – va oltre la diversa percezione di quelle immagini secondo l’angolatura di genere. Il problema sta per lei ancora a monte. Intanto, si chiede, cosa ci motiva veramente a ritrarre la sofferenza e l’orrore? E quali sentimenti suscita nello spettatore la loro “riproduzione”? E quest’ultima è poi davvero possibile, senza che nel trasferimento all’immagine vada persa la verità terribile di quanto è rappresentato? E ancora, come evitare che si crei l’assuefazione, o peggio, un morboso compiacimento davanti a queste rappresentazioni? Il fatto è, dice Sontag, che da una immagine di guerra siamo toccati, ma non ci sentiamo mai direttamente coinvolti: non ci sentiamo investiti di una responsabilità diretta. E al di là del livello di coinvolgimento, l’interpretazione delle immagini diventa una questione soggettiva, e stante la molteplicità degli usi cui esse possono essere piegate diventa anche un atto politico. Tanto più nell’epoca dei social network, nella quale la loro diffusione è sterminata e incontrollata.

Con tutto ciò, scrive la Sontag, le raffigurazioni “indecenti” della sofferenza e della morte violenta hanno un valore pari a quello dell’esperienza diretta. Sono testimonianze che non potremmo acquisire in alcun altro modo, e quindi, a dispetto anche degli effetti di saturazione che il loro moltiplicarsi produce, conservano un forte valore etico.

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Mi verrebbe spontaneo non essere d’accordo, perché sto pensando all’uso spregiudicato, per non dire turpe, che viene fatto nelle pubblicità televisive delle immagini di bambini denutriti, svantaggiati, malati: ma poi devo ammettere che persino quelle, malgrado il loro intento di creare sensi di colpa da tacitare con le donazioni sia così spudoratamente scoperto, e a dispetto del fastidio col quale le respingiamo, un qualche effetto lo producono: la sofferenza di un altro, la pioggia fitta che cade là fuori, alla fine nel profondo ci toccano.

Perché però allora rimaniamo seduti sul divano, ipnotizzati dal teleschermo, sforzandoci di credere che la distanza di quelle immagini ci garantisca per il momento un po’ di sicurezza (solo qualche anno ancora, per gli anziani come me), o fingendo di accettare fatalisticamente la perdita di ogni disegno per il futuro?

Lo lascio spiegare con un’altra metafora da Hans Blumernberg, l’autore di Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza (dal quale ho evidentemente saccheggiato il titolo di questo intervento e gran parte delle citazioni iniziali). È una prosecuzione e un adattamento all’oggi di quella da cui sono partito.

Quello di Lucrezio è per Blumernberg uno dei due possibili atteggiamenti di fronte al gioco ciclico, incessante e imperscrutabile, della creazione e della distruzione della natura. È l’atteggiamento epicureo di chi dall’alto della sua superiore conoscenza può guardare con distacco agli affanni e i turbamenti altrui, e non esserne travolto.

Il fatto è che ormai ci troviamo a vivere in un’epoca nella quale le rotte salvifiche delle ideologie e delle religioni e i porti sicuri delle filosofie cui approdare sono scomparsi dalle mappe. Oggi annaspiamo costantemente in un mare in tempesta, la nave non regge e dal naufragio possiamo salvarci solo aggrappandoci a una tavola. Per Blumenberg dobbiamo quindi “farci una nave con i resti del naufragio” (è anche il titolo di un capitolo del libro): il tavolame che abbiamo a disposizione è costituito solo dalla scienza: “Si deve costantemente tener conto che si è alla deriva; da lungo tempo non è più questione di navigazione e di rotta, dello sbarco e del porto. Il naufragio ha perduto la sua azione-quadro. Ciò che deve essere detto è: la scienza non fornisce quello che i desideri e le pretese avevano tradotto in aspettative ad essa rivolte; ma quella che essa fornisce, non può essere essenzialmente superato e basta alle esigenze della conservazione della vita. […] Con la teoria della selezione naturale Darwin avrebbe offerto la possibilità, perlomeno di aggirare l’ipotesi di un finalismo immanente della creazione organica. […] La tavola è il massimo che si può pretendere dalla situazione di autoiniziativa immanente dell’uomo tramite la scienza”. (Naufragio con spettatore, pp. 105-06)

A pensarci bene, prescindendo naturalmente da Darwin, non è poi molto diverso da quanto diceva Lucrezio. Per il quale, tra l’altro, già dalla nascita l’uomo si ritrova nella condizione del naufrago: “il bambino, come un naufrago gettato a riva dalle onde infuriate, giace in terra nudo” (De Rerum Natura, V vv. 222 ss) e tutte le forme della natura possono essere paragonate a rottami scagliati sulla riva (“ma – come, quando sono avvenuti molti e grandi naufragi,/ il vasto mare suole gettare qua e là banchi, costole di nave,/antenne, prore, alberi e remi galleggianti,/sì che lungo tutte le spiagge si vedono fluttuare/aplustri e dare ai mortali ammonimento/a volere evitare le insidie del mare infido/ e le violenze e il suo inganno, e a non credergli mai”, De Rerum Natura, II vv. 550 ss)

D’altro canto, a mio parere nemmeno Lucrezio conserva sino in fondo l’imperturbabilità del saggio epicureo: il fatto stesso di scrivere un libro a carattere scientifico-divulgativo implica che sia impegnato a fare luce sul destino dell’uomo, e a farne partecipi gli altri. Insomma, non si trasforma da spettatore in protagonista, ma dimostra che anche chi contempla la realtà non può esimersi dal viverla in prima persona. “La ragione può fare dell’uomo lo spettatore di ciò che egli stesso patisce, facendo sì che domini da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso” scriveva Schopenhauer. E Lucrezio in effetti può essere considerato a pieno titolo un poeta della ragione, perché ritiene che attraverso la ragione l’uomo sia in grado di lottare contro il caso e di farsi artefice del suo destino. A dispetto di tutto il suo distacco, “sente” di non essere al sicuro, ma di viaggiare sulla stessa barca con gli altri. E allora, proprio perché “Si salva, probabilmente, non chi contempla la rovina altrui, ma chi soffre e spera insieme agli altri, chi considera fattivamente gli uomini non come individui lontani e indifferenti, bensì come prossimi e fratelli” il suo atteggiamento sfuma nella seconda possibilità, quella di mettersi per mare e di prendere parte emotivamente ed empaticamente alla navigazione.

Mi chiedo solo adesso perché mai mi sono messo a scrivere queste cose. Non era un argomento che urgesse. Ma a volte mi prendono delle strane malinconie. In questo caso è un cerchio che si chiude. In una noterella buttata giù almeno quarant’anni fa, concernente la “genialità”, affermavo che la caratteristica che distingue il genio è la capacità di dire: “Ma cosa volete da me?” É una caratteristica che non ho mai posseduta, e infatti non sono un genio. In tutto questo tempo non ho cambiato idea, e ho anche consolidato la convinzione che la qualità cui davvero ho sempre aspirato, l’ironia, non ha niente a che fare con il genio. Nessuno è meno ironico (e soprattutto, autoironico) di un genio, così come io sono ben lontano dall’atarassia epicurea. Eppure, continuo a pensare che persino Lucrezio, che indubbiamente un genio lo era, non fosse poi così distaccato ed egoista. Ci ha lasciato in dono un’opera che è un capolavoro, ma soprattutto è la tavola giusta cui aggrapparsi: e questo è più che sufficiente a farmelo sentire vicino.

Antigone e la confraternita degli opliti

di Paolo Repetto, 23 gennaio 2021

Nell’intervento “Dalla parte di Creonte“ Nicola Parodi ha attualizzato, trasponendoli nella realtà odierna, due momenti di quello che potremmo definire l’esordio del “modello occidentale”: la vicenda di Antigone, emblematica per molti aspetti della esclusione di genere, e la nascita della “morale oplitica”, con le sue risultanze “democratiche”. A suo tempo anch’io avevo affrontato, ne “La vera storia della guerra di Troia“, gli stessi argomenti, sia pure trattati solo nel contesto originario, e ho pensato che potrebbe essere utile riproporre in questa occasione, a supporto delle considerazioni di Nicola, un paio di stralci da quello studio. Potrà apparire un gesto di scarsa eleganza, smaccatamente autoreferenziale, visto che sarebbe stato sufficiente il link che rimanda a quello scritto: ma non mi importa affatto. La realtà è che mi fido poco della memoria di chi mi legge e meno ancora che delle semplificazioni tecnologiche per risvegliarla. Inoltre, oggettivamente, le pagine che riporto sono disperse in mezzo ad altre centocinquanta, e queste ad un mio ipotetico e pigro lettore mi sento in dovere di risparmiarle.

Ecco dunque i due brani estrapolati. Magari potranno spingere qualcuno a leggere anche il resto.

Il cittadino-combattente (pag. 52-53)

Con la crescita demografica successiva al VII secolo la fame di terra moltiplica gli attriti. Le scaramucce tra villaggi diventano ora vere e proprie campagne belliche e coinvolgono un numero sempre maggiore di combattenti. Da locali i conflitti diventano regionali. Le bande lasciano il posto agli eserciti, e per forza di cose il nucleo di questi ultimi non è più costituito dalla cavalleria, ma dalle falangi degli opliti. L’evoluzione delle tecniche militari consente la partecipazione attiva alle guerre anche a coloro che possono disporre solo di un armamento semplice: una cerchia sociale molto più ampia si trova quindi ad essere protagonista nei conflitti e chiede quale contropartita di diventare tale anche nei momenti decisionali. I privilegi della aristocrazia dei cavalieri sono sempre meno accetti, mentre si fa strada una concezione più “democratica” delle prerogative politiche. Se ne ha già un accenno, sia pure in termini totalmente spregiativi, con la vicenda di Tersite nel secondo libro dell’Iliade.

Lo schieramento oplitico comporta una radicale trasformazione delle modalità di combattimento. Le azioni della fanteria sono forzatamente collettive; necessitano di legami molto più forti tra i combattenti, che devono farsi sicurezza l’un l’altro, in un assetto nel quale non trovano più posto l’iniziativa e la virtù del singolo, ma sono fondamentali il coordinamento e l’azione comune. Cambiano quindi anche le virtù richieste al guerriero: lucidità, autocontrollo (la sophrosyne), resistenza e capacità di obbedienza, in luogo dello scatenamento anarchico e indisciplinato. E cambia la percezione stessa del nemico: l’avversario che Aiace conosceva e guardava negli occhi, sia pure prima di ucciderlo, era comunque un individuo, e veniva riconosciuto come tale. L’oplita ha di fronte solo una massa indistinta e feroce, che di umano ai suoi occhi conserva ben poco.

Nella prima fase dell’età classica non esistono più grandi differenze tra le diverse aree della penisola. La cittadinanza, tanto in Atene come a Sparta, a Tebe o a Corinto, è riservata a coloro che sono in grado di esercitare l’arte della guerra, ovvero di provvedere al proprio armamento e al proprio addestramento: per un lungo periodo (a Sparta sempre) a tutti gli altri, non solo agli schiavi e alle donne, ma anche agli iloti e ai nullatenenti, sono delegati i compiti lavorativi e domestici.

Le tensioni si scaricano però anche al di fuori della penisola, incrementando la diaspora ellenica sia verso occidente, in quella che sarà la Magna Grecia, che verso la sponda asiatica dell’Egeo. I Greci, gli Ioni in particolare, si affidano sempre di più al mare. La vicenda stessa di Troia rievoca già un episodio di colonizzazione oltremare, ma sono soprattutto le peripezie di Odisseo a raccontarci i rischi e i modi di questa vocazione (ereditata peraltro dalla civiltà minoica, e alimentata dal desiderio di sottrarsi al nuovo ordine dorico). Il rapporto col mare diventa, soprattutto per le pòleis costiere, fondamentale, e non solo sul piano economico. Segna profondamente ogni aspetto della mentalità, a partire da quello politico. Lo sguardo rivolto al mare e quello rivolto alla terra sono diversi. Il primo induce a una “desacralizzazione” della natura molto più radicale: “Il mare è natura in un senso differente da quello della terraferma: è estraneo e ostile e come tale richiede, perché lo si possa addomesticare, artifici tecnici, e la nave è l’unico strumento che consente all’uomo di dominare gli sconfinati e pericolosi oceani. Sotto questo profilo la nave è simbolo di movimento, di espansione commerciale e di progresso. La peculiarità del progresso è il fatto di non conoscere alcuna sorta di limite, di ordine, di confine […] Il passo verso un’esistenza puramente marittima provoca, in se stesso e nella sua interna ulteriore consequenzialità, la creazione della tecnica in quanto forza dotata di leggi proprie […] L’incondizionata fede nel progresso è sintomo del passo compiuto verso un esistenza marittima”. (C. Schmitt, Terra e Mare)

Ad Atene l’accentuarsi della vocazione all’imperialismo marittimo radicalizza la “democratizzazione” del potere. All’epoca delle guerre persiane diventa necessario dotarsi di una flotta che almeno in parte riequilibri lo sfavorevole rapporto di forze. Ma la guerra per mare comporta una novità: a combatterla, nei ruoli di marinai e rematori, sono uomini non più tenuti ad armarsi a proprie spese, e in larghissima misura sono i rappresentanti di quel ceto dei non possidenti escluso in precedenza dalla partecipazione politica, che entra ora nelle assemblee e si presta a diventare massa di manovra per i demagoghi.

Le donne in scena (pag. 76-85)

Una situazione pressoché analoga a quella dell’Aiace, con sviluppi e implicazioni molto più articolati, la ritroviamo nell’Antigone, messa in scena da Sofocle pochi anni dopo (442). Anche qui ci sono cadaveri insepolti, anche qui esplode lo scontro tra due concezioni della legge, impersonate da Antigone e Creonte. Antigone è sorella di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che dopo essersi accordati per regnare alternativamente su Tebe un anno ciascuno sono venuti a conflitto (al solito, chi il potere ce l’ha, in questo caso Eteocle, non ci pensa minimamente a mollarlo, in barba ai patti). Polinice ha messo assieme un esercito nel quale spiccano sette grandi guerrieri (sono i famosi Sette contro Tebe di Eschilo, capostipiti di un filone che passando per I sette samurai e I magnifici sette ha costituito un punto fermo del mio immaginario adolescenziale) e ha marciato sulla città, ma ha trovato la morte nell’assalto decisivo, dandola peraltro a sua volta ad Eteocle. Dopo la vicendevole eliminazione dei due fratelli la spedizione si esaurisce e il nuovo re di Tebe è Creonte, il quale come primo provvedimento emana il divieto assoluto di inumare il corpo di Polinice. Vuole che venga lasciato insepolto, in pasto ai cani e agli uccelli, a monito per chiunque, dentro e fuori la città, osasse provare ancora ad attentare all’ordine costituito. Creonte giustifica questo suo provvedimento appellandosi al nòmos, in particolare al nòmos despòtes, alla legge cioè sovrana che governa la pòlis.

Contro questo decreto si ribella Antigone, determinata a dare sepoltura al fratello in contrasto con la legge della pòlis e in nome, invece, di una legge superiore, divina, quella che ha trovato corpo nel diritto consuetudinario proprio del gènos.

Nell’Aiace Ulisse alla fine faceva trionfare il buon senso ed evitava guai peggiori: qui invece le cose finiscono davvero male, anche rispetto ai parametri della tragedia sofoclea. Muore Antigone, che imprigionata si suicida. Muore il fidanzato di lei e figlio di Creonte, Emone, che ne ha trovato il cadavere e volge contro se stesso la spada, dopo aver provato ad ammazzare il padre. Muore infine suicida per il dolore anche la moglie del re, Euridice. Tutto questo dopo che Creonte, sia pur tardivamente, aveva deciso di fare marcia indietro e consentire la sepoltura. Ma a rendere significativa la tragedia non è il finale, quanto piuttosto tutto il dibattito che implica, e che si iscrive appieno nel processo di transizione di cui abbiamo parlato sopra. Si fronteggiano la legge della società e quella della comunità, il diritto “positivo” fondante del moderno e quello eterno, “divino”, universale. A difesa di quest’ultimo non si mobilita però alcuna divinità. Anche in questo caso gli dei brillano per la loro assenza. Sono stati ormai interiorizzati e parlano per voce del coro.

Sotto il profilo umano Sofocle parteggia in maniera sfacciata per Antigone, dandoci di Creonte l’immagine di un despota stolido e sospettoso, che legge in chiave di dissenso politico ogni richiamo all’umanità o alle ragioni del cuore (il dialogo col figlio è da manuale). Anche verso la fine, nel colloquio con l’indovino Tiresia, il re non è affatto scosso dalle accuse che gli vengono mosse (“e un altro invece, che appartiene agli Inferi,/ qui senza tomba e senza onor lo tieni,/ cadavere nefando; e tal diritto/ non appartiene a te, non ai Celesti/ d’Olimpo; e pure, è tuo questo sopruso”), ma solo dal vaticinio neppur troppo velato delle disgrazie che si va attirando: “E l’Erinni dei Numi e dell’Averno/ t’agguatano perciò, vendicatrici,/ sterminatrici, perché tu procomba/ nei medesimi mali”).

Trasportati nello scenario precedente, Creonte sosterrebbe le ragioni di Menelao, Antigone quelle di Teucro, ma con gli argomenti di Odisseo. In realtà, però, sul filo del diritto una qualche ragione viene riconosciuta anche a Creonte: quando afferma ad esempio che i giusti non possono ottenere gli stessi onori dei criminali, e che i vincoli di sangue con Antigone, che è tra l’altro sua nipote, non devono indurlo a fare eccezioni alla legge. Quello che gli viene rimproverato è piuttosto il peccato, il solito, di hybris, la pretesa di far valere questa legge addirittura al di sopra di quelle divine.

La novità vera è però che sul comportamento irragionevole di Creonte, sulla sua determinazione ad imporre una autorità che tra-scende, per i modi prima ancora che per la sostanza, nell’arbitrio, perseguendo la propria stessa rovina, pesa enormemente l’avere come antagonista una donna. Che non si tratti di un fattore secondario lo dimostra la ripetuta insistenza su questo aspetto. Creonte non pare il tipo da accettare comunque di essere contraddetto: ma che a farlo sia una femmina lo affronta in maniera particolare. È spiazzato, ossessionato dal timore di perdere la faccia cedendo alle sue richieste, di apparire debole al suo confronto: “Costei die’ prova della sua protervia/ quando le leggi imposte vïolò:/ dopo la colpa, una seconda volta/ proterva ora si mostra, che dell’opera/ insuperbisce e ride. Ed uomo adesso/ più non sarei, ma questa uomo sarebbe, / se non avesse pena, anzi trionfo.” E deve quindi ribadire agli altri, ma prima di tutti a sé, il concetto: “Io finché vivo non prenderò mai ordini da una donna”.

L’ossessione non doveva essere solo sua. Antigone lancia una bella sfida anche agli spettatori della tragedia. Proviamo a immaginare come quel pubblico, tutto maschile, doveva vivere la sua ribellione. Magari poteva provare simpatia per la giovane, ammirazione per il suo coraggio, rispetto per il suo appellarsi ad una legge superiore, ma qui non era in ballo solo il contrasto con Creonte, rischiavano di saltare anche quelle convenzioni sociali che regolavano ormai da tempo la convivenza tra i due sessi in maniera più o meno omogenea in tutta la Grecia. Qui l’hybris non macchia solo il re, ma anche la sua oppositrice. Che poi Antigone sia diventata col tempo un’icona della resistenza ad ogni dispotismo, ben al di là delle intenzioni di Sofocle, per il quale la giovane non persegue alcuna volontà eversiva ma è mossa solo dall’attaccamento ai valori e agli affetti familiari, è un altro discorso. A noi interessa il parallelismo possibile con la vicenda di Aiace, e più ancora la sottolineatura da parte di Sofocle di questo atteggiamento, per i tempi inaudito e inaccettabile in una donna.

Manca ancora però un tassello per poterci agganciare al tema che avevo annunciato. Nell’una e nell’altra tragedia Sofocle fa riferimento, sia pure nelle forme del drama, ovvero di un confronto in atto, ad un atteggiamento mentale ormai consolidato. In realtà dà per scontato il nuovo modello e ne indaga semmai le più sottili implicazioni psicologiche, la terra bruciata fatta attorno all’eroe che vuole mantenersi all’altezza del suo ethos e la solitudine scelta dall’eroina.

Il passaggio cruciale, lo scontro tra le due mentalità, tra il nuovo modello “politico” e razionale e quello tradizionale, era già stato affrontato (e in qualche misura risolto) invece quasi due decenni prima, quando Eschilo nell’Orestiade aveva portato l’attacco alla vecchia concezione del vincolo di sangue.

La vicenda è nota. Per poter fare vela verso Troia Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia alla dea Artemide, scatenando l’odio della moglie Clitennestra. Quando dopo dieci anni fa ritorno ad Argo, la consorte gli lascia giusto il tempo di rimettere piede nel suo palazzo e vendica la figlia. Trascorrono altri dieci anni e il secondo figlio, Oreste, rimasto sino ad allora in esilio, su ordine di Apollo uccide sia la madre che l’amante di quest’ultima, Egisto. Per il suo atto matricida però viene perseguitato dalle Erinni, le antiche divinità “terrene” deputate a vendicare i delitti, in particolare quelli compiuti contro i propri famigliari, che lo inseguono per tutta la Grecia. Fin qui (queste vicende sono raccontate nell’Agamennone e ne Le Coefore) tutto regolare: una spirale di violenza e di odio, una catena di omicidi e di conseguenti vendette che promette di non avere più fine. A meno che non si arrivi a riconoscere da parte di tutti un potere esterno con facoltà di emettere giudizi insindacabili. Questo è quanto avviene ne Le Eumenidi, e costituisce il passaggio decisivo ed epocale.

Oreste, assistito da Apollo che lo ha istigato al matricidio e non vuole ora abbandonarlo, si reca ad Atene, sull’Areopago, dove la dea Atena ha convocato dodici saggi che dovranno discutere il caso ed emettere un giusto verdetto. Si inscena un vero e proprio processo, nel quale l’imputato finisce per avere un ruolo secondario. Il dibattimento vede protagonisti infatti da un lato le Erinni, portatrici di una giustizia ancora arcaica, che non transigono sulla necessità di far espiare il peccato attraverso una punizione vendicativa, dall’altro gli dei solari, Atena e Apollo, che incarnano un nuovo concetto di giustizia, razionale e civile. Questi ultimi sono consci che la faida, estendibile potenzialmente a tutta l’umanità, deve essere necessariamente interrotta, pena l’impossibilità di una vita comune, di una società civile. Ma la soluzione non è semplice. Nemmeno Atena, la personificazione della razionalità, che chiama anche gli uomini ad assumersi la responsabilità di decidere, sembra in realtà in grado di sciogliere il nodo. Una mezza via d’uscita la indica Apollo, che interpreta in maniera molto moderna il suo ruolo di avvocato difensore: cerca infatti di declassare il reato, sostenendo che il crimine di Oreste non può essere considerato un delitto contro il proprio sangue, dal momento che l’eredità di sangue passa solo attraverso il padre. Alla fine la votazione dei giudici dà un risultato di parità, e risulta quindi decisivo il voto di Atena, naturalmente favorevole all’assoluzione di Oreste. Ma la dea sa bene che non può essere solo questione di numeri: una tradizione tanto radicata, non solo nella storia, ma nella natura umana stessa, non può essere liquidata d’imperio. Atena si rivolge quindi al coro delle Erinni, che lamentano di essere state umiliate dalla sentenza e promettono resistenza, e le invita a diventare le custodi del nuovo diritto, ovvero a trasformarsi in Eumenidi: “Credete a me: non v’affliggete troppo. / Vinte non foste: il numero dei voti/ fu pari: e spregio a te non vien. (…) Ed io con certa fede a voi prometto/ che in questa terra di giustizia avrete/ riposte sedi, e onor dai cittadini, / presso l’are sedendo, in troni fulgidi”.

L’avviso vale naturalmente anche per gli uomini: “Or la mia legge udite, Attiche genti, / voi prime elette a giudicare questa/ causa di sangue. Al popolo d’Egeo/ anche i venturi dí, questo consesso/ … darà sentenza […] Esso il rispetto/ ed il timore ai cittadini in cuore/ indurrà, che non mai, né dí, né notte,/ vïolino giustizia, e che le leggi,/ d’Atene i cittadini mai non mutino:/ ché, se di fango e umor fradici, l’onda/ limpida inquini, ber più non la puoi./ Vita consiglio ai cittadini miei/ né senza freno, né servil: né lungi/ dalla città si scacci ogni timore:/ qual uom giusto sarà, se nulla teme?/ Voi temetelo dunque e rispettatelo:/ esso schermo dell’Attica sarà,/ e salute d’Atene; e alcun degli uomini/ il simile non ha, né fra gli Sciti,/ né di Pelope il suol: tale consesso,/ venerando severo incorruttibile/ della terra d’Atene propugnacolo,/ vigile su chi dorme, io stabilisco./ Questo ammonisco ai cittadini miei/ che sia per l’avvenire. Adesso alzatevi, / prendete i voti, ed ossequenti al giuro, / equa sentenza pronunciate. Ho detto”.

Col che, la questione parrebbe chiusa. Ma nelle pieghe della vicenda se ne annida un’altra, strettamente connessa alla prima ma molto meno messa in risalto dalla critica successiva. L’attacco di Eschilo passa attraverso la demonizzazione del genere femminile, nella figura di Clitemnestra. È lei la vera protagonista delle prime due tragedie, Agamennone e Le Coefore, come carnefice prima e vittima poi, e sotto le spoglie di fantasma anche de Le Eumenidi. È l’unica che agisce dall’inizio alla fine per volontà propria, e non su istigazione o per ordine degli dei – quelli nuovi, quelli olimpici. È anche vero che nasce decisamente male, figlia di un’adultera e condannata per una maledizione di Afrodite ad essere adultera a sua volta, così come la sorella Elena, e che funge da pedina per il compimento di un’altra maledizione, quella gravante sulla stirpe dei Pelopidi: quindi una certa determinazione nel suo destino agisce. Ma i particolari messi in rilievo da Eschilo (l’eccitazione sessuale che dice di aver provato nell’uccidere il marito, ad esempio) vanno in un’altra direzione e la candidano ad incarnare per i Greci il prototipo della perfidia e della mostruosità femminile.

Nell’Odissea, durante la visita all’Ade Ulisse incontra anche l’ombra di Agamennone, che definisce l’uxoricida: “quel perfido mostro”. È un risentimento comprensibile, visto che la moglie lo ha massacrato nel sonno a colpi d’ascia. Ma non si può negare che Agamennone quella fine se la fosse cercata. Aveva infatti sposato Clitennestra dopo aver sconfitto il primo marito di lei, Tantalo, e aver ucciso sfracellandolo contro una roccia il loro figlioletto. Le aveva fatto generare quattro altri figli e aveva poi sacrificato, per esorcizzare una maledizione di Artemide, proprio Ifigenia, la più cara a Clitennestra. Non meraviglia che quest’ultima abbia maturato e covato, negli anni della sua assenza, un odio sempre più implacabile contro il marito, il quale per giunta si presenta accompagnato da una nuova concubina, la sventurata Cassandra, che porta in grembo un figlio. Ma di questo Eschilo non sembra tenere molto conto. Quella che ci mostra è una donna violenta, crudele, falsa, priva di senso materno, assetata di potere, nonché adultera e assassina: insomma, una donna che si comporta come solo potrebbe un uomo (e qui sta evidentemente la sua vera mostruosità). Quando in Agamennone racconta il suo crimine “così ho fatto – dice – e non lo negherò, in modo che egli non potesse fuggire né difendersi contro la morte. Una rete senza uscita, come per i pesci, gli avvolgo intorno, sinistra veste fastosa. Lo colpisco due volte, e in due gemiti gli si sciolgono le membra; e su lui caduto aggiungo un terzo colpo, offerta votiva all’infero Ade, salvatore dei morti. Così, cadendo, egli esagita l’anima: e soffiando fuori un violento getto di sangue, mi colpisce con nero spruzzo di sanguigna rugiada: e io ne godo, non meno che un campo seminato per il ristoro mandato dal cielo su gemme che si schiudono […]” (vv 1380-1392).

L’insistenza di Esiodo su una sensualità torbida è confermata quando Clitennestra ricorda l’uccisione di Cassandra, e dice che “aggiunse condimento al piacere del mio letto” (vv. 1446-1447) .

Questa donna che si serve di un’ascia bipenne (il simbolo del potere) per fare a pezzi il marito – e che con quell’ascia e le braccia e le vesti lorde di sangue sarà sempre rappresentata nell’iconografia antica – è il costante incubo maschile: è la vecchia società dal sangue che resiste con i suoi mezzi propri, l’inganno, il tradimento, la crudeltà, alla nuova organizzazione del potere e della società. A Clitennestra vengono imputate tutte le possibili colpe: tradisce il marito e poi lo uccide, non esita a tentare di uccidere anche il figlio, mette la figlia in condizione di non procreare, per evitare possibili futuri vendicatori, consegna la città nelle mani di un tiranno usurpatore. Fa insomma né più né meno quello che Agamennone, e prima di lui suo padre e gli altri maschi della stirpe dei Pelopidi avevano sempre fatto: ma lo fa in nome di un ordine vecchio, e la sua vera colpa è questa. Oreste la uccide non tanto per vendicare l’assassinio del padre quanto per rispristinare in Argo la legalità. Fa prevalere il senso dello stato su quello della famiglia.

Clitennestra segue quindi la sorte di Aiace, perché rappresenta il vecchio ordine, la giustizia primitiva fondata sulla passione, anziché sulla razionalità. L’uno e l’altra rappresentano uno stadio sociale primordiale, il primo come situazione contingente, la seconda come condizione permanente. La sua violazione del nuovo ordine è infatti duplice: non solo ha ucciso un sovrano, ma ha ucciso un uomo: “d’infamia se stessa macchiò/quel mostro funesto e le donne future/ tutte, se di buone ne nascano alcune” dice l’ombra di Agamennone ad Ulisse (OD. XI, 432-434).

L’uccisione di Clitennestra è l’ultimo atto della legge del taglione e il primo del nuovo ordine. Come recita il coro delle Eumenidi, da adesso varranno leggi che guardano all’interesse della comunità, al bene di tutti, che non può essere affatto garantito in un regime di vendetta. Ma questo non significa che la guerra, ovvero il processo di demonizzazione della donna, sia finita. C’è un altro personaggio che riesce ad assommare tutte le componenti del negativo, perché rappresenta una cultura totalmente altra, una minaccia che viene dall’esterno, e al tempo stesso personifica anche il pericolo che alligna all’interno.

Se c’è una figura estranea alla cultura della pòlis, è quella di Medea. È una donna, una barbara, e in sovrappiù una maga. Come donna presenta tutti i tratti della debolezza femminile, ma aggravati dal rifiuto della subalternità, e accentuati perché proviene da un mondo barbaro, nel quale non valgono le regole ormai vigenti in Grecia. Come barbara infatti appare indecifrabile e sanguinaria. Come maga poi (il nome stesso la classifica tale: dal sanscrito medha, che è anche radice di medicina) è nipote (o sorella, secondo una variante del mito) di Circe, ed è sacerdotessa di Ecate, dea madre della notte e compagna di Ade. Quindi è consacrata al culto della grande Dea, alle divinità terrene primordiali, quelle che come le Erinni sono spazzate via, in Grecia, dal passaggio all’ordine patriarcale.

La figura di Medea ha ispirato fiumi di letteratura, oltre ad una fervida fioritura di immaginazione iconografica. Nell’antichità il mito è stato riproposto in mille versioni diverse, a partire da quelle offerte nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e nelle Metamorfosi di Ovidio sino a quelle delle tragedie di Seneca e del tardo latino-cristiano Draconzio (V secolo). Ma a noi qui interessa l’originale (o quasi: sembra che sullo stesso soggetto fossero già state scritte altre tragedie): la Medea di Euripide.

Se si badasse solo alla storia, come Euripide la racconta, il comportamento di Medea, pur non giustificato, sarebbe per lo meno comprensibile. È una donna tradita dall’uomo che ama, dopo che per salvarlo e per seguirlo ha compiuto ogni possibile efferatezza: ha ucciso il proprio fratello, disperdendone poi le membra in mare per frenare l’inseguimento del padre, e ha fatto uccidere con l’inganno lo zio spergiuro di Giasone dalle sue stesse figlie. Una volta approdata a Corinto, assieme al suo uomo e ai figli che da lui ha avuto, spera che le sue vicissitudini siano terminate: ma si trova di fronte al tradimento di Giasone, che nella prospettiva di impalmare una ragazza molto più giovane e di succedere per tramite suo al trono non ci pensa due volte a ripudiare Medea, e pretenderebbe anche che lei si rassegnasse. Visto fallito ogni tentativo di farlo recedere, la donna scatena la vendetta: prima fa morire con una veste avvelenata la promessa sposa e il padre di lei che è accorso a soccorrerla, poi arriva persino ad uccidere i propri figli, per straziare il cuore e l’orgoglio di Giasone e interromperne la discendenza. Alla fine della tragedia se ne va da Corinto, e non di soppiatto, ma sul carro del sole, portandosi appresso i cadaveri dei figli e lasciando Giasone ad inveire impotente.

Con tutto questo la sua figura giganteggia in una luce non soltanto negativa, come accade invece a Clitennestra. Per come rappresenta Giasone, egoista e meschino, interessato soltanto alla conquista del potere e pronto ad usare come mezzo il suo fascino sulle donne (Odisseo non è il solo), Euripide sembra in fondo totalmente schierato dalla parte dell’eroina, almeno sul piano del sentimento. Giasone paga il prezzo più atroce per la sua meschinità, ed è anche sbeffeggiato e umiliato nel finale: “Alla terra mi reco io d’Erettèo, / e con Egèo, figliuolo di Pandíone/ abiterò: tu, com’è giusto, morte / farai da tristo, ché sei tristo: avranno/ amaro fine le tue nuove nozze”.

Se lo si analizza un po’ più in profondità, però, il gioco mostra il suo rovescio. La grandezza tragica del personaggio di Medea sta proprio nella continua lotta tra la razionalità e le passioni che la dilaniano, e questo spiega l’attenzione, se non proprio la simpatia, che Euripide le riserva. Medea è una donna debole e forte allo stesso tempo, in grado di riempire la scena da sola col suo conflitto interiore. Forte perché padrona della sua vita e non disposta a piegarsi davanti a nessuno, e debole perché sola, disperata ed intenzionata a distruggere tutto ciò che rappresenta il suo passato. Alla fine, comunque, risulta chiaro che di un essere del genere non ci si può assolutamente fidare. Ciò che teorizzeranno pochi anni dopo Platone e Aristotele, ovvero che la donna non è in grado di compiere scelte perfettamente razionali, ma è sempre possibile preda dell’emotività e delle passioni, qui è già chiaramente esplicitato. A differenza di Clitennestra, che non è mai attraversata da dubbi, Medea passa in continuazione dalla feroce volontà omicida al pentimento, dalla tentazione di lasciar perdere alla riaffermazione dei suoi propositi. È anch’essa smisurata, per certi versi più ancora di Clitennestra, ma è pericolosa soprattutto per la componente di umanità che ancora alberga in lei, e che la rende anche oggetto di compassione. Questo almeno ad una lettura moderna, perché è probabile che al momento in cui la tragedia venne messa in scena per la prima volta il sentimento degli spettatori fosse molto diverso.

L’elemento di novità, anche per i contemporanei, stava piuttosto nel fatto che la tragedia è essenzialmente incentrata sugli umani. Gli dèi in pratica non intervengono mai: tanto da spingere Giasone, verso la fine della vicenda, ad inveire contro di essi, accusandoli, senza ricevere risposta, di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli. Ma il tentativo di scaricare su di loro la responsabilità non è affatto convincente. “Avete fatto tutto voi”, sembra dire Euripide, che giudica colpevole non solo Medea, esecutrice materiale dei delitti, ma anche Giasone, reo di aver ingannato la protagonista per un “letto migliore”.

Non stupisce comunque che nel 431, l’anno in cui venne presentata in concorso per le Grandi Dionisiache, la tragedia non sia andata oltre il terzo posto. Al di là del rapporto sempre conflittuale di Euripide col pubblico ateniese, l’immagine proposta doveva risultare davvero inquietante. Per la prima volta nel teatro greco (almeno per le opere note) è protagonista la passione intima di una donna, una passione violenta e feroce. Ma la tragedia contiene anche una forma di critica al modello familiare tradizionale in vigore nella Atene del V secolo a.C. Allo sdegno ed alla disperazione di Medea per le nuove nozze del marito, Giasone ribatte con motivazioni che all’ateniese medio potevano apparire sensate: la necessità di generare nuovi figli per la città e l’ambizione di assicurarsi una posizione sociale adeguata. E anche la convinzione di aver già fatto già molto per Medea, portandola via dal mondo barbaro in cui viveva prima (la Colchide). Ma dal dialogo serrato tra i due, in cui la moglie enumera i rischi del matrimonio per una donna, vengono fuori anche delle incontestabili e scomode verità: “Anzitutto (noi donne) dobbiamo versare una robusta dote e prendere un marito che sarà il padrone della nostra persona, senza sapere se costui sarà buono o cattivo” accusa Medea, lamentando che “separarsi dal marito è una disgrazia, ripudiarlo non si può… L’uomo quando si annoia esce con gli amici e si distrae, mentre noi siamo condannate a vedere una sola persona per tutta la vita” e concludendo amaramente con la celebre invettiva: “(gli uomini) sostengono che, mentre loro rischiano la vita in guerra, noi donne viviamo sicure in casa. Falso! Preferirei combattere tre volte in prima linea piuttosto che partorire una volta!” Al che Giasone non sa rispondere altrimenti se non accusandola di essere, come tutte le donne, attaccata solo al letto.

Dallo scontro tra due culture diverse, una considerata più moderna e civile (Corinto), l’altra più barbara e arretrata (la Colchide), nel quale la gerarchia dei valori in campo doveva apparire evidente, è invece la forza negativa della duplice diversità di Medea ad uscire oggettivamente vincitrice, con un messaggio finale che è in effetti un non-messaggio, perché non offre soluzioni. Tutto ciò anche rapportandoci ai criteri dell’epoca, e senza dubbio al di là delle intenzioni di Euripide. Rimane l’ultima desolata considerazione di Giasone: “Oh, niuna tanto/osato avrebbe delle donne ellène/ da me neglette, che te scelsi a sposa, / te mia nemica, te rovina mia,/ leonessa e non donna, e ch’hai natura/ selvaggia più della tirrena Scilla”, che al di là del riferimento a Pericle, per il suo legame con l’asiatica Aspasia, suona come un monito agli spettatori, un richiamo al sano “mogli e buoi dei paesi tuoi”.

Dalla parte di Creonte

di Nicola Parodi, 22 gennaio 2021

Sui giornali di questi ultimi giorni spiccano (insomma, compaiono in sesta pagina, dopo le interviste a Mastella) le notizie riguardanti le donne e la politica. Si parte dall’incarico di governo conferito in Estonia ad una donna, che porta il numero dei paesi nordici retti al femminile a sei su otto; si prosegue con la discussione in corso presso la Corte Costituzionale sulla costituzionalità della legge che assegna ai figli il cognome del padre; e si finisce con le richieste di nominare finalmente anche da noi delle donne alle cariche di Presidente della repubblica o del Consiglio, ciò che a molti appare come una possibile panacea per l’Italia.

Questi interventi mi spingono a trarre spunto da un articolo di Mauro Fornaro, “DONNE AL POTERE! Ragioni psicologiche dell’accesso femminile a ruoli dirigenziali”, pubblicato su Cittàfutura, per qualche breve considerazione. Nel suo articolo Fornaro inizia la riflessione sostenendo che “La letteratura greca ci ha consegnato un classico momento delle differenze di genere: Antigone, nell’omonima tragedia di Sofocle, onorando con le esequie funebri il fratello Polinice benché la sepoltura fosse interdetta ai traditori della patria, rappresenta le istanze degli affetti e della famiglia; mentre lo zio Creonte, dittatore di Tebe, rappresenta l’impersonale legge della polis, che non fa sconti a nessuno, fino a imprigionare a vita la pietosa Antigone. Queste due diverse attitudini, il primato dato agli affetti familiari di contro al primato dato alla ragion di Stato, sono state assunte a paradigma della differenza psicologica e sociale tra donne e uomini, favorendo lo stereotipo per cui la donna è domina entro le mura domestiche, l’uomo è dominus nelle attività pubbliche …” Il resto dell’argomentazione e le conclusioni che ne conseguono credo siano facilmente immaginabili (e se non lo sono andate a scoprirle in questo link).

Ora, mi chiedo, tralasciando per questa volta il problema delle differenze di genere: servono dei sondaggi per avere la certezza che nella attuale società italiana Creonte venga considerato dalla grande maggioranza il “cattivo” della situazione? Direi proprio di no. Sono meno sicuro invece che la simpatia o l’antipatia discendano da una contrapposizione “razionale” tra le due istanze.

E cerco di spiegarmi: ma prima di proseguire credo opportuna una premessa. In natura non esiste il “bene/giusto” o il “male/sbagliato”: esiste soltanto qualcosa che “funziona” o “non funziona”. Noi umani rappresentiamo un aspetto della natura un po’ particolare, perché dotati di una “coscienza” formatasi attraverso un processo evolutivo che potremmo definire anomalo: quindi i nostri modelli di pensiero non sono esattamente ricalcati sulla “morale naturale”. Ragioniamo anche per contrapposizioni tra buono e cattivo, ed è difficile prescindere da termini di raffronto cosi istintivi: cerchiamo però almeno di capire se è accettabile il giudizio su un Creonte “cattivo”.

Sofocle scrive le sue opere quando ormai i persiani non sono più un grosso pericolo. Le flotte e le falangi oplitiche hanno bloccato quasi mezzo secolo prima i tentativi di invasione. Questo va tenuto presente, perché la morale di un’opera non può essere quella del periodo in cui è ambientata, ma è sempre quella corrente all’epoca in cui è stata scritta. D’altro canto, il modo stesso in cui i valori morali erano concepiti non prevedeva che potessero essere considerati mutevoli o mutati nel tempo.

La legge che all’epoca era considerata “divina”, quella che imponeva di dar sepoltura ai morti e alla quale Antigone si appella, ha radici antiche (si pensi alle pire funebri di Omero), che affondano non solo nei riti di sepoltura praticati dai Sapiens e anche dai Neanderthal, ma anche nei comportamenti particolari di alcuni animali in caso di morte dei conspecifici, in particolare delle femmine. Si può dedurne quindi che la pietà per i morti ha sicuramente lasciato tracce nella genetica. Ed è buona regola che le leggi “positive”, quelle elaborate dai diversi sistemi di potere e rispondenti a diversi modelli di convivenza, non contraddicano i comportamenti che hanno radici genetiche. Se però insorgono altre esigenze, necessarie per salvaguardare la struttura sociale (o la salute pubblica), può allora essere indispensabile fare leggi che contrastano con tale regola. E questo ci porta al nostro caso.

Fermo restando che Creonte fosse un tiranno, ha fatto bene o male a proibire la sepoltura di chi tradiva la propria città? La rigidità, al limite della disumanità, nel far rispettare le regole, è da considerarsi in modo positivo o negativo per il bene della comunità?

Non mi pare un caso che Sofocle abbia trattato il problema in termini interlocutori. Sapeva che la simpatia degli spettatori sarebbe andata alla donna (a dispetto del fatto che le donne greche all’epoca fossero considerate meno di zero – qui però non era in discussione la donna, ma il gesto), e personalmente era piuttosto portato a rimpiangere l’ordinamento morale di un tempo: ma sapeva anche che il rispetto inflessibile delle leggi è un dettame “pratico” della ragione, qualcosa che funziona, anche se entra in contrasto con emozioni e sentimenti.

Siamo in Grecia, nel V secolo, con le varie polis in perenne conflitto tra di loro e quindi a rischio di aggressione continua: la prima fondamentale necessità è quella della difesa, per salvaguardare la vita e la libertà degli abitanti: e ciò esige una compattezza interna, spontanea o imposta che sia, fondata sul comune rispetto delle leggi. Fossi l’avvocato di Creonte direi: può non piacere, risponde ad una logica perversa, ma la situazione è questa. Se avete altre soluzioni realisticamente praticabili fatevi avanti. Antigone è una brava ragazza, tosta e coraggiosa, ha un sacco di buone ragioni (che non sono necessariamente quelle attribuitele lungo venticinque secoli nelle innumerevoli reincarnazioni letterarie successive), ma per la sua comunità rappresenta oggettivamente un pericolo. Rendiamoci conto che oggi sarebbe una no-vax, probabilmente starebbe in parlamento con i cinque stelle.

Il discorso affrontato da Sofocle era comunque già aperto da tempo. Proprio per rispondere alla necessità difensiva (o offensiva, a seconda dei casi e delle situazioni) a partire dal VI secolo a.C. si erano sviluppate armi e tattiche “oplitiche”. Nella formazione della falange ogni oplita era protetto dal commilitone vicino, e del comportamento di quest’ultimo doveva fidarsi ciecamente. Ora, per fidarmi devo sapere che per il mio commilitone nulla è più importante del rispetto delle regole del gruppo, del dovere di non abbandonare la posizione. A chi domandava perché solo l’abbandono dello scudo comportasse l’atimia (l’esclusione dal rango di cittadino), e non quello dell’elmo o della corazza, il re spartano rispondeva che quell’armatura era preposta alla difesa del singolo soldato, mentre lo scudo valeva τῆς κοινῆς τάξεως, a proteggere il gruppo, la comunità. Chi milita in uno schieramento così concepito, nel quale la compattezza degli scudi corrisponde alla compattezza dei valori riconosciuti, non può non introiettare e trasferire nella vita pubblica queste modalità di comportamento. Allo stesso modo, chi esercita il potere non può, spinto da emozioni e sentimenti, mettere in dubbio i principi su cui si fonda la “morale oplitica”, e conseguentemente la compattezza dell’esercito da cui dipende la sicurezza della città.

C’è però un paradosso. Il raggiungimento di un certo livello di potenza della città fa venir meno la “paura”, e questo induce ad ammorbidire la rigidità nel rispetto dei principi. In tal caso spesso chi governa cede (per interesse?) alle sollecitazioni di chi vuole il prevalere dei sentimenti sulla ragione, che invece imporrebbe l’indispensabile mantenimento del concetto di prevalenza della legge. È il rischio che corriamo nella situazione attuale, con l’appello continuo, e generalmente molto ipocrita, a motivazioni che confondono l’egoismo individuale con la libertà.

La “morale oplitica” viene anche considerata uno degli elementi che creano le condizioni per la nascita della democrazia; se si è uguali nella falange non si può essere diversi nella vita politica cittadina: repubblica e democrazia sono il risultato. All’obiezione che Sparta, dove la morale oplitica vigeva ferrea, non era una democrazia, si può rispondere evidenziando che quando il mestiere delle armi è monopolio di una casta di militari o di professionisti più o meno mercenari non si danno le condizioni per la nascita di società con un qualche livello di partecipazione democratica. In questo caso (che è anche quello del feudalesimo giapponese o europeo) è più facile che il risultato sia la comparsa di un re/imperatore, più o meno sacralizzato, con il ruolo di fonte della legalità dei diritti che la casta si arroga. E il processo può anche innescarsi in senso inverso, come possiamo riscontrare nella storia dei comuni medioevali. Si potrebbe comunque ipotizzare che anche a Roma il passaggio da monarchia a repubblica si sia originato come conseguenza dell’organizzazione militare.

Tornando a Creonte, il giudizio non dovrebbe basarsi sulla valutazione se il suo potere fosse più o meno tirannico, ma sul fatto che la sua scelta fosse o meno funzionale al mantenimento della coesione della comunità; una comunità in disfacimento non sarebbe nemmeno stata in grado di provvedere alla propria difesa. Quindi, Creonte ha contravvenuto ad una legge che potrebbe essere ritenuta naturale, ma nel nome di un concreto beneficio per la collettività. Naturalmente questa aveva difficoltà a comprenderlo, soprattutto nella sua componente femminile, che anche fra i primati si dimostra più emotivamente coinvolta quando muore qualche componente del gruppo. Ma questo aprirebbe un’ulteriore digressione che per il momento vi risparmio.

Ciò che mi chiedo invece, in conclusione, è se si debba per forza tornare a fare la guerra in falange per educare cittadini responsabili e non allevare bambini viziati. L’ipotesi è meno peregrina di quanto appaia, perché di questo passo c’è il rischio di una regressione rapidissima e tutt’altro che incruenta, e gli scenari che si prospettano per le generazioni immediatamente a venire sono tragici. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma se non saremo in grado alla veloce di recuperare il senso delle regole e la capacità di farle rispettare da tutti, non solo nelle emergenze ma nella quotidianità dei rapporti, ci ritroveremo presto a guardare ai concittadini come a commilitoni o, all’inverso, come avversari. Ma senza alcuna compattezza di scudi a proteggerci.