Note sparse da una passeggiata sull’isola
di Paolo Repetto, 8 gennaio 2023
Numquam tam mal est Siculis quin aliquid facete et commode dicant
… quod esset acuta illa gens, et controversa natura
(Cicerone, In Verrem e De oratore)
Ho deciso di vedere la Sicilia giusto in tempo. In tempo per me, che ho ormai toccato i tre quarti di secolo e avrò sempre meno voglia e forze per viaggiare, ma anche per la Sicilia. Già dall’estate prossima, infatti, calerà probabilmente sull’isola un’orda di americani e di inglesi, ammaliati da una serie televisiva che è andata in onda nei paesi anglosassoni la scorsa stagione (The white lotus) e ambientata a Taormina. Questo significherà prezzi alle stelle e impossibilità di trovare sistemazioni. A breve, poi, se il mutamento climatico procede con questo ritmo, sparirà anche l’ultima parte del ghiacciaio dall’Etna, modificando irrimediabilmente l’immagine più iconica del paesaggio siciliano. Infine, non meno grave, c’è il rischio che Salvini venga preso sul serio e si cominci a costruire il famigerato ponte sullo stretto (che nessun indigeno, a quanto ho potuto appurare, vuole). Per fortuna in questo caso possiamo sperare in tempi assai più dilatati, e tecnicamente non cambierebbe granché: ma nell’immaginario a quel punto la Sicilia non sarebbe nemmeno più un’isola.
Non sono stati comunque questi timori a farmi decidere. Prima di partire, di queste cose o non sapevo o non mi importava nulla. Ero invece infarcito di pregiudizi, di quelli correnti e anche di alcuni miei particolari, e se non avevo mai voluto visitare quella parte del nostro paese era proprio per il timore di vederli confermati. Per l’occasione non li ho lasciati a casa, ciò che potrebbe sembrare mentalmente più ecologico: li ho invece messi nello zaino, e ne sono contento, perché così ho potuto liberarmene per strada.
Prima di muovermi non mi sono documentato su guide o su narrazioni altrui: non ho nemmeno progettato un itinerario. È una scelta che faccio sempre, scientemente. Ciò che davvero m’interessa preferisco scoprirlo in loco; di norma arriva da dove meno te lo aspetti. Ho dunque girato per una decina di giorni a naso e ho comprato una carta stradale della Sicilia solo prima di venir via, ma più che altro per verificare cosa mi ero perso (e anche perché in precedenza non ne avevo trovato una decente, pur cercandola in più di una edicola o libreria: a quanto pare non usano più, sono state sostituite da Google Map, ed è un modo completamente diverso di programmare e di compiere i percorsi).
Anche stavolta sono riuscito comunque a fingere per il viaggio una motivazione e una giustificazione più “alte”, a tradurlo in una sorta di pellegrinaggio. Doppio, in questo caso, perché includeva una ricognizione delle terre di Verga (e di De Roberto e di Pirandello) e quattro passi sulle orme di J. G. Seume. Volevo vedere dove avevano scritto i primi e dove aveva camminato l’altro. Sono partito quindi per andare non a conoscere, ma a riconoscere: che non è un bel modo di viaggiare, e mette a rischio di delusioni, ma è quello cui sono condannati coloro che hanno viaggiato troppo sui libri.
Infine: malgrado sia stato e sia tuttora un divoratore di narrativa di viaggio, non ho mai raccontato un viaggio mio. Intanto perché mi sono sempre limitato a esperienze piuttosto banali, se valutate secondo i parametri dell’avventura e della scoperta, ma soprattutto perché non possedendo doti di narratore renderei banale anche ciò che magari tale non è. Mi limito dunque a mettere in fila qualche estemporanea considerazione che il viaggio mi ha suggerito.
Il paesaggio eterno. Accennavo sopra al bagaglio di pregiudizi sulla Sicilia e sui siciliani che mi sono portato appresso. In realtà, per quanto concerne la “fisicità” dell’isola, più che di pregiudizi si trattava di immagini desunte da Verga, dalle sue novelle ambientate “fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso”, quei campi sui quali si erano spezzati la schiena Mastro don Gesualdo e Mazzarò, mentre la Lupa affastellava manipoli, senza fermarsi nemmeno “allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana”. L’impressione che ne avevo tratto era quella dell’aridità afosa, il colore quello dai campi bruciati dal sole, con una vegetazione rada e stentata, qualcosa di simile alle savane semidesertiche dell’Africa o della parte centrale dell’Asia. Certo, erano rappresentazioni estive, e immagino veritiere. Io ho però girato l’interno dell’isola in pieno inverno, godendo di una sequenza ininterrotta di giornate di sole, e mi sembrava di essere in Irlanda (con la differenza appunto che qui non pioveva). Sono transitato per valli e colline dai profili dolcissimi, per la massima parte coltivate a grano, nelle quali le spighe precocemente spuntate, di un verde brillante, creavano immensi tappeti ondulati. E appena la linea delle colline si drizzava un poco il colore sfumava nel verde opaco degli uliveti, e a interromperlo c’erano solo a tratti le macchie geometriche rosso-brune dei vigneti spogli. Mi è apparsa una terra incredibilmente ricca, laddove sino a ieri l’avevo immaginata povera e avara. Le nostre colline, al paragone, devono abbassare la testa.
L’elemento fondamentale del paesaggio, sbarcando come ho fatto io a Catania, è naturalmente l’Etna. Come metti piede a terra te lo trovi lì, e continui ad averlo davanti sempre, dovunque ti sposti. Eppure l’impressione immediata è tutt’altro che di imponenza. Sulle prime il vulcano mi ha dato l’idea di non essere molto più alto del Tobbio, mentre in realtà lo è tre volte di più. Inganna per la pendenza lieve dei suoi fianchi, per il rapporto tra l’altezza e l’area della base. Per questo sembra sempre vicinissimo, anche quando ci sono di mezzo decine di chilometri. E comunque l’impressione rimane tale anche quando sei alle pendici o lo risali sino a qualche centinaio di metri dalla vetta. Insomma, quello che colpisce è la sproporzione tra le dimensioni percepite e gli effetti delle eruzioni, che riscontri sino a distanze incredibili.
Il paesaggio odierno. Era uno dei temi dolenti. Da quanto avevo appreso dai conoscenti o dalla narrazione televisiva mi aspettavo strade disastrate, non finite, a perdersi nel nulla. Al contrario. Ho viaggiato quasi costantemente su fondi stradali molto migliori di quelli delle nostre provinciali, orientandomi grazie a una segnaletica efficace. Per chi ami guidare, la Sicilia offre percorsi straordinari. La differenza rispetto al Nord è che sono raramente intervallati da paesini: si incontrano quasi sempre agglomerati piuttosto consistenti, e questo è il retaggio di campagne rimaste semifeudali sino al secolo scorso, nelle quali la piccola proprietà contadina non esisteva.
Nelle città maggiori, ma anche nei centri più piccoli, il traffico è costantemente intenso. Avendo pernottato in più di un’occasione a Giarre, che è un centro di media grandezza piuttosto anonimo, privo di richiami turistici e di una vocazione economica specifica, ho continuato a chiedermi verso cosa si affrettassero tutti quegli automobilisti che transitavano ad ogni ora per la via principale. Non è comunque un traffico caotico. E questo a dispetto del fatto che siano in funzione pochissimi semafori: due terzi sono fuori uso, o sono stati addirittura rimossi, eppure la circolazione scorre fluida. Sempre a proposito di rimozioni, in tutto il viaggio non ho pagato una sola volta il parcheggio: le macchinette distributrici dei biglietti sono state sapientemente neutralizzate o asportate ovunque. Il problema sono piuttosto i bordi delle strade. In molte località, soprattutto quando si procede verso la parte occidentale dell’isola, le aree di emergenza sono utilizzate come vere e proprie discariche. Era una delle cose che temevo di vedere, e purtroppo l’ho verificata. Ma non sono riuscito a darmene una spiegazione. Mi sembra impossibile che una popolazione per altri versi così civile e orgogliosa della propria terra non si renda conto del danno di immagine che questa sconcezza provoca. D’altro canto, in diversi centri la raccolta avviene ancora porta a porta, col risultato di cumuli di sacchi dell’immondizia che spesso ostruiscono i marciapiedi e che non offrono certamente uno spettacolo decoroso. Questo, e il fatto che il fenomeno delle discariche stradali sembra localizzato a macchia di leopardo, in alcuni comuni e non in altri, induce il sospetto che al di là dell’incuria delle amministrazioni ci sia dietro qualche giro d’affari poco chiaro.
Un’altra peculiarità è costituita dal numero spropositato di viadotti. Non trattandosi di un paesaggio andino, e nemmeno appenninico, molto spesso le bretelle sopraelevate di cemento vanno a livellare pendenze molto dolci, che si sarebbero potute affrontare con percorsi che seguissero le inclinazioni del terreno, un po’ come accade in Francia. Un amico malizioso mi ha suggerito che i viadotti servono, più che per ciò che passa sopra, per ciò che può essere occultato nei piloni. Al di là della battuta, lo spreco di denaro pubblico qui salta veramente agli occhi.
Uno stereotipo che avrei voluto invece vedere confermato riguarda il costo minore della vita. Almeno per quanto concerne la ristorazione è falso. Ho mangiato benissimo, ma con un livello medio di spesa pari se non superiore (tra i venticinque e i trenta euro, limitandomi a un primo ed un secondo) a quello che avrei incontrato al Nord. E questo non soltanto nelle località più gettonate, in riva al mare o nelle città d’arte, ma anche all’interno. Non ho trovato menù turistici, pur essendo uno che a queste cose ci bada, e ho constatato che non è diffusa neppure l’offerta del “pranzo di lavoro”, quella che dalle nostre parti consente di pranzare decentemente, se non si hanno pretese particolari, con dodici o quindici euro (persino in Liguria, che è tutto dire). In compenso i ristoratori ti sfilano i soldi con una simpatica e sincera cortesia, caratteristica questa che ai liguri e ai piemontesi non appartiene. La battuta immediata del solito amico è stata che giustamente dove non si lavora i pranzi di lavoro non sono contemplati. Fino a quindici giorni fa l’avrei sottoscritta, ma dal poco che ho potuto vedere i siciliani mi sono parsi molto attivi. Evidentemente hanno abitudini prandiali diverse dalle nostre.
Il paesaggio storico. Sapevo che avrei incontrato in Sicilia molta architettura barocca, e non è stata certo questa la molla che mi ci ha portato (il barocco non gode delle mie preferenze). Non immaginavo però tanta opulenza ostentata. Quando a Noto, a Scicli, a Modica e nella stessa Catania ti riscuoti dal primo stordimento, quello prodotto dal susseguirsi uno di fianco all’altro di sontuosi palazzi che rivaleggiano in decori e volute, o dalle imponenti facciate di decine di chiese che testimoniano la passata potenza delle confraternite e degli ordini religiosi più mal noti, non puoi non provare una sensazione di disagio. Realizzi che questa terra deve essere stata un tempo davvero molto ricca, e che questa ricchezza era scandalosamente maldistribuita, molto più di quanto non lo fosse altrove. E viene spontaneo associare immediatamente tale sperequazione alla decadenza di cui proprio quegli edifici sono per contrasto testimoni. Non ho mai provata un’impressione del genere a Genova, a Torino, a Milano, dove pure i palazzi signorili non mancano, ma non trasmettono così sfacciatamente l’idea dell’esibizione del potere e della ricchezza. Il risultato è che per quanto mi riguarda non ho potuto separare per un attimo quelle immagini dal pensiero di quanto sudore e quanta miseria ci fosse dietro. Non sono l’unico: coloro cui ho confidato questa impressione mi hanno confermato di aver provato una identica malinconia, e persino rabbia, anziché uno stupore ammirato.
Lo stesso discorso vale per le meraviglie architettoniche e decorative di epoca romana. La villa del Casale di piazza Armerina, ad esempio, ti lascia sulle prime stupefatto, poi, di mano in mano che scopri gli incredibili mosaici e l’idea di lusso che dovevano veicolare pensi sempre più a chi quelle opere le ha realizzate e a chi a questo lusso era completamente sacrificato. Se un’idea mi ha percorso la mente è quella della freddezza inumana di chi ci abitava.
Un po’ diversamente stanno le cose per i resti greci di Siracusa e della Valle dei Templi. Non che dietro non si percepisca altrettanta spietatezza e sofferenza, ma il fatto che i teatri e i templi erano destinati all’uso pubblico rende un po’ più accettabile l’idea. Questo vale tanto più, e mi rendo conto che si tratta di una reazione puramente emozionale, per gli innumerevoli castelli coi quali il potere svevo-normanno, personificato soprattutto da Federico II, ha segnato il territorio. Anche in questo caso entra in gioco l’idea di un uso di difesa pubblico, che corrisponde solo in parte al vero: i castelli, quelli federiciani in primis, avevano in realtà lo scopo di far percepire la presenza di un potere superiore a quello dei baroni e delle tante famiglie nobiliari che amministravano il territorio.
Di fatto, l’imbattermi costantemente in queste formidabili costruzioni (ne ho visti solo una dozzina, e visitati solo una metà, ma in tutta la Sicilia ci sono più di duecento castelli medioevali), per la gran parte in qualche modo riferibili allo “stupor mundi”, mi ha portato a riflettere su cosa avrebbe potuto significare per il nostro paese la realizzazione del sogno di Federico di un unico regno, e l’uscita dalla soggezione al potere della chiesa. Avremmo avuto ottocento anni per diventare una vera nazione, e per sviluppare quel minimo di senso civico che può tenerla assieme.
Ho anche scoperto un personaggio del quale avevo forse già avuto qualche sentore in passato, ma che non ho mai approfondito: Riccardo da Lentini, l’architetto il cui nome si trova in calce a tutti i progetti di edificazione, di urbanistica e di fortificazione voluti da Federico. Forse di alcuni non ha realizzato personalmente il disegno, ma è indubbio che tutti recano il segno del suo zampino. Lo si può considerare una sorta di Ministro dei lavori pubblici nell’amministrazione federiciana (oggi quel ruolo è affidato a Salvini!). Ognuna delle costruzioni ha una pianta e una struttura diversa, il che è anche comprensibile, trattandosi non di villette a schiera ma di opere destinate alla difesa, che dovevano adeguarsi all’orografia e alla natura di luoghi già naturalmente predisposti: eppure un’idea architettonica di fondo le accomuna tutte, ed è immediatamente percepibile. Ora, sarà ignoranza mia, e forse è un nome che nella storia dell’architettura ha un grosso rilievo, ma in una veloce indagine effettuata al ritorno su cinque o sei manuali di storia dell’arte e allargata poi a opere più specifiche e di maggiore consistenza non ne ho trovato traccia. In Francia, in Germania o in Inghilterra sarebbe una star. Da noi è pressoché ignorato. Ho identificato in tutta la Sicilia solo quattro vie a lui intitolate, tante come quelle dedicate a Fabrizio de André.
Enna. Se racconti a qualcuno che sei stato ad Enna, ti guarda ironico e ti chiede cosa cavolo ci sei andato a fare. Non c’è nulla ad Enna, dicono. Non un’attrazione che giustifichi la visita, puoi capitarci solo se ci vive qualche parente. Del resto, provate anche a documentarvi su internet; più o meno, se non incappate nella guida dell’ufficio turistico locale, ricaverete la stessa impressione. Enna è al centesimo posto (su centosette) nella graduatoria della qualità della vita. Tra le città siciliane precede solo Caltanisetta. È l’ombelico della Sicilia, ma in un’isola questo significa essere il punto più lontano dal mare, e non è in genere motivo di pregio. Persino le cronache criminali sono reticenti: pare che non vi accada mai nulla, che i loro morti, se ce ne sono, li facciano sparire come i cinesi.
Tutto questo era più che sufficiente per motivarmi ad andarci. Volevo vedere il nulla, penetrare la barriera di mistero che circonda la città, capire come possa esistere un posto tanto sfigato. Perché naturalmente la immaginavo come un luogo desolato, piatto, sonnolento, completamente anonimo. Bene, nulla di più sbagliato. Intanto Enna, come l’Everest, merita di andarci già solo perché è lì. Si arrampica su un’altura, arriva quasi ai mille metri di quota, non c’è un metro di strada in piano, e dalla cima domina a trecentosessanta gradi le bellissime vallate a grano di cui parlavo sopra, per l’occasione ammantate di un tappeto di velluto verde. Le domina con l’autorità del castello normanno-federiciano, tanto imponente quanto elegante, eretto su fondamenta già greche e poi romane. E di lassù capisci tutto. Lì sotto c’è quello che per secoli, anzi, per millenni, prima della globalizzazione, è stato il granaio d’Italia (e se le cose in Ucraina continueranno così potrebbe tornare ad esserlo). Si spiega così il lusso quasi urtante e scandaloso di reperti romani come la Villa del Casale di Piazza Armerina, a pochi chilometri di distanza.
In compenso Enna (e questo l’ho scoperto naturalmente solo dopo) è tra le prime tre città del meridione per consuetudine con la lettura (è uno degli indici con i quali si valuta la qualità della vita), la prima in Sicilia. Dovevo aspettarmelo, non sono mai attratto dai luoghi senza un qualche motivo.
A deludermi invece sotto questo aspetto è stata Siracusa. In pratica sono andato in Sicilia con un’unica meta obbligata, la fonte Aretusa presso la quale Johann Gottfried Seume voleva andare a leggere i versi di Teocrito (e per farlo percorse tutto solo, a piedi, nel 1802, duemiladuecento chilometri in quattro mesi, partendo da Lipsia, e altri tremila e passa per tornare a casa facendo un salto anche a Parigi). Bene, la fonte Aretusa è ancora lì, ma nessuna statua, nessuna targa ricorda questo gesto incredibile di devozione alla poesia, di coraggio e di resistenza fisica. E già questo è grave. Ma il peggio viene quando si prova ad indagare tra i librai siracusani. Nessuno conosce l’esistenza di “L’Italia a piedi 1802”, l’unica traduzione italiana (uscita per Longanesi nel 1976) di Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802. (Una passeggiata a Siracusa nell’anno 1802), ma nessuno soprattutto sa nulla di Seume e del suo viaggio. La stessa cosa si ripete poi con i librai di Catania e di Agrigento (forse avrei dovuto provare ad Enna, ma ci sono capitato in un giorno festivo). Ora, non pretendo che tutti condividano le mie passioni, in genere ne sono anzi piuttosto geloso, ma pensavo che il viaggio e il personaggio potessero prestarsi, se vogliamo, se non altro ad uno sfruttamento biecamente turistico, potessero magari rappresentare un richiamo per allodole tedesche. Invece, il nulla.
Un’esperienza quasi simile me l’ha procurata Bronte. Anche in questo caso, ci sono andato a bella posta per testare quale memoria fosse rimasta dei fatti dell’agosto 1860, quelli raccontati da Verga nella novella Libertà. Mi ha incuriosito ulteriormente il trovare in ognuna delle città siciliane visitate una via intitolata a Garibaldi, in genere addirittura la principale, o in alternativa a Vittorio Emanuele II, e persino in un paio di casi a Nino Bixio. Non pensavo che questi personaggi fossero così popolari in Sicilia. A Bronte ho capito. Ho interrogato un giovane barista, nativo del paese, chiedendogli se ci fosse qualche monumento, qualche iscrizione a ricordo dei fatti, e mi sono sentito rispondere: “Di queste cose non so nulla, a scuola non me ne hanno mai parlato”. E la sua non era omertà, perché ha tentato di rimediare alla mia sorpresa parlandomi del castello di Nelson a Maniace, sperando magari c’entrasse in qualche modo. Un paio di avventori molto più anziani, possibili nipoti dei fucilati o dei deportati da Bixio, ma altrettanto ignari, hanno confermato la totale cancellazione della vicenda dalla storia del paese.
Queste sono le impressioni a caldo, almeno quelle di cui ho ricordo al momento. Magari capiterà in seguito di riprenderle e integrarle e organizzarle in maniera più approfondita. Per ora rimangono solo quelle immediatamente successive al ritorno, al rientro nella “normalità” piovigginosa dell’altra Italia. Una decina di giorni volutamente senza giornali e tivù mi hanno tagliato fuori da un sacco di grandi Eventi, primi tra tutti i funerali e le beatificazioni in tempo reale dei personaggi più disparati, da Lando Buzzanca a Pelè all’ex-papa Ratzinger. Ne ho colto solo gli ultimi stanchi strascichi, e segno in positivo tra le cose che il viaggio mi ha offerto anche l’avermi risparmiato gli stomachevoli compianti delle prefiche televisive.
E arrivo all’inevitabile domanda finale. Vale la pena alla mia età girare ancora il mondo, quando quello che ti interessava lo hai già visto, e se non lo hai visto non ti interessa più? Più in generale, ha ancora senso girare per un mondo globalizzato, che ha azzerato le differenze? Sia pure facendolo al di fuori dei circuiti organizzati, nella speranza di collezionare non solo foto e cartoline che si potrebbero benissimo scaricare da internet, ma incontri ed emozioni più profonde? La risposta parrebbe ovvia: vale comunque la pena. Ma non sono così convinto.
Quanto al discorso dell’età, credo che arrivi un momento nel quale si è più inclini a guardarci indietro, disseppellendo ricordi e cercando di riportarli in vita, che a guardarci attorno. Quanto invece al mondo globalizzato, so bene che, a saper guardare, qualcosa di nuovo e di diverso lo si trova sempre: ma il nuovo e diverso, ammesso che ancora esistano, sono davvero tali e possono condizionarti la vita solo quando ti capitano, non quando li vai a cercare.
Detto questo, sto comunque cominciando a fare un pensierino alla Calabria (altra terra incognita). Si vede che tanto vecchio ancora non sono.