Il ritorno dell’acchiappatore nella segale

di Fabrizio Rinaldi, 30 giugno 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Se davvero avete voglia di sentire questa storia … vi dico subito che il “cacciatore nella segale” non è un ricercatore di rarissime specie di frumenti, il cui uso è riservato a pochi sapienti, come qualcuno – spero pochi – può aver ipotizzato.

È sulla cattiva strada anche chi, al sentir parlare di “ritorno”, pensa ad un’ambientazione western.

Il mio titolo allude invece alla traduzione letterale di quello del libro più famoso di Jerome David Salinger: The catcher in the ray, in italiano diventato Il giovane Holden.

Quanto al “ritorno”, sta a significare che fisicamente è tornata fra le mie mani la copia del libro che avevo letto e prestato anni fa. È questa eventualità, decisamente rarissima, che vado ad analizzare: il fortunato caso in cui, dopo parecchio tempo, i libri prestati tornano al legittimo proprietario.

Di norma i casi sono due: o il libro ti viene restituito in tempi ragionevoli o, più sovente, puoi ritenerlo perduto.

In quest’ultimo caso la nostra memoria, forse per difendersi dal torto subito, fa un’operazione non so quanto inconscia: cerchiamo di dimenticare a chi abbiamo prestato il prezioso libro, anzi, di scordarci proprio di quel libro, di averlo posseduto e di averlo letto.

È una reazione che s’innesca per proteggere e preservare ciò che riteniamo più importante, cioè il legame con l’altra persona, rispetto al quale il libro, per quanto amato, passa in secondo piano.

Ma non è così facile. La mente non si lascia ingannare per troppo tempo, e il dolore – anche fisico – per l’assenza del libro in questione ristagna, e ogni tanto riemerge.

I “percorsi mentali” che intraprende un lettore assiduo diventano dopo un po’ dei sentieri, segnalati da stupa non di pietre, ma di libri letti. Questi libri identificano il viaggiatore letterario più della carta d’identità: questa invecchia, mentre il piacere di aver letto Pessoa, Chatwin, Rigoni Stern e Sbarbaro rimane sempre vivo. Certi autori segnano il carattere come le cicatrici la pelle. Ora, proprio perché l’identità del lettore rimane immutata, la tendenza è quella di ripercorrere gli stessi passi lungo le mulattiere letterarie, sedersi ogni tanto sulle pile di libri che siamo certi di possedere ed accorgersi che la pila è più bassa del solito. Frugando nella libreria personale alla ricerca del libro che è tornato alla mente scopriamo che non si trova dove dovrebbe essere. Lo cerchiamo in altri ripiani, ma non c’è verso: il libro, di cui ricordiamo il colore della copertina, le frasi sottolineate, addirittura l’odore, è definitivamente sparito.

Allora ci sforziamo, inutilmente, di ricordare a chi lo abbiamo dato, fino poi ad arrenderci, incolpando magari l’avanzare dell’età. In realtà non credo sia questa a farci scordare il beneficiario della nostra fiducia. La mente cancella la persona a cui avevamo dato il libro, come se avesse compreso che evidentemente non era all’altezza della nostra stima, e la rimuove dalla memoria.

Non è questo il mio caso. Io ricordavo invece benissimo la beneficiaria.

Quando abbiamo a che fare con il mondo femminile tutto si complica – e non credo valga solo per me. Entrano in gioco i sentimenti, specie quelli adolescenziali: all’epoca provavo per questa persona un’infatuazione di quelle che lasciato il segno, anche se è vero che col tempo ci si ricorda più dell’infatuazione che della persona.

Nonostante abbia avuto occasione ogni tanto di incontrarla, non le ho mai chiesto indietro il mio Holden, perché temevo mi dicesse che non rammentava di averlo ricevuto o, peggio ancora, di averlo letto. Sarebbe evaporata l’idea di lei che mi ero costruito e che si era scolpita nella mia mente. Mi piaceva pensare che quel libro l’avesse letto e che quell’oggetto fosse rimasto l’unico tramite del nostro rapporto, di un rapporto beninteso totalmente idealizzato e mai concretizzato.

Sono un povero idiota!

Questo è il guaio con le ragazze. Ogni volta che fanno una cosa carina, anche se a guardarle non valgono niente o se sono un po’ stupide, finisce che quasi te ne innamori, e allora non sai più dove diavolo ti trovi. Le ragazze. Cristo santo. Hanno il potere di farti ammattire. Ce l’hanno proprio.
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Il ritorno a casa del mio Holden non è stato del tutto fortuito. Se ne è fatta intermediaria mia moglie, che casualmente è collega della ragazza. Le è bastato chiedere il libro indietro per ottenerlo immediatamente: una semplice richiesta, quella che a me era parsa impossibile per anni.

Mia moglie ha avuto l’opportunità unica di farmi un regalo del tutto inaspettato, permettendomi di tornare in possesso della copia sottolineata dell’Holden. Ma ha avuto anche l’occasione di sfrugugliare nella mia vita adolescenziale, e di verificare quale tipo d’interesse eventualmente la tizia in questione avesse provato o potesse ancora provare per me, e io per lei: insomma, ha attivato quel gusto sommerso di indagare nel passato del proprio compagno che non è esclusivo, ma è senz’altro tipico delle donne, e che prescinde dal fatto che ci siano sospetti di rimpianti o meno. Ha realizzato un capolavoro. Spero non mi fraintenda – anzi, sono certo che non lo farà –, ma è innegabile che il modo in cui si sono sviluppati gli eventi le abbia offerto un grosso vantaggio in quella eterna partita a scacchi che è il matrimonio.

Il cerchio intanto si è chiuso: un’assenza sofferta è divenuta presenza tranquillizzante nella mia libreria. Ho eliminato la copia surrogato acquistata dopo lo smarrimento e ho reintegrato al suo posto la vecchia edizione Einaudi un po’ sgualcita, con il quadrato bianco in copertina.

La ragazza, ormai donna e madre, Il giovane Holden lo ha letto e riletto (lo ha confermato a mia moglie), e lo dimostra anche lo stato di consunzione del libro. Per un feticista dell’oggetto libro sarebbe un colpo al cuore, mentre per me ha acquisito un valore infinitamente maggiore che se fosse rimasto a dormire inutile per tutti questi decenni nello scaffale della letteratura americana.

I libri vanno infatti affidati a chi riteniamo degno della loro lettura. Certo, la separazione è dolorosa, spesso si ha il presentimento che possa essere definitiva. Ma a volte proprio la loro assenza induce a nuove letture, fa posto ad altri libri, apre a connessioni letterarie diverse e a nuovi sentieri. Un libro troppo sacralizzato rischia di creare dei recinti e di chiudertici dentro: la distanza, magari anche solo momentanea, rende più laico il rapporto.

Il ritrovamento dell’Holden mi ha ad esempio incoraggiato a rileggerne alcune parti. Ho realizzato quanto sia, a tratti, lontano dal mio modo d’essere di oggi, ma ho anche compreso il perché all’epoca mi piacque tanto. La lettura non suscita più l’entusiasmo ingenuo di allora, non la stessa identificazione. I decenni trascorsi si sentono. Però hai molto più chiaro ciò che il libro ti ha trasmesso, e in questo caso ha trasmesso a milioni di altri lettori.

Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelapesca dove. O se volavano via. 
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Il ragazzo che si chiede dove vattelappesca vadano le anatre d’inverno, quando il lago gela, fa quello che tutti i giovani in un modo o nell’altro fanno (o almeno, facevano): si pone delle domande apparentemente assurde, dei quesiti senza risposta, che lo inducono comunque a immaginare un mondo differente, un pensare ed un agire non “conformi” . Gli adulti non si pongono questo genere di domande perché devono badare alle esigenze quotidiane, hanno la mente piena di apprensioni e ben poco tempo per fantasticare sul dove vadano le anatre d’inverno.

Ma non sempre. Io, per mia fortuna, non ho smesso di cercarle ogni tanto, quelle maledette anatre …

Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzi che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia. 
J. D. SALINGER, Il giovane Holden, Einaudi 1961

Lo so che è una pazzia. Lo so benissimo anch’io, come so che Holden è sostanzialmente un inconcludente, uno che attende che il mondo gli passi accanto per afferrarne qualche brandello, senza avere la benché minima idea di cosa realizzare nella vita.

Ma come si fa a resistere all’assurda e poetica immagine che va a scovare per descrivere il mestiere che vorrebbe fare, un mestiere unico nel suo genere: l’acchiappatore nella segale, colui che trattiene i bambini che corrono nella direzione sbagliata, verso il dirupo. Ci sono degli innocenti, inconsapevoli del pericolo che sta loro davanti, più fragili ancora del protagonista (che è tutto dire). E lui fa la differenza, con un gesto semplice ma decisivo, perché comprende quale possa essere la deriva, e agisce.

Lo fa a suo modo, acchiappandoli prima che la voragine delle scelte di vita sbagliate li inghiotta. Ai bambini offre una seconda possibilità, una differente visione di sé stessi e della situazione in cui si stanno cacciando. Ammette anche i suoi limiti, quando afferma appunto “Lo so che è una pazzia”. Sa che nessuna altra opportunità potrà salvarli, senza una volontà di cambiamento da parte loro.

Esistono ancora acchiappatori capaci di suggerire una visione difforme del comune pensiero? Lo spero tanto, perché altrimenti la segale che abbiamo davanti agli occhi ci impedirà di vedere il burrone verso cui ci dirigiamo.

Io intanto mi piazzo in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco


Collezione di licheni bottone

Progetto “Amico libro”

Linee di indirizzo

di Paolo Repetto, 30 maggio 1999

Il problema

Si vendono sempre più libri, ma i giovani leggono sempre meno. L’incremento delle vendite è legato alla stabilizzazione di un nucleo consistente di lettori forti, che appartengono però alle fasce generazionali adulte o mature; la forbice tra questi e coloro che non leggono affatto continua in realtà ad allargarsi. Inoltre, l’aumento quantitativo ha un contraltare nell’abbassamento della qualità: la gran parte di ciò che viene pubblicato e venduto non si presta affatto ad educare ad una lettura consapevole, critica e creativa.

La scolarizzazione di massa è ormai realizzata, ma si devono fare i conti con un crescente analfabetismo di ritorno. Ciò significa che la scuola non riesce a creare e a trasmettere una consuetudine con la lettura che permanga nel giovane come scelta, come ricerca autonoma di un piacere.

 

Le cause

Se ragioniamo in termini realistici, nell’ottica nuda e cruda della domanda e dell’offerta all’interno del mercato della comunicazione e della formazione, il libro è una merce obsoleta. Come bibliomani avremmo magari diecimila ragioni per sostenere che non è vero, ma come operatori della formazione dobbiamo accettare la realtà. Beninteso, questo non significa arrendersi. Soltanto, si deve prendere atto della situazione, se davvero si vuole cercare di modificarla.

Perché il libro è obsoleto? Perché il calo internazionale non solo della lettura ma anche della semplice capacità di leggere segna il passaggio da una modalità di acquisto delle conoscenze ad un’altra. Di quali conoscenze, e se questo passaggio sia un bene o un male, è un altro discorso (anzi, è lo stesso, ma il fatto che siamo qui a parlare di un progetto di rilancio della lettura rende implicita la nostra opinione). Di fatto il passaggio sta avvenendo, anzi, è già avvenuto.

Se una merce che noi riteniamo ancora essenziale risulta obsoleta per il mercato, l’unico modo per evitarne la sparizione è la “ricollocazione”: vale a dire, l’offerta sotto altra forma, l’aggancio ad altri significati. Il libro è stato per oltre venticinque secoli l’unico strumento alternativo alla spada e al denaro per emergere. Impadronirsi della lettura ha significato per generazioni impadronirsi di uno strumento per sottrarsi o ribellarsi al potere, o magari per esercitarlo. Con la diffusione dell’alfabetizzazione (introduzione della stampa, riforma protestante ecc.), e quindi con la progressiva o almeno potenziale accessibilità di massa, questo significato strumentale si è prima modificato (l’occasione offerta a tutti di un avanzamento sociale), poi ha cominciato a venire meno. Il colpo di grazia lo ha dato l’irrompere dei moderni mezzi di elaborazione e trasmissione delle conoscenze.

In questo senso la funzione del libro è ormai finita, liquidata dalla immediatezza e dalla velocità degli altri strumenti comunicativi (e formativi), che meglio rispondono alle esigenze di una vita interpretata all’insegna appunto della velocità e delle conoscenze a rapido consumo. Il venir meno di questa funzione finalizzata in qualche misura al successo è oggi avvertito chiaramente (vedi ad es. sportivi, imprenditori, uomini di spettacolo e politici che si vantano di non aver mai letto un libro – cosa di cui fino a qualche anno fa si sarebbero vergognati). Il fatto poi che questo non sia vero, e che la dimestichezza con la lettura abbia anche una ricaduta in termini pratici – di successo, se la vogliamo mettere su questo piano – è difficilmente percepibile, soprattutto quando si è abituati a pensare la propria esistenza in tempi stretti, e non a proiettarla sul lungo periodo.

Per arrivare al dunque. Se la lettura non può più essere promossa come tramite al successo e neppure come strumento primario e imprescindibile della conoscenza (anche se noi sappiamo che lo è), occorre proporla sotto un’altra luce, cambiare strategia di marketing. Al valore utilitaristico va sostituito quello edonistico: all’utilità dello strumento la gratuità del piacere. L’utilità il lettore la scoprirà poi da solo.

 

Le responsabilità

Il piacere della lettura passa, tra le altre cose, anche attraverso la fisicità del rapporto col libro. Occorre pertanto lavorare anche su questo versante, sulla restituzione di uno specifico valore all’oggetto libro. Questo valore non è infatti oggi fisicamente intrinseco al prodotto. Ciò che da un lato ha facilitato o è parso facilitare l’accesso pratico alla lettura, l’editoria di massa, le collane economiche e più recentemente la vendita nelle edicole e nei supermercati, dall’altro ha sottratto al libro la sua aura e la sua specificità di prodotto diverso. Quello che un tempo era un bene di lusso, reso tale dalla non indispensabilità e da un valore aggiunto di status culturale, è stato eguagliato ai prodotti di rapido consumo (anche nella qualità e nella cura). Tra cinquant’anni sugli scaffali nostre case o delle ultime superstiti biblioteche ci saranno volumi di un secolo fa, ma ben pochi di quelli pubblicati oggi.

Una parte di “responsabilità” in questa trasformazione di immagine va ascritta, sia pure indirettamente, alla scuola. La polluzione dei libri di testo e soprattutto la loro obsolescenza quasi immediata, decretata dalle riedizioni costantemente “aggiornate” ma legata in parte anche alla necessità di inseguire affannosamente nuove filosofie e impostazioni didattiche, ha contribuito in larga misura a minare il rispetto per il libro come oggetto. Sino a qualche decennio fa il libro di testo doveva essere religiosamente salvaguardato, magari per poter essere riutilizzato dai fratelli minori. Oggi, consentendo o addirittura inducendo pratiche come quella dell’evidenziazione, che vanno a sommarsi ad una tendenza generalizzata all’incuria, ne viene sancita la condizione di prodotto usa e getta. E questa percezione si riverbera immancabilmente, oltre che sull’oggetto libro in generale, anche sui suoi contenuti.

In questa operazione la scuola ricopre un ruolo paradossale. Da un lato è il tramite, il supermercato che deve promuovere sui suoi scaffali il prodotto lettura. Dall’altro deve far dimenticare subito il legame tra il prodotto e il supermercato, pena il fallimento dell’intera operazione. Se non si riuscirà a sganciare l’immagine del libro da quella della scuola sarà tutto inutile. Il libro, la lettura vanno riversati il più possibile “fuori” della scuola, inseriti nei ritmi della quotidianità esterna, ma come cunei che esercitano nei confronti di questi ultimi un’azione frenante.

Un altro compito che la scuola può e deve assolvere è quello di filtrare i cascami dell’attuale polluzione libraria. Si sta moltiplicando il numero dei libri decisamente stupidi prima ancora che inutili, che non solo non concorrono ad una educazione alla lettura, ma alimentano la maleducazione linguistica e morale. Non è affatto vero che va bene tutto, purché si legga. Il genuino piacere della lettura nasce dalla scoperta delle molteplici dimensioni, diverse da quelle della quotidianità, nelle quali attraverso essa ci si può addentrare. La lettura non può risolversi in una perdita di tempo: al contrario, il tempo deve valorizzarlo, aiutandoci a spenderlo per conoscere altri luoghi, altri mondi, altre storie.

Nemmeno si può lasciare questo ruolo ad altre agenzie informative. Gli entusiasmi suscitati negli ultimi anni da alcune rubriche televisive di promozione libraria non tengono conto degli effetti collaterali di qualsivoglia proposta “mediatizzata”. Anche le trasmissioni più raffinate e più oneste (il Pickwick di Baricco, per intenderci), quelle che non si riducono a spot della “produzione culturale” più recente ma chiamano alla riscoperta di testi ormai classici, non si sottraggono al principio per cui il mezzo è di per sé una parte non marginale del messaggio. Inducono ad una lettura teleguidata, e in molti casi si sostituiscono alla lettura stessa. Quando l’effetto è esattamente lo stesso, vengano letti Pinocchio o Il giovane Holden, significa che a colpire l’interesse non è stato il libro, ma la sua presentazione.

Infine, per rispondere subito a quella che potrebbe essere una legittima obiezione, ovvero che anche la scuola in fondo veicola più o meno direttamente le scelte degli allievi (e la funzione di filtraggio che sopra le si attribuiva ne è l’esempio più probante), è necessario chiarire meglio quale dovrebbe essere il suo ruolo. La scuola non deve offrire pesci, ma insegnare a pescare. Non è suo compito suggerire le letture, o almeno non è quello primario, quanto piuttosto renderle possibili. La scuola deve quindi anzitutto insegnare a leggere, perseguire questa competenza come obiettivo primario: per farlo dovrà necessariamente scegliere i testi sui quali fare esercitare gli allievi, ed è certamente opportuno che al di là della funzione strumentale questi testi abbiano anche una valenza ludica e culturale, trasmettano una qualche conoscenza e il desiderio di ampliarla. Ma la cosa poi deve fermarsi lì: il piacere di leggere sta anche nelle scoperte che uno fa per conto proprio, seguendo un suo percorso particolare e singolare. La scuola deve spianare il percorso, non programmarlo o tracciarlo.

 

Quali rimedi?

Le strategie promozionali vanno diversificate, all’interno della scuola, non soltanto perché ci sono fasce d’utenza diverse, ma perché totalmente differente è l’obiettivo. Nel caso della scuola primaria l’operazione promozionale è intesa a creare una consuetudine ed una abitudine: può quindi far leva, se condotta con buon senso e con buoni materiali, su un approccio “quantitativo”. Nella scuola superiore deve essere mirata invece soprattutto al recupero, a contrastare una crescente disaffezione: e qui è necessario puntare sulla qualità. Anche se in entrambi i casi la concorrenza delle altre agenzie “formative” dispone di mezzi superiori, perché può giocare sulla “facilità” della visione rispetto alla “fatica” della lettura, quest’ultima mantiene per i piccoli il fascino della scoperta di una potenzialità, di una indipendenza: sarebbe quindi sufficiente coltivare bene questo fascino, stimolando una crescente autonomia nelle scelte e nel rapporto con il libro. L’intervento sulla fascia adolescenziale è invece più complesso, proprio perché volto a quell’utenza che lo stimolo proveniente dalla scoperta non lo prova più, e che sottoposta ad una molteplicità di input tende necessariamente a scegliere quelli che esigono un minore investimento in termini di tempo e di impegno. A meno che …

A meno che non si abbia il coraggio di ammettere che in una campagna di questo tipo il grande spiegamento di mezzi finanziari e strumentali, la pubblicizzazione, la creazione di eventi, pur se necessari, non sono affatto decisivi. È invece indispensabile il ricorso ad una strategia sottile, che deve far perno su un fattore che sfugge ad ogni quantifìcazione: l’elemento umano. Per trasmettere una passione non è sufficiente la professionalità: questa è indispensabile per mettere a disposizione dei ragazzi le esche e il combustibile: ma la scintilla, se non si vuole sperare soltanto nell’autocombustione e nella tradizione domestica, deve essere accesa dalla voglia indotta negli studenti di emulare, di consonanza.

Ciò significa ipotizzare uno spazio ed una modalità di intervento diversi per gli insegnanti. Senza evocare scenari da libro “Cuore” (ma solo perché non si danno le condizioni oggettive, in quanto Cuore rimane un bellissimo libro), è possibile ad esempio immaginare outing, dichiarazioni motivate, arricchite dal coinvolgimento diretto degli allievi per il ricorso ai testi. Tanto meglio se le dichiarazioni d’amore per la lettura verranno da docenti non sospetti di tirare acqua al proprio mulino, non appartenenti agli ambiti disciplinari formalmente più coinvolti. E se verranno sostanziate dall’esemplificazione di quella fondamentale ricaduta sulla percezione del sé e degli altri, sul senso da dare alla propria esistenza, sui valori sui quali fondare le proprie relazioni con gli altri, sull’apertura di sconfinati orizzonti spaziali e temporali entro i quali muoversi che solo i veri lettori conoscono. Per quanto possa apparire un fattore troppo vago e liquido e imponderabile, rimane l’indispensabile prerequisito per tradurre un’azione dimostrativa in un intervento di una qualche efficacia.

Al di là delle tante strade che possono essere intraprese, ciò che veramente preme è che chi opera nella scuola abbia chiari la direzione e il fine. La direzione è quella di un approccio del tutto nuovo al problema, più coraggioso e realistico, libero dai vincoli di un ritualismo che serve solo a riempire moduli e produrre relazioni finali. Il fine è la reinvenzione per il libro e per la lettura di uno status che li collochi fuori delle mode effimere e li sottragga al confronto impari con i nuovi media. Leggere non può essere più o meno divertente che guardare la televisione o giocare con la play station: la lettura fa accedere ad una dimensione totalmente diversa, e proprio su questo occorre insistere. “Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri” ha scritto Sebastiano Vassalli. Va quindi promossa come “il” divertimento per antonomasia, che suppone e nel contempo deve tornare a garantire, come è stato per millenni, lo spazio in assoluto più idoneo per l’esercizio di una totale libertà.