Fuori dall’Eden. W.H. Hudson e l’utopia vittoriana

di Paolo Repetto, 16 ottobre 2020

Fuori dall'Eden copertinaIn un angolo dei giardini di Kensington, ad Hyde Park, poco lontano dalla statua dedicata a Peter Pan, c’è un monumento bruttissimo: una sorta di ara pacis in sedicesimo decorata nella parte anteriore da un altorilievo. L’ho visto per la prima volta più di cinquant’anni fa, ma allora non avevo affatto compreso a chi fosse dedicato (in realtà non ci provai nemmeno, perché in quell’occasione l’avevo scelto come riparo per sottrarmi alla vista dei vigilanti notturni del parco: non funzionò, avevano un maledettissimo cane). Ho scoperto solo molto tempo dopo che quell’insignificante parallelepipedo ricorda William Henry Hudson, e che la figura femminile alata del fregio, tutt’altro che leggera, quasi imprigionata nel marmo, dovrebbe rappresentare Rima, l’eroina di “Verdi dimore”.

Anche se avessi prestato maggiore attenzione mi sarebbe stato difficile riconoscerla, malgrado di Rima fossi già da tempo innamorato: lo ero infatti nella versione offertane al cinema da Audrey Hepburn. Il film omonimo era una vera pizza, credo rientri con merito tra i dieci più brutti mai realizzati, e per fortuna quando lo vidi avevo già il libro alle spalle, altrimenti quest’ultimo lo avrei saltato a piè pari: ma Audrey era riuscita a evocarmi l’idea di una ninfa dei boschi (avevo un debole per le ninfe), a dispetto persino di una inverosimile parrucca, e Rima sarà per sempre lei. Tutto comunque avrei immaginato ad eternare la memoria di Hudson, tranne un blocco squadrato di marmo (e mi fa specie che a volerlo sia stato un gruppo di amici suoi: per fortuna dai miei non mi aspetto nulla di simile).

W.H. Hudson non ha goduto di una grossa fortuna in Italia: è indubbiamente meno conosciuto di quanto meriterebbe, non fosse altro per la sua attualità come ecologista della prima ora, visto che non tutti, e io tra questi, possono apprezzare l’eccezionale fluidità e la felicità del suo inglese. Per quest’ultima dote era ammirato persino da Conrad (che scriveva: Quest’uomo è un prodotto della natura, scrive con la stessa facilità con cui l’erba cresce) e lodato da Borges, il che è tutto dire: ma anche a leggerlo in traduzione possiamo goderne l’elegante semplicità, che fa sì che le sue pagine sembrino scritte ieri. Come Conrad, del resto, non era un madrelingua anglosassone puro, ma arrivava da una triangolazione familiare piuttosto complessa, essendo figlio di inglesi trapiantati negli Stati Uniti e migrati poi in Argentina in cerca di miglior fortuna. Da bambino parlava prevalentemente lo spagnolo. In Inghilterra arrivò solo da adulto, e non cominciò a scrivere prima di aver acquisito il pieno possesso dell’idioma, senza inflessioni regionali. Ciò ne spiega la nitidezza.

Non mi addentro però nelle analisi letterarie né voglio raccontare la biografia di Hudson, che è senz’altro meno avventurosa di molte altre, ad esempio di quella di Waterton. Vorrei solo richiamare l’attenzione su alcune delle sue opere più significative, quelle che meglio testimoniano le infinite sfaccettature dei suoi interessi, per sottolineare la straordinaria modernità che caratterizzava il suo modo di pensare, e ne fa dunque un classico. Come tale, Hudson offre innumerevoli spunti per riflettere anche sul presente. La biografia verrà poi fuori più o meno direttamente dalle opere stesse, che tratterò non nell’ordine temporale della composizione, ma in una sequenza che rispecchia la storia personale dell’autore.

1. Un’infanzia nel Nordeste

Gli anni dell’infanzia Hudson li ha rievocati in Un mondo lontano (Far Away and Long Ago, 1920). Fu il suo ultimo libro, si decise a scriverlo solo molto tardi, già anziano, correndo consapevolmente il rischio di una narrazione mutila e frammentaria, eccessivamente condizionata dal filtro dalla nostalgia. Nella prefazione scrisse che “quando uno si sforza di richiamare alla mente la propria vita infantile nella sua completezza, si rende conto che non è possibile. Gli episodi, le persone, gli avvenimenti che con uno sforzo riusciamo a rievocare non si presentano in bell’ordine: anzi, non c’è alcun ordine, alcuna regolare successione e progressione”. A meno che, per un qualche motivo – nel suo caso una grave malattia che lo costrinse a letto un paio di mesi – la mente si sgombri totalmente degli altri pensieri (come se la foschia e le ombre delle nubi si fossero dileguate e tutto il vasto panorama mi apparisse in piena luce). Ebbene, Hudson ce l’ha fatta, il libro non è né una trita celebrazione dei bei tempi andati né una lacrimosa rievocazione dei propri anni più felici, ma diventa racconto di un mondo particolare, percepito e vissuto attraverso gli occhi di un ragazzo, come fosse in presa diretta. Gliene siamo grati, perché la narrazione è davvero avvincente.

Quello dell’infanzia libera e spensierata, vissuta in una immersione totale nella natura, è uno dei topoi più ricorrenti nella letteratura moderna, a partire da Paul et Virginie e da Rousseau su su fino ai piccoli selvaggi di Edgrard Rice Bourrougs e di Kipling; direi che è secondo per frequenza solo a quello dell’infanzia maltrattata e infelice, sul modello di Dickens e più ancora su quello di Gorkij. E proprio il confronto con l’Autobiografia di Gorkij può riuscire significativo.

Hudson visse i suoi primi venticinque anni nella Pampa argentina, verso la metà dell’Ottocento (era nato nel 1841): in un mondo cioè ancora selvaggio e violento, governato dalla legge primordiale dei gauchos e dai loro coltelli, nel quale le istituzioni erano pressoché inesistenti (non solo perché fisicamente remotissime, ma perché passavano di mano in mano da un mese all’altro). A rappresentare il potere erano di volta in volta le milizie delle diverse fazioni in lotta, che facevano saltuariamente la loro comparsa ma si comportavano né più né meno come le bande di disertori e di fuggiaschi, egualmente determinate a razziare le estancias e a fare bottino. Nella rievocazione di quel mondo non nasconde nulla della sua realtà spietata: assiste sin da bambino a scene di estrema violenza, incontra la povertà, si confronta con i pericoli. Ma vive tutte queste esperienze con naturalezza: sono i rischi di un paese nuovo, nel quale vale comunque per ciascuno, povero o ricco, il principio dell’assoluta libertà. Poi ci pensano la fortuna, le malattie, l’intraprendenza diversa dei singoli a costruire delle gerarchie. Quello che rimane in mente, quando si termina di leggere queste pagine, è il senso di una libertà totale e selvaggia, sterminata come la pampa, dove all’orizzonte non si scorgono nemmeno villaggi, ma solo fattorie isolate, lontane tra loro intere giornate a cavallo.

 

Dicevo che nel rileggere le pagine di Hudson non ho potuto fare a meno di pensare a Gorkij. Quest’ultimo ha vissuto la sua infanzia nella pianura russa, altrettanto sterminata ma coltivata e addomesticata da secoli, dove di libero e selvaggio c’era ben poco, mentre sui rapporti tra gli abitanti pesava l’ombra di una oppressione continua, e la violenza esplodeva incontrollata non appena sfuggiva al controllo di una violenza “superiore”, quella dell’autorità e dello stato. Le pagine dell’Autobiografia di Gorkij grondano costantemente di questo senso di oppressione, perché dovunque il protagonista scappi, da qualunque parte volga i suoi passi, trova sempre bene o male lo stesso clima. La pianura russa Gorkij la percorse tutta a piedi, quasi sempre fuggiasco, inseguito o guardato con sospetto, mentre Hudson a partire dai sei anni aveva cominciato a scorrazzare liberamente col suo pony. Questo sarebbe già sufficiente a spiegare, prescindendo dalle successive differenti vicissitudini e dai percorsi di vita intrapresi, la considerazione diametralmente opposta che i due maturarono dei loro simili, e in particolare del mondo contadino.

Nel caso di entrambi, comunque, al centro della narrazione non è l’infanzia in sé, ma ci sono i personaggi incontrati, gli animali, i paesaggi, le usanze, ormai appunto lontani, nel tempo come nello spazio. L’infanzia è solo il luogo mentale dal quale scaturiscono i ricordi, e naturalmente detta anche la scala delle percezioni: come Gorkij, in più di un caso Hudson sottolinea fortemente l’imponenza, l’altezza, la robustezza dei personaggi che hanno colpito la sua fantasia (e probabilmente nel suo caso agisce anche un meccanismo psicologico di proiezione, perché lui stesso era alto quasi due metri – ma anche Gorkij rimarca spesso e volentieri la propria prestanza fisica): il Capitano Scott era un uomo enorme, un gran sportivo; il viaggiatore che resuscita dall’annegamento era uno degli uomini più grossi che abbia mai visti: doveva pesare almeno cento chili; un’ora prima ci eravamo stupiti della sua corpulenza e della sua forza. Oppure: L’Alcalde era un uomo grosso, alto più di un metro e ottanta. È lo sguardo tipico di un bambino, dal basso verso l’alto. Hudson evidentemente non lo ha mai perso, mentre Gorkij non ha mai potuto essere solo un bambino.

Quanto all’ambiente, Hudson non è un ecologista della domenica, non scopre un mondo delle meraviglie nel quale aggirarsi a bocca aperta come un turista, accettandone acriticamente ogni aspetto e convertendosi magari all’integralismo più stolido: per lui vale piuttosto il processo contrario. Quella dimensione la assorbe col latte materno, c’è dentro, per anni conoscerà solo quella: comincerà semmai a viverla in maniera diversa proprio per via del distacco da essa che ad un certo punto gli è imposto, ma trasferirà la sensibilità educata dalla pampa anche ad altri luoghi. Un suo recensore e amico, Edward Garnett, sintetizza perfettamente questo rapporto: “Si potrebbe dire che fino a sedici anni Hudson si è riempito gli occhi e il cuore della natura: dopo ha cominciato forzatamente a riflettere su ciò che aveva visto e andava vedendo, e a trasmettere queste cose al cervello, a ricomporle in un grande quadro di bellezza e di armonia, rendendosi conto anche di quanto delicato e fragile fosse questo quadro”.

Hudson differisce anche dagli altri grandi naturalisti, come Humboldt ad esempio, o Linneo, o lo stesso Darwin, che per quanto appassionati vivono la natura prima con la testa che col sangue, con uno sguardo che pur se partecipe procede comunque dall’esterno. Per questo non sarà mai un grande classificatore, uno scienziato della natura, ma uno che la natura prima ancora che osservarla la vive, e sa che le classificazioni sono solo una convenzione conoscitiva nostra, che con la natura ha poco a che vedere. (Per capire comunque la sua attitudine verso il mondo naturale basta leggere le pagine dedicate ai serpenti ne Il libro di un naturalista. Oppure dichiarazioni come questa: “Provo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico, come se fossimo concittadini e fratelli; dà per scontato che capiamo il suo linguaggio, e, senza servilismo o insolenza, ci dimostra un cameratismo spontaneo e amabile, o un’aria cordiale”.)

Anche in questo caso si rivela interessante il confronto con Gorkij. Dell’interesse di quest’ultimo per la natura c’è in effetti ben poco da dire. Ne conosce quasi solo gli aspetti più ostili, i campi che attraversa sono irrigati dal sudore dei contadini, le foreste, le poche sopravvissute, sono riserve di materiali ed energia, i fiumi, quando non canalizzati per i trasporti, sono solo ostacoli. Del maiale parla soltanto per raccontarne il cruento rito della macellazione. Non meraviglia dunque che inneggi alla tecnica come strumento da un lato di dominio, per assoggettare la natura, dall’altro di emancipazione, per sottrarle l’enorme massa di coloro che ne sono ancora schiavi, “servi della gleba” appunto, nella accezione più letterale dell’espressione. Ogni aspetto della natura, compresa quella umana, è per lui materia informe e disordinata, che ai fini della costruzione dell’uomo nuovo va addomesticata e rieducata. Niente di più lontano dall’immagine del gaucho e dello spazio libero e selvaggio nel quale questi si muove.

2. Rosse pianure …

Un mondo lontano non è solo l’ultima prova narrativa di Hudson. A mio parere è anche la migliore. Ma Guillermo Enrique, divenuto ormai William Henry, aveva a quel punto già alle spalle una intensa, anche se piuttosto tardiva e non molto fortunata, carriera di narratore. Aveva esordito nel 1885, ultraquarantenne, con La terra di porpora (The Purple Land). Anni dopo Borges avrebbe definito questo romanzo un capolavoro, (“uno dei pochissimi libri felici che ci siano al mondo”), esagerando non poco, ma all’epoca la sua uscita non aveva suscitato alcun interesse. Se Un mondo lontano è il romanzo dell’infanzia e dell’adolescenza, La terra di porpora può essere considerato quello di formazione, dell’educazione politica e sentimentale. In termini molto generici anche questa può essere considerata un’opera autobiografica, perché Hudson, a dispetto di una grave malattia reumatica contratta a sedici anni, che lo rese parzialmente invalido per il resto della sua esistenza, continuò per oltre un decennio a viaggiare, quasi sempre da solo, lungo mezzo continente, dalla Patagonia alle foreste equatoriali, e proseguì nelle sue peregrinazioni anche dopo il trasferimento in Inghilterra.

Anche La terra di porpora è ambientato nella Pampa, e in particolare nella regione conosciuta sino alla metà del diciannovesimo secolo come Banda Orientale, corrispondente all’odierno Uruguay. L’area era dilaniata all’epoca da continue guerre civili, alimentate dalla contesa tra i due grandi e scomodi vicini (sono le lotte che vedono la partecipazione attiva di Garibaldi, e la terra è “rossa” anche e soprattutto del sangue su di essa versato).

Il protagonista è un giovane inglese, Richard Lamb (cognome con ascendenze letterarie esplicite, paradossalmente preso a prestito da un autore che incarnava l’esatto opposto della personalità dell’avventuriero). In teoria Richard cerca lavoro, per sistemarsi con la giovane che ha sposato dopo una fuga-rapimento dalla casa di lei: in realtà è un’anima irrequieta a caccia di avventure, anche sentimentali. Lo si potrebbe definire un incrocio tra i picari spagnoli e i vagabondi romantici. Hudson gli presta tutti i propri sogni e persino i propri tratti fisici (lui stesso era un bellissimo uomo, assai consapevole del fascino che esercitava sull’altro sesso), attribuendogli in più una salute di ferro e una disarmante spensieratezza giovanile (quelle di cui avrebbe voluto godere, ma che gli erano state sottratte dalla malattia): caratteristiche che lo fanno passare quasi indenne da una disavventura all’altra e cadere comunque sempre in piedi. Richard Lamb è uno che ama sinceramente la vita, in ogni suo aspetto, ed è quindi disponibile ad accettarne senza eccessi di entusiasmo e senza troppe recriminazioni tanto i doni che le sconfitte. Chi volesse cercare in lui le grandi passioni ideologiche o esistenziali dei suoi contemporanei russi, i tormenti o le epiche lotte alla Knut Hamsun, rimarrebbe deluso. La storia, per esplicita ammissione dell’autore, che parla a più riprese di una “moderna Troia”, è raccontata sulla falsariga dell’Odissea. Durante il viaggio verso una lontanissima estancia, nella quale si reca a cercare inutilmente lavoro, e soprattutto poi sulla via del ritorno, Richard incorre in una serie di peripezie degne di quelle di Ulisse e ad esse chiaramente ispirate. È coinvolto in duelli rusticani coi gauchos, aggredito da cani feroci, accolto da famiglie indigene povere ma ospitali, si imbatte in una colonia di suoi connazionali completamente alcolizzati, spezza il cuore di più di una giovinetta e sfugge a stento dalle grinfie di navigate matrone, finisce in carcere e poi si arruola e combatte in una milizia rivoluzionaria: insomma, sembra cercarle tutte per ritardare il ricongiungimento con la sua Penelope (e soprattutto col suo implacabile genitore).

A suo modo Borges aveva ragione: La terra di porpora è un libro “felice”, e non stupisce che possano esserlo anche i suoi lettori, se riescono a condividere la spensieratezza del protagonista. Se volessimo necessariamente ascriverlo ad un genere, potrebbe essere considerato un western di buona levatura, che al netto di qualche tributo al tardo romanticismo ha nulla da invidiare ai romanzi di Cormac Mc Carty. E comunque non so decidermi se considerare il suo eroe un epigono o un anticipatore: sembra uno di quei personaggi che riescono ad essere in sintonia con ogni epoca proprio perché non appartengono a nessuna. Nella sua leggerezza, che a volte sembra persino superficialità, Richard Lamb è un uomo libero: non cerca la libertà nelle terre selvagge (tipo Balla coi lupi o Into the wild), ma se la porta addosso, ovunque vada e si trovi. E in questo senso è un contemporaneo di ogni epoca, ma è anche sempre uno straniero. Il che mi fa correre subito la mente all’attitudine mentale di due categorie umane che da sempre mi affascinano, l’anarchico e l’ebreo, sulle quali sono tornato sovente e che tendo volentieri a sovrapporre.

Lo sfondo sul quale si dipanano le avventure di Lamb è una esaltazione della semplicità e del frugale benessere che caratterizzano la vita rurale del Sud America; e diventa implicitamente una critica del modello di civiltà dell’Occidente “evoluto” e industrializzato. Le vicende militari, i disordini che turbano questa serenità di fondo sono imputabili proprio alla penetrazione di questo modello. Hudson manterrà inalterata sino all’ultimo la sua simpatia per quei popoli che conservano (o meglio, conservavano ancora all’epoca sua) la capacità di rapportarsi alla natura in maniera spontanea e aperta, accettandone tutte le contraddizioni, il bene e il male. Al contrario, la domesticazione, il controllo sempre più intrusivo che l’uomo tende a esercitare sul mondo, sui suoi simili e prima ancora su se stesso, è all’origine di ogni tragedia e sofferenza.

 

3. … e verdi foreste

La fama, o almeno, un certo successo, arrise a Hudson solo con un romanzo molto più tardo, Verdi dimore (Green Mansions, 1904), quello appunto dove compare Rima. Siamo ancora una volta nell’America Meridionale, ma cambiano decisamente gli scenari. Dalla Pampa bruciata dal sole e dal vento la vicenda si trasferisce nelle foreste lussureggianti della Guyana. La narrazione parte al solito da un’esperienza diretta, perché la jungla amazonica Hudson l’ha davvero conosciuta nelle peregrinazioni di gioventù.

Questa volta il protagonista è un giovane venezuelano, Abel Guavez de Argensola, costretto a seguito di una rivoluzione e dopo aver visto assassinare il padre a rifugiarsi nella foresta a sud dell’Orinoco. Riesce a farsi accogliere da una tribù indigena, che lo considera una sorta di stregone, e si mette in cerca dell’oro che dovrebbe consentirgli di tornare a Caracas e prendersi la sua vendetta. Durante uno spostamento viene però morso da un serpente velenoso ed è salvato solo dall’intervento di una misteriosa e bellissima fanciulla, che si esprime in un linguaggio simile al canto degli uccelli e ha un rapporto “musicale” sia col mondo animale che con quello vegetale. La ragazza è appunto Rima, unica superstite di una razza scomparsa, personificazione dell’innocenza originaria e della natura incontaminata. Naturalmente Abel se ne innamora all’istante, e la segue sino al suo rifugio, le Verdi Dimore, dove la ragazza vive con un anziano che parrebbe essere suo nonno.

C’è però un problema, perché gli indigeni considerano Rima l’incarnazione di uno spirito maligno, e chiedono ad Abel di ucciderla. Il giovane rifiuta, e accompagna invece la fanciulla nella ricerca del luogo in cui risiedeva un tempo il suo popolo. A questo punto il colpo di scena: il vecchio, che si chiama Nuflo, confessa di essere uno dei banditi che anni prima avevano assaltato il villaggio di Rima, e di aver portato via la bimba per sottrarla al massacro compiuto dai suoi compagni. Dopo di che fugge per tornare a Verdi Dimore, dove ha nascosto un notevole quantitativo di oro. Rima lo segue, viene scoperta dagli indigeni, si rifugia su un albero al quale questi appiccano il fuoco, e muore nel rogo. Abel, sopraggiunto in ritardo, non può che constatarne la morte, anche se una sorta di visione gli fa capire che lo spirito di Rima non lo abbandonerà mai.

Ho voluto raccontare la trama di questo romanzo, sia pure per sommi capi, per sottolineare come non sia certo stata l’originalità della vicenda a decretarne il successo. Questo è legato semmai alla capacità di Hudson di creare atmosfere piene di fascino e di mistero servendosi dei semplici ingredienti offerti dalla natura, sia pure da una natura lussureggiante. Hudson in effetti non ha avuto bisogno di inventare effetti speciali: gli è bastato miscelare nella maniera giusta quelli naturali per tenere il lettore sospeso costantemente in una dimensione incantata. Tutto ciò che dice delle piante e degli animali, delle proprietà delle prime e dei comportamenti dei secondi, è scientificamente esatto, ma viene proposto in una chiave che fa apparire quelle proprietà e quei comportamenti quasi magici. Non è solo un effetto ottico: dietro c’è la concezione della natura “sentita” dall’interno anziché osservata dall’esterno. Proprio in Verdi dimore parla della “opaca, plumbea maschera della mera curiosità intellettuale”, alla quale contrappone “il sentimento della infinita, misteriosa bellezza della natura nella sua vitalità selvaggia”. A parte il “selvaggia”, che al nostro poeta non sarebbe piaciuto, sembra di sentir parlare Pascoli. E varrebbe la pena confrontare la sinfonia che Rima riesce a suonare con le fronde degli alberi con quella orchestrata da D’Annunzio ne “La pioggia nel pineto”, per rendersi conto di quale delle due davvero nasca da una comunione intima con la natura.

Credo che Verdi dimore abbia i requisiti per soddisfare ancora oggi molti palati; ma non sono affatto convinto che il libro venga apprezzato correttamente. Non ci sono più le condizioni per farlo, il nostro rapporto con la natura si è invertito, quelli che per Hudson erano ancora spazi sconfinati, alle cui leggi si doveva sottostare, per noi sono ormai delle aree addomesticate, delimitate, regolamentate. E quel che sfugge alla salvaguardia artificiosa, di selvaggio ospita ormai solo lo sfruttamento e lo scempio. Ma, soprattutto, una sensibilità (quando c’è) educata secondo i dettami e le pseudo-filosofie della new age, che pure ha fatto di quest’opera un libro di culto, non può coglierne che gli aspetti più superficialmente “di tendenza”, e piegarli alle proprie fisime naturistiche. Per Hudson comunicare con gli uccelli o vivere di bacche e frutta rientrava in una quotidianità che semplicemente si adattava all’ambiente, senza alcuna forzatura ideologica o religiosa o salutista. Nasceva da qualcosa che a noi oggi manca totalmente: la naturalezza.

Non è un comunque caso che, a differenza di quanto avviene nelle opere precedenti, la vicenda sia ambientata questa volta in un luogo di fantasia, pur conservando nei dettagli le caratteristiche naturali. Verdi Dimore è in fondo un paradiso perduto, un eden violato, e più che un altro luogo rappresenta un altro tempo. Persino gli indigeni della foresta non sono più in grado di accettare il rapporto totale e pacifico con la natura che Rima invece conserva. Sono anch’essi contaminati; le loro superstizioni, le credenze magiche, il terrore del male sono solo il primo passo che li allontana dalla natura e li avvicina alla “civiltà”. E Abel, come tutti gli esploratori, come tutti gli intrusi in un mondo che credono di amare ma che in realtà sfugge alla loro comprensione, è suo malgrado il detonatore che farà esplodere la tragedia.

 

4. Anime cristalline

La storia del viaggiatore, profugo o esploratore, che si innamora di una bella ragazza appartenente ad un mondo non suo, misterioso, era già stata anticipata da Hudson in un altro romanzo. Ne L’era di cristallo (A Cristal Age), uscito anonimo in una prima edizione nel 1887 e ripubblicato col nome dell’autore solo vent’anni dopo, viene raccontato attraverso una metafora tra l’utopistico e il fantascientifico l’impatto dell’autore con la “civiltà” occidentale, segnatamente con il mondo anglosassone dell’età vittoriana. E su quest’opera vorrei soffermarmi un po’ più diffusamente, perché è forse la meno conosciuta tra quelle di Hudson, ma non per questo la meno significativa.

Prima di tutto la vicenda. A narrare in prima persona è Mr Smith, naturalista dilettante, del quale in realtà sappiamo poco o nulla, che si risveglia, presumibilmente dopo essere stato investito da una frana durante un’escursione, sotto un cumulo di pietre e terra, in mezzo a radici che lo hanno quasi imprigionato. Non sa darsi altra spiegazione se non che dal momento in cui gli è occorso l’incidente sia trascorso molto tempo. Quando riesce a liberarsi e a mettersi in cammino non riconosce i luoghi, gli mancano tutti i consueti riferimenti, città, villaggi e campanili; inoltre il fiume che attraversa la valle è limpido e la campagna appare lussureggiante e incontaminata, spettacolo tutt’altro che usuale nell’Inghilterra della seconda rivoluzione industriale; e quando incontra i primi umani, incolonnati in processione per un funerale, si accorge che anch’essi sembrano cambiati in modo radicale, già a partire dall’abbigliamento. È colpito in particolare dalla loro eccezionale bellezza fisica, dall’armoniosità dei loro corpi, così come in seguito, conoscendoli meglio, sarà affascinato dalla loro “cristallina purezza di cuore”, dal fatto che appaiono sempre sereni e rilassati.

Smith realizza a questo punto di essere stato catapultato in un lontano futuro, e che nel frattempo deve essersi verificato nel mondo qualche apocalittico stravolgimento. Dal maestoso vecchio dalla barba candida che guida la processione apprende ad esempio che l’intera umanità è ora organizzata non più in nazioni e imperi, dei quali è scomparso anche il ricordo, ma in svariate case comuni, lontane e indipendenti l’una dall’altra, ciascuna guidata da un “Padre” e da una “Madre”, con nessuna altra forma di struttura sociale. Queste colonie vivono di una agricoltura praticata con metodi arcaici ma in perfetta armonia coi cicli naturali. L’unica tecnologia di cui i coloni dispongono è un sistema di globi di ottone che produce una sorta di musica d’atmosfera. Insomma, tutte le sue conoscenze e le sue abitudini di pensiero sono messe in discussione. Il concetto stesso di città, ad esempio, è assolutamente estraneo agli abitanti di questo mondo, è per loro inconcepibile.

Quindi che cosa intende per città? – domandò il vecchio

Che significa? Una città, secondo come la intendo io, non è altro che un gruppo di case: centinaia e migliaia, o centinaia di migliaia, molto vicine le une alle altre, dove si può vivere comodamente durante anni senza vedere mai l’ombra di un filo d’erba.

Temo – rispose il vecchio – che l’incidente che ha sofferto in montagna le abbia causato qualche danno al cervello, perché in caso contrario non riesco a spiegarmi le sue strane fantasie.

 – Signore, mi sta dicendo davvero che non ha mai udito parlare dell’esistenza di una città, dove vivono ammucchiati migliaia di esseri umani in un piccolo spazio?

Il vecchio non riesce nemmeno ad immaginare una cosa del genere. Queste persone sembrano avere volutamente rimosso i concetti più basilari della società da cui il narratore proviene. Invitato a visitare la Casa, si rende conto che se la lingua parlata è rimasta l’inglese, il sistema di scrittura è cambiato a tal punto che egli non è più in grado di leggerla. E inoltre, quando cerca di far notare questa continuità ai suoi ospiti, costoro non capiscono a cosa si riferisca: gli rispondono che parlano “il linguaggio degli esseri umani – Questo è tutto”.

Nella comunità tutti sono vegetariani, e intrattengono un rapporto di pacifica simbiosi con gli animali e con l’ambiente, e di rispetto reciproco. Ma anche questo rapporto è stato ricondotto alla sua essenziale naturalezza. Rivolgendosi ad un cane che sembra volerlo confortare in un momento di smarrimento, ma con la sola presenza, senza smancerie, Smith dice: “E insieme alla nobiltà canina dei vecchi tempi (si riferisce ai cani specializzati nella caccia), che fine hanno fatto … quelli più degenerati di tutti, i cani da salotto e i loro vari simili … Nessuno dice di te che ti manca solo la parola, mio gentile tutore. Adesso il culto dei cani, con tutte quelle escrescenze di fanatismo che prosperavano sopra il ceppo umido e putrido dell’intelletto umano, è avvizzito progressivamente sino a scomparire, senza lasciare traccia alcuna”. Nel mondo dei cristalliti ognuno e ogni cosa sta al suo posto, ed è quello destinato dalla natura, non quello arbitrariamente assegnato dagli uomini.

Trattandosi comunque di una comunità di umani, e non di spiriti perfetti, esistono al suo interno regole di convivenza rigorose, e la menzogna è considerata un reato gravissimo, punito con l’isolamento. La scoperta più strabiliante è però che tutti appaiono molto più giovani rispetto alla loro età reale, come avessero finalmente trovato l’elisir di lunga vita. Il vegliardo, ad esempio, che altri non è che il Padre della Casa, ha quasi duecento anni.

Nel frattempo, anzi, dal primo momento in cui l’ha vista nella processione funebre, Smith si è innamorato di una bellissima ragazza, Yoletta, (la quale naturalmente ha più del doppio dei quattordici anni che dimostra). Ne è sconvolto, tanto la passione è immediata e travolgente. Senza pensarci troppo su chiede dunque di rimanere in prova per un anno presso la comunità, ed è accettato. Dovrà adattarsi a uno stile di vita completamente nuovo, cosa che lo espone naturalmente a continui errori e incomprensioni, ma in nome del sentimento per Yoletta è disposto a tutto.

Non tarda però ad avvertire che qualcosa non quadra. Nella grande Casa non ci sono bambini, e dalla cultura e dalla sensibilità dei suoi abitanti è assente ogni tratto di romanticismo, ogni riferimento alla sessualità. La stessa Yoletta parla con lui di amore, ma in termini generici e neutri, senza mostrare alcuna passione. Scopre allora che la casa funziona come un grande alveare, nel quale la funzione riproduttiva è riservata al Padre e alla Madre, mentre tutti gli altri vivono in comunità, come fratelli, e in astinenza sessuale. Per Smith è una vera mazzata, perché ciò significa che il suo passionale amore per Yoletta è destinato a rimanere inappagato: e davanti a questa prospettiva, disperato, nel tentativo di liberarsi dal suo desiderio ingerendo un farmaco misterioso finisce involontariamente per suicidarsi.

Ironia della sorte, a sua insaputa proprio lui e la donna che amava erano stati prescelti per diventare i nuovi Padre e Madre della Casa. Non solo: Smith non ha capito che Yoletta cominciava a nutrire per lui qualcosa di sempre più somigliante a una passione romantica. Quando lei glielo confessa non è nemmeno più in grado di risponderle, perché l’irrigidimento della morte ha ormai paralizzato il suo corpo. Siamo in Inghilterra, non in America, e non è tassativo il lieto fine.

Non pretendo che da questa sbrigativa sintesi si capisca granché, ma la storia è in effetti tutta qui. Anche in questo caso chi ha letto il romanzo in inglese assicura che il linguaggio usato, soprattutto nelle descrizioni degli ambienti e dei paesaggi, è superbo, ed evoca atmosfere languidamente nostalgiche, in perfetto stile pre-raffaellita. Ma al di là di questo non siamo certamente di fronte ad un capolavoro, nemmeno Borges avrebbe osato definirlo tale. E tuttavia, ripeto, si tratta di un libro estremamente originale e significativo, per più motivi.

Intanto perché non è il parto isolato di un cervello stravagante. Rientra in una grande ondata di letteratura utopica (e distopica) che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tanto in Inghilterra che negli Stati Uniti e, sia pure in misura minore, anche in Francia. L’età di cristallo vi si inserisce però con una sua spiccata originalità, e questo è il vero motivo di interesse.

5. Quando ancora esisteva il futuro

La generazione di Hudson ha prodotto, come dicevo, una fioritura eccezionale di utopie letterarie. Quelle citate nelle storie della fantascienza o della letteratura utopica si contano a decine. Nella quantità trovano naturalmente posto le tendenze e le visioni più svariate, perché a monte stanno motivazioni spesso diametralmente opposte, che vanno della fiducia positivistica nel progresso tecnologico fino al suo rifiuto e alla denuncia degli sconquassi ambientali e morali da esso causati. C’è anche, e direi soprattutto, lo sconcerto provocato dalla rivoluzione darwiniana: l’ottimismo illuministico sulla perfettibilità ed eccezionalità umana, che era a fondamento di quasi tutte le utopie settecentesche, vacilla. Allo stesso modo vengono rimessi in discussione il discorso sulle razze e anche l’antica presunzione che riservava all’uomo un posto speciale nella natura. Tutto l’edificio concettuale sul quale la cultura occidentale si era retta almeno dai tempi di Aristotele si sgretola.

Queste motivazioni sono poi declinate con esiti molto diversi, a seconda che vengano a sostanziarsi di istanze sociali (e quindi siano interpretate in chiave marxista, socialista o anarchica) o si colleghino ad un rinascente spiritualismo, incontrino le prime rivendicazioni femministe, con la prospettiva di uno sconvolgimento dei ruoli di genere, o si limitino ad una più generica critica del razionalismo scientifico e del perbenismo borghese. Rimane il fatto che a cavallo tra i due secoli l’idea di un rivolgimento prossimo venturo appare egualmente condivisa (e, a seconda dei casi, caldeggiata o temuta) a destra e a sinistra, ciò che spiega anche il clima di irrazionale entusiasmo col quale si andrà incontro al primo conflitto mondiale, persino da parte dei socialisti e di qualche anarchico. Questo clima è alimentato da una classe intellettuale irrequieta e insoddisfatta, che vede nella guerra il trauma necessario per dare uno scossone a strutture di potere sclerotiche e anacronistiche o per produrre una “purificazione degli animi”. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta degli effetti che la letteratura utopica mira ad anticipare.

Di come poi la trasformazione in atto potesse essere diversamente interpretata ho già scritto a proposito dell’opera di Robida e di quella di Verne (cfr. Futuro anteriore): ma qui vale la pena ampliare un po’ il panorama, allargandolo alla cultura anglosassone. Devo quindi aprire una digressione, per accennare alle opere più significative in questo contesto, quelle che consentono di inquadrare il romanzo di Hudson nel panorama. Magari cercando di non tirarla troppo per le lunghe.

La narrativa utopica tardo vittoriana ha i suoi precursori. Un ruolo di primo piano in questo senso lo riveste Edward Bulwer Lytton, autore poliedrico, famoso all’epoca per bestseller come Gli ultimi giorni di Pompei e Zanoni. In un romanzo della tarda maturità, La razza ventura (The Coming Race, 1871), narra di un popolo (gli Ana) dotato di uno straordinario potere – il vril, una forza interiore capace di controllare gli istinti animali e trasformarli in energia positiva –, che abita il sottosuolo terrestre (la Terra Cava), si avvale di una conoscenza scientifica e di una tecnologia avanzatissime (può ad esempio curare qualsiasi malattia e animare gli oggetti, creando degli automi) e appare destinato in futuro a dominare la terra. Più che di una utopia si può parlare in realtà di una distopia, perché a dispetto della giustizia, dell’ordine, dell’assenza di contrasti e dell’assoluta uguaglianza di diritti tra uomini e donne che caratterizzano la loro società, rimane il fatto che gli Ana progettano di tornare un giorno in superfice e di sterminare gli umani. Il libro è francamente un gran polpettone, ma il suo successo ha motivato un sacco di epigoni, e ha senz’altro esercitato una nefasta influenza, soprattutto agli inizi del secolo scorso, su menti facilmente suggestionabili (non ultimo, Hitler). Nella temperie irrazionalistica che caratterizza l’inizio del terzo millennio è tornato a fungere da riferimento per le teorie più strampalate, e viene saccheggiato da ufologi, complottisti, terracavisti, neo-nazisti, da tutta quella costellazione di spostati che è uscita allo scoperto con i lasciapassare forniti dalla postmodernità.

Un altro antesignano, che viaggia però in una direzione per me decisamente più interessante, è Samuel Butler. In Erewhon (1872) immagina un mondo dal quale sono state eliminate non solo tutte le macchine, compresi gli orologi, compiendo un salto indietro di almeno due secoli, ma anche tutte le ipocrisie delle convenzioni sociali. Butler aveva trascorso diversi anni in Nuova Zelanda, dove faceva l’allevatore di pecore, e per ambientare la sua storia sceglie appunto il paesaggio neozelandese, che non a caso ha fornito gli scenari per la trilogia cinematografica de Il signore degli anelli. Erewhon è il palindromo di Nowhere (la Nuova Zelanda sta giusto agli antipodi dell’Inghilterra), e i suoi abitanti vivono in una sorta di mondo alla rovescia, nel quale tuttavia non è tutto oro, perché vi regna un poco sensato conformismo dell’anticonvenzionale. Ad esempio, i malati vengono trattati come criminali e i criminali come malati. L’intento di Butler è naturalmente satirico: tutto l’insieme dei costumi, delle leggi e dei comportamenti degli erewoniani viaggia sul registro della bizzarria, ma al tempo stesso porta allo scoperto quanto siano ipocritamente bizzarri quelli da noi adottati.

Più che a scrivere una storia Butler pare intenzionato a creare una cornice nella quale inserire diversi piccoli saggi (magistrali i tre capitoli che compongono Il libro delle macchine), nei quali i rapporti sociali e i comportamenti individuali vengono esplorati alla luce della teoria darwiniana, ma sempre con uno spiccato e ironico distacco. I riscontri odierni alle sue anticipazioni sono comunque notevoli. La rivolta contro le macchine è stata innescata dalla profezia di un filosofo per il quale “alla fine le macchine avrebbero soppiantato il genere umano, e noi, rispetto ad esse, non saremmo stati considerati molto di più di quanto le bestie dei campi lo siano da noi”. In effetti, ci stiamo arrivando. Oppure il fatto, che trova un singolare riferimento nella nostra attualità, che gli erewoniani non erigono monumenti né scrivono epigrafi per i loro morti. L’usanza, un tempo diffusissima, è caduta in disuso “con grande gioia di tutti, per le statue degli uomini illustri, che in tutta la capitale oggi non sono più di due o tre”.

Queste due opere escono tra l’altro quando in Francia Verne ha già pubblicato una decina dei suoi Viaggi straordinari e ha scritto Parigi nel XX secolo (1863, ma sarà pubblicato solo centotrenta anni dopo). Per non parlare di quel che accade nella scienza e nel pensiero politico. Il terreno per la coltivazione di nuove utopie è ampiamente dissodato.

Nell’ultimo ventennio del XIX secolo, infatti, le anticipazioni visionarie si succedono a raffica, dando vita a diversi filoni. Il modello che potremmo definire “apocalittico”, perché ipotizza che una catastrofe sconvolga ad un certo punto la civiltà occidentale, ha il suo capostipite in Richard Jeffries, un eccentrico naturalista e vagabondo. Nel 1885 Jeffries pubblica Dove un tempo era Londra (After London), la cui vicenda si svolge in uno scenario da film post-atomico e dove si prospetta per l’umanità, colpevole dei peggiori crimini contro la natura, un forzato ritorno a regimi e modi di vita medioevali. Le città inglesi sono invase dai ratti, gli animali domestici si sono rinselvatichiti, le foreste hanno riguadagnato la campagna e pullulano di selvaggi feroci. I discendenti degli “antichi” vivono in insediamenti isolati attorno a un grande lago interno, ma dell’antica civiltà rimane ben poco: “Ci sono pochi libri e ancora meno persone in grado di leggerli; e i libri sono tutti manoscritti, perché non viene più praticata l’arte della stampa, visto che nessuno vuole più leggere”.

Il protagonista, Sir Felix Aquila, sopravvissuto ai miasmi mortiferi che emanano dal terreno e dalle paludi, scopre alla fine un luogo incontaminato e idilliaco e decide di creare in esso la sua utopia feudale. Non ci è detto quale sarà l’esito della sua iniziativa, ma almeno è lasciato uno spiraglio alla speranza.

Jeffries trova un ammiratore e un prosecutore decisamente meno pessimista in William Morris, autore di Notizie da nessun luogo (News from Nowhere, 1890), nel quale profeticamente immagina che in un futuro non troppo remoto la società consumista, basata sul mito della crescita illimitata, governata dalla ragione economica e improntata ad una assurda omogeneizzazione del mondo, arrivi al collasso. Il crollo di un sistema di questo tipo aprirà la strada ad una organizzazione sociale basata sul collettivismo e sul controllo democratico dei mezzi di produzione, nella quale non esisteranno più la proprietà privata e la divisione in classi. Il mondo nuovo praticherà un’economia agraria e artigianale, recuperando per tutti il piacere di godere della bellezza di una campagna rigogliosa, ripulita dalle scorie, dai fumi e dagli egoismi della società del profitto. (Morris meriterebbe però un discorso a parte, ben più ampio, e non è detto che in futuro non ci torni su)

A Crystal Age rientra in questo filone narrativo. È ancor più specificamente un’utopia del ritorno alle origini, ad un’esistenza comunitaria in perfetto accordo con la natura – una natura le cui leggi non sono evidentemente quelle rivelate da Darwin – e, soprattutto, un’utopia anti-urbana (è stata definita anche “utopia pastorale”). A Jeffries lo apparenta, oltre che l’odio per la città, l’idea del passaggio traumatico, del crollo rovinoso del modello produttivo capitalistico e industriale (“Nella loro follia gli uomini speravano di ottenere dalla conoscenza l’assoluto dominio sulla natura … Ma … C’è stato un rogo possente, come quelli del Savonarola. Molte delle cose che per noi erano del massimo valore sono state consumate a cenere: la politica, la religione, le dottrine filosofiche, insieme agli ismi e alle ologie di ogni sorta. Scomparse anche le scuole, le case, le prigioni, gli ospizi di mendicità, gli stimolanti e il tabacco; i monarchi e i parlamentari; i cannoni col loro rombo che seminava morte e i pianoforti che rumoreggiavano pacificamente. La storia e la stampa, il vizio e l’economia politica, il denaro e innumerevoli altre cose ancora, tutte consumate dal fuoco purificatore, come se fossero stoppie ed erbacce prive di valore”.); a Morris la convinzione che solo una rivoluzione “estetica”, un recupero del sentimento della bellezza possa cambiare il mondo.

Non tutti i profeti dell’apocalisse condividono però la speranza – nel caso di Morris, la fiducia – in una rigenerazione dell’umanità e in una sua conversione a perseguire la bellezza. Mattew Phipps Shiel, ad esempio, con La nube purpurea (The Purple Cloud, 1901), chiude idealmente all’alba del nuovo secolo la stagione utopica con una visione decisamente pessimista. Il protagonista, che per primo raggiunge il polo nord, ultima tappa della conquista e del dominio sulla terra, provoca indirettamente la fuoruscita di una strana nube di porpora che uccide tutti gli umani (ma non lui). A lui non resta che compiere l’opera, incendiando nel suo peregrinare le grandi città che incontra: Londra, Parigi, Istanbul.

La maggior parte degli scrittori utopistici della generazione di Hudson (e, nella fattispecie, di quelli americani) viaggia invece in direzione opposta, e pone l’enfasi sul progresso tecnologico come garanzia di un futuro migliore. Sono i banditori di una utopia tecnologico-economicistica, più o meno vagamente socialisteggiante, e alla loro testa c’è senza dubbio Edward Bellamy, con Guardando indietro 2000-1887 (Looking Backward, 1888). Il libro di Bellamy, dove si parla di industria nazionalizzata, distribuzione equa dei profitti, orari di lavoro ridotti, pensione a quarantacinque anni, carte di credito, raccolta differenziata, cooperative di consumo, incontra un successo incredibile (ne possiedo una traduzione italiana edita da Treves nel 1891, ed è già la quinta edizione). Vende in America quasi quanto La capanna dello zio Tom, suscita reazioni discordanti (anche in Italia, dove Paolo Mantegazza scrive Nell’anno 3000 – Sogno, 1897, facendogli il verso) e uno stuolo di imitatori, e crea un vero e proprio movimento di opinione.

Le idee di Bellamy vengono in parte riprese, ad esempio, da King Camp Gillette (proprio lui, l’inventore del primo rasoio di sicurezza) che in The Human Drift (1894, mai tradotto in italiano) vagheggia un’utopia social-metropolitana. Metropolis è il nome che dà alla città immaginata, un gigantesco agglomerato urbano da sessanta milioni di abitanti, costruito tutto in acciaio e vetro, percorso da strade sopraelevate (sulle quali viaggiano solo i mezzi pubblici e le biciclette), e nel quale non circola moneta (anche Bellamy fonda tutto sulle carte di credito), che ricava tutta l’energia necessaria dallo sfruttamento delle risorse idriche (le cascate del Niagara). Un incubo che si va reificando più rapidamente forse di quanto sperasse chi lo ha concepito.

Questa fiducia nel progresso trova comunque l’espressione più compiuta in Una Utopia Moderna (A Modern Utopia, 1905) di G.H. Wells. Wells era, al pari di Morris, un assiduo frequentatore dei circoli della Società fabiana, il movimento politico-culturale di orientamento socialista che si prefiggeva di portare, attraverso l’istruzione scientifica e l’elevazione morale ed estetica, le classi lavoratrici a gestire in proprio i mezzi di produzione. Ci credeva seriamente, ed era anche preoccupato per il crescente successo tra quelle stesse classi del marxismo, che considerava, anziché utopico, catastrofico. Il libro va dunque letto, prima che come un romanzo, come una dichiarazione d’intenti riformista.

Più di un secolo fa Wells prefigurava nella sua Utopia un modello politico, economico e sociale che oggi, in presenza della globalizzazione e di una emergenza ambientale sempre più drammatica, aggravata dal ricorrere di pandemie e di crisi economiche devastanti, viene auspicato e visto come ineluttabile da molti, a destra come a sinistra: uno Stato Mondiale, una tecnocrazia sovranazionale retta da una élite di scienziati e tecnici selezionati sulla base del merito e dell’integrità morale, senza alcuna discriminazione di razza o di ceto sociale. D’altro canto, molti degli elementi socio-economici ipotizzati da Wells li riconosciamo già oggi nei modelli capitalisti più avanzati, soprattutto in quelli scandinavi o germanici.

Il sistema economico descritto in Una Utopia Moderna prevede l’iniziativa privata individuale, ma anche uno stretto controllo da parte dello stato, che interviene direttamente a garantire la giustizia sociale. Per contro, ogni utopiano ha diritto a ricevere una “reddito di cittadinanza” che gli garantisca una esistenza dignitosa: ma deve dimostrare, lavorando e cooperando con gli altri, di volersi rendere utile all’intero sistema sociale, altrimenti ne sarà escluso.

Wells non pensa ad un modello amministrativo rigido e totalitario: per realizzare un progetto sociale così giusto ed efficiente è sufficiente una corretta pianificazione, che coordini in modo funzionale la comunicazione, i trasporti, la produzione e il sistema energetico. Gli utopiani parlano un unico linguaggio, che è la sintesi di più lingue (ma Wells pensa comunque all’inglese come base di partenza per questo idioma), e per lo scambio di informazioni si avvalgono di tecnologie molto evolute. Loro e le loro merci possono spostarsi con facilità e a costi contenuti da un paese all’altro dello stato mondiale attraverso una un’efficiente rete di trasporti su strada e su rotaia. Tutta l’infrastruttura è alimentata da un sistema energetico ibrido, che sfrutta ogni fonte presente in natura: energia idrica, combustione, maree ecc.

Esistono però anche utopie che potremmo definire “conservatrici”, nelle quali il progresso tecnologico si associa ad un controllo sempre più rigido esercitato dallo stato sulla vita dei cittadini. In Ionia (1898), di Alexander Craig, ad esempio, le leggi contro il crimine e in difesa della moralità sono severissime (castrazione al primo sbaglio, eliminazione per i recidivi) ed è praticata l’eugenetica attraverso il controllo statale sui matrimoni: vige persino la proibizione per le donne brutte di sposarsi e avere figli. In compenso i traguardi raggiunti nel campo della tecnica sono avanzatissimi (aerei e auto mossi dall’elettricità, riciclaggio dei rifiuti, sfruttamento del campo magnetico per l’energia). Tutta la terra è proprietà dello stato e i lavoratori possiedono azioni delle aziende che li impiegano. Nel complesso comunque il regime in vigore a Ionia ricorda sinistramente qualcosa che di lì a poco non rimarrà confinato nel regno dell’utopia, e la parentela è ulteriormente rafforzata dal feroce antisemitismo che percorre l’opera e dal culto ossessivo per l’immagine della Grecia classica (la lingua parlata a Ionia è il greco, il governo ha sede in una Acropoli, il fiume principale si chiama Stige, ecc.). Non solo: questa società ideale si è evoluta in una valle remota dell’Himalaja, la stessa area verso la quale quarant’anni dopo si indirizzeranno le ricerche dell’Ahnenerbe nazista, a caccia di prove dell’ascendenza ariana (e, en passant, del misterioso regno sotterraneo di Agarthi).

In qualche caso il risultato è più ambiguo. Addison Peale Russell immagina in Sub-Coelum (1893) una società decisamente puritana, nella quale invalgono molte limitazioni sessuali e l’impurità, sia maschile che femminile, è punita addirittura con l’ergastolo; non esiste privacy e viene esercitata una forte pressione morale collettiva, nella quale tutti sono chiamati a interpretare il ruolo dell’informatore. Per altri aspetti invece Russell offre una immagine avanzata rispetto ai tempi: orari di lavoro ridotti, differenze economiche livellate, superamento di ogni forma di razzismo, addirittura viene favorito il meticciato. Il compito dei “controllori” non è gravoso, perché la riforma morale ha portato alla quasi eliminazione della disonestà, della corruzione e dei vizi, compresi l’ubriachezza, il gioco d’azzardo e gli sport violenti. Non solo: ha indotto anche una diversa attenzione prestata alla natura. Il libro riserva infatti molto spazio al rapporto con gli animali. Oltre agli scoiattoli e alle scimmie, i suoi preferiti, Russell include passaggi su api, farfalle, cani, cavalli, oranghi, serpenti, insetti e vita microscopica. Il capitolo più lungo del libro esalta le incredibili qualità dei topi. (A proposito: una osservazione peregrina. In questo elenco, così come nel bestiario di Hudson, mancano quasi completamente i gatti, al contrario di quanto accade per Waterton – lui i topi proprio li odiava – che addirittura ne riportò uno selvatico, enorme, dai suoi viaggi nella Guyana).

La vera novità risiede però nel ribaltamento dei ruoli di genere. A Sub-Coelum molti uomini scelgono di svolgere i lavori domestici, mentre le donne esercitano ogni tipo di professione: ad esempio, quasi tutto il personale medico è femminile. Ciò che non toglie che l’impressione generale sia quella di una società piatta, grigia e fondamentalmente repressa.

 

6. Niente sesso, siamo inglesi

E questo ci riporta finalmente a Hudson e a L’era di cristallo. L’originalità di Hudson rispetto a tutta questa produzione fanta-utopica sta infatti nella speciale attenzione che dedica alla problematica sessuale. Evidentemente il suo impatto con le ipocrisie della società vittoriana, col dominio delle apparenze e delle buone maniere che celava una diffusissima repressione sessuale, è stato traumatico. D’altro canto non era l’unico né il primo a parlarne: Butler queste cose le aveva già beffardamente smascherate, e quasi tutti gli esploratori e viaggiatori di questo periodo ne hanno subite le conseguenze sulla propria pelle. Il clima doveva essere davvero insopportabile, per spingere tanti giovani inglesi a cercare respiro mettendosi per le vie del mondo.

Hudson però non si limita a denunciare questa repressione; vuole andare alle radici, capirne le origini e le ragioni. E le trova nella identificazione dei comportamenti sessuali con i modi di esercizio del potere. Il suo Mr Smith accetta di buon grado ogni altro cambiamento delle sue abitudini di pensiero, ma non riesce a reprimere l’istinto sessuale che lo porta a desiderare Yoletta in maniera passionale e possessiva. Questo rende impossibile il suo integrarsi nella società dei “cristalliti”. Per Hudson tale pulsione, che è in fondo un desiderio imperioso di potere e di autoaffermazione, è ciò che caratterizza e avvelena la società borghese vittoriana.

Si badi che Hudson è tutt’altro che un sessuofobo. Non risulta avesse problemi con le donne, anzi, apprezzava molto i loro favori ed era ricambiato. Il problema stava semmai nel modo di concepire e vivere la sessualità col quale si era scontrato dopo il trasferimento in Inghilterra. In fondo i comportamenti degli uomini e delle donne della pampa raccontati ne La terra di porpora sono ancora genuini, disinibiti, in qualche modo gioiosi, alla stregua di tutti gli altri tipi di rapporto con la natura. La distorsione sessuale è quindi per Hudson solo la spia e il simbolo di una più generale distorsione del rapporto che la società borghese ha con tutto ciò che è natura, e con la natura umana stessa. Un rapporto all’insegna della conquista, del possesso, dello sfruttamento: totalmente materiale, nel senso più dispregiativo del termine, e quantitativo. Yoletta dice ad un certo punto a Smith che gli sembra “un animale affamato che voglia divorarla”.

In sostanza: per Hudson quel che impedisce alla società umana di evolvere armoniosamente verso una condizione di pace, di eguaglianza e di collaborazione, è l’impulso sessuale, individualistico e distruttivo. Riferendosi al sentimento di Smith lo caratterizza spesso come “bestiale”, lo paragona a quello che anima una “belva divoratrice di uomini”, un “lupo famelico”: e si pone il problema se questo impulso sia naturale, il che chiuderebbe ogni discorso sulla possibile realizzazione dell’utopia, o non sia invece un portato della strada intrapresa dalla civiltà. In quest’ultimo caso solo l’abbandono, anche traumatico, del modello sociale, economico e culturale vigente consentirebbe la ripartenza.

Hudson in realtà non dà una risposta chiara alla sua domanda. Da un lato, se è vero che Smith alla fine soccombe, sia pure indirettamente, al desiderio, ciò non significa che l’utopia vada confinata in un’orbita extraterrestre, ovvero che quel desiderio c’è, è iscritto nel nostro istinto e non lo si può cancellare. Significa piuttosto che non si può ovviare ai guasti millenari di una “civilizzazione” snaturante con le pozioni magiche, ma occorre un’opera di lenta rieducazione. E questa può avvenire solo guardando indietro, a un modello di vita che Hudson identifica con l’antico culto della grande Madre, con il mitico dominio delle donne che si accompagnava ad una religione non del trascendente ma della natura. Non credo che Hudson abbia conosciuto direttamente l’imponente studio su Il matriarcato (Das Mutterrecht) pubblicato da Bachofen nel 1861 (fu tradotto in inglese solo molti anni dopo). Ma ne ha quasi certamente colto l’eco attraverso libri come La società antica, di Lewis Henry Morgan, che da Bachofen mutuava l’idea una primitiva società matriarcale, egualitaria e pacifica.

In qualche modo era ciò che aveva sempre avvertito, e di cui aveva già scritto: Rima era una incarnazione di quel mondo perduto, ma anche ne La terra di porpora alla fin fine a far intravvedere una strada alternativa sono solo le figure femminili, pur quando in apparenza sembrano sconfitte. Ne L’era di cristallo poi le figure chiave sono tutte femminili: sono la grande Madre della Casa, responsabile della perpetuazione dell’umanità, colei che sceglie e guida gli eletti, e Yoletta, sua erede. Tutti gli altri, compreso il grande Padre, sono figure di contorno, depositarie al più della conoscenza di come funziona tecnicamente il nuovo mondo, custodi delle regole ma non della memoria e della sua intima connessione con le leggi naturali.

C’è però un rovescio della medaglia. Già dal primo contatto con Chastel, la grande Madre della casa, Smith esce turbato: “L’incontro aveva intaccato profondamente la spontaneità fiduciosa ed ottimistica del mio carattere. Ormai ero inquinato dalla malinconia, che stava progressivamente offuscando quella visione speciosa di felicità perfetta da cui ero stato attratto sin dal mio arrivo nella casa”. È turbato perché volente o nolente deve ammettere che la soluzione al problema adottata dai cristalliti, completamente diversa da quella della precedente cultura, è effettivamente la più naturale.

In natura il sesso esiste in ragione della fecondità e in funzione della procreazione: tutto il castello psicologico e sociale che la cultura patriarcale vi ha edificato sopra è appunto una costruzione “culturale”, finalizzata al dominio. Rimossa questa, il sesso non è più un problema dei singoli, ma torna ad essere una strategia riproduttiva, quella ad esempio tipica dell’alveare. Va quindi amministrato in funzione di una responsabilità biologica: che è quella di garantire la continuità della specie, e quindi anche di evitare le crisi di sovrappopolamento e di esaurimento delle risorse che potrebbero metterla in forse. Insieme a Darwin, probabilmente, Hudson aveva letto anche Malthus.

Quindi, sotto un profilo razionale e di sottomissione alla natura la soluzione dei cristalliti sembra legittimata in pieno. Poiché il sesso è strettamente connesso alla fecondità e alla riproduzione, secondo una logica che la Natura segue anche con altre specie è riservato ad una sola coppia, che per poter assolvere a questo compito deve detenere l’autorità sul gruppo-famiglia. Rimane però il fatto che proprio nell’atteggiamento della grande Madre, nel suo tormentoso pensiero dominante della fertilità e della procreazione, Hudson avverte una forma di individualismo non poi così diversa dalla sua. E avverte anche una grande solitudine.

 

Quando prima scrivevo che la “storia” raccontata ne L’era di cristallo è molto semplice mi riferivo naturalmente al puro intreccio. Al contrario, la narrazione si dispiega poi attraverso una vera galleria di simboli, che impone un livello di lettura più alto, nel quale l’interesse per la vicenda cede il passo a quello per le atmosfere, per i segnali che arrivano dalla sua ambientazione. Ciò che immediatamente colpisce è la “pietrificazione” della società dei cristalliti, che non è mitigata dalla ricchezza e dalla fecondità della natura nella quale la grande Casa è immersa. Quest’ultima è costruita interamente in granito, simbolo evidente di una immutabilità che attraversa diacronicamente le successive generazioni. Ha l’apparenza esteriore di un tempio, con tanto di colonne sulla facciata anteriore: non un tempio costruito dagli uomini, però, quanto piuttosto una struttura generata direttamente dal terreno, emersa dalla roccia sottostante.

Anche il tempo appare pietrificato: non si svolge linearmente, ma è costretto in una ripetizione ritualistica. La ritualizzazione in qualche modo rimanda ad un allineamento alla ciclicità naturale: ma se la ripetizione è naturale, la ritualizzazione ne è solo un surrogato. Il “per sempre” sancito nella pietra è la fine della storia – qui è addirittura inteso come non-inizio – e il ritorno dell’identico è cosa ben diversa dall’Eterno Ritorno di cui parla Nietzsche: sembra anzi contrapporsi allo sviluppo disordinato della Natura (citata sempre da Hudson con la maiuscola) e alle possibilità di variazione, di innovazione che esso comporta. Hudson apprezza Darwin, ha capito la sostanziale correttezza della sua lettura della storia naturale, ma respinge poi quelle che ne appaiono, secondo l’interpretazione più diffusa nella sua epoca, influenzata dalle teorie di Spencer, le inevitabili conclusioni. Lo angoscia l’idea di una lotta di tutti contro tutti, di una guerra ferina che sancisce la sopravvivenza del più adatto: ma l’immobilità pacifica del mondo di cristallo gli evoca quella dei cimiteri. Di qui l’impasse nella quale si trova bloccato, e alla quale non può sottrarsi se non con una soluzione drastica, facendo uscire di scena il suo alter-ego.

Il primo incontro di Smith con gli abitatori dell’utopia avviene d’altronde con un funerale. Non c’è una tomba, il corpo viene semplicemente restituito alla terra: nessun tentativo di sottrarlo all’oblio naturale cui è destinato. E questo vale per tutti i comportamenti dei cristalliti. La loro purezza morale è semplicemente una resa, una subordinazione alle leggi naturali (o presunte tali). L’amore, l’affettività, sono fattori strumentali alla riproduzione, la famiglia è un regolatore della sessualità, il lavoro – e questo arriva dalle teorie estetiche di Ruskin – è arte applicata, rappresentazione mimetica delle verità di natura e quindi risposta essenziale a quanto questa richiede. Non può esserci idea più estranea a questo mondo di quella del consumo, e conseguentemente della necessità di produrre senza tregua per consumare senza sosta. Il valore degli oggetti sta nella loro durata: e anche i cristalliti durano a lungo, proprio perché non si fanno consumare da passioni, vizi, istinti, progetti, delusioni. Ma la loro è una vita fondamentalmente inerte, che si limita a trascorrere. La pietrificazione sembra essersi in qualche modo estesa anche ai loro cuori, alle loro anime.

Questo, si badi bene, è ciò che io ho letto ne L’era di cristallo: forse non è esattamente quello che l’autore voleva rappresentare, anzi, forse questi ha involontariamente – ma non inconsapevolmente – sortito l’effetto contrario. Ma la sensazione di ambiguità, di irresolutezza che emana da queste pagine non poteva certo ignorarla.

Confesso di essere uscito dalla lettura con un po’ di tristezza per la sorte di Smith, ma anche con un certo sollievo. Non riuscivo ad immaginare per lui un futuro da Padre dell’alveare: credo che dandogli la morte Hudson gli abbia evitato l’imbarazzo di rimpiangere la sua vecchia condizione. È vero che la responsabilità del fallimento viene attribuita dall’autore allo “spirito del lupo”, ma è anche vero che la capacità di vivere lo “spirito nuovo” dell’utopia sembra appartenere solo all’altra sfera, quella femminile. Il tentativo di reprimere quell’istinto si rivela per Smith fatale: l’utopia era in realtà per lui invivibile, e il mondo dei cristalliti appare a noi, in definitiva, arido e freddo. Come del resto accade, ad essere sinceri, per tutte le visioni utopiche.

7. Arrivano le Amazzoni

Prima di proseguire oltre mi sento però in obbligo, per una mia smania di completezza, di chiudere la digressione in cui mi ero avventurato.

Abbiamo visto come la questione dei rapporti di genere sia affrontata in quasi tutte le visioni utopiche di questo periodo: essa diventa tuttavia il vero perno del cambiamento solo quando si tratti di romanzi scritti dalle donne. Le scrittrici di lingua inglese trovano una ideale progenitrice in Sarah Scott, autrice, più di un secolo prima, nel 1762, di Millenium Hall. Nel romanzo si racconta di una colonia femminile nascosta in un luogo remoto della Giamaica, dedita al recupero fisico e morale dei disabili. Ma sotto il velo pietistico e devozionale dell’istituzione si scopre una realtà molto più complessa. Il luogo è gestito da un gruppo di donne pienamente autosufficienti e autonome; gli unici uomini che lo abitano sono disabili recuperati alla virtù e inseriti nella vita sociale (in ruoli di servizio). Gli occasionali visitatori maschi, com’è il caso dei due protagonisti, devono sottoporsi anch’essi ad una forma di rieducazione o di riabilitazione: questo perché è dato per scontato che gli uomini “o hanno cattive intenzioni o sono squilibrati”. Da quel che si legge nel romanzo è una vera e propria castrazione psicologica. Sembra che per essere civilizzati questi uomini debbano perdere le loro caratteristiche maschili e sperimentare com’è la vita per le donne. Che è un po’ lo stesso lavaggio del cervello di cui è oggetto Smith ne L’era di cristallo, e che Hudson sembra vagheggiare, sia pure in maniera più sottile.

Si può facilmente intuire perché alla sua comparsa il romanzo della Scott abbia suscitato polemiche e velenosi attacchi, con l’accusa alla sua autrice di tendenze lesbiche o più grossolanamente di odiare gli uomini perché deturpata dal vaiolo e privata della loro attenzione. Le sue epigone della fine del secolo successivo hanno invece vita relativamente più facile, e possono essere maggiormente esplicite nel rivendicare un mondo che assegni loro una parte diversa. In tal senso, a volte prospettano un semplice riequilibrio dei rapporti di genere, in altri casi preconizzano un vero e proprio ribaltamento o una radicale separazione.

In Mizora. A profecy (1881), ad esempio, Mary Elizabeth Bradley Lane porta la sua eroina a scoprire nell’Artico una nuova terra al femminile, dalla quale gli uomini sono assenti da tremila anni. Le donne che la abitano possiedono il “segreto della vita”, ovvero della procreazione autonoma, e hanno creato un modello alternativo, compiutamente matriarcale, di comunità, di governo e di rapporti familiari. A dispetto delle intenzioni dell’autrice ne viene fuori l’immagine di una società totalitaria, nella quale la “sorellanza” non è poi così aperta: con l’ausilio dell’eugenetica tutte le donne di Mizora sono bionde, alte e con gli occhi azzurri. Anche in questo caso non può sfuggire la sinistra parentela con le Schutzstaffel di Himmler.

La Bradley è americana, e si sente. Non colloca la propria società ideale in un altro tempo, ma in un altro luogo. All’epoca sua l’Ovest nordamericano riservava ancora uno spazio ai sogni e alle fantasie. Anche la soluzione proposta appare tipica di una mentalità in bianco e nero, poco tollerante delle vie di mezzo e aliena dalle sfumature (come del resto accade per i suoi contemporanei maschi, Bellamy e Craig).

Mostrando un’attitudine più moderata, in New Amazonia (1889) l’inlese Elizabeth Corbett sdoppia i viaggiatori-protagonisti, un uomo e una donna, e quindi anche i punti di vista dai quali la società utopica è giudicata. Nel mondo riformato che i due visitano (che non è localizzato ai confini del mondo, ma in una Irlanda del futuro) gli uomini non sono banditi, ma ogni subordinazione femminile nei loro confronti è scomparsa, sia nel settore pubblico che nell’ambito familiare. Le donne hanno anzi il monopolio del potere politico, al quale gli uomini hanno rinunciato senza eccessive resistenze (si presume, dopo aver constatato il fallimentare bilancio della loro gestione del mondo): ma è un potere strettamente esecutivo, di organizzazione e di coordinamento, mentre a valere è piuttosto la rete diffusa di rapporti tra gruppi di donne che allevano i figli in comunità. Le Amazzoni fondono il passato col futuro, il culto pre-storico della Madre con il socialismo: in New Amazonia sono scomparse le differenze di classe, nell’ambito della ginecocrazia vige una democrazia reale, tutti hanno le stesse opportunità e la scienza è mirata solo a garantire il benessere e la salute delle cittadine.

 

8. Nel segno della Grande Madre

Non mi dilungo in altri esempi perché quelli ricordati coprono già sufficientemente lo spettro delle idealità utopiche della letteratura vittoriana (e quindi delle critiche ai modelli istituzionali e sociali vigenti all’epoca). C’è abbastanza carne al fuoco per trarne alcune considerazioni finali.

 

La prima che mi viene in mente, proprio a partire dalle ultime opere citate, è che tutte trattano il tema dei ruoli di genere, ma non quello della sessualità. O almeno, mentre nel romanzo di Hudson questa rappresenta il nodo centrale, nelle utopie “al femminile” sembra ricoprire un ruolo marginale. I modelli stessi di riferimento dell’uno e delle altre ci suggeriscono che si parla di cose molto diverse.

Nel caso delle scrittrici il rimando va essenzialmente alla versione del mito delle Amazzoni così come era entrato nella cultura della Grecia classica: la Bradley Lane lo riprende e lo ripropone pari pari. Hudson guarda invece, sia pure in un gioco di sponda, agli studi di Bachofen, filtrati attraverso la nuova lente darwiniana. A qualcosa quindi di molto più antico, ad un culto più universale, diffuso in età pre-storica dal nord-europa all’estremo oriente. Non è impossibile che qualche suggestione indiretta sia arrivata da Das Mutterrecht anche alle creatrici di utopie al femminile, ma se un’influenza c’è stata è rimasta molto superficiale. In effetti, il ribaltamento dei ruoli non significa poi molto, se non è frutto di un cambiamento più profondo dell’attitudine nei confronti di tutta la natura. E quindi anche nella considerazione del ruolo “naturale” della sessualità.

Personalmente rimango ancorato ad una spiegazione naturalistica molto semplice del diverso rapporto che uomini e donne hanno con la sessualità (e quindi del diverso ruolo che ad essa attribuiscono nella società ideale). In sostanza: sia per gli uomini che per le donne il sesso è uno strumento, per raggiungere però fini diversi. O meglio, lo stesso fine con modalità diverse. Per i primi è importante, per assicurarsi la continuità biologica, spargere attorno il più semi possibile, per le seconde lo è assicurare la sopravvivenza dei semi che hanno incubato. Per i maschi il sesso costituisce pertanto “il” problema prioritario dall’adolescenza sino alla vecchiaia, per tutto il periodo nel quale rimangono sessualmente attivi, mentre per le femmine esaurisce la sua funzione una volta raggiunto lo scopo riproduttivo. Tutto questo non piacerà alle femministe, a chi rivendica anche per le donne il diritto ad una vita sessuale libera e appagante: ma non si tratta di negare loro questo diritto, solo di chiarire che, lo si voglia o no, per le donne questo è un bisogno “culturalmente” indotto: legittimo quanto mai, ma non “naturale”.

 

La seconda considerazione è che tutte queste letture sono accomunate da un equivoco di fondo, perché il matriarcato vi è associato “naturalmente” a un modello di società più giusto, egualitario e pacifico.

Ora, gli esempi cui si può fare riferimento nei tempi storici di società in cui l’elemento femminile abbia avuto un qualche peso decisionale nella vita pubblica, oltre che in quella familiare, non sono molti. Mi vengono in mente quelli degli spartani, dei vichinghi e degli irochesi: tutti popoli che brillavano per capacità (e ferocia) guerriera. Ed è anche spiegabile che le cose stiano così: si trattava di società nelle quali gli uomini erano sempre e totalmente impegnati nelle attività militari, e la responsabilità di reggere la famiglia e di garantire il funzionamento della città era necessariamente trasferito sulle spalle femminili. Occorre quindi distinguere tra società matrilineari, quelle in cui la discendenza passa per la linea femminile, senza che ciò conferisca necessariamente alle donne una autorità riconosciuta (vedi la società ebraica), e società matriarcali, nelle quali le donne esercitano un effettivo potere politico: ma solo per constare che queste ultime esistono unicamente nei miti e nelle utopie.

Di per sé questo non significa nulla. Non c’entrano le disposizioni naturali, visto che la società patriarcale si è rivelata, come giustamente afferma Hudson, la meno “naturale” immaginabile. Ma nemmeno significa che una società matriarcale andrebbe in direzione diversa, che sarebbe cioè più giusta e più pacifica. Come dicevo, manca qualsiasi controprova.

A volerli cogliere, però, alcuni indizi di segno positivo li abbiamo. Non riguardano per il momento improbabili società “matriarcali”, ma i comportamenti politici effettivi entro gli schemi della società patriarcale. I riscontri storici e quelli offerti dalla realtà del panorama politico odierno dicono che anche agendo all’interno di un sistema creato a immagine delle caratteristiche maschili le donne riescono in genere a mitigarne le derive peggiori.

In effetti, attualmente gli unici leader politici credibili sono donne. Della Merkel e della Von der Leyen sappiamo tutto, ma c’è anche il gruppo delle nordiche (la norvegese Erna Solberg, la danese Mette Frederiksen, l’islandese Katrín Jakobsdóttir, la finlandese Sanna Marin), c’è la neozelandese Jacinda Ardern, ci sono diverse leader asiatiche che senza eccessivi strombazzamenti stanno facendo nei rispettivi paesi un eccellente lavoro. Sono convinto che sarebbe stata una buona leader persino Hilary Clinton (senz’altro meglio del marito), al di là del fatto che rispetto a Trump lo sarebbe chiunque.

La cosa ha a mio avviso una spiegazione abbastanza ovvia, che riguarda il tipo di selezione. Per arrivare a certi livelli di potere le donne devono possedere una preparazione e una capacità decisamente maggiori rispetto ai loro concorrenti uomini (il caso italiano non fa testo, e comunque nessuna delle “ministre” che hanno sfilato negli ultimi tempi deteneva ruoli di vero potere). Questo è reso necessario sia dalle resistenze opposte da una mentalità maschilista radicata, sia dal fatto che cimentandosi nella politica le donne partecipano ad un gioco le cui regole sono state create su misura per i maschi. La sfida è vedere se lavorando all’interno di questo sistema riusciranno anche a modificarne le regole, oppure a farlo funzionare al meglio delle sue potenzialità.

Per intanto, un punto può già essere loro assegnato. Ho dei dubbi che una donna voglia e riesca davvero ad esercitare l’attrazione carismatica necessaria ad un leader populista. Che la cosa sia legata al perdurare di un pregiudizio di fondo maschilista, che si tratti cioè del fare di necessità virtù, o invece, come tendo a credere, sia dovuta al fatto che il populismo non è nelle corde femminili, per una disposizione caratteriale che sarebbe troppo lungo analizzare, sta di fatto che una leadership femminile difficilmente assume connotazioni demagogiche. Voglio dire che una donna intelligente, e intelligente al punto di accedere a ruoli di grossa responsabilità politica, sa che le masse che si lasciano trascinare da pifferai stonati come Trump o Erdogan o Bolsonaro sono quelle appunto più nutrite di quel pregiudizio, quindi non prova nemmeno a suonare lo strumento e cerca di guadagnarsi i consensi con l’efficienza e la capacità di mediazione (la Meloni e la Le Pen, i cui casi parrebbero contraddire questa convinzione, rimangono comunque per il momento all’opposizione).

I segnali per coltivare la speranza che il crescente coinvolgimento femminile possa portare anche ad una prassi politica diversa, meno personalistica e più equilibrata, non mancano. Senza arrivare a parlare di matriarcato, termine che evoca comunque una idea di potere esclusivo ed escludente, né più né meno come quello patriarcale, sono gli stessi motivi più profondi ed ancestrali, le disposizioni naturali cui faceva riferimento Hudson, a suggerire questa possibilità. Un tipo di investimento diverso nei confronti della riproduzione e della continuità non può che produrre una idea molto differente di futuro.

 

Riconsiderando infine le distinzioni che ho operato più sopra, a proposito dei differenti modelli utopici, tra gli apocalittici e i bardi del progresso, o tra visionarietà al maschile e al femminile, mi accorgo che avrebbe forse più senso distinguere tra le utopie riguardanti l’uomo e quelle relative all’umanità. Nel primo caso, che è senz’altro quello di Morris e nella sostanza poi anche quello di Hudson, il sogno di una redenzione passa attraverso il cambiamento che i singoli individui sono in grado di operare entro sé, accompagnato o guidato dal confronto con gli altri: la trasformazione passa infatti per il riconoscimento della diversità altrui, e il riconoscimento implica una accettazione, a partire dalla riconciliazione con la diversità propria. Negli altri casi, a determinare il cambiamento sono un evento o una condizione, (indipendentemente dal fatto che si tratti di una catastrofe o del raggiungimento di traguardi scientifici e tecnici), oppure una forza o una volontà esterne. Il sogno è quello di cambiare la società per cambiare gli uomini, mentre nel primo caso cambiano gli uomini per trasformare la società. È la differenza che corre tra i diversi movimenti che hanno cercato negli ultimi duecento anni, a partire dalla Rivoluzione francese, di calare e realizzare sulla terra quelle che in precedenza erano solo fantasticherie millenaristiche. In linea di massima, tra il comunismo, marxista e non, da un lato, e l’anarchismo dall’altro (che potrebbero essere fatti discendere rispettivamente dal cristianesimo – comprensivo della variante “riformista” – e dall’ebraismo).

Si potrebbe anche distinguere tra utopie chiuse, o terminali, che congelano la situazione utopica raggiunta e mirano solo a preservarla, riponendo nessuna fiducia nella capacità di una autodeterminazione degli individui, e utopie aperte, che lasciano spazio alla libertà di scelta di questi ultimi, e quindi alla loro responsabilità. Tra le utopie del recinto e le utopie del libero pascolo.

 

Aggiungo un’ultima breve considerazione, riguardante il tema ricorrente dell’inversione dei ruoli di genere. È evidente che a livello letterario il discorso ha il valore di una provocazione piuttosto che una proposta, e ciò vale tanto più per un periodo come quello vittoriano. Se si vuole ottenere attenzione si deve provocare. Il fatto è però che le idee, quando vengono costrette in uno slogan, spesso finiscono per essere prese alla lettera. Si rischia quindi in questo caso di credere che la soluzione sia quella di invertire l’ordine dei fattori, senza considerare che il prodotto finale non cambia. Il problema non è avere una quota maggiore di donne-manager, o magistrate, o primarie ospedaliere, quanto piuttosto che quei ruoli, così come vengono assegnati, gestiti, vissuti oggi da chiunque li ricopra, garantiscano equità ed efficienza. Il che significa, tradotto in soldoni, che è inutile cambiare gli attori se il copione è scadente.

 

9. Fuori dall’Eden

Infine, una riflessione sul destino dell’Utopia (quella con la maiuscola). Scorrendo questi testi ho potuto constatare quanto in effetti fossero bravi a leggere il futuro i loro autori. Troviamo rappresentati in essi tutti gli incubi che ci circondano oggi, e non solo quelli profetizzati come cause del collasso della civiltà consumista e produttivista, per i quali era sufficiente forse davvero un po’ di lungimiranza, ma anche quelli che all’epoca erano presentati come sogni di liberazione, destinati a migliorare il futuro. Molte di quelle che per gli utopisti erano soluzioni sono diventate oggi dei problemi. Il che può significare due cose: da un lato, ad essere pessimisti, che la parte “negativa” della natura umana (il “legno storto” di Kant) ha ormai preso un tale sopravvento da poter volgere in danno, ovvero in disuguaglianza e in distruzione, tutto ciò che era stato pensato come salvifico. Dall’altro, se si è solo razionalmente scettici, che ogni disegno sociale progettato a tavolino non soltanto non potrà soddisfare le infinitamente varie aspettative di tutti, ma finirà irrimediabilmente per tradursi in una gabbia. Quello che è stato chiamato socialismo reale, se raccontato sotto forma di utopia cinquant’anni prima sarebbe stato un modello quasi perfetto, un tappeto verde da biliardo posato su un piano levigato, sul quale le biglie corrono dritte e prendono le angolature loro suggerite dalla stecca. Ma appena calato nella realtà quel tappeto ha dovuto fare i conti con le forme irregolari della natura, in questo caso di quella umana, si è strappato, macchiato, sfilacciato: quello straccio verde si è immediatamente rivelato per quel che era, una copertura posticcia e artificiale.

Cosa rimane, allora? Dell’Utopia, intesa nel significato che fino a un secolo fa le si attribuiva, di sogno di rigenerazione collettiva sul quale parametrare l’agire individuale, e non solo quello politico, non è rimasto proprio nulla. È venuta meno ogni speranza di potersi anche solo approssimare a quel sogno, a dispetto di chi vuole leggere i processi di trasformazione in atto, sociali, psicologici, economici come il preludio ad una “liberazione” (“La società, finalmente creativa e libera dal modello matematico, si apre ad una nuova conoscenza erotica”, Maffesoli), all’uscita da un secolo buio quanto altri mai (“un secolo scellerato, che ha conosciuto genocidi, massacri, stermini”, Baricco).

Ma c’è un’immagine che mi pare davvero emblematica (e conclusiva) di come sia ridotta l’odierna capacità di immaginazione. È offerta dallo Steampunk. Lo Steampunk è un filone letterario, divenuto ormai anche fenomeno di costume (nel senso che gli adepti “inscenano” eventi a tema, tengono raduni e festival ai quali partecipano vestiti da esploratori o da aeronauti, e purtroppo giocano pericolosamente con le società segrete e le teorie del complotto), nel quale si racconta “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima”. Le storie sono ambientate in un passato che ha a modello proprio l’Inghilterra vittoriana, ma combinano anacronisticamente conoscenze e tecnologie reali di diverse epoche con ciò che nell’immaginario di quelle stesse epoche era ritenuto possibile o probabile, prendendo spunto proprio dagli autori di cui ho parlato in questo e in altri testi, Verne e Robida e Welles in testa (tecnicamente non sono dunque utopie, ma ucronie).

Insomma: nell’impossibilità di immaginare un qualsivoglia futuro migliore, nell’incapacità addirittura ormai di immaginare un futuro, oserei dire nella paura stessa di pensarci, ci si consola col fantasticare di un passato che avrebbe potuto essere diverso. Col costruire una storia parallela che avrebbe, forse, potuto evitare al mondo di ridursi come si è ridotto. È una pulsione infantilistica, la stessa in fondo che induce ciascuno di noi a rivangare vari momenti della nostra esistenza, cullandoci nel pensiero di come avrebbe potuto essere “se”. A quanto pare, è tutto quel che ci rimane.

Ce n’è a sufficienza per una disperazione senza lacrime.

P.S. Sono riuscito a scrivere più di trenta pagine su W. H. Hudson senza accennare (o quasi) alle uniche opere sulle quali egli da anziano voleva fondata la sua reputazione, e che in effetti sono oggi quelle per cui è ricordato: ovvero gli studi naturalistici. Sono molti, e alcuni sono considerati – a differenza dei romanzi – dei veri capolavori. Non si tratta di opere scientifiche nel senso stretto del termine: sono narrazioni, spesso aneddotiche, sempre appassionate e coinvolgenti, che toccano ogni aspetto della natura, dagli animali alle piante al mondo minerale. Naturalmente di riassumerle non se ne parla nemmeno: e direi nemmeno di presentarle. Vanno lette e basta.

 

In italiano sono stati tradotti:

Il libro di un naturalista (Muzzio, 1989, ora riedito da Elliot, 2019), Il viaggiatore in piccole cose (Muzzio 1993), La vita della foresta (Einaudi 1987), A zonzo in Patagonia (Ibis 2013), El Ombù (Theoria, 1987: in realtà questo potrebbe essere definito un libro di antropologia), ma solo alcuni sono ancora rintracciabili.

Per leggere The Naturalist in la Plata, (1892) o Birds in a Village, (1893) bisogna conoscere bene l’inglese. Varrebbe la pena impararlo anche solo per leggere Afoot in England, (1909), resoconto di camminate dal Surrey al Devon e alla Cornovaglia, o lungo tutta la costa inglese orientale. O per godersi A Shepherd’s Life: Impressions of the South Wiltshire Down, forse il suo libro più amato dagli inglesi.

 

(le illustrazioni sotto riportate, di Al Collins, sono tratte da:

  1. H. Hudson – The Land’s End: A Naturalist’s Impressions in West Cornwall – Appleton, NY, 1908)

Bibliografia

Le opere trattate in questo scritto sono citate nelle seguenti edizioni:
William H. Hudson – Un mondo lontano – Adelphi, 1974
William H. Hudson – La terra di porpora – Rizzoli, 1963
William H. Hudson – Verdi dimore – Mondadori, 1976
William H. Hudson – L’era di cristallo – Guida, 1982
Edward Bulwer Lytton – La razza ventura – Arktos, 1980
Samuel Butler – Erewhon – Adelphi, 1988
Jules Verne – Parigi nel XX secolo – Elliot, 2017
Richard Jeffries – Dove un tempo era Londra – Serra e Riva, 1983
William Morris, – Notizie da nessun luogo – Garzanti, 1995
Edward Bellamy – Guardando indietro 2000-1887 – UTET, 1957
King Camp Gillette  – The Human Drift – Ulan Press, 2012
George H. Wells – Una Utopia Moderna – Mursia, 1990
Addison Peale Russel – Sub-Coelum – Nabu Press, 2010
Alexander Craig – Ionia  – Read Books, 2007
Sarah Scott – Millenium Hall – Broadview Press Ltd, 1995
Mary Elizabeth Bradley – Mizora. A profecy – Jean Pfaelzer, 2000
Elizabeth Corbett – New Amazonia – British Library, 2011

 

Dio ne scampi dagli audaci (e dai clown)

di Paolo Repetto, 24 aprile 2020

Sono grato a Marco Moraschi, che ha inserito in calce al suo intervento (Le regole del gioco) il link ad un articolo di Alessandro Baricco comparso su La Repubblica il 26 marzo scorso (Virus: è arrivato il momento dell’audacia). Avendo da tempo cessato di seguire i quotidiani (non ne sto facendo un vanto: è pigrizia, ho capito che ciò che mi interessa in genere rimbalza sul web, e lo attendo li), mi era naturalmente sfuggito. E invece devo constatare che gli interventi di Baricco non andrebbero mai persi.

Anche questa volta, come sempre, ho parecchie cose da obiettare. Ma almeno mi si dà l’occasione, lo stimolo a rifletterci un po’ su. Questo a Baricco lo si deve riconoscere, e non è la prima volta che lo faccio. A differenza dei nostri grandi pensatori di caratura internazionale, da Agamben a Cacciari fino ai nipoti di Severino, che quando escono dall’Ente per scendere tra noi meschini o sparano cazzate o non dicono assolutamente nulla, Baricco prende posizione su problemi, tendenze, trasformazioni reali. Ha un modo tutto suo di leggerli e interpretarli, ma ben venga. Almeno se può discutere.

Seguendo uno schema al quale neppure io e gli altri intervenuti sul tema del coronavirus ci siamo sottratti, Baricco identifica undici punti (Undici cose che ho capito su questo momento: va bene, poi qualcuno non è un vero punto, sta lì per fare scena, ma quelli essenziali ci sono). Mi limito dunque a seguire il suo schema.

UNO – “Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all’ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti”. Sull’esordio sono perfettamente d’accordo, non potrebbe essere altrimenti. Il fatto è che non solo non finirà, ma c’è da chiedersi anche se in qualche modo cambierà. Perché il 26 marzo, quando Baricco scriveva, indubbiamente le dimensioni del fenomeno non erano ancora del tutto chiare, e questo verrà fuori più avanti: ma che il mondo fosse governato, in quel momento e già da un pezzo, da gente come Trump, Boris Johnson, Borsonaro, giù giù sino ad arrivare ad Orban, e ancora, a scendere, fino a Di Maio e Salvini e Di Battista, tutti personaggi che alle elementari o stavano nell’ultimo banco o stazionavano addirittura fuori dell’aula, questo era chiarissimo. Non è un romanzo, scrive Baricco. Infatti, è tutt’altro. Costoro comandano già, e dove non comandano riescono comunque a muovere e manipolare l’opinione pubblica.

Quindi non siamo in una situazione di anarchia, che resta poi da capire cosa significhi davvero: siamo proprio in quella roba fino al collo.

Questa constatazione ci manda direttamente al punto:

QUATTRO. “Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini”. Questo significa che “nonostante le apparenze, noi crediamo nell’intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi”.

Mi sembra ottimismo della volontà. La “gente” in realtà si è allineata quando ha sentito snocciolare le cifre dei morti e si è vista appioppare multe da quattro o cinquecento euro. Altrove, come in Cina o nelle Filippine, lo ha fatto dopo le prime fucilazioni dei trasgressori. La fiducia nelle élites e nei competenti è rimasta la stessa, decisamente bassa, anche perché questi ultimi, un po’ per la novità del caso e un po’ perché di fronte ad un’emergenza simile le oggettive incompetenze non potevano che evidenziarsi, hanno fatto di tutto per screditarsi.

CINQUE –  Ma soprattutto mi sembra ben poco rassicurante la prospettiva futura: “Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L’intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un’emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve”. Appunto. Anche in questo caso, direi che di clown se ne sono visti all’opera (pardon, in televisione) parecchi. Con risultati sconfortanti. Ma questo non dipende dal fatto che: “Ci guida, nel modo migliore possibile, un’élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale”, quanto piuttosto da quello che l’élite non sa abbastanza di tutto, e nemmeno di ciò in cui dovrebbe essere invece specializzata. Abbiamo visto virologi, all’inizio della crisi, dichiarare che avrebbe fatto meno vittime di una normale influenza. Anche se avessero padroneggiato la razionalità digitale, probabilmente, avrebbero sparato le stesse stupidaggini. O forse già la padroneggiano, e hanno desunto una nuova accezione del concetto di vittima dalla pratica dei videogame. Come Baricco stesso ammette, parlando di chi ci guiderà in futuro: “Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto”. Dove quello sbagliare in fretta, visto che appunto non di videogiochi si sta parlando ma delle pelle di persone reali, mi fa tremare i polsi.

Torniamo ora indietro, al punto DUE.

La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un’estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l’utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento”.

In questo periodo (inteso come sequenza di frasi che assume un significato autonomo e compiuto) sono contenute un paio di verità e un paio di mezze verità che si traducono in sciocchezze. È verità senz’altro il fatto che gli strumenti digitali si sono rivelati provvidenziali in molti sensi, per alleviare il peso dell’isolamento e per consentire una informazione più diffusa e tempestiva. Così come è vero che l’ostilità pregiudiziale nei loro confronti è senz’altro scesa. Meno d’accordo sono invece sul fatto che stessimo cumulando un ritardo solo per “eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale”. O meglio, lasciando perdere la nostalgia (di che, delle cabine telefoniche? dei piccioni viaggiatori?) e la fighetteria intellettuale, il timore e il sospetto in molti c’erano senz’altro, e continueranno ad esserci: ma non per ignoranza o per ristrettezza di vedute, quanto piuttosto proprio per quella che Baricco definisce “una delle utopie portanti della rivoluzione digitale”, il fatto che gli strumenti digitali possano diventare una estensione quasi biologica dei nostri corpi. Stiamo parlando di una “incorporazione” della tecnologia (che a breve diverrà tale anche letteralmente, e anzi, lo è già, con l’utilizzo di microchips sottopelle o di altri strumentari incorporati in ausilio e a potenziamento delle funzioni naturali). Ora, quello che Baricco non prende mai minimamente in considerazione è il fenomeno dell’autonomizzazione della tecnica: in altre parole, siamo ormai al punto che la tecnica si nutre di se stessa, evolve indipendentemente dai bisogni dell’uomo per i quali era nata, si autoprogetta, si autoproduce, e non è necessario attendere i computer pensanti (non credo che 2001. Odissea nello spazio sia tra i film di culto di Baricco). Non è nemmeno necessario essere degli integralisti anticibernetici per rendersene conto e nutrire qualche timore: io uso il computer costantemente, a questo punto quasi non saprei farne a meno, ma questo non mi impedisce di rendermi conto di quanto mi stia condizionando, di come lo stia facendo ad esempio proprio adesso, nel modo stesso in cui mi spinge a formulare e ad esternare queste riflessioni. Con la tecnica noi abbiamo avuto da sempre, da Prometeo in poi, un problema, che era quello della possibilità di un suo utilizzo improprio o malvagio. Ma adesso ne abbiamo un altro, a mio giudizio altrettanto o forse anche più grave. Se un’auto nelle mani di un deficiente poteva diventare un’arma di distruzione, un’auto che decide, che sceglie in proprio sulla base di una sua logica di autoconservazione algoritmica può darsi sia più sicura per chi la guida, ma non so quanto lo sia per chi sta fuori: e comunque, il fatto che sottragga al guidatore la scelta dell’azione da compiere mi sembra piuttosto grave.

Ora, Baricco non ha certo in mente questo, ma al di là delle correzioni che potremo portare alla nuova civiltà amica il fatto di fondo rimane. A suo parere le protesi artificiali limitavano il nostro corpo, mentre le estensioni “quasi” biologiche lo esalteranno. Ne è proprio così convinto? A me sembra molto più probabile che lo condizioneranno, e che anzi già lo stiano facendo.

Insomma, il ragionamento di Baricco è sempre lo stesso, quello proposto ne “I barbari” e ribadito ne “The Game”: ci siamo già dentro, è inutile recriminare, diamoci piuttosto da fare a controllare la rivoluzione. Che sarebbe ineccepibile, se il cambiamento in atto fosse davvero controllabile. Quello che sembra sfuggirgli è che “da dentro” non siamo più in grado di controllare niente, che la logica che sta alla base della rivoluzione digitale è quella della colonizzazione completa dell’umanità, e non per una volontà perversa, quella appartiene solo agli umani, ma perché è intrinseca alla sua “natura” evolutiva. E che quindi solo rimanendo almeno con un piede fuori si può cercare di impedire che la porta si chiuda alle nostre spalle.

 

TRE – Al contrario. Per Baricco la quarantena ci sta insegnando che “più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe”. Perché “chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali”. E questo significa che “mentre dicevamo cose tipo ‘ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali’, quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell’intelligenza”.

Confesso che ci sono passaggi nei quali pur con tutta la buona volontà non riesco a seguirlo. Mi si sta dicendo che dopo questo digiuno di rapporti “fisici” i nostri adolescenti non si daranno più convegno per smanettare poi sullo smartphone ciascuno per conto proprio? Che si intensificherà sul lungo termine (sul brevissimo, è sperabile) la ricerca di occasioni d’incontro e di convivialità? Che l’abitudine forzata alla comunicazione a distanza maturata in queste settimane lascerà immediatamente e completamente il posto alle conversazioni, alle confessioni, alle esternazioni non in streaming? Che la quantità indicibile di rapporti umani che stavamo ammassando (ma dove? ma quando? ma chi?) verrà non solo recuperata, ma ampliata? Capisco l’entusiasmo, ognuno ha il diritto di pensarla come vuole, ma qui si rasenta il delirio.

Salto la SEI e la SETTE, puri effetti scenici, e accenno solo alla

OTTO – “L’emergenza Covid 19 ha reso di un’evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l’agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione”. Di qui l’esortazione: “La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi”. Un po’ di schiena dritta, perdinci. Dimenticando che la paura non detta l’agenda degli umani da qualche tempo a questa parte, ma da sempre, da quando la specie homo è comparsa, perché la prima coscienza che ha avuto è stata quella della propria inadeguatezza. Poi, in alcuni uomini la volontà, vuoi di potenza, vuoi di conoscenza, ha prevalso, ma la paura è stato il fattore che ha garantito la nostra sopravvivenza.

Vengo infine alle ultime tre, che offrono materia ampia di riflessione (e spero ne offrano, a distanza di un mese, anche a Baricco stesso).

NOVE – “A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo”. Ahi, ci siamo. Tutte le cautele e i “qui lo dico e qui lo nego” del caso, ma “resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l’entità del rischio e l’entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell’intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo”. Traduco: la stiamo facendo più grossa di quanto non sia. E questo perché l’intelligenza novecentesca, con la sua scarsa flessibilità e la sua adorazione dello specialismo, non ha affiancato ai medici anche dei clown. Vediamo un po’ di scendere sulla terra. Ad oggi, a un mese esatto dalla comparsa dell’articolo di Baricco, ci sono nel mondo più di 2,6 milioni di persone contagiate, e i morti imputabili al virus sono 180 mila (dati della Johns Hopkins University). Per capirci, molti più della somma di quelli di Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente questi numeri sono da considerare stimati per difetto: le persone sottoposte a tampone non sono nemmeno l’un per mille, le cifre trasmesse da diversi governi (vedi Cina) sono fortemente taroccate al ribasso, per non parlare di quelle in arrivo dall’Africa o dall’America Latina. Ciò che rimane indubbio è che in assenza delle le misure “sproporzionate” che sono state adottate quelle cifre sarebbero molto più alte.

Ma Baricco non vuole infilarsi “in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla precedescivolosità della cera da pavimenti”. Va più in profondità. “C’è un’inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire”. Come dargli torto. La paura peculiare della specie umana è, guarda un po’, proprio quella della morte. Abbiamo paura della morte perché ne abbiamo consapevolezza. Ma questo a Baricco non va bene. Ne abbiamo troppa. “La civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa ‘capacità di morte’. Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte”. Non so su che fronte abbia combattuto il nonno di Baricco, il mio su quello del Carso, e credo non si sia mai abituato a pensare la morte. L’ha avuta davanti per quattro anni, e ne aveva un tale orrore che non ha mai voluto parlare di quell’incubo infinito, non lo ha fatto coi figli e non lo ha fatto con me che ero il suo primo nipote, depositario del nome avito e delle sue rarissime confidenze. Questa a Baricco proprio non gliela perdono: mi fosse venuto a dire che la perdita di un figlio, in famiglie dove ne nascevano dieci, riusciva per forza di cose meno tragica di quanto lo sia oggi, avrei potuto dargli ragione. Ma quando mi racconta che “delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse”, eh no, questo non passa. Come sarebbe a dire “capaci di portare”? di trascinare, semmai, di costringere a farsi ammazzare, per non essere fucilati alle spalle (le decimazioni per ammutinamento, per il rifiuto di andare all’assalto o per diserzione hanno fatto migliaia e migliaia di vittime, che a quanto pare non si erano affatto abituate a pensare serenamente la morte). Forse il nonno di Baricco era un generale: il mio era un semplice fante.

Quindi, quando sento che “La meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un’offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare”, avverto subito echi di Seneca e odore d’incenso. Ma il primo si è dato la morte per evitare che gliela dessero gli altri, erano già alla porta: mentre i turibolari propongono semplicemente uno scambio, questa vita per un un’altra. Mettiamola così: nessuno, anche senza essere Berlusconi, accetta con saggezza la morte. Al più lo fa con rassegnazione, che è la fase ultima cui approda uno stato d’animo realmente disperato. Per favore, non raccontiamoci la palla che una comunità possa “essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo”. Ci siamo difesi discretamente bene fino ad oggi, semplicemente evitando il più possibile di pensarci, almeno consciamente.

DIECI – “Ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene”. Ma non gli sembravano spropositate, ad esempio, le misure? “Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc.”. Davvero? forse sono un po’ lento, ma non ho avuto la stessa impressione. E comunque non bisogna essere sleali, si deve concedere a Baricco l’attenuante di aver scritto queste cose un mese fa (per quanto …). Ma dove vuole andare a parare? Eccolo: “é possibile che si scelga, in effetti, l’emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l’aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L’emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l’ha. E anche abbastanza coerente con l’intelligenza del Game, che resta un’intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi”. Riassumo: mentre per Agamben e per i neo com (ne-ocomunisti e neo-complottisti a reti unificate) il Covid è una “epidemia inventata” per testare futuri scenari di regime, mentre per i neo-con(servatori) è la punizione divina che si abbatte sul mondo per la politica religiosa di papa Francesco, per Baricco è invece la grande prova generale per la missione finale: salvare il pianeta. Insomma, se non si chiama in causa l’astuzia della ragione o la collera divina, ci si rifugia nell’autoconservazione della natura (e della specie). Che si tratti di un virus, che si comporti aggressivamente come un virus, che occorra combatterlo come un virus, sembra ben poco rilevante per tutti. Il che non significa che non si possano trarne delle lezioni: ma evitando, per favore, almeno per un minimo di rispetto per le centinaia di migliaia (per ora) di vittime, di leggerlo come uno strumento e di darne interpretazioni strumentali. Perché poi,

UNDICI – e siamo alla fine, si arriva a conclusioni di questo tipo: “Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare… Se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è”.

Ora, se qualcuno ha la stessa percezione, se qualcuno ha in mente come dovrebbe avvenire questa redistribuzione (perché ci siamo inventanti il reddito di emergenza, perché ci saranno più posti di lavoro nella produzione di reagenti e mascherine, perché abbiamo scoperto che i nostri bisogni sono per la gran parte superflui? voglio capire), come accederemo, complice il Covid, a un livello diverso di equità, per favore me lo spieghi, perché naturalmente Baricco, a dispetto delle promesse del sottotitolo del suo intervento, non lo fa.

Io, al contrario di lui, di cosa ne ho capita una sola: non devo più tornare su questo argomento. Non sono più a tempo a fare come Manzoni, che “di mille voci al sonito/ mista la sua non ha”, ma posso almeno smettere subito, per evitare di dire le stesse sciocchezze che rinfaccio agli altri, o di fare a queste ultime da cassa di risonanza.

Aspetterò in silenzio e con speranza che il mio amico Armando esca dal tunnel terribile in cui il virus lo ha cacciato oltre un mese fa: poi lascerò che sia lui, che non è un personaggio del Game ma un essere molto umano e molto intelligente, a spiegare a Baricco la faccenda dell’opportunità.

 

Infausti anniversari

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2019

Ragguaglio sull’agonia della lettura

“Questi risultati ci preoccupano perché è un problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Se ora non interveniamo rischiamo di pregiudicare il futuro di una generazione. I dati non sono particolarmente diversi da quelli che abbiamo visto nella precedente rilevazione, ma sono molto peggiori di quelli di una ventina di anni fa. Se paragonati al Duemila si denota una significativa diminuzione della capacità di apprendimento dei giovani. Stiamo risentendo di un paio di decenni di poco interesse sull’istituzione scolastica. Serve un’inversione di tendenza importante: bisogna tornare a parlare di scuola, tornare a volergli bene, rafforzando anche il ruolo degli insegnanti”. (Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, commentando i risultati dell’indagine Ocse-Pisa 2018)

È un discorso che ho già sentito, più di una volta. Non ultima, in occasione del progetto di cui sopra. Non è certo questione di tornare a “parlare di scuola”: se ne è parlato sin troppo, senza mai arrivare al dunque. Per questo è ridotta così. Quanto al volerle (e non al volergli!) bene, passa appunto per il riconsiderare il ruolo degli insegnanti. E qui ci areniamo subito su un banco di sabbia. Questo è un paese nel quale il passaggio di cattedra dalla primaria alla secondaria superiore si ottiene con un corso-farsa di quaranta ore, magari per andare a insegnare matematica, filosofia o lingue, e dove ad auspicare una verifica periodica del livello di preparazione e di competenza dei docenti – e magari anche un accertamento psicologico, visto che il loro rischio di burnout ( che sarebbe il surriscaldamento cerebrale) è tre volte superiore a quello di qualsiasi altra categoria – ed una selezione che ne consegua, si viene tacciati d’infamia. Ma è anche il luogo dove la filosofia “aziendale” inaugurata dalla riforma Moratti e perseguita da tutte quelle successive, quella per la quale il cliente ha sempre ragione e i risultati si misurano sul suo gradimento, ha creato condizioni impossibili per l’insegnamento anche ai docenti più motivati.

Concentriamoci però per il momento sulla fattispecie che ha dato origine a questo pezzo, la disaffezione alla lettura. A distanza di due decenni i nodi del problema non sembrano granché cambiati, se non nel senso che lo sfascio è andato oltre le più fosche previsioni. Si scrive sempre di più, si pubblicano troppi libri, si legge sempre di meno. L’analfabetismo di ritorno dilaga. Sono cambiati invece, e parecchio, i fattori: a far concorrenza alla lettura non ci sono più solo il cinema o la televisione, sono subentrati altri media, assai più insidiosi. Che non hanno soltanto distratto dalla lettura, ma ne hanno modificato le modalità stesse, così come hanno modificato quelle della scrittura, facendone attività completamente altre rispetto a quelle tradizionali. La scrittura e la lettura si sono aperte a un numero infinitamente più grande di utenti, in teoria si sono “democratizzate”: nella realtà hanno perso quei caratteri (l’articolazione, la complessità) che ne facevano gli elementi chiave della formazione, della conservazione e della trasmissione delle conoscenze, e che agivano direttamente sul nostro cervello nella creazione dell’intelligenza.

Oggi si legge anche su supporti diversi dal libro, sul tablet, sul pc, sul lettore di ebook, sugli smartphone: ma già questo, di per sé, induce con lo strumento una consuetudine diversa, di ordine fisico oltreché mentale, che si riverbera poi anche sul testo: ciò che scorre su uno schermo, tattile o meno, rimanda a qualcosa di volatile, di superficiale. Appare destinato ad essere immediatamente spazzato via da altro, da ciò che lo circonda o da ciò che lo seguirà immediatamente. Ne riparleremo.

Prima fornisco qualche aggiornamento sulla situazione della lettura, nella scuola e fuori. Mi baso su dati concreti, e parto da quelli ufficiali relativi all’Italia, che tengono conto di tutte le diverse modalità di lettura. Non sono un appassionato delle indagini statistiche, ne conosco i limiti oggettivi e i rischi di manipolazione, ma penso comunque che rimangano al momento lo strumento più affidabile per misurare la temperatura culturale di un paese. E che quando segnalano stati permanenti di alterazione non ci si possa nascondere dietro i se e dietro i ma: un qualche allarme devono destarlo.

Dunque: il nostro paese è agli ultimi posti in Europa nella classifica dei lettori (inchiesta del Global English Editing). Nel 2018 solo il 40% degli italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’anno. Nell’Italia meridionale il numero si riduce ancora, scendendo al 27,5%. Per avere dei termini di confronto, la percentuale è del 90% in Svezia, dell’82% in Danimarca, dell’80% nel Regno Unito, del 79% in Germania, del 73% in Francia e dell’86% nei Paesi Bassi. Non mi si obietti che i primi sono paesi freddi e noiosi, dove per nove mesi l’anno le alternative alla lettura sono ben poche, perché in India, dove tanto freddo non fa e la natura è più rigogliosa che da noi, il tempo settimanale mediamente dedicato alla lettura (oltre dieci ore) è esattamente il doppio che in Italia (cinque ore). Per non parlare della Cina, dove la media è di quattro o cinque libri letti ogni anno per abitante (e sono un miliardo e mezzo). Il caso India smentisce poi anche l’altra immancabile obiezione: che i libri siano troppo cari, e quindi sia una questione di spesa. Palle. Il reddito medio pro capite degli indiani è cinque volte inferiore a quello degli italiani, ma leggono due volte di più.

Non è finita qui. I dati degli ultimi venti anni relativi al nostro paese parlano di una crescita della percentuale di lettori nel primo decennio del nuovo secolo (dal 41% al 47 % tra il 2001 e il 2010), e di una discesa quasi in picchiata negli ultimi otto anni. Non credo proprio c’entrino per la prima fase i progetti di incentivazione alla lettura, e il loro naufragio per la seconda: anche se il calo concerne per l’appunto soprattutto le fasce più giovani. In soli tre anni, dal 2015 al 2016, la quota di lettori tra i quindici e i diciassette anni è diminuita dal 53,9% al 42,1%. E anche tra i venti e i ventiquattro anni si è scesi dal 48,9% al 44,7%. Nella loro aridità, e pur rendendo conto solo dell’aspetto quantitativo della lettura, questi numeri ci dicono parecchio.

Per dare un po’ di soddisfazione alle mie amiche sottolineo che per fortuna, ad evitarci di scendere dagli ultimi posti continentali a quelli mondiali, ci sono le donne. Sono loro le lettrici più forti, sia pure relativamente: il 47,1% legge almeno un libro nel corso dell’anno, contro il 33,5% dei maschi, e il 15% ne legge in media uno al mese, contro il 12,6% degli uomini. E non c’entra la disponibilità di tempo (altra possibile obiezione cretina): lo dimostra il fatto che il 58,7% delle ragazze tra gli undici e i diciannove anni, quindi in età scolare e con impegni esattamente simili a quelli maschili, ha letto almeno un libro, mentre i loro coetanei sono solo il 38%. Quelle di diciotto e diciannove anni si avvicinano addirittura alle medie europee, ben il 70,2% (contro un misero 36,5% dei maschi), mentre quelle tra i quindici e i diciassette arrivano al 68,8% (i loro pari età si fermano al 42%). Non esiste una sola fascia d’età in cui i lettori maschi siano superiori alle lettrici femmine. Non che questo sia di qualche conforto, ma è un dato da considerare.

Ciò che maggiormente sconforta, però, è che nel quadro di un trend mondiale tutto sommato stabile, il nostro, che era già messo male prima, è tra i paesi che accusano un calo maggiore. E le conseguenze si vedono. Una recente indagine sui livelli mondiali di alfabetizzazione (è quella cui si riferisce il ministro), realizzata dall’ OCSE e consistente in sei questionari relativi alla lettura, alla scrittura e al calcolo, ha dato risultati spaventosi. Sui ventisette Paesi presi in considerazione, l’Italia si piazza penosamente ultima.

Le risposte erano valutate sulla base di cinque livelli crescenti. Bene, intanto il 5% degli italiani non ha raggiunto neppure il primo livello, ciò che significa che è letteralmente analfabeta (e si parla di oltre due milioni!), mentre al primo livello, ovvero a rischio di analfabetismo, si è fermato complessivamente (cioè compresi gli analfabeti “certificati” di cui sopra) il 42%. Stiamo dicendo che quasi un italiano su due è un analfabeta funzionale di primo livello. Al secondo livello si ferma un altro 39%: sommiamo ai precedenti e constatiamo che quattro italiani su cinque sono sotto la soglia della mediocrità culturale. Al terzo livello si trova il 18,8%. A raggiungere il quarto e il quinto livello di competenza linguistica e matematica è una sparutissima pattuglia. Un quadro desolante, che spiega meglio di qualsiasi trattazione sociopolitica perché siamo messi così male.

Per contro, se andiamo invece a considerare l’editoria, troviamo che l’offerta libraria è in continuo aumento (dati AIE 2018). Nel 2017 sono stati pubblicati in Italia 70.159 titoli, per la gran parte prime edizioni. Se tuttavia prendiamo in considerazione il numero di copie stampate (attorno ai centosessanta milioni di copie nel 2017) ci accorgiamo che mentre rispetto a vent’anni fa i titoli pubblicati sono aumentati di una volta e mezza, le copie stampate sono diminuite della metà. Il che sarà una buona notizia per le foreste, ma ha significati meno positivi per la lettura. Significa che la corsa a proporre novità continue per attrarre i consumatori e rispondere a tutti i gusti, sulla falsariga delle politiche di vendita attuate negli altri settori, sacrificando l’attenzione alla qualità, nel mercato librario non paga. E significa anche per i lettori una sempre maggiore difficoltà ad orientarsi entro un’offerta spropositata e invadente.

Quanto al piano dal quale sono partito, quello dell’età scolastica, abbiamo anche qui dei dati significativi (dati Istat del 28 dicembre 2018). Tra i sei e i quattordici anni bambini e ragazzi sono discreti lettori: il 48,5 circa di loro legge almeno un libro l’anno (nulla di paragonabile con i loro coetanei scandinavi, ma insomma), mentre tra i quindici e i diciassette come abbiamo visto la percentuale scende, e si allinea quasi a quella nazionale. Ora, non c’è dubbio che l’adolescenza sia un’età ingrata, di norma piuttosto stupida, e che nella testa dei ragazzi di quell’età circolino un sacco di cose che con la lettura hanno poco a che vedere: ma è altrettanto vero che nei loro coetanei scandinavi la consuetudine con i libri non viene meno, e questo perché è sapientemente coltivata. Ci sono poi senz’altro ragioni storiche, che rendono poco raffrontabili paesi in cui saper leggere era d’obbligo sin dalla fine del medioevo, non fosse altro per motivi religiosi, e nei quali il primo esempio e lo stimolo maggiore arrivano proprio dalle famiglie, col nostro, che non aveva ancora sconfitto l’analfabetismo mezzo secolo fa e nel quale il 60% delle famiglie ha in casa meno di cinquanta libri (ma la metà di queste non arriva nemmeno a dieci), e solo il 6% ne possiede più di quattrocento. Qui però non si parla più della difficoltà di attirare nuovi giovani lettori, qui si parla di un calo: quindi le ragioni del ritardo storico non sono più sufficienti a fornire la spiegazione. Deve esserci dell’altro.

C’è per intanto una chiara responsabilità della scuola. Gran parte del disamore giovanile per la lettura nasce direttamente nelle aule scolastiche. Per tanti motivi. Anche se resto dell’idea che i “progetti di incentivazione” non siano sufficienti ad affrontare il problema (in Italia, quando va bene lasciano il tempo che trovano) mi rendo conto tuttavia che l’inerzia totale che ha caratterizzato le ultime politiche scolastiche non solo non aiuta a risolverlo, ma nemmeno consente di arginarlo o anche soltanto di inquadrarlo. I progetti in realtà, se impostati come si deve, qualche risultato lo danno. Dodici anni fa la Spagna, che navigava in acque politiche ed economiche ancor meno tranquille di quelle italiane, ha preso di petto la questione, ha costituito una rete che ingloba (ma soprattutto impegna a darsi da fare) tutti gli attori del mondo del libro, dagli editori alle biblioteche ai librai, e ha come terreno di gioco proprio la scuola, ha varato una legge ad hoc (il “Plan de fomento de la lectura”) e in un decennio è passata da percentuali simili alla nostra ad un 60%. Guarda caso, il successo di quel progetto ha coinciso con la scoperta e il lancio a livello internazionale di una schiera di autori di ottimo livello, che a partire da una particolare attenzione per la storia patria, tutta da ripensare dopo i quarant’anni di coma franchista, hanno sfornato opere in grado di sfidare in ogni campo il monopolio della narrativa di lingua anglofona (i cinque titoli più letti in Spagna nel 2018 erano tutti di autori spagnoli). Lo stesso sta avvenendo per le letterature scandinave, sia pure per motivazioni diverse. Tra l’altro, il numero di titoli pubblicati dalle case editrici spagnole è di pochissimo superiore a quello italiano, per un mercato quasi nove volte più ampio (i parlanti in lingua spagnola al mondo sono circa 520 milioni). Ciò significa aver operato una selezione intelligente e offrire al pubblico una produzione capace non solo di attrarre, ma di abituare e incentivare alla lettura.

Torniamo però alla nostra scuola. Da cosa nasce la disaffezione dei ragazzi? Certo, in primo luogo dall’effetto di distrazione operato dai nuovi media: ma anche da come il libro è usato nell’ottica famigerata del “programma”. Io non penso che non si debbano avviare e aiutare i ragazzi a leggere I promessi sposi, o la Divina Commedia: ma c’è modo e modo di presentare queste cose. Già il diluire in un’ora di “lettura guidata” settimanale le disavventure di Renzo e Lucia è insensato e controproducente: lascio immaginare quanto lo sia un triennio in compagnia di spezzoni danteschi. Personalmente ho dovuto attendere vent’anni prima di decidermi a riprendere in mano quei testi, e a proporli con una convinzione non prettamente professionale ai miei allievi. Ciò non mi ha impedito di diventare un lettore forte, anzi, probabilmente lo sono diventato perché ho cercato da subito qualcosa da contrapporre a quella che mi appariva come una pratica quasi punitiva. Insomma, quello che potrebbe riuscire stimolante, inizialmente magari solo a livello di esercizio enigmistico, nel confronto con la lingua, diventa con l’imposizione ripetitiva un vero deterrente. E appare comprensibilmente difficile che a rendere vivi questi autori possano essere docenti che a loro volta li hanno già odiati. C’è per contro anche il rischio che a vivacizzarli, ad attualizzarli troppo, si finisca per stravolgerne completamente il senso, la bellezza e la portata storica, e renderli ancor più indigesti.

Il fatto è che, al di là dei problemi spiccioli di competenza cui accennavo prima, noi paghiamo lo scotto di due atteggiamenti opposti che si sono storicamente succeduti, ottenendo gli stessi risultati negativi. Dapprima ha dominato un arroccamento intellettuale che potremmo definire di stampo crociano, ma che ha origine ben prima di Croce (e che comunque ha avuto una parte preponderante nelle politiche di organizzazione del nostro sistema educativo). Ne ho già parlato altrove: al fondo c’è la presunzione di appartenenza del letterato ad una dimensione quasi sacrale, alla quale si può accedere, come diceva di fare Machiavelli, solo dopo aver indossato i paramenti sacerdotali. Il che sarebbe persino in qualche misura giusto, se non si risolvesse in una celebrazione ritualistica da un lato e nello sprezzo per tutto ciò che resta fuori, che è profano, dall’altro. Per spiegarmi meglio: se ai tempi delle medie avessi confessato di adorare Salgari e Verne, e di trascorrere molte più ore settimanali di un indiano nella loro lettura, sarei stato redarguito e invitato a non sprecare il mio tempo. Per non parlare dei fumetti, che erano oggetto di totale scomunica. Ebbene, sono convinto che gli inglesi leggano molto perché hanno imparato ad amare la lettura su Lewis Carroll, su Stevenson e su Kipling, nessuno dei quali è stato mai bollato, a differenza di quanto accadeva qui da noi, come uno “scrittore per ragazzi”. Certo, tra Stevenson e Salgari c’è una bella differenza, ma il problema è che in Italia nessuno scrittore con le doti letterarie di Stevenson si sarebbe “abbassato” a scrivere di pirati. E comunque, entrambi ti facevano tenere gli occhi incollati ad un libro.

Il paradosso è che questo atteggiamento “elitario” è poi rimasto, di fatto, nei comportamenti dalle avanguardie contestatrici e decostruttrici della seconda metà del Novecento (il disprezzo crociano per la letteratura “borghese” è parente stretto di quello riservato alle “Liale” dalla cultura “impegnata”). Abbiamo assistito a cinquant’anni di dissacrazioni insensate, fini a se stesse, mai propositive di qualcosa che andasse bene o male a riempire i vuoti creati dall’opera di demolizione. E anche il venir meno della divisione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, che altrove è sempre stata risolta in una accezione molto più comprensiva ed elastica del significato del termine, da noi ha dovuto passare attraverso cerimonie di “riabilitazione” che conferissero a tutto l’imprimatur “culturale”. Si pensi ad esempio alla vicenda dei fumetti: ho smesso di leggerli, e con me lo hanno fatto in blocco le generazioni successive, quando hanno cominciato a spiegarmi quali ideologie o idealità stavano dietro i cazzotti di Tex. Lo stesso vale per le letture giovanili. Come possono appassionarti Il richiamo della foresta o Kim (cito questi perché nella letteratura italiana non c’è un equivalente, e neppure ci sono opere che possano essere adattate alla lettura giovanile, come I viaggi di Gulliver o il Don Chisciotte), quando nell’intento di “legittimarli” culturalmente te li propongono sezionati senza anestesia, così che possa distinguere se la voce narrante è intradiegetica o extradiegetica, e non confondere la fabula con l’intreccio. Che leggere possa essere anche qualcosa di normale, e che nel momento stesso in cui offre piacere trasmetta in automatico degli stimoli alla conoscenza e alla consapevolezza, questo nella scuola non passa.

Il caso inglese cui mi sono appellato ci porta però nel cuore del problema. Abbiamo visto come gli inglesi leggano il doppio rispetto agli italiani, e questi ultimi infatti hanno a guidarli Di Maio e Salvini e quella incredibile corte dei miracoli che siede al governo o in parlamento. Ma anche gli inglesi hanno Boris Johnson, e in alternativa Corbin, e non si può certo dire che quanto a rappresentanza politica stiano molto meglio. Bisogna chiedersi allora se il rapporto più o meno forte con la lettura ha ancora a che vedere con la consapevolezza civica. E se così non fosse, perché.

Forse occorre andare più in profondità. Oppure chiamare un’altra volta in causa Baricco, anche se a questo punto la mia potrebbe sembrare un’ossessione persecutoria, o un gioco astioso a impallinarlo. Non è così: al contrario. É che Baricco si presta perfettamente al discorso che sto facendo, rimane al momento uno degli interlocutori più qualificati: o quantomeno, è tra i pochissimi che si mettono in gioco e affrontano seriamente (dal loro punto di vista) l’argomento. Il fatto poi che mi trovi d’accordo con lui quasi su nulla non significa che non gli riconosca questo merito.

 

Sulle bariccate

Con il format televisivo Pickwick (significativo il sottotitolo: del leggere e dello scrivere), poi ripreso in Totem, portato a teatro e adattato in molte performance live, Baricco ha inventato una modalità di trasmissione della cultura in cui è possibile isolare dei frammenti di senso provenienti dal patrimonio della tradizione e declinarli in un linguaggio compatibile con la grammatica mentale dell’umanità presente […]”.

Baricco descrive il mondo in cui viviamo come il risultato di una rivoluzione, quella digitale, che non ha conquistato i luoghi tradizionali del potere e del sapere, li ha aggirati e oltrepassati scavandogli sotto dei tunnel, per andare a costruire al di là una nuova dimensione dell’esistenza, in cui molti di quei poteri e di quei saperi sono disattivati. Contrariamente a quanto vorrebbe il senso comune, questo mondo non è il prodotto di strumenti che ci si sono inspiegabilmente attaccati addosso. Un’umanità nuova, modellata da una rivoluzione mentale, da uno scatto cognitivo, ha creato gli strumenti che le servivano per modificare il mondo secondo le proprie esigenze. Un’esigenza soprattutto: smaterializzare la realtà, comprimerla e compattarla per renderla disponibile a una migrazione epocale nata come una fuga e figlia della paura. Fuga da dove, paura di cosa? Fuga dal Novecento, e paura della teoria di catastrofi che l’organizzazione mentale della civiltà novecentesca aveva prodotto” (Paolo Gervasi, A che gioco giochiamo? Perché Baricco ha ragione e noi dovremmo smetterla di fare quella faccia – dal blog Che fare)

Non so se Baricco abbia isolato dei frammenti di senso, può darsi, all’epoca non ci ho fatto caso. Pickwik mi piaceva, almeno inizialmente, e consigliavo ai miei allievi di seguirlo. Per me era il modo di raccontare libri che avrei voluto incontrare quando frequentavo il liceo, e al quale ho cercato di attenermi per tutta la mia carriera di insegnante. Poi ha cominciato a irritarmi, lo trovavo sempre più insopportabilmente lezioso, e avvertivo che la presentazione si stava sovrapponendo al libro, che questo stava diventando solo un pretesto, e che lo spettacolo si stava divorando anche la letteratura. L’ho considerata un’occasione sprecata, come si poteva già evincere dalla bozza di presentazione di vent’anni fa.

Ma non è di Pickwik che intendo parlare, quanto della successiva evoluzione del pensiero di Baricco. Perché, a dispetto della puzza al naso dei circoli alti della cultura italiana, credo che Baricco vada preso sul serio, in quanto si è fatto alfiere di un modo di pensare (forse per la maggioranza non proprio di pensare, ma senz’altro di sentire) molto diffuso e a mio parere assai insidioso.

Nel 2006 Baricco raccoglieva sotto il titolo “I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione”, una serie di riflessioni pubblicate quotidianamente, per diversi mesi, su “La Stampa”, dando loro la struttura di un vero e proprio trattato e dichiarando apertamente l’ambizione di spiegare il cambiamento di cui tutti siamo testimoni, ma del quale nessuno riesce a comprendere i modi e il verso.

Per Baricco non stiamo assistendo alla trasformazione interna di una civiltà, al passaggio da una fase all’altra, ma ad una vera e propria rivoluzione, che sancisce il tramonto di un’epoca e prelude a quella successiva. A definire una civiltà sono i modi della percezione, dell’esperienza del mondo, soprattutto quelli relativi allo spazio e al tempo: e hanno naturalmente una fondamentale importanza i mezzi che rendono possibili e indirizzano questi modi. La civiltà che sta nascendo è caratterizzata da tecnologie totalmente innovative, le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), che non si limiteranno a potenziare, magari in modo esponenziale, le nostre facoltà conoscitive, ma ne cambieranno, anzi, ne stanno già cambiando, l’utilizzo e i parametri. L’esperienza del mondo che i cosiddetti nativi digitali faranno, limitandosi alla sua superfice, sarà facilitata dall’eliminazione degli attriti dello scavo, dell’approfondimento, dello studio, e li porterà a dar vita ad un rinnovamento radicale della società, e quindi a tagliare i ponti con tutto quanto fino ad ora è stato considerato imprescindibile per qualsivoglia crescita, in qualsiasi ambito. Avviene alla fine di ogni epoca: i “barbari” che irrompono stravolgono le vecchie regole, le vecchie istituzioni, fondano nuovi modelli di convivenza.

Fin qui, quanto all’analisi, nulla da eccepire. In fondo Baricco non fa che mettere in chiaro ciò che tutti quanti, più o meno confusamente, già avvertiamo. E lo fa in maniera efficace: quando non si perde davanti allo specchio è un grande comunicatore. Il problema si pone invece allorché passa a trattare dell’atteggiamento da assumere nei confronti di questa trasformazione. Pur chiamandosene personalmente fuori, dichiarando di esserne inquietato quanto tutti noi, Baricco la considera ineluttabile: ritiene pertanto che, ci piaccia o meno, dobbiamo prepararci ad affrontarla e, per quanto possibile, a governarla. Parole sensate: solo che poi questo modo di governarla sembra ridursi un po’ troppo ad una rassegnata acquiescenza. Ma non si limita a questo. Se la prende con gli apocalittici, coi profeti di sventura che in effetti ad ogni trasformazione, sin dai tempi biblici, hanno vaticinato sciagure e disastri, mentre poi il mondo è andato avanti come e meglio di prima. E anche questo è vero, o lo è almeno dal punto di vista dei vincitori, ovvero dei barbari che periodicamente hanno affossato le diverse civiltà. Ma non lo è altrettanto per gli affossati: perché le sventure non sono state soltanto predette, per loro si sono concretamente verificate. Voglio dire che il passaggio dei barbari ha sempre lasciato cataste di cadaveri, e rovine fumanti e tesori dispersi, e un occhio di considerazione per tutto questo bisognerebbe averlo, anche augurandoci che nel nostro caso si tratti solo di immagini metaforiche.

È a questo punto che mi diventa impossibile seguirlo. Il ritenere che tutto debba essere sacrificato all’avvento del nuovo suona molto deterministico, molto hegeliano, per non dire staliniano (“per fare le frittate bisogna rompere le uova”). Quindi, non discuto il fatto che sia in atto una mutazione antropologica, e che i nostri nipoti sentiranno e vivranno in maniera molto diversa dalla nostra. Penso anch’io che le cose andranno così: ma rivendico almeno che la direzione che hanno presa possa non piacermi, e che io debba fare il possibile per ostacolarla, senza sentirmi un reazionario abbarbicato a idealità e valori “romantici e borghesi”, che nell’accezione di Baricco sta a significare obsoleti e ipocriti.

Perché poi è lì che Baricco vuole arrivare, pur fingendo tutte le cautele e persino qualche falsa nostalgia per il mondo che fu. Non voglio mettere sotto accusa le intenzioni, soprattutto non voglio fargli dire quel che non ha detto: ma devo evidenziare le contraddizioni. Verso la fine de “I barbari” scrive “Nella grande corrente, (occorre) mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”. Verissimo: non fosse che ci ha raccontato sino ad ora il nuovo che avanza come una “fuga dagli orrori del Novecento”, e riesce difficile capire a questo punto cosa andrebbe recuperato dalle macerie.

Nel saggio che va a complemento del primo, “The Game”, pubblicato nel 2018, scrive: “L’insurrezione digitale è stata una mossa istintiva, una brusca torsione mentale. Reagiva a uno shock, quello del ‘900. L’intuizione fu quella di evadere da quella civiltà rovinosa infilando una via di fuga che alcuni avevano scoperto nei primi laboratori di computer science”. Quindi si evade da una “civiltà rovinosa” attraverso la breccia aperta dalla rivoluzione digitale: verrebbe da dire, dalla serpe che quella civiltà ha allevato in seno. Ma si evade per andare dove? Verso una filosofia della vita completamente nuova, che prevede “superficie al posto di profondità, viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza”. In altre parole: la cultura che sta emergendo dalla digitalizzazione del mondo non si fonda sulla discesa in profondità, alla ricerca del senso nascosto, ma sulla diffusione in orizzontale del nostro sguardo, delle nostre conoscenze, resa possibile proprio da un armamentario tecnologico che azzera i tempi e annulla le distanze. Il tema vero non è dunque in cosa consista la nuova cultura, ma come la si acquista e la si vive.

E qui Baricco esce allo scoperto. A suo parere la mutazione in corso si configura come un rifiuto della vecchia concezione “penitenziale” della cultura, alla quale viene contrapposta una concezione gioiosa e ludica. Da buoni “barbari”, i nuovi prediligono il movimento, “l’inseguimento del senso là dove è vivo in superfice”: ma un movimento soprattutto virtuale, visto che la “rivoluzione copernicana” di cui parla prevede “la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”. La superfice sulla quale si viaggia è quella dello schermo, del monitor, e non a caso la metafora della nuova realtà è il video-gioco: “Storicamente il videogame è uno dei miti fondativi dell’insurrezione digitale”.

In sostanza: “Il cuore della faccenda è lì: il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l’armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese”.

Dunque, i nuovi barbari rifiutano l’eredità di un secolo scellerato, che ha conosciuto genocidi, massacri, stermini, intraspecifi e non: e il loro rifiuto passa innanzitutto per lo smascheramento di quell’anima (intesa in senso laico, borghese) che è per Baricco una creazione degli intellettuali romantici dell’ottocento, e in nome della quale, o quantomeno di una esasperazione e distorsione del suo senso, può essere giustificata ogni atrocità. Non che i soggetti della mutazione siano del tutto coscienti di questa motivazione (questo Baricco lo concede): piuttosto sono mossi da una paura istintiva di ripetere i disastri provocati dalle generazioni precedenti, e di esserne coinvolti. Ma la loro paura ha radici più ancestrali: “Hanno paura di pensare serio, di pensare profondo, di pensare il sacro: la memoria analfabeta di una sofferenza patita senza eroismi deve crepitare, da qualche parte, in loro”.

Ecco che viene fuori il mito dell’età dell’oro: “una sofferenza patita senza eroismi”, della quale è rimasta, in profondità, una “memoria analfabeta”. È bene che spieghi meglio. Nella vecchia concezione (quella romantico-borghese, la mia, per intenderci) il percorso di costante approssimazione al senso – che poi in realtà è già esso stesso il senso – offre un piacere che fa tutt’uno con la fatica, che nasce dall’applicazione, dalla volontà, dall’emozione continua della scoperta e della conquista sudata. In luogo del videogioco, la metafora qui potrebbe essere perfettamente rappresentata dalla montagna: non a caso l’alpinismo è nato proprio nell’8oo, e lo spirito che lo anima è lo stesso che informa la concezione del conoscere (e del vivere) messa sotto accusa dai “nuovi barbari”. La direttrice è comunque quella verticale, cambia solo il verso: salire in altezza, scendere in profondità. Chi ama la montagna capisce bene a cosa mi riferisco: scalare, o anche semplicemente ascendere, sono attività tra le più faticose, ma sono anche quelle che producono il piacere più genuino e più intenso. Che non ha a che fare con la “vittoria sull’Alpe”, perché l’Alpe rimane lì, tutt’altro che sottomessa, e se affrontata nella maniera giusta ti incute solo rispetto: e perché sai, per quante vette tu salga, che ne rimangono infinite altre, e non le salirai mai tutte. La vittoria è quella di un aspetto peculiare della nostra natura, “connaturato” (e non snaturante) al comportamento della nostra specie, che si chiama “cultura”.

Ed è tale da quando siamo diventati homo, non dall’Ottocento.

Mi sorprende che Baricco, che non nasconde la sua passione per le escursioni alpine, consideri penitenziale, o peggio ancora, un retaggio borghese, questo piacere. Che arrivi a pensare che la modalità di esistenza decisiva del nuovo mondo, il divertimento, sia il contrario della conoscenza. E che addirittura ascriva alla fatica e alla difficoltà di praticare individualmente questo percorso la spinta a intrupparsi in una sorta di spiritualità collettiva, a coltivare le idee di nazione o di razza. “Ciò che non era immediatamente rinvenibile nella pochezza dell’individuo, risultava evidente nel destino di un popolo, nelle sue radici mitiche, e nelle sue aspirazioni”.

Questo vale certamente per le forme degenerate di quello spirito, quelle che, per restare dentro la metafora dell’alpinismo, hanno preso la forma della “lotta con l’Alpe” di Giudo Rey o del “bagnar le labbra alla coppa della morte” di Guido Lammer. Ma le esasperazioni vanno messe in conto sempre, e sono appunto un distorcimento, un tradimento. Non sono intrinseche all’idea, ma alla fragilità di chi le professa. Con le idealità hanno nulla che vedere: ne costituiscono solo una declinazione paranoide, a volte caricaturale: quella che tra l’altro nella nostra epoca è indotta proprio dal trionfo della virtualità e dalla iperconnettività (ci sarebbe stata la corsa ai quattordici ottomila senza la visibilità televisiva, e quindi gli sponsor, ecc …?)

Insomma, Baricco ci prospetta un mondo nel quale la concatenazione delle vette alpine potrà essere fatta in orizzontale, facendosi posare su ciascuna di esse da un elicottero, o meglio ancora, realizzandola tranquillamente a casa, al caldo e al sicuro, davanti alla consolle di un videogioco. La fatica dilettevole di cui parla è in realtà rifiuto incondizionato e aprioristico della fatica. Non solo di quella di studiare, ma anche di quella di rapportarsi concretamente, fisicamente con gli altri, senza trincerarsi dietro lo scudo di uno strumento che deresponsabilizza e permette di entrare ed uscire all’istante in quelle che sono soltanto parodie di sentimenti e di affetti (chiedere l’amicizia a chi non si conosce, uscire da una relazione con un tweet, …), o di godere di una “interattività diffusa” che sta a significare soltanto una rete di legami effimeri e leggeri. Oggi ciascuno di noi può interagire con islandesi e filippini e aborigeni australiani: ma per condividere che?

Baricco però si rende conto che al momento di definire gli atteggiamenti da assumere la sua proposta di interpretazione rimane troppo vaga, che non basta auspicare una disposizione tutto sommato umanistica, con la quale “vivere e comprendere la tecnologia senza arroccarsi né tuttavia fare carta straccia della parola scritta, del pensiero complesso e non banale”. Forse nel frattempo si è guardato attorno e ha visto che i conti non tornano. Questo sembra potersi desumere da un piccolo saggio comparso recentemente su “La Repubblica” (10 gennaio 2019), dal titolo “E ora le élites si mettano in gioco”, che chiude così: “Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare”. Non è il massimo della concretezza, ma qualche indicazione la offre. Soprattutto, però, porta allo scoperto le contraddizioni di fondo.

Se ho davvero fiducia nella cultura, l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto non mi fa vomitare, mi fa riflettere. Vomitare significa liberarsi lo stomaco di qualcosa di indigesto lasciando che la reazione arrivi dal mio corpo, da una sua intolleranza naturale. Ma in verità questa intolleranza non è naturale. Non è presente in alcuna altra specie animale. In noi è dettata dalla cultura. Se vomito, dopo sono libero, ma vuoto. Se rifletto analizzo le cause del mio disagio, considero la vicenda sotto vari aspetti, compreso il modo in cui mi è raccontata e le strumentalizzazioni di varia provenienza di cui è oggetto, libero la mente da pregiudizi e cerco di definire un mio atteggiamento concretamente conseguente. Sono tutte cose in cui il mio stomaco non ha alcuna parte, e non per una freddezza o insensibilità particolare, ma perché, al contrario, considero un mio dovere etico fare lo sforzo di conoscere, per agire poi in ragione di questa conoscenza.

Questo processo, come dicevo sopra, non è nato ieri con l’idea romantica di anima. Va avanti da centinaia di migliaia di anni. Quindi l’idea di un ritorno a una attitudine “pre-borghese” nei confronti della natura, della vita, della conoscenza mi sembra frutto di un nichilismo molto “soft”, buonista, semplificatorio e mediatico, adatto ad un consumo superficiale e veloce. Molto in linea appunto con la nuova disposizione mentale “barbarica”.

Ora, se non posso che plaudire all’invito a “Non smettere di leggere libri, tutti”, trovo sia poi difficilmente compatibile con la “superfice al posto di profondità”, con i “viaggi al posto di immersioni”. Trovo soprattutto che mal si concili con la realtà che questa nuova attitudine di pensiero sta delineando. A meno che quel “tutti”, anziché ai potenziali lettori non si riferisca ai possibili libri, stando a significare che “va bene tutto, purché si legga”. Magari senza fare troppa fatica.

Il problema è che, segnatamente in Italia, si legge invece ben poco, come raccontano le indagini cui ho fatto riferimento sopra. E anche quel poco non lo si digerisce affatto. I dati sulla frequentazione dei libri vanno integrati infatti con quelli sulla comprensione della lettura. “Non sono dati incoraggianti quelli emersi dall’ultima indagine del rapporto Ocse-Pisa 2018 (l’indagine valuta le competenze in lettura, matematica e scienze di seicentomila quindicenni di tutto il mondo, divisi in settantanove paesi) sulle competenze dei quindicenni studenti italiani, sia in rapporto all’intero Paese sia in confronto con la classifica mondiale: gli alunni italiani vengono sonoramente bocciati in lettura (meglio le ragazze), vanno un po’ meglio in matematica mentre “crollano” in scienze, la materia “peggiore” secondo l’ultimo rapporto. Per l’Italia hanno partecipato alla prova d’indagine 11.785 studenti, divisi in cinquecentocinquanta scuole: ebbene, gli alunni italiani ottengono un pessimo punteggio in lettura – 476 – inferiore alla media Ocse fissata a 487, con un giudizio ancor più preoccupante: solo un quindicenne italiano su venti riesce a distinguere tra fatti e opinioni quando legge un testo di un argomento che non gli è familiare. La media Ocse è uno su dieci. Addirittura gli studenti italiani che hanno difficoltà di base nella lettura “semplice”, che non riescono cioè ad identificare l’idea principale di un testo di media lunghezza, sono uno su quattro”.

Qui occorre capirci. O gli studenti italiani sono già incamminati a percorrere le nuove sconfinate praterie di senso aperte dalla tecnologia digitale, avanguardie rivoluzionarie che si spingono ad esplorare le terre incognite armate di minuscoli smartphone, dopo essersi liberate del fardello di una cultura vetusta e inutile; oppure sono letteralmente allo sbando, e l’iperconnessione ha creato nei loro cervelli un enorme cortocircuito, del quale ci arriva l’odore di strine. E allora sono sì le avanguardie, ma di uno sfacelo imminente. Perché stazionano al disotto di una media OCSE che negli ultimi quindici anni è scesa a sua volta. Segno che qualcosa sta cambiando a livello globale, e non esattamente nella direzione profetizzata da Baricco.

In un saggio-pamphlet di qualche anno fa (Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina 2011) l’economista e divulgatore scientifico Nicholas Carr sosteneva che l’utilizzo delle nuove tecnologie sta modificando profondamente l’attività e gli equilibri stessi del nostro cervello, dal momento che le aree coinvolte nella lettura di un libro cartaceo vengono sottoutilizzate, mentre quelle collegate alla lettura su schermo tendono all’ipertrofia. Il risultato inevitabile è che il pensiero logico-deduttivo, lo scavo interiore, l’esercizio della facoltà della memoria, e cioè le specifiche abilità e attività collegate alla cultura della pagina a stampa, che richiedono un notevole impegno di tempo, sono destinate a passare in secondo piano rispetto alle competenze fisiologiche necessarie per la fruizione dei nuovi media, i quali privilegiano invece lo svolgimento in contemporanea di più funzioni (il multitasking). Ci si attenderebbe che la conseguente liberazione di tempo sia andata a vantaggio quanto meno di una più intensa e aperta attività relazionale: che cioè i giovani emancipati dalla oppressiva cultura libresca sfruttino gli spazi temporali riconquistati per incontrare i loro coetanei, sia pure in un rapporto giocoso e superficiale. Invece pare non sia affatto così.

Torno alle cifre, perché se trattate con criterio sono più eloquenti di mille discorsi. Queste le traggo dall’inchiesta ISTAT Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale, aggiornata a tutto il 2017. I primi numeri riguardano lo stato della “rivoluzione digitale”. Per l’Italia, la media degli utenti giornalieri di Internet è del 65,3 % della popolazione. Nell’anno in cui usciva “I barbari”, tanto per intenderci, erano il 36%. In testa ci sono naturalmente i giovani: le generazioni nate tra il 1966 e il 1980 col 79,6%, quelle tra il 1981 e il 1995 con l’86,1%, e i nati tra il 1996 e il 2010 con il 73,6 % (tra i laureati le cifre si avvicinano al 100%). (Una rilevazione europea più recente indica però, per i giovani tra i sedici e i diciannove anni, una percentuale molto più alta, attorno al 91%: che è comunque la più bassa in Europa, dopo quella della Romania). L’accesso ad Internet avviene per il 78% via smartphone, per il 69% tramite computer, o notebook, per il 29% col tablet. E soprattutto gli adolescenti risultano utilizzare Internet in luoghi diversi (a casa propria, sul luogo di studio, a casa di altri, altrove) il che indica una fruizione giornaliera che non è più relegata alla propria abitazione e ad una postazione fissa (infatti, solo il 20% di loro si collega tramite computer).

Ancora una nota di genere: le ragazze tra gli undici e i diciassette anni risultano utilizzare più frequentemente dei coetanei maschi sia il telefono cellulare sia internet. C’era naturalmente da aspettarselo. Volendo, da questo dato si possono trarre una indicazione e un auspicio positivi, nel senso che di fronte ad un cambiamento radicale della mentalità e dei valori è l’elemento femminile a guadagnarci, oserei dire a trovarsi non solo in condizione di parità, ma addirittura di vantaggio – perché i valori e la mentalità in disarmo erano indiscutibilmente informati ad una dominanza maschile –, e che una “femminilizzazione” della civiltà ventura potrebbe eliminare o contenere proprio le derive criminali di quella precedente. Non lo ha fatto Baricco, lo faccio io. Anche se è una ipotesi tutta da verificare.

Si può dunque affermare che almeno per quanto concerne il primo momento, quello del passaggio a nuove tecnologie, la rivoluzione è già compiuta. Stiamo entrando nella fase “costituente”. E cominciamo a intravvederne gli effetti.

La stessa inchiesta mette infatti in evidenza un rapidissimo cambiamento nel modo di relazionarsi con i coetanei da parte degli adolescenti. La frequentazione quotidiana diretta, fisica, degli amici, fuori dall’ambito scolastico, riguarda una quota via via decrescente di giovani: si passa dal 60,1% del 2008, al 56% del 2011, arrivando nel 2014 al 53,2%. Negli ultimi cinque anni la percentuale è scesa ancora, al di sotto del 50%.

Fino a ieri l’esperienza della relazione con i pari età era considerata un passaggio fondamentale della crescita e della trasformazione in adulti. Non solo: era intesa come assolutamente naturale, indispensabile per una corretta maturazione. Dava l’occasione di confrontarsi in campo neutro, al di fuori dalle sicurezze famigliari e dei regolamenti scolastici, di smorzare eccessive presunzioni e sicurezze, di vincere paure e timidezze. Non mancavano naturalmente i possibili risvolti negativi, e in qualche caso poteva anche rivelarsi devastante. Ma di norma consentiva di instaurare il primo vero rapporto di tipo spontaneo, non mediato o controllato dagli adulti, e insegnava ad autoimporsi regole e limitazioni. Da cosa viene sostituita questa frequentazione al tempo della rivoluzione digitale?

A quanto risulta sopra, da una solitudine diffusa, che alimenta forzatamente il distacco dalla realtà ed una confusione crescente tra i due piani, quello reale e quello virtuale. Baricco come abbiamo visto ne parla, (“la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”), ma la cosa non sembra preoccuparlo più di tanto: è un aspetto della nuova attitudine psicologica, che in fondo rispecchia una dimensione economica e un futuro professionale già decisamente “virtualizzati” (si pensi alla “virtualità” della finanza, che ha in mano il mondo). La fine dei sodalizi fisici, profondi e duraturi è compensata a suo giudizio dal moltiplicarsi dell’apertura a relazioni multiple, occasionali, temporanee e superficiali, che corrono lungo i fili della rete per tutto il globo. E questo anzi, assieme alla facilità di informazione, aiuterà le nuove generazioni ad acquistare maggiore consapevolezza dei problemi sociali ed ambientali, e consentirà l’esercizio di una reale democrazia diretta, la creazione di movimenti spontanei, di grandi aggregazioni su tematiche specifiche, di forme di resistenza non manipolabili e non controllate dai vecchi sistemi di potere partitici e al tempo stesso dotate di una grande forza d’urto, di un grande peso (stava pensando ai i pentastellati, preconizzava Greta o le sardine?)

È questo modo di banalizzare il problema, di mettere cornici alle finestre per farle sembrare quadri, a riuscirmi particolarmente indigesto. Per il momento, l’unica cosa che sembra davvero crescere è una presunzione di irresponsabilità totale, alimentata sia dallo spostamento dei soggetti coi quali ci si relaziona in una dimensione virtuale, ciò che ne annulla la realtà fisica e psicologica, sia dal senso di leggerezza e transitorietà che ogni azione acquista in questo contesto. E ciò spiega le ultime drammatiche cifre che vado a proporre, pescandole dalla recente Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo prodotta dall’ISTAT (marzo 2019).

Nella presentazione si fornisce una descrizione essenziale del fenomeno: «Per bullismo si indicano generalmente le prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei. La definizione del fenomeno si basa su tre condizioni: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione. Esso è pertanto contraddistinto da un’interazione tra coetanei caratterizzata da un comportamento aggressivo, da uno squilibrio di forza/potere nella relazione e da una durata temporale delle azioni “vessatorie”».

Nell’indagine, ai ragazzi da undici a diciassette anni è stato chiesto se nei dodici mesi precedenti l’intervista hanno subìto una o più prepotenze. Il fenomeno risulta in continua crescita ed evolve rapidamente: le nuove tecnologie sono divenute ulteriori potenziali strumenti attraverso cui compiere e subire soprusi. Da qui la necessità “di monitorare anche il cyberbullismo, che consiste nell’invio di messaggi offensivi, insulti o foto umilianti tramite sms, e-mail, diffuse in chat o sui social network, allo scopo di molestare una persona per un periodo più o meno lungo. Un aspetto che differenzia il cyberbullismo dal bullismo tradizionale consiste nella natura indiretta delle prepotenze attuate in rete: non c’è un contatto faccia a faccia tra vittima e aggressore nel momento in cui gli oltraggi vengono compiuti”.

Poi arrivano le cifre. “Più del 50% degli intervistati 11-17enni riferisce di essere rimasto vittima, nei 12 mesi precedenti l’intervista, di un qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento. Una percentuale significativa, quasi uno su cinque (19,8%), dichiara di aver subìto azioni tipiche di bullismo una o più volte al mese. In circa la metà di questi casi (9,1%), si tratta di una ripetizione degli atti decisamente asfissiante, una o più volte a settimana. Le ragazze presentano una percentuale di vittimizzazione superiore rispetto ai ragazzi. Oltre il 55% delle giovani 11-17enni è stata oggetto di prepotenze qualche volta nell’anno mentre per il 20,9% le vessazioni hanno avuto almeno una cadenza mensile (contro, rispettivamente, il 49,9% e il 18,8% dei loro coetanei maschi). Il 9,9% delle ragazze subisce atti di bullismo una o più volte a settimana, contro l’8,5% dei maschi”.

Per quanto concerne il nostro tema specifico, “il cyberbullismo ha colpito il 22,2% di tutte le vittime di bullismo. Nel 5,9% dei casi si è trattato di azioni ripetute (più volte al mese). La maggior propensione delle ragazze/adolescenti a utilizzare il telefono cellulare e a connettersi a Internet probabilmente le espone di più ai rischi della rete e dei nuovi strumenti di comunicazione. Tra le 11-17enni si registra, infatti, una quota più elevata di vittime: il 7,1% delle ragazze che si collegano ad Internet o dispongono di un telefono cellulare sono state oggetto di vessazioni continue tramite Internet o telefono cellulare, contro il 4,6% dei ragazzi. Vi è inoltre un rischio maggiore per i più giovani rispetto agli adolescenti. Circa il 7% dei bambini tra 11 e 13 anni è risultato vittima di prepotenze tramite cellulare o Internet una o più volte al mese, mentre la quota scende al 5,2% tra i ragazzi da 14 a 17 anni”.

Proviamo ora a convertire le cifre in persone e in fatti. Dire che oltre il cinquanta per cento dei giovani ha subito atti di bullismo significa dire in concreto che più di due milioni e mezzo di ragazzi o ragazze in questo paese sono stati (e sono attualmente) vittime di questo tipo di violenza: e che ci sono in circolazione almeno altrettanti persecutori (considerando che l’incidenza di quelli seriali è compensata dal fatto che un atto di vigliaccheria viene commesso di solito in gruppo).

Facciamo pure la tara al fenomeno. Il bullismo è sempre esistito, dentro come fuori delle scuole. Probabilmente era meno intenso, senz’altro era meno visibile, perché non veniva raccontato in rete, documentato coi telefonini e ripreso dalla grancassa dei media. Ufficialmente, all’interno della scuola, era meno tollerato: di fatto, era forse subito in maggior silenzio dalle vittime. La sua recrudescenza in questi ultimi anni non è però soltanto frutto di un’impressione creata dalla maggiore visibilità: dentro la scuola stanno esplodendo le stesse dinamiche relazionali negative che già caratterizzano la quotidianità esterna, e che evidenziano un generalizzato imbarbarimento dei costumi. I nuovi barbari evidentemente non sono solo cacciatori orizzontali di senso: sono prima di tutto bulli a scuola, prevaricatori e violenti in famiglia, e rivendicano orgogliosamente una maleducazione ottusa.

Quel che è certo è che il cyber-bullismo non esisteva: è un prodotto specifico della rivoluzione digitale. E il fatto che il fenomeno sia in costante aumento ci dice che non si tratta di una semplice spellatura causata dai traumi del passaggio. È una ferita che si sta allargando. Ha un bel dire Baricco che “Ciò che è percepito dai più, soprattutto da noi di sinistra, come un’apocalisse imminente è, in verità, il vero annuncio del futuro” (appunto!). E che durante una rivoluzione di questa portata non può andare tutto liscio e i conflitti, le violenze, le sofferenze e le perdite vanno messi in conto, ma che alla fine i conti tornano, perché la migrazione ha fatto uscire l’umanità dall’inferno del Novecento. Stento davvero a credere che i piccoli bulli di oggi possano diventare cittadini responsabili, digitalizzati o meno, di un futuro mondo migliore. Ho invece l’impressione che a dispetto di tutte le azioni di contrasto che inchieste come quella appena citata immediatamente evocano, e che purtroppo hanno le stesse probabilità di successo del progetto da cui sono partito per queste riflessioni, il domani non riserverà ai nostri nipoti “esperienze autentiche, creatività e conoscenza”. Esperienze senz’altro sì: ma di un genere del quale farebbero volentieri a meno.

Non si tratta di essere “apocalittici”, ma di guardare in faccia la realtà. Al momento la gioiosa rivoluzione cui Baricco ci invita a partecipare senza storcere troppo il naso ha prodotto solo danni. Anche a volerli considerare uno scotto da pagare rimane poi il problema di fondo: da pagare per cosa? un obolo per dove? Per il paradiso dei surfers della conoscenza? Per un mondo nel quale tutti abbiano la possibilità di far sentire la loro voce, anche quando non hanno proprio nulla da dire, e ciò che hanno sarebbe meglio non lo dicessero? Perché questa, piaccia o meno, è la realtà con la quale si confronta chi nel quotidiano c’è immerso, e magari ha scarsa lungimiranza, non riesce a scrutare nel futuro, ma il presente lo vede benissimo. E, forse proprio perché ha poco futuro davanti, si sente in dovere di attribuire il giusto valore al passato. E di rivendicare il diritto alla sua difesa.

 

Qualcuno da incolpare

A dispetto delle apparenze non sono uno che si crogiola nelle nostalgie. Soltanto, di fronte ad una prospettiva che mi pare disastrosa mi ostino a cercare di capire, e nel caso sono disposto a mutare opinione, sempre che qualcuno riesca a farmi intravvedere spiegazioni plausibili e rimedi possibili. È chiaro che Baricco non mi ha convinto. Non mi ha convinto prima, col saggio sui barbari e con quello sul Game, e non mi convince nemmeno ora, quando torna col breve intervento su Repubblica ad affondare l’attacco contro le élites. Non per difetto di lucidità nel trattarli, che anzi, ce n’è sin troppa, ma perché siamo alle solite: a spiegarmi qual è il problema e cosa devo fare o pensare è chi il problema in qualche misura ha contribuito a crearlo, o almeno fa pienamente parte della casta che lo ha creato. E che adesso quella casta la mette sotto accusa, togliendomi anche la piccola soddisfazione di farlo dal di fuori, e addirittura invertendo le parti.

Sentiamo. “Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì”.

Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente […] Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono”.

Andiamo con ordine. Intanto l’attacco era prevedibile. È un refrain da tempo nell’aria, lo fischiettavano molti già nel secolo scorso, nelle più disparate tonalità, da Charles Wright Mills a Christpher Lasch, Oggi viene ripreso con toni decisamente più beceri da un sacco di nuovi profeti della “rivolta delle masse”, giù giù a scendere, fino Trump e a Salvini e di Maio. Di nuovo c’è l’inclusione nel concetto di “élites del potere” di una nuova categoria, quella degli intellettuali. Ma è un’inclusione che, come vedremo, nasce da un grosso malinteso.

Baricco va dritto al bersaglio, per scoprire peraltro l’ovvio: le élites sono costituite da “coloro che contano”, una minoranza ricca e molto potente. Sono quelli, per dirla con una sua elegante espressione, che “tengono per i coglioni il mondo”. Il mondo sarebbe poi “la gente”: ovvero tutta la moltitudine esclusa dalla “zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi”. La gente (se preferite, il popolo) si è lasciata strizzare le palle sino a che le sono arrivate almeno le briciole del pasto: ma dopo che la crisi ultima ha inceppato la distribuzione, si è presentata a regolare i conti: “È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o la cancellazione delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Sono riscossione crediti”.

Abbiamo già elementi sufficienti per capire a che profondità si spinga l’analisi di Baricco. La “gente” di cui parla non rappresenta affatto l’insieme multiforme del “popolo”. Perlomeno, non ancora. E comunque lo rappresenta male. La maggior parte di coloro che ricevono il reddito di cittadinanza o strappano le cartelle di Equitalia non riscuote crediti, perché non aveva mai maturati. Metterla giù in maniera diversa è appunto “populismo” della peggior specie.

Ma a me interessa qui il concetto baricchiano di élite. Il termine francese starebbe a indicare “coloro che sono stati scelti”. Scelti per cosa? Per rappresentare e guidare tutti gli altri. Che abbiano tradito questo mandato, è fuori di dubbio. Ma lo è altrettanto il fatto che tutta la storia è costellata di questi tradimenti, perché chi è stato scelto tende a rendere questa condizione stabile o addirittura ereditaria. E infatti, il cammino storico è anche costellato delle conseguenti rivoluzioni. Non mi sembra dunque così folgorante l’intuizione per cui la rivoluzione “digitale” “era una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, una nuova moralità”. Mai sentito parlare della rivoluzione francese?

Veniamo però agli azzerandi. Intanto, nel lungo elenco che ho accluso le élites sono confuse con i VIP, con coloro cioè che “compaiono”, in un modo o nell’altro, nel mondo mediatizzato. Baricco sembra adottare una versione aggiornata e americanizzata del termine, nella quale l’idea di una scelta, di una responsabilità conferita, scompare, a favore del puro e semplice criterio della visibilità. E allora dovrebbe procedere di conseguenza. Non si capisce infatti cosa c’entrino i broker, gli artisti di successo e quelli che stanno nei consigli di amministrazione con coloro che hanno in casa più di cinquecento libri. Io ne ho almeno trenta volte tanti, ma non sono né un uomo di successo, né un influencer, né tantomeno un uomo di potere. E, al contrario di Baricco, non amo affatto comparire (nell’universo sconfinato dei social network e dei blog esiste una sola mia immagine, di spalle, ficcata lì quasi a tradimento da un amico. Di questo amico, e di tutti coloro che mi corrispondono, non ne compare nemmeno una).

Se le élites sono “quegli umani lì”, appartengo (apparteniamo) a un altro ramo della specie. Non uso i miei più di cinquecento libri come massa d’urto per sfondare, come carico per pesare o come suppellettili per stupire: non li ho ereditati da nessuno, li ho raccolti io, lungo una vita spesa da un lato a lavorare, nella scuola, in campagna e in altre attività che probabilmente Baricco nemmeno immagina esistano, dall’altro a cercare di capire anche attraverso loro il senso di quello che stavo facendo: mi hanno aiutato, e oggi li considero i miei migliori compagni di viaggio.

Ma il fatto davvero importante è che non sono l’unico. Esiste tutto un mondo di persone che possiedono centinaia di libri perché semplicemente trovano piacere e conforto nella loro compagnia. Costoro fanno il proprio lavoro senza esserne schifate, non hanno debiti con Equitalia, non sono complici dell’ingiustizia e della violenza del sistema, ma nemmeno credono nelle gioiose rivoluzioni che proprio i più autorevoli esponenti o rampolli delle élites vengono periodicamente a proporre loro.

Non sono “quegli umani lì”, moralmente ciechi. Sono umani che moralmente ci vedono benissimo: piuttosto, sono loro a risultare invisibili agli occhi dei “rivoluzionari”, barbari e no. Sono persone che all’ingiustizia e alla violenza oppongono quotidianamente, sui posti di lavoro, in famiglia, nelle relazioni sociali, un comportamento corretto, che non è dettato da un moralismo ottocentesco e ipocrita, ma dal buon senso, dalla razionalità, da un istinto positivo di sopravvivenza. Sono quelli che le macerie le rimuovono, che tacitamente ogni volta ricostruiscono, e lo hanno fatto da sempre nella storia.

Queste persone si sono guadagnate tutto ciò che possiedono, spesso persino una lingua che non hanno succhiato col latte materno, che è stata sudata sui banchi di scuola, ma che ha aperto loro un mondo infinito, proprio quello dei libri, e non le porte delle accademie, dei salotti buoni o della televisione. In quegli spazi non saprebbero nemmeno muoversi, e comunque non interessano loro, perché non hanno tempo da perdere. Non si riconoscono nella “gente”, non ambiscono ad accedere ai piani superiori, non sono etichettabili né come borghesi, né come ceto medio, né come proletari, anche perché queste categorie, nella loro accezione storica, non esistono più. Sono piuttosto degli aristocratici nel pensare, dei democratici (consapevoli) nell’agire.

Certo, queste persone vedono con raccapriccio la mutazione, e non perché temano di perdere il posto o la poltrona: in realtà sono loro i veri corpi d’élite, quelli che hanno portato da sempre avanti il mondo, che hanno davvero conferito un senso all’eccezionalità di essere homo. Non li ha mai scelti nessuno, si sono scelti sempre da soli. E la loro non è una scelta di sacrificio, al contrario, è una scelta di piacere, di divertimento, e di questo i libri sono una gran parte.

Io credo che “questi uomini qui” la rivoluzione l’abbiano già fatta, da sempre, al proprio interno, e l’abbiano esportata senza clamori, con umiltà, all’esterno. Hanno costruito con la carta muri di sostegno, o di contenimento delle slavine e della barbarie, e non i muri divisori di cui parla Baricco, che sono una specialità invece dell’élite di cui lui fa parte. E quindi si sottraggono senza alcuno sforzo al Game, non perché rifiutino ostinatamente le novità comunicative, ma perché hanno già imparato a farne un uso alternativo.

È naturale la loro resistenza di fronte ad “un mondo in cui la loro (nostra) mediazione non è più richiesta, e in cui non è più comprensibile il valore degli oggetti che crediamo di custodire, e che dovremmo tramandare”. Perché non sono oggetti quelli che si impegnano a tramandare, e nemmeno privilegi, capitali, poltrone, ma forme profonde di conoscenza e idee alte di moralità che il mondo non può permettersi il lusso di perdere.

Intendiamoci, questo almeno lo sa benissimo anche Baricco. “Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più. Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti”.

Il problema nasce, come già dicevo, quando deve venire al dunque: cosa bisogna fare, allora? “Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio”.

E Cioè? Non è che “loro”, lui, le élites consacrate dalla visibilità, “i più veloci che vanno avanti, creando il futuro”, potrebbero ad esempio rallentare un attimo, rimboccarsi le maniche e dare per una volta una mano a sgomberare le macerie, per poter poi ritirare su tutti i muri che hanno “gioiosamente” contribuito ad abbattere, magari diradando un po’ le marchette televisive e anche quelle teatrali e librarie? Ecco, per scendere nel concreto: non è che Baricco potrebbe seguire gli esempi, che già esistono, di un uso davvero “democratico” e innovativo del web, mettendo a disposizione gratuitamente le sue riflessioni, consentendo di scaricare i suoi libri, anziché limitarsi ad autografarli per un pubblico adorante e pagante? E stanando così anche quelli che si rifugiano nelle loro biblioteche? È un gesto piccolo, ma proprio in ragione della visibilità e dell’appartenenza di chi dovrebbe compierlo potrebbe riuscire, una volta tanto, davvero rivoluzionario.

Non può permetterselo? Ci fossero delle difficoltà, potrà sempre farsi ospitare sul sito dei Viandanti.

 

L’articolo-saggio di Baricco comparso su Repubblica ha prodotto naturalmente reazioni a catena, puntualmente registrate e pubblicate (almeno le più significative) sulla testata. A significare che almeno il merito di aver sollevato la questione Baricco ce l’ha. Tra le molte ho scelto di allegare a questo scritto quella di Mila Spicola, insegnante, pedagogista e scrittrice. Per due ragioni. Da un lato perché trovo più che condivisibili alcune osservazioni, quelle relative ad esempio ai criteri (inesistenti) di reclutamento degli insegnanti: dall’altro perché offre un esempio dei rischi introdotti proprio dalle nuove modalità di comunicazione, di scrittura. Rischi legati all’eccessiva velocità, che si traduce in superficialità, nello smantellamento gratuito di un sistema di regole che non sarà il verbo evangelico ma è stato costruito nei secoli, con molta fatica, proprio per arrivare a condividere una piattaforma linguistica comune chiara e precisa. Fare la democrazia non significa abbattere le porte per facilitare l’accesso, ma rendere tutti capaci di aprirle, magari con un minimo sforzo. Le porte abbattute prima o poi risultano d’intralcio, il libero accesso senza chiavi si risolve in una Babele. Quindi, cominciamo col dare l’esempio di un minimo di rigore, anche se il termine non va più di moda. Se si usa una voce latina, ad esempio, la si cita nella dizione corretta, per cui si scrive auctoritas, e non autoritas. Dopo “non ci riferiamo” si mette “ai ceti poveri”, e non “dei ceti poveri”. Imperfezioni di questo genere appaiono certamente veniali nel contesto di una scrittura per altri versi chiara, diretta e accattivante, almeno per chi ama lo stile sbarazzino. Ma, come diceva quel tale, parlando del pesto con le noci, occorre prestare attenzione anche ai particolari apparentemente insignificanti, perché si comincia così e si finisce poi a letto coi consanguinei.

Ciò su cui mi trovo meno d’accordo, però, è affermazione più volte ribadita che la cultura non ha offerto alle masse una possibilità di riscatto, ma è diventata al contrario strumento di ricatto. Perché non l’avrebbe offerta? Perché non ha consentito di azionare gli ascensori sociali, che hanno continuato ad essere gestiti da coloro che la cultura l’hanno sempre detenuta e indirizzata. Il che è vero, ma solo in parte, solo se si ritiene che il ruolo della cultura sia quello di far ascendere socialmente. Io ritengo debba essere piuttosto quello di fare crescere interiormente. E non mi si venga a dire che il messaggio delle élites era diverso. Sarà anche così, ma si poteva benissimo tradurlo diversamente: se l’ho fatto io, che non sono nemmeno troppo sveglio, possono farlo tutti.

Appendice

MILA SPICOLA – La ribellione delle masse, Baricco, Mazzucato e nemmeno io mi sento tanto (bene)

L’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone ovunque”: Ortega y Gasset, La ribellione delle masse. 1930. Rileggetelo se lo avete letto, leggetelo se non lo avete fatto. E leggete anche qualche riflessione fatta intorno a quel libro, per avere chiaro cosa ha significato, in quel tempo e dopo.

Ho letto attentamente e più volte sia il libro, The Game, sia l’articolo di Alessandro Baricco comparso su Repubblica, e anche quello di Marina Mazzucato, uscito in replica a Baricco, sempre su Repubblica. Molte le cose che possiamo condividere, e come potrebbe essere altrimenti? Riflessioni necessarie. Decisive. Alcune no, ma molte da sviluppare.

Non oggi, né stamattina, né solo dal 2008 a oggi, le masse si ribellano alle élite, è il percorso della Storia. La mia tesi è che oggi le masse si ribellano sì, come ieri, a forti diseguaglianze sociali, ma che vi sia un ingrediente ulteriore e che l’analisi non è così semplice: si ribellano alla cultura come ricatto, brandita dalle élite, quando le élite stesse hanno distrutto l’idea della cultura come riscatto e dunque se la sono andata a cercare eccome la ribellione. Sono sotto gli occhi tu tutti le conferme a questa mia idea.

E non so nemmeno se infilarci quel periodico senso di rifiuto delle autoritas nella Storia quando le classi culturali egemoniche diventano solo strumenti di conservazione del potere e non cercatrici di verità e conoscenza per perseguire progetti di comunità ovvero di sincero bene comune capace di comprendere non solo le proprie ma soprattutto le altrui ragioni e sentimenti.

Ma siccome oggi ogni disegno d’avvenire, di crescita, di riorganizzazione della produzione e dunque della società e della cultura, è impensabile fuori da un discorso sui saperi, nuovi e vecchi, sulla conoscenza, nuova e vecchia, forse è lì che dobbiamo andare a scavare: sul sapere delle masse e sulle masse al sapere. Perché lo slogan la cultura alle masse è ancora uno slogan.

Ipse dixit ma lui chi è? Spostare la verità alla credibilità. Nell’era della diffidenza, conta più la persona credibile che il vero. No, non è la prima volta che accade. Cristo non è stato l’unico. E se la persona non è credibile, meglio il falso piuttosto che accettare il vero da persone di cui si diffida. Accade quando: ma che, me stai a fregà? Direbbero a Roma.

Le élite hanno fregato larghe fasce di società, non voglio chiamarlo popolo perché l’idea di popolo è un a priori o a posteriori alla bisogna, artificiale e abusata. Ma masse, sì. Possiamo chiamarle masse. C’è del buono nel populismo? C’è del giustificabile, però, sì. Le famose ragioni dell’avversario. E ne ha di ragioni l’avversario. A voglia. Bisognerebbe ammetterlo.

Il tradimento delle masse non è stato solo o soltanto sul terreno della ricchezza ma soprattutto sul tema culturale, per le masse, sul tema identitario, per quelle élite progressiste che facevano riferimento alle socialdemocrazie. Si sono tradite promesse non solo di benessere materiale, ma di riscatto, di meritocrazia, di onestà. E non ci riferiamo soltanto di ceti poveri, ma anche e soprattutto di ceto medio impoverito o privo di comfort zone relazionali. I nemici sono le lobby, gli amici degli amici che impediscono il regolare percorso del riscatto.

Le masse nel dopo guerra hanno avuto tutte l’accesso a scuola, ma la scuola non è riuscita a garantire il “successo scolastico”, chiamiamolo così, a tutta la massa. Non tanto per intenzione, sono enormi gli sforzi di scuole e docenti, al di là della vulgata, ma per disorganizzazione di sistema, per carenza di risorse, per mancata necessità di formare un ceto docente di professionisti da selezionare con cura e non di impiegati da campare e immettere a casaccio, delitto che parte dal vertice e da élite distratte. Altro tradimento.

Per mantenere una qualche parvenza di efficacia ed efficienza, si è conservata tale e quale la separatezza tutta reazionaria tra cultura manuale (definita non cultura, e dunque non degna di pari rigore, apprezzamento e qualità) e cultura teorica e, all’interno di quella teorica, identiche e ulteriori separazioni gerarchiche tra culture umanistiche, scientifiche, tecniche.

Come se il tecnico non dovesse pensare o l’umanista non dovesse sapere come si accende il mondo. Non solo: formazioni diverse, per vite diverse, per riconoscimenti economici diversi, per linguaggi diversi, anche di valore, hanno scavato abissi reazionari, spacciati per progressismo. Non lo è. Lungi ma molto dall’obiettivo dell’uomo completo che era la parte più illuminante del Marxismo. Dunque paratie tra élite e massa. “Scusa, chi vi vieta di studiare?” A chi lo chiediamo? A un bambino a cui abbiamo tolto prima di dare?

La prima ribellione contro le élite nasce dentro le scuole e contro le scuole quando non son capaci, non tanto per loro quanto per altrui responsabilità, di accogliere, supportare, motivare. Che il 50/60 % circa di studenti italiani abbia usufruito almeno una volta di lezioni private per recuperare insufficienze significa due cose: che la scuola è insufficiente e che chi non può permettersele rimane indietro senza che il sistema se ne occupi in modo sistematico e strutturato.

Quale riscatto? Quale ascensore? Quale mobilità? Ed ecco che la questione si complica e i piani si intersecano: la cultura diventa il ricatto di quelli che stanno più su, non il riscatto per quelli che stanno più giù. E una società di ascensori, bloccati o funzionanti, e non di orizzonti liberi, è la precondizione dei demagoghi. Luna, che fai in cielo, dimmi che fai, dice la massa errante.

“Hai dei dati per supportare ciò che dici?” dice l’élite. Dall’altro lato la rabbia. Che pare senza ragione ma ha mille ragioni. Masse enormi in preda l’analfabetismo funzionale. E sono proprio quelle masse a ribellarsi, non solo per questioni di fame, ma per farsi ascoltare.

Vero è, come ricorda Baricco, che l’accesso a tutte le informazioni oggi è consentito alle masse. Ma non è cultura e siamo in preda a babeli linguistiche. Leggono poche e superficiali notizie in rete e non comprendono perché la filosofia, la poesia, la letteratura, cioè il riflettere consapevolmente, l’approfondire, il legare i puntini, non è stato dato insieme al cacciavite nelle immense periferie della speranza, non si è coltivata fino in fondo l’utopia possibile dell’istruzione come riscatto. Siamo il paese che legge meno, fino ad oggi non è mica stato un problema.

C’era la fabbrica aperta e funzionante a dare comunque un posto nel mondo al pastore errante e a tenerlo buono e complice, oggi le crisi glielo hanno tolto quel posto e complice non può più esserlo. I libri potrebbero salvarlo. Promesse tradite insieme a lacerti di supposto bene comune puntualmente smentito da tutte le élite che si sono susseguite. E dunque la rabbia verso la cultura come ricatto a fronte di un sapere minimo che per molti non ha significato riscatto.

I demagoghi poi son bravi perché lo han tramutato nell’incolto al potere e nel potere degli incolti. Se lo meritano? Eppure son state per prime le nostre élite progressiste a tradire chi se lo meritava, se ormai milioni di diplomati e laureati eccellenti vanno a mostrare eccellenze altrove perché da noi il loro merito non viene né cercato, né individuato, né riconosciuto, né ripagato, in modo libero, economicamente o nel ruolo. Non è mica responsabilità delle masse, ma delle élite chiuse, se è la cooptazione a dettar le regole nella finta valutazione prevalente. Le masse si ribellano per come possono, col voto, scegliendo dunque gli incolti.

Lungi dal governarle quelle valanghe informative digitali che sono liane di una foresta amazzone buia e non districabile se si avanza raso terra, le masse rabbiose sono facili dall’esserne governate. Si muovono per sentito dire, per percezione, per branchi di fiducia necessaria a panzane insostenibili e le ignoranze sono il mezzo più efficace usato da abili manovratori di potere per goderne e nello stesso tempo apparire come salvifici.

Salvifici perché ne comprendono le paure, le emozioni, le ragioni, gli svaghi e gli stadi, cinematografici, musicali, digitali o sportivi. Vale per il pensionato del Galles che vota convinto per la Brexit, come vale per l’operaio dell’Arkansas, come per il disoccupato di Canicattì, come l’ultras dell’Olimpico, come per il pop singer un po’ spaesato, come il piccolo artigiano delle valli bergamasche. Accomunati spessissimo da un “quanti libri ha letto lei nell’ultimo anno?” “Nessuno”. O uno, al massimo due. E le élite progressiste che fanno? Langue sepolta in un campo di grano, non è la rosa, non è un tulipano, è un disegno di legge per la promozione della lettura.

Ci giro e ci rigiro: compito del popolo è istruirsi, diceva quello. Compito della sinistra, o delle élite progressiste e riformiste, o chiamiamole come vogliamo, era istruire il popolo, le masse. Non lo abbiamo fatto, abbiamo finto di farlo.

In realtà abbiamo messo un po’ di cipria a un sistema d’istruzione che è rimasto a invecchiare fascista, e cioè profondamente convinto, inconsapevolmente, per sciatteria, delle divisioni, mentre si ostinano a definirle unioni. E noi zitti. Divisioni ovunque, ovvero che la teoria dovesse essere totalmente separata dalle prassi, e che l’intelligenza è tutta teoria e la prassi è del poco intelligente e, da doppio binario a doppio binario, a chi offrire il primo e a chi il secondo e non entrambi? Vedi caso combinazione ai poveri. Porta dritto dritto a divisioni e poi a diseguaglianze sociali.

I poveri non han richieste in tal senso, mica vogliono gli asili e il tempo pieno, a ben riflettere non vorrebbero nemmeno l’obbligo scolastico eh; e dunque scordiamocene, a loro niente asili, niente tempo pieno, niente recupero delle insufficienze. Niente cultura perché non c’han testa e mica ci vuole Leopardi per avvitare bulloni. O montare pc. O lavare piatti.

Però serve a capire il bicameralismo perfetto e come si approva una legge di bilancio e come vengono sottratte libertà democratiche. Qualora noi volessimo sollecitare le masse su questi temi nessun stupore se ci ritroviamo senza gente intorno. Se non quelli del binario nostro. E i docenti? A volte élite, a volte massa, a volte esclusi, a volte ribelli, a volte, boh. A seconda da chi siano, da dove vengano e da come sono arrivati dietro una cattedra. Mille soli diversi, diceva un altro.

Dimenticando, o non sapendo, per primi proprio i docenti, oltre che le élite, che ci vuol scuola democratica e democrazia della cultura per mantenere la democrazia, oltre che pane. La cultura come riscatto e per il riscatto viene negata puntualmente dal sistema, non dai singoli, agli esclusi con ogni genere di ragioni o priorità altre.

Sic et simpliciter. L’uomo completo non lo abbiamo voluto. Marx, Gramsci, Trentin, Visalberghi, ma anche il Kennedy che avrebbe attuato una riforma della scuola pubblica democratica negli Stati Uniti come mezzo per recuperare alla democrazia radicale e piena le enormi masse povere hanno scritto e detto cose dimenticate da troppi e per troppo tempo. Di che parlo? Torniamo a studiare e a unire i puntini per capire, nemmeno le élite studiano più. Se non se stesse.

Un concetto fondamentalmente progressista che la sinistra ha tradito e non c’è stata élite progressista nei paesi dove oggi si ingrassa il populismo che fa eccezione: l’uguaglianza sociale ha come premessa l’uguaglianza culturale di ciascuno, va perseguita la seconda per conseguire la prima. Ma in realtà quell’uguaglianza sociale con premessa l’uguaglianza culturale le élite non l’hanno mai voluta né perseguita radicalmente, perché diciamocelo, mica il tacchino vota per il Natale.

Ed ecco a voi la ribellione delle masse alle élite. La più pericolosa, sull’ignoranza, dopo che le élite l’hanno nutrita.

Sono citati in queste pagine:
Indagine Ocse–Pisa sui livelli di competenza – 2018
Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo – ISTAT, 2019
Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale – ISTAT, 2018
Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia – AIE (Associazione Italiana Editori), 2018
Il mercato del libro in Italia 2016 – Giornale della libreria, 27/01/ 2017
The Ultimate Guide to Global Reading Habits – Global English Editing, 2018
Alessandro Baricco – I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione – Fandango, 2006
Alessandro Baricco –The Game – Einaudi, 2018
Alessandro Baricco – E ora le élites si mettano in gioco su La Repubblica, 10/01/2019
Nicholas Carr – Internet ci rende stupidi? – Raffaello Cortina, 2011
Christopher Lasch – La ribellione delle élite – Il tradimento della democrazia – Feltrinelli, 2001
José Ortega y Gasset La ribellione delle masse – Il Mulino, 1962
Charles Wright Mills – L’élite del potere – Feltrinelli, 1986

 

Un’estate da cinque lune

di Paolo Repetto, 9 ottobre 2018

Un'estate da cinque luneSi, un’estate davvero particolare. A maggio il mare era già un brodino e neppure ora (siamo ai primi di ottobre) il bel tempo pare intenzionato ad arrendersi. Una sorta di “alto continuo” che rischia persino di venire un po’ a noia. La cosa non dovrebbe stupire – semmai deve allarmare – perché l’anomalia di stagioni calde precoci e prolungate sta diventando una regola, e c’entrano senz’altro il surriscaldamento del pianeta e la sciagurata presunzione degli umani: ma anche perché in realtà il fenomeno non è del tutto nuovo. Accadeva la stessa cosa mezzo secolo fa, negli anni sessanta. O forse allora si trattava solo di una mia percezione, dettata dal fatto che le scuole iniziavano a ottobre e dall’intensità con la quale vivevo ogni singolo giorno. L’effetto comunque era identico: mi aggrappavo ad ogni nuova mattinata di sole come fosse l’ultima.

A dilatare ulteriormente questa stagione eccessiva è ancora una volta il mio status anagrafico. Non più la condizione adolescenziale, purtroppo, bensì quella di pensionato. So di scoprire l’acqua calda, ma fino a quando non ci sei dentro certe cose le puoi solo immaginare, senza capirle davvero: l’assenza di un confine preciso tra il tempo istituzionalmente consacrato al lavoro e quello “libero”, la condizione di feria perpetua, scombina i ritmi sia biologici che psicologici, per quanto uno resista alle sirene del burraco e si crei gli impegni più disparati. Con la pensione si entra in una sorta di limbo, senza la speranza in un’amnistia o in un condono. Tutto ciò che fai lo fai guardando indietro, anziché avanti.

Forse per questo mi è parsa un’estate strana. Intanto mi ha riportato indietro non solo nei ricordi ma anche nel recupero di sensazioni. Ho ritrovato ad esempio la totale confidenza con l’acqua, in particolare con quella del fiume, vincendo i timori (e gli avvertimenti espliciti) di complicazioni reumatiche che da qualche anno mi stavano frenando. Non siamo ai livelli di quando rimanevo in ammollo tre o quattro ore al giorno, o inseguivo i record del primo e dell’ultimo bagno stagionale, ma per tre mesi ho nuotato quasi quotidianamente, di buon mattino, spesso in perfetta solitudine, nel lago superiore della Lavagnina. E da domani si replica, al mare.

Sono anche tornato a lavori manuali di un certo impegno senza pagare dazi allo sciatico. Ho finalmente imparato a tenere ritmi bassi ma continui, a muovermi come gli astronauti sulla luna, col risultato che i lavori arrivano comunque in porto, sia pure in tempi doppi. Per gli altri sarà una notizia di nessun rilievo, come del resto tutto ciò di cui ho parlato sinora, ma c’è il fatto che imbarcarsi in attività di manutenzione o addirittura di nuova edificazione sembra smentire quanto ho detto sopra, supporre uno sguardo in avanti: mentre in realtà lo sguardo mira talmente avanti da andare persino “oltre”, da non riguardare cioè il mio futuro. Idealmente ho lavorato per i posteri (senza chiedermi però che ne faranno di muretti, pergolati e tettoie o degli alberi da frutta che ho messo a dimora), in verità l’ho fatto per sentirmi in qualche modo ancora agganciato al mio passato.

Rimane la soddisfazione di non aver perso una sola ora. Che non è l’atteggiamento più indicato in vista del prossimo inverno e del domani in genere, ma al momento è confortante. Diverso è invece il bilancio della scrittura. Cresce la sindrome da saturazione e da insignificanza, e mentre sulle prime la cosa un po’ mi preoccupava, ora sto iniziando a trovarla normale. Come giustamente dice un amico: “Se non scrivi è perché non hai niente da scrivere”. In effetti è così, o forse mi sono soltanto stufato di parlare di me stesso a me stesso (ma non so concepire diversamente questa attività). Cambia poco: il risultato è che dagli inizi di giugno non ho buttato giù una riga. La cronaca ufficiale non mi ha aiutato (è dominata da Di Maio e Salvini), quella personale l’ho già esaurita, perché – fortunatamente – non ho eventi da raccontare. Quale che sia la loro lunghezza, le stagioni alla Stand by me, quelle dell’avventura, reale o fantasticata, delle scoperte e degli incontri che danno un’altra direzione alla tua vita, quelle non tornano.

Ora, pochi mesi di stipsi improduttiva non costituiscono poi un gran problema, anche se per i ritmi cui ero abituato e per il valore terapeutico che attribuivo alla scrittura a me paiono già un’eternità. E sarebbero comunque anche questi un po’ fatti miei, non fosse che di nuovo, proprio con lo scrivere queste pagine, mi sto contraddicendo.

La verità è che del tutto improduttivi questi mesi non sono stati. Nel tempo liberato dalla non scrittura ho ripreso a leggere con continuità e ho trovato cose che possono forse risultare interessanti anche per altri. Per questo scendo dall’Aventino: se non ho nulla di significativo da dire c’è almeno qualcosa che vorrei ricordare, e di cui sarà bene lasciare una traccia scritta, prima di perderlo. La diaspora neuronale galoppa.

Quello che segue sarà pertanto un resoconto delle letture estive, delle scoperte e delle conferme che mi hanno regalato: un personalissimo memorandum, affidato anche al sito nella remota e un po’ balzana ipotesi di lettori che non abbiano di meglio da fare (di qualcosa bisogna pur nutrirlo questo benedetto sito, se vogliamo tenerlo in vita). Lo considero un ennesimo aggiornamento di Elisa nella stanza delle meraviglie: ormai ne conta più della Treccani.

Purtroppo devo ricostruire a memoria, perché ho smesso da tempo di tenere una qualsiasi forma di diario. È un peccato. Una volta avrei potuto citare date e persino luoghi di acquisto di ogni singolo libro, nonché l’ordine giornaliero delle letture. Per trenta e passa anni ho annotato, sera dopo sera, eventi, incontri, stranezze, qualche volta anche sensazioni ed emozioni, sia pure in maniera telegrafica: e la parte più interessante, a posteriori, rimane proprio quella relativa alle acquisizioni librarie e alle letture. Può sembrare una cosa stupida, un’inutile registrazione contabile, invece è importantissima. Quando scorro le agende di quarant’anni fa colgo proprio nella successione dei titoli un percorso, si illuminano le scelte, vanno al loro posto i tasselli del caotico mosaico della mia formazione. Senza parlare di quando le letture sono commentate, o collegate ad altre precedenti, oppure rinviano a libri o ad autori non ancora conosciuti (Urgente! Vedere subito!). La nostalgia o i rimpianti qui non c’entrano: per capire chi siamo – sempre che della cosa ci importi – è fondamentale avere chiaro da dove arriviamo (le letture) e come ci siamo arrivati (l’ordine delle letture). Mi sono anche proposto più volte di riprendere questa abitudine, non arrivando però poi mai oltre la metà di gennaio. Immagino voglia dire qualcosa. Non seguirò dunque l’ordine cronologico, che non sono in grado di ricostruire, ma procederò con un criterio, diciamo così, emozionale.

Accennavo sopra a scoperte e a conferme. Le scoperte riguardano alcuni saggisti italiani della generazione di mezzo (quella che comprende i nati tra la prima metà degli anni sessanta e quella degli anni ottanta), e sono un po’ tardive, dal momento che costoro sono sulla breccia da un pezzo. Non li conoscevo perché evidentemente non fanno opinione, meno che mai in tivù e comunque non nei salotti di prima serata (di questo però non garantisco: non seguo i talk e potrebbero quindi benissimo essermi sfuggiti): ma frequentano con parsimonia anche i supplementi culturali dei quotidiani, affidandosi piuttosto alle “riviste” on-line, e lì sono io a bazzicare poco, per una insuperabile idiosincrasia alla lettura in modalità digitale. Ammetto inoltre di essere stato a lungo fuorviato dal preconcetto che tutta la generazione cresciuta all’ombra di Vattimo e del “pensiero debole”, e oggi scaldata dal sole di Grillo, fosse perduta per ogni causa.

Per fortuna non è così. Lo dimostrano i casi di Claudio Giunta e Daniele Giglioli. Al primo sono arrivato per vie traverse, leggendo in primavera un suo reportage sull’Islanda (Tutta la solitudine che meritate). Non volevo anticipazioni su quel paese prima di averlo visitato, già viaggiavo con un bagaglio sin troppo pieno di suggestioni letterarie. Ma questo libro mi era stato suggerito da un amico di cui mi fido, e in effetti valeva la pena. Così al ritorno dal viaggio ho immediatamente cercato altre cose dell’autore, e ho trovato “L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso”, uscito nel 2008, “Una sterminata domenica”, del 2013 e infine, più recente, “E se non fosse la buona battaglia?”, edito lo scorso anno. Letture sufficienti a darmi un po’ di ristoro, in mezzo alla congerie di idiozie che, più ancora dell’afa, hanno reso pesante l’aria di questi mesi.

Il conforto non arriva certamente dagli scenari che dipingono, ma dalla constatazione che altri vedono le stesse cose che vedo io, col mio stesso stato d’animo. Giunta in effetti dice nulla di nuovo: almeno, nulla che già non conoscessi, o non pensassi, o di cui addirittura non avessi già scritto. Ma lo dice benissimo. Mette cioè in fila fenomeni, atteggiamenti, segnali che io ho continuato per anni a cogliere in ordine sparso, anche se sapevo fare capo a una matrice unica. Non vedevo nell’assieme quella che lui definisce una “rivoluzione culturale”, forse perché continuo ad attribuire inconsciamente un significato positivo, costruttivo, al termine rivoluzione. Ma anche perché sono portato a pensare che quando una deriva demenziale coinvolge molta gente – nel nostro caso la quasi maggioranza – non siano necessariamente da ipotizzare cause recondite e complesse: la si può tranquillamente spiegare con la stupidità, ovvero con l’esasperazione maligna e autodistruttiva di un naturale egoismo, che è un fattore troppo trascurato a dispetto della sua evidenza e diffusione e persistenza, o con quel tipo di ignoranza “rivendicata” che della stupidità è sia madre che figlia. In genere concorrono entrambe le cose. Il mio limite è che scorgo attorno il puro sfascio, un degrado inarrestabile che si autoalimenta e si diffonde con accelerazione crescente: e lo sfascio non si lascia raccontare in un discorso articolato.

Giunta non si accontenta di questa spiegazione “fenomenologica” (nel senso che basti guardarsi attorno per constatare quanto idiota può essere la famigerata “gente”). Ha uno sguardo “sociologico”, va in profondità e iscrive tutti gli indizi nel quadro storico e sociale della “condizione postmoderna”, qualunque cosa poi questa stia a significare.

Non è nemmeno il primo a farlo. Riprende in fondo un argomento già trattato, ad esempio, da Alessandro Baricco (ne I Barbari. Saggio sulla mutazione (2006). Ma Baricco lo affrontava in questi termini: ‟Dovendo riassumere, direi questo: tutti a sentire, nell’aria, un’incomprensibile apocalisse imminente; e, ovunque, questa voce che corre: stanno arrivando i barbari. Vedi menti raffinate scrutare l’arrivo dell’invasione con gli occhi fissi nell’orizzonte della televisione. Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o si immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura. I barbari, eccoli qua.

Ora: nel mio mondo scarseggia l’onestà intellettuale, ma non l’intelligenza. Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c’è. Ma quel che c’è, io non riesco a guardarlo con quegli occhi lì. Qualcosa non mi torna.”

Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri penso che sia un luogo magnifico.”

Beato lui. Che ha senz’altro delle buone ragioni per ritenerlo tale, visto che alle sue conferenze (ricordo una lettura con commento de “L’infinito” da far avere le convulsioni alle ossa di Leopardi) incontra folle adoranti, alle quali di capire o anche semplicemente ascoltare qualcosa di Leopardi non importa nulla, andrebbe benissimo anche l’esegesi del linguaggio di Jerry Calà, ma che delibano l’ambrosia culturale vaporizzata dall’incantatore e si portano via il suo ultimo libro, possibilmente autografato. Quanto all’onestà intellettuale, forse questa avrebbe richiesto all’autore una riflessione a posteriori sulla differente eco che i media hanno riservata alla sua posizione rispetto a quella di Giunta o di altri “apocalittici” sgomenti, non certo in virtù di un superiore livello dell’analisi. E un’altra dovrebbe dettargliene oggi, a dieci anni di distanza, sulla presenza o meno di “orde di predatori senza cultura”.

Tra l’altro, nemmeno Baricco è originale: riprende a sua volta quanto predicato da Michel Maffesoli ne “Il tempo delle tribù (2004)” e nelle “Note sulla postmodernità” del 2005, (che su un sito immodestamente titolato “La rivista culturale” erano recensiti così: “Un esempio felice e virtuoso nel documentare la nostra contemporaneità che lui chiama il tempo delle tribù, del lusso, di dionisio, del nomadismo, del comunitario, dell’immaginario e del ritorno del tragico e del “sacrale”. Non commento, perché di Maffesoli ho parlato già sin troppo altrove). E comunque, potrei proseguire il gioco andando a ritroso per almeno un altro mezzo secolo a caccia di precursori.

Ecco, queste interpretazioni sono per me già esempi perfetti di legittimazione di ciò che in pubblico definisco “uno sfascio etico e culturale” e in privato “il trionfo dei cretini”. Ne L’assedio del presente Giunta lo tratta invece come una “rivoluzione”, e ne vede tutte le possibili declinazioni e derive, partendo dal sovvertimento delle norme sociali, dalla crisi delle agenzie educative tradizionali e dalla frantumazione dell’autorità per arrivare all’eclissi del senso storico e alla perdita di validità dell’esempio, e leggendo tutto questo attraverso le trasformazioni del linguaggio televisivo, del ruolo della scuola e dell’università e dei concetti di cultura e di arte. Sugli esiti di questa “rivoluzione” culturale, o sulla deriva insensata delle politiche educative, non si scosta poi di molto da quel che penso io: ma interpreta giustamente i vari problemi secondo criteri di causa ed effetto, e ne coglie il concatenamento. Uno per tutti: l’ingresso della logica di mercato nell’Università e la banalizzazione della cultura indotta dal moltiplicarsi – ma anche già solo dall’esserci – degli “eventi” (il proliferare di festival della mente, della scienza, della lettura, della storia, della filosofia, le mostre “monstre” sui Grandi Artisti, sempre gli stessi, con Van Gogh e Caravaggio superstar, le passerelle “artistiche” sui laghi o i concerti in alta quota, e tutta la paccottiglia che viene spacciata col bollino culturale doc da una schiera superpagata di addetti ai lavori, reclutata per l’appunto negli atenei). Il libro risale a dieci anni fa, quando il fenomeno non aveva ancora raggiunto i livelli attuali di squallore, ma li lascia ampiamente presagire.

Con i pezzi raccolti in Una domenica sterminata Giunta fornisce poi le esemplificazioni concrete e puntuali di questo sfascio, o rivoluzione che dir si voglia. Sono istantanee che colgono situazioni apparentemente marginali, personaggi di secondo piano, furberie di bassa lega, da poveracci, e che proprio per questo radiografano perfettamente, molto più della produzione seriale di libelli sulle caste, sui grandi evasori e sui conflitti di interesse, la malafede e la tabe di fondo della società italiana. Perché ci ricordano che esiste una complicità diffusa, una partecipazione di massa al trionfo dell’illegalità e dell’imbecillità, che si trincera ipocritamente dietro l’indignazione per gli scandali clamorosi (Onestà! Onestà!). Il bello, ma anche il rischio connesso a questi pezzi, è che riescono addirittura amaramente divertenti, e lo sono per sé, per gli argomenti trattati, senza che Giunta faccia alcuno sforzo per ingraziarsi il lettore. Il paragone potrebbe essere col Diario minimo di Umberto Eco, con la differenza che là Eco metteva in campo la tecnica già postmoderna dello spiazzamento interpretativo, facendo ricorso all’ironia e anche ad una certa gigioneria (vedi L’elogio di Franti), mentre Giunta si limita a fotografare la realtà.

Daniele Giglioli prende le mosse dalla stessa realtà impietosamente raccontata da Giunta, ma poi va oltre. L’incontro con Giglioli è recentissimo. Naturalmente non ricordo già più come l’ho scovato (a proposito di memoria!), forse è arrivato di sponda da qualche altra lettura: ma ciò che importa è che mi sono immediatamente riconosciuto.

Ho scoperto che un suo saggio critico, All’ordine del giorno è il terrore, aveva movimentato la superfice dello stagno culturale italiano già nel 2008 (è stato riedito quest’anno, con una lunga postfazione). In verità, movimentato è una parola grossa: diciamo che l’aveva leggermente increspata. Come docente di letterature comparate Giglioli andava a rintracciare nella letteratura del passato la continuità dell’uso politico del terrorismo, in tutte le sue manifestazioni, quelle ufficialmente riconosciute e rivendicate (anarchico, rivoluzionario, islamico, ecc…) e quelle mascherate (guerre umanitarie, ecc. …). Ciò che veramente gli premeva era però arrivare al nocciolo, al fatto cioè che l’immagine del terrorista risponde a un bisogno radicato in profondità nelle nostre coscienze: il bisogno di attribuire ad altri, percepiti come assolutamente diversi, le debolezze e il senso di impotenza che rifiutiamo di riconoscere in noi. In sostanza: di fronte alla crescente insignificanza dei singoli decretata dalla modernità, allo smarrimento e alla fragilità inerme dei quali sono in continua balia, cresce negli individui un rancore sordo, un desiderio represso di riscatto violento.

Quello che Giglioli trova nella letteratura, viaggiando da De Sade a DeLillo, via Schiller, Dickens, Dostoevskij, Conrad, Ballard e decine d’altri, compreso l’insospettabile Manzoni, noi possiamo molto più banalmente coglierlo nel tema dominante nel cinema attuale (ma prevalente da sempre, ad esempio, nel filone western): la vendetta. Alla faccia dell’esecrazione e della messa al bando ufficiale della giustizia fai da te, il grande schermo è popolato oggi come non mai di vicende in cui le vittime, gli umiliati e i perseguitati, rifiutano il ruolo passivo nel quale sarebbero obbligati e scavalcano leggi, ordinamenti e organismi che non garantiscono più, se mai l’hanno fatto, la loro difesa. A partire dai classici, cose tipo Il giustiziere della notte e Un borghese piccolo piccolo, le varianti della storia sono poi infinite. Pochi giorni fa sono passati in tivù nella stessa serata Harry Brown e Il buio dell’anima, dove a ribellarsi alla pavida passività sono un vecchio e una donna, che vendicano rispettivamente un amico e il proprio fidanzato. Nei colpi di pistola esplosi da due rappresentanti delle categorie più indifese si sublima il desiderio di milioni di individui che si sentono abbandonati, schiacciati nella loro solitudine tra l’indifferenza del potere e l’impunità dei carnefici. E anche se francamente non penso di soffrire di quella sindrome, confesso di aver atteso anch’io con un senso di esaltata liberazione il compimento della vendetta, di essermi identificato con le vittime, di aver non solo giustificato, ma invocato la loro reazione, e premuto il grilletto assieme a loro.

La differenza rispetto a quel che accadeva nei western della mia infanzia sta nel fatto che Shane, il cavaliere della Valle Solitaria, agiva in un contesto quasi mitologico, in una dimensione che anche un bambino percepiva come totalmente altra, ed era un pistolero, dal quale non ci si poteva attendere altro che coraggio, precisione e velocità nell’estrarre, mentre Harry Brown è un pensionato con l’asma, e vive (e muore) in un mondo che avverto sempre più prossimo, nel tempo e nello spazio. Asma a parte, potrei benissimo essere io, e Jodie Foster potrebbe essere qualsiasi donna. Shane era la mano armata di un ideale di giustizia, rozza e sbrigativa quanto si vuole, ma superiore, impersonale: era legittimato da una speciale integrità etica, che gli imponeva di mettere la sua abilità al servizio dei deboli, e sparava, quando tirato per i capelli, per sgombrare la strada al futuro, assicurando a ciascuno pari opportunità. E uscendo poi di scena, una volta ristabiliti gli equilibri violati. Gli eroi di oggi reagiscono e uccidono proprio perché in quell’ideale non credono più, per rispondere a personalissime offese e chiudere i conti con le cicatrici del passato. E sulla scena tendono a restarci.

Dopo aver letto il libro di Giglioli sono andato a cercare sul web traccia delle recensioni che gli erano state dedicate. Non si può dire che i critici si siano sprecati (e questo almeno in parte spiega perché non l’abbia conosciuto prima), ma soprattutto non hanno affatto compreso qual era il vero assunto dell’autore. Anche quando gli tributano lodi per l’intelligenza e per il coraggio, gli rimproverano poi di non aver fatto i dovuti distinguo tra un terrorismo in qualche modo giustificato e uno insensato: che significa riportare un discorso che ha una dimensione “antropologica” al livello più superficiale della contingenza storica. A Giglioli non interessava affatto indagare o denunciare le diverse facce del fenomeno, ma rintracciarne la radice, che è unica, nella risposta a una condizione esistenziale.

Se questa volontà non fosse stata già chiara, Giglioli l’ha ribadita ed esplicitata in maniera inequivocabile qualche anno dopo in Critica della vittima (2014), un saggio più breve, quasi un pamphlet, col quale affonda il coltello nella piaga senza usare anestetici. L’ho letto ripetendomi ad ogni pagina: Eccolo lì, vedi che allora non sono un menagramo lagnoso e inacidito.

Faccio prima, anziché raccontarlo, a far parlare Giglioli stesso. “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. … nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa … la vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi.” E di conseguenza: “… chi sta con la vittima non sbaglia mai.” Che parrebbe lapalissiano, ma non lo è. Perché: “La mitologia della vittima trova la sua ragion d’essere nel venir meno di una credibile, positiva idea di bene”. Ergo, con l’idea di una trionfante iniquità che “eleva a martire chi è stato colpito, o lo desidererebbe, o lo pretende per legittimare il suo stato. Col corredo di affetti inevitabili: risentimento, invidia, paura.” Il tutto riassumibile in una citazione da Christopher Lasch: “È proprio questa la ferita più profonda inferta dalla vittimizzazione: si finisce per affrontare la vita non come soggetti etici attivi, ma solo come vittime passive, e la protesta politica degenera in un piagnucolio di autocommiserazione” (da L’Io minimo, del 1984, ma uscito in Italia solo nel 2004: giusto in tempo comunque per fotografare la situazione attuale).

Giglioli analizza puntualmente tutti i sintomi del fenomeno. Parte dalla sovrapposizione della memoria alla storia, anzi, dalla rimozione in blocco di quest’ultima a favore della prima. “La memoria configura un rapporto con il passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato. Isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti.” Denuncia le ambiguità di fondo del credo umanitario, che “è una una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini, delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazione kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni.” E che riserva al clemente, al misericordioso il ruolo di “testimone legittimo”, accreditato a parlare in nome delle vittime. Le quali “sono private di ogni soggettività, di ogni diritto che non sia quello al soccorso”.

Procede quindi, in una concatenazione perfettamente logica, dalla colpevolizzazione della modernità, del novecento, della cultura occidentale in genere e della prassi politica che ha espresso, per approdare alla paura che come un gas nervino viene diffusa nell’immaginario sociale e paradossalmente si autoalimenta, in quanto assunta come arma difensiva, come strumento immunitario. Una paura che crea risentimento e appunto identificazione, e partorisce da un lato la necessità di “individuare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”, dall’altro l’emergere di leader che di questo atteggiamento si fanno interpreti, riassumono in sé la condizione di vittime, e la usano per legittimare una loro assoluta insindacabilità. Sono i meccanismi di fondo del populismo. Il quale viaggia e prospera soprattutto nell’universo del web, che è “il paradiso immaginario della soggettività irrelata, incontrollata, senza filtri apparenti”, mentre in realtà rimane sotto il ferreo controllo dei grandi gestori. Un paradiso nel quale allo spirito critico genuino è negato in realtà ogni accesso, dove impera la rissosità e dove ogni contradditorio è subito virato in persecuzione. Non penso sia difficile riconoscere trame e interpreti del melodramma tragico cui stiamo assistendo.

E mi fermo qui, alla primissima parte del saggio: ma credo che basti. Non voglio guastare il piacere (insomma) di scoprire il resto ad eventuali lettori. Direi che comunque è sufficiente a spiegare perché del libro non avevo sentito parlare prima.

Non ho invece ancora letto “Stato di minorità”. Dalle poche righe della presentazione arguisco che sia un tentativo di passare alla pars construens. “Mi sono accorto che la domanda attorno a cui ruotavo era sempre la stessa: quali sintomi si manifestano in una società in cui l’agire politico è sentito come qualcosa di impossibile, non perché proibito, ma perché ineffettuale, senza esito, svuotato di ogni concretezza … L’obbiettivo di questo saggio non è tanto la constatazione quanto l’elaborazione di un lutto. Elaborare un lutto comporta attraversarlo e superarlo”. Sono curioso di verificare come, e andando verso dove.

Un po’ defilato, e comunque in linea con i due incontri precedenti, ce n’è un terzo, quello con Sergio Benvenuto. Benvenuto non appartiene alla generazione di mezzo, ha esattamente la mia età ed evidentemente abbiamo parecchie altre cose in comune, visto che ha visitato anche lui in occasione dei settant’anni, proprio durante l’ultima estate, per la prima volta l’Islanda (e ne ha scritto un bellissimo reportage). Non ho letto libri suoi perché è uno psicanalista, e della psicanalisi non mi importa granché, ma ho raccolto in uno dei miei preziosi libricini gli articoli postati negli ultimi tre anni su DoppioZero, trovandoci una notevole consonanza. Intanto Benvenuto, a dispetto della sua formazione e della sua professione, usa un linguaggio decisamente semplice (che non significa povero): vale a dire che parla e argomenta in maniera tale che persino un idiota potrebbe capirlo (non fosse che gli idioti di norma non leggono, e non comunque quelle cose). Quanto ai contenuti, potrebbe sembrare appiattito sulla linea di una “sinistra del buon senso”, ma dal momento che il buon senso ha in questo momento con la sinistra un rapporto molto conflittuale, non è affatto un megafono dell’establishment. Rischia anzi di sembrare un eretico: che parli di anti-politica, di leggende metropolitane, della “straordinaria affermazione di Renzi nel referendum del 4 dicembre”, non è mai in linea con gli umori prevalenti. E infine, per quanto mi riguarda più personalmente, è la dimostrazione che a dispetto delle differenti situazioni di partenza (ha studiato a Parigi, ha vissuto un Sessantotto da protagonista, o quasi – tutti indizi di una condizione ben diversa dalla mia) l’approdo, per chi appunto del buon senso fa la propria bussola, è poi lo stesso.

Nota a margine. Questi incontri mi hanno rievocato, per un processo analogico che non sto qui a spiegare, sensazioni provate molti anni fa leggendo l’opera forse meno conosciuta di Luigi Meneghello, “Il dispatrio”. Che sono andato quindi puntualmente a rileggere. È stata una rilettura molto condizionata, perché ho cercato soprattutto quello che Meneghello non diceva, ma balzava già fuori con evidenza dal confronto implicito con la realtà inglese. E anche una rilettura tonificante, perché mi ha indotto a risfogliare Pomo Pero e i Fiori italiani, con benefici effetti sul morale.

Forse mi sono dilungato troppo sulle new entry della mia personale classifica: c’è altro di cui vale la pena parlare, anche se il legame con l’attualità è molto più sottile, o addirittura quasi invisibile. La prima parte dell’estate l’ho dedicata al recupero di testi, notizie, memorie archiviate nel cassetto, relativi ad un argomento che potrebbe sembrare un po’ peregrino, oltre che inattuale (ma non lo è). Da qualche tempo mi frulla in testa questo interrogativo: perché gli anarchici amano la geografia, e i socialisti, o meglio, i marxisti, prediligono la storia? In effetti i due pensatori anarchici più significativi dell’800 (almeno per me), Piotr Kropotkin e Élisée Reclus, erano entrambi geografi – ma ce ne sono altri. Ho cercato di darmi una risposta, che contavo di sviluppare, e della quale comunque posso già anticipare la tesi di fondo: gli anarchici prendono in considerazione innanzitutto il rapporto dell’uomo con la natura, quindi con lo spazio, mentre i comunisti considerano solo quello tra gli uomini, che ha come teatro il tempo. Non a caso Marx riteneva che con le prime grandi civiltà, e quindi con la prima organizzazione dello sfruttamento, si fosse conclusa la storia naturale, per lasciare il posto a quella culturale (o sociale).

Stanti i miei umori attuali temo che questa riflessione abbia poche probabilità di essere un giorno debitamente argomentata: ma ho scoperto, sempre durante l’estate, che almeno una parte del lavoro, quella riguardante il rapporto degli anarchici con la geografia, è già stata fatta. Ne Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Federico Ferretti si occupa non solo del grande geografo francese ma anche del suo collaboratore Metchnikoff e del cartografo Perron, oltre naturalmente che di Kropotkin. Viene fuori che gli anarco-geografi diffidavano assolutamente della cartografia piana, che schiaccia la realtà riducendo tutto a segni e simboli e linee, funzionali solo a una lettura politica, mentre propugnavano l’uso didattico di modelli tridimensionali che offrissero in scala un rilievo realistico della crosta terrestre, con la sua orografia e i suoi bacini idrografici. (In pratica quei plastici – ma allora erano di gesso o di cartapesta – che fino a qualche tempo fa prendevano polvere negli armadi delle aule di scienze). In questo modo, pensava Reclus, è possibile davvero trasmettere l’idea che fiumi e catene montuose non sono degli ostacoli, non segnano dei confini tra gli uomini ma, al contrario, li mettono in comunicazione, agevolano i loro incontri. Aveva persino progettato un enorme globo, di quasi centotrenta metri di diametro, in vista della Esposizione universale di Parigi (quella della Tour Eiffel), sul quale avrebbe dovuto essere riprodotta l’intera superfice terrestre, dentro il quale doveva essere ospitata una biblioteca e attorno e sopra il quale i visitatori avrebbero girato con un complesso sistema di scale. Naturalmente non se ne fece nulla (ne fu esposto uno di quaranta metri che Reclus giudicava malfatto e assolutamente impreciso). Rimane solo il frammento di rilievo che il suo cartografo Perron realizzò del territorio svizzero, tendo conto della curvatura terrestre. Preso dall’entusiasmo Perron adottò la scala 1:400.000, il che avrebbe comportato, per rilevare la superfice di tutto il globo, costruire una sfera di 400 metri di diametro: e tuttavia su quella sfera ideale il Cervino è un grumo di gesso a punta che non raggiunge i cinque centimetri di altezza.

Sono queste le cose che mi scaldano il cuore, o quantomeno mi spronano a continuare nella ricerca del materiale “preparatorio”. Così, sul pensiero di Reclus ho letto ad esempio Natura ed educazione, una silloge di interventi che ne scandagliano un po’ tutti gli interessi, quello geografico in primis. Le opere più significative del geografo francese non sono più state edite in Italia dalla fine dell’800, ma si può rimediare scaricandole da Liberliber (certo, il primo dei diciannove volumi della Nuova Geografia Universale consta di ottocento pagine più le cartine fuori testo, mentre per L’uomo e la Terra i volumi sono soltanto sei … ). Per il momento mi sono accontentato di ciò che era alla portata della mia stampante, la Storia di un ruscello e la Storia di una montagna: libri persino ingenui nella loro aspirazione a fare una divulgazione scientifica non noiosa, ma che restituiscono senz’altro l’immagine di uno scienziato e di un uomo incredibilmente libero e buono.

A questo punto però il percorso si è complicato e ha imboccato un nuovo sentiero. Mentre ripercorrevo velocemente la storia del pensiero anarchico ho cominciato a chiedermi come mai tanti filosofi e rivoluzionari ebrei abbiano optato per l’anarchismo anziché per il comunismo. In fondo gli ebrei sono per antonomasia il popolo del tempo, la loro adesione a un approccio storicistico parrebbe scontata. Invece, cercando una risposta ne L’anarchico e l’ebreo (una raccolta di saggi a cura di Amedeo Bertolo), ho preso atto che la mia concezione dell’anarchismo è consonante solo col filone meno conosciuto, quello popolato appunto dai pensatori ebrei. Qui forse vale la pena di spiegarmi meglio, perché in definitiva il discorso va a sfociare direttamente non solo in quanto ho detto sopra a proposito di Giunta, Giglioli e Benvenuto, ma in tutto ciò in cui ho continuato a credere e di cui sto scrivendo da quasi sessant’anni. Farò quindi un breve abstract di qualcosa che da troppo tempo mi propongo di riconsiderare con calma

Semplificando al massimo, si possono identificare due modelli di anarchismo, molto diversi, quasi antitetici, che partono da differenti premesse e approdano a prassi diversissime. Da un lato c’è il modello insurrezionalista incarnato da Bakunin, che sfocia poi nel terrorismo bombarolo di fine ottocento, e che è perfettamente riassunto nel motto “La passione per la distruzione è anche una passione creativa” . Il secondo aspetto della passione Bakunin non ebbe mai modo di sperimentarlo.

Dall’altro c’è una concezione che potremmo definire “gradualista”, più individualistica, che procede per una linea piuttosto tortuosa e difficile da identificare, partendo da Max Stirner per arrivare sino a Berneri. Il motto potrebbe essere in questo caso quello di Reclus, “L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine” (dove l’ordine è quello che nasce dall’assunzione di responsabilità degli individui, e non quello imposto dal potere di uno stato): ma anche quello di Landauer “La scoperta (da intendere come “coscienza piena”) di essere costretto in condizioni indegne costituisce il primo passo per la liberazione da queste condizioni”. Su questa linea si collocano in prevalenza i pensatori ebrei, da Landauer appunto fino a Mühsam e a Benjamin.

Dove sta lo specifico ebraico che li porta a immaginare e praticare un anarchismo ben lontano da quella che ne è l’immagine diffusa e accreditata? A mio parere sta nel rifiuto, o perlomeno nella lettura critica, di una concezione millenaristica che molto deve alla radice cristiana, dell’aspettativa soteriologica di una apocalisse che faccia piazza pulita dell’ingiustizia e della malvagità e prepari il terreno ad un mondo nuovo. Può sembrare un paradosso, perché proprio all’ebraismo si tende ad attribuire la paternità del millenarismo. Invece le cose non stanno così. Gli ebrei sono convinti che la salvezza dipenda innanzitutto da una trasformazione individuale, non demandata ad una forza superiore, sia essa Dio o il popolo. Sono più interessati alla fase costruttiva che a quella distruttiva, e questo perché la seconda sembra lontana a venire, mentre la prima può cominciare ad essere attuata nell’intimità del singolo, nella cerchia ristretta delle sue relazioni con gli altri.

Il modello anti-insurrezionalista era già presente sia in Reclus che in Kropotkin, con la differenza che in essi (che infatti ebrei non erano) c’è al fondo un ottimismo “spontaneista” di matrice positivistica, una interpretazione solidaristica dell’evoluzionismo, (quello che Berneri chiamava “l’anarchismo dagli occhiali rosa”). Come a dire che anche se non sarà un Dio a portare la giustizia e l’armonia in questo mondo, e magari neanche un movimento o un partito progressista, provvederà la natura stessa: quasi un naturalismo deterministico.

C’è invece chi rifiuta di demandare la trasformazione ad un “attore esterno”, sia esso un’entità superiore come la Provvidenza, lo Spirito Assoluto o la Natura, o un ideale, nelle vesti di Ragione, Libertà, Progresso, Spirito assoluto, o una entità impersonale, come il popolo o le classi sociali, e fa degli uomini, intesi come singoli che si associano e cooperano volontariamente, i soggetti attivi della storia.

Questa è la sostanza del pensiero di Gustav Landauer. E proprio a lui sono approdato. Landauer non è molto conosciuto, neppure nella ristrettissima cerchia di coloro che ancora si interessano alla storia e al pensiero politico. Delle sue opere è stata tradotta in italiano, a un secolo dalla comparsa, soltanto La rivoluzione: io stesso lo ricordavo sino a ieri solo per quello che ne aveva scritto il suo amico Martin Buber in Sentieri in Utopia (anche questo rimasto però per anni introvabile). Ora il vuoto è almeno in parte colmato da un poderoso saggio biografico di Gianfranco Ragogna, Gustav Landauer anarchico ebreo tedesco. Al di là del valore intrinseco dell’opera, che sta tanto nella ricchezza dell’informazione che nella profondità dell’analisi, questa lettura mi ha stimolato a cercare in rete tutto ciò che poteva essere rintracciabile. Ho trovato ben poco, praticamente solo il breve saggio Per una storia della parola anarchia. Ma anche quel poco è estremamente interessante.

Landauer è lontano anni luce dall’idea di una rivolta distruttrice di massa, quella propugnata da Bakunin, ma anche dalla fede “deterministica” del materialismo storico. Ha una concezione etica del mutamento, che chiama in causa i singoli individui e li mette di fronte alla loro responsabilità. Il sistema può essere combattuto qui e ora, e da ciascuno, senza attendere gli sviluppi “dialettici”, economici o politici, postulati dal marxismo. Si può già costruire una “controsocietà” fuoruscendo dal sistema esistente e recuperando un rapporto con la terra e la natura che modelli il legame sociale su basi solidaristiche e comunitarie. In altre parole, cominciamo noi, come singoli, a creare degli exempla di vita buona, a vivere “come se” la trasformazione fosse già attuata: questo ci darà modo di condividere con altri ragioni di vita, obiettivi concreti, aspettative, utopie, che non debbono essere il risultato della “rivoluzione”, ma costituirne le premesse. Siamo come uomini primitivi di fronte all’indescritto e indescrivibile, non abbiamo niente davanti a noi, ma tutto solo dentro di noi: dentro di noi la realtà ovvero la forza non dell’umanità a venire, bensì dell’umanità già esistita e per questo in noi vivente e consistente, in noi l’operare, in noi il dovere che non ci travia, che ci conduce sul nostro sentiero, in noi l’idea di ciò che deve diventare realtà compiuta, in noi la necessità di uscire da sofferenza e umiliazione, in noi la giustizia che non lascia nel dubbio o nell’incertezza, in noi la dignità che esige reciprocità, in noi la razionalità che riconosce l’interesse altrui. In coloro che provano questi sentimenti nasce dalla più grande sofferenza la più grande temerarietà; coloro che vogliono tentare, malgrado tutto, un’opera di rinnovamento, orbene, si devono unire.”

Non è un sognatore, perso nelle nuvole. È anzi assai più realista di coloro che si attendono la liberazione dall’azione di “soggetti sociali collettivi”, o cercano di anticiparla con la “violenza libertaria”, gettando bombe o sparando ai simboli del potere. Per lui “ogni violenza è o dispotismo o autorità”. Il suo è, come scrive Ragogna, un modo d’essere insieme politico e impolitico. Impolitico, per un verso, perché era sulle relazioni tra gli uomini in tutti gli aspetti della vita che Landauer puntava per inaugurare un’epoca del tutto nuova: una vera e propria mutazione antropologica. Etico-politico, per un altro verso, perché egli continuava a credere in forme forti di azione collettiva, collocate al di fuori della sfera d’influenza dello Stato ma orientate a un fine dai contenuti spiccatamente universalisti: l’uguaglianza, la pace e, in esse e grazie a esse, la libertà.”

Ma la libertà è un concetto vago, che diventa addirittura pericoloso quando può essere manipolato dal potere stesso. Mi ha colpito, in mezzo alle tante altre, una considerazione: “Mi chiedo se siamo sicuri di essere in grado di sopportare tutto quello che adesso comincia a imperversare al posto dello spirito mancante, fra istituzioni coercitive che lo sostituiscono, se saremo capaci di sopportare la libertà senza lo spirito, la libertà dei sensi, la libertà del piacere scevro da responsabilità”. La libertà incondizionata non può che portare all’individualismo atomistico, e mette i singoli individui alla mercé del pensiero dominante e di chi lo controlla. Landauer ha fotografato il nostro tempo, la nostra società, con un secolo d’anticipo.

Nella storia del pensiero anarchico novecentesco solo Berneri è a questi livelli, e di Berneri ho già parlato diffusamente altrove. Segnalo soltanto che in Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Stefano d’Errico ne ha fatta una rilettura magari non sempre condivisibile, ma senza dubbio intelligente. E soprattutto, molto chiara e articolata. (Può essere la buona occasione per un primo approccio a questa figura tanto eccezionale quanto misconosciuta, in alternativa alla minibiografia che io stesso ne ho sbozzato nel volumetto Lo zio Micotto e le cattive compagnie).

Mi sembra però anche giusto sottolineare come paradossalmente gli anarchici “razionali”, quelli che diffidavano delle soluzioni insurrezionali e rifiutavano la scelta terroristica, siano poi quelli che, al bisogno, hanno combattuto in prima fila, e hanno pagato con la vita la difesa di idee e di scelte che magari nemmeno condividevano appieno. È accaduto a Landauer a Berlino e a Berneri in Spagna (quest’ultimo assassinato proprio da chi la rivoluzione avrebbe dovuto difenderla). I grandi agitatori rivoluzionari, da Bakunin stesso a Lenin, sono morti al contrario tutti nel proprio letto .

La linea gradualista, che i duri e puri bollano come “revisionista”, è indubbiamente la meno conosciuta. Se si chiede (io l’ho fatto) a qualche animatore dei tanti circoli anarco-insurrezionalisti, anarco-rivoluzionari, anarco-ecologisti, quelli che fanno cagnara appena fiutano odor di telecamera, chi fossero Berneri o Landauer o Reclus, per non parlare di Benjamin, si ottengono risposte desolanti. Ma non mi scandalizza l’ignoranza in sé, quella la do per scontata, in fondo è proprio la sua persistenza a inverare il “gradualismo” revisionista, a obbligarmi ad avere in sospetto le masse rivoluzionarie inferocite e chi le guida: mi irrita invece il fatto che essa fa gioco al potere, perché gli consente di liquidare in blocco l’anarchismo come un movimento di sballati, se non addirittura di terroristi. E mi irrita anche perché non è affatto innocente, è solo comoda: consente di mettersi al traino di un’idea di rivoluzione che non ti chiede di responsabilizzarti individualmente, ma ti offre dei “responsabili” sui quali scaricare la tua rabbia e le tue frustrazioni.

A riprova del fatto che si è trattato di un’estate di immersioni totali, non solo nelle acque della Lavagnina, c’è un altro libro legato all’ebraismo, L’esilio della parola, di André Neher. Il legame in questo caso è diretto, perché l’autore si interroga sui diversi significati del silenzio, quello di Dio e quello degli uomini, nella Bibbia, desumendo da una lettura filologicamente serratissima una interpretazione molto originale della spiritualità ebraica. Anche in questo caso è meglio lasciare direttamente a lui la parola: “La lettura ebraica della Bibbia in piena logica della Genesi scopre l’illogico. Nel ritmo regolare dell’insieme scopre delle irregolarità sorprendenti. Alla concezione (greca) di un universo creato nella sua totalità, con tutti i suoi elementi, sostituisce la visione di un mondo in cui ci sono lacune, vuoti, e inversamente supplementi e aggiunte. Infine, è sensibile al fatto che alcune creature, lungi dal piegarsi alla Parola divina, le oppongono resistenza, si mostrano indocili e provocano così rivolte, accidenti, drammi. Osa penetrare nel mondo per scoprire, con stupore, ma senza compiacimento, che tale opera non è stata affatto meditata né realizzata secondo un piano prestabilito, ma che, al contrario, essa è scaturita da un’impreparazione radicale, e ha conservato lungo tutta la sua esecuzione i caratteri a volta deludenti o stimolanti di una improvvisazione”. Questo significa, secondo Neher, che non c’è una provvidenza divina a regolare il mondo. Dio tace, davanti alle invocazioni affinché metta un po’ d’ordine, per lasciare all’uomo uno spazio di libertà, perché l’uomo impari a rispondere con parole proprie, perché sia indotto a cooperare al completamento o al miglioramento dell’opera. Dio si ritira, dicevano i cabalisti, per lasciar sussistere il mondo. Ma “creando libero l’uomo, Dio ha introdotto nell’universo un fattore radicale di incertezza … l’uomo libero è l’improvvisazione fatta carne e storia … che mette in pericolo il piano divino nel suo insieme”. E il rischio nasce quando Dio dice, nel primo capitolo della Genesi, “facciamo l’uomo”, perché con quel plurale proprio all’uomo si rivolge. “Facciamo l’uomo insieme – tu, uomo e io, Dio – e questa alleanza fonda per sempre la libertà dell’uomo, di cui essa ha fatto per sempre il partner di Dio. Pertanto, le fasi successive e drammatiche della storia sono altrettanti ‘momenti di apprendistato’ della libertà. Tutto si svolge come se Dio tentasse l’uomo, obbligandolo a temprare la sua libertà.” È dunque una libertà tragica, se si vuole, ma è l’unica vera e possibile. Apre all’uomo un campo d’azione infinito, e lo carica della responsabilità di agire.

Come si può immaginare è un libro complesso, che parrebbe richiedere una concentrazione difficilmente conciliabile con le atmosfere dell’estate: in realtà mi ha preso e affascinato come un romanzo, e mi ha fatto rimpiangere di non aver frequentato l’università a Strasburgo, dove Neher insegnava e dove alla fine degli anni sessanta deve essersi creata una eccezionale concentrazione di cervelli (erano in fuga da Parigi, dove imperversava invece Cohn Bendit – altro ebreo, altro anarchico, poi eletto però per ben quattro volte parlamentare europeo). Mi ha anche indotto a riprendere in mano Linguaggio e silenzio di George Steiner, per avere conferma che parla d’altro ma dice in fondo le stesse cose.

Non soltanto. Mentre leggevo il saggio di Neher mi sono ricordato di un piccolo saggio che da tempo giaceva sepolto nel settore “ebraismo” della mia libreria, L’odio di sé ebraico, di Theodor Lessing. Ero quasi certo di averlo già letto, ma ho poi realizzato che lo confondevo con un altro scritto dal titolo quasi identico, Ebraismo e odio di sé (si tratta in realtà di un capitolo estrapolato da Sesso e Carattere di Otto Weininger), ma di ben più modesta levatura. Quello di Lessing è un classico della storia dell’antisemitismo (nella fattispecie, di quella particolare forma di antisemitismo espressa dagli stessi ebrei), anche se si tratta di un opuscoletto smilzo, un centinaio pagine di piccolo formato e stampate a caratteri grandi. La lettura mi ha preso poco più di un’ora, ma ci sono tornato su più volte nei giorni successivi: anche in questo caso si imponeva immediato il confronto con l’interpretazione del fenomeno che Steiner da ne La barbarie dell’ignoranza e in Nel castello di Barbablù.

Lessing può essere letto in continuità con Neher (anche se scrive quarant’anni prima), nel senso che va già oltre il tema della responsabilità, e legge la singolarità, e il dramma, del popolo ebraico nei termini del senso di colpa. Quando si chiede il perché dell’odio che ha accompagnato gli ebrei nel corso di tutta la loro vicenda si dà una spiegazione non storica, ma religioso-filosofica: “Gli eventi della storia umana … sarebbero insopportabili se l’uomo non potesse introdurre un senso in tutti questi ciechi avvenimenti. Non gli è affatto sufficiente scoprire fondato casualmente tutto l’accadere, lo vuole piuttosto scoprire fondato con pienezza di senso … Questo rendere pienamente sensato anche tutto il patire insensato può però risultare da due vie. O addossando all’altro la colpa, o cercando quest’ultima in se stessi. Ora, una delle più certe conoscenze della psicologia dei popoli è che il popolo ebraico è il primo, anzi, l’unico tra tutti i popoli a cercare solo in se stesso la colpa dell’accadere mondiale.”

Questa colpa collettiva deriva “dal frantumarsi di una totalità originaria, di uomo e mondo. La rottura di questa totalità è operata dallo ‘spirito’ e avviene per ragioni interne al suo stesso costituirsi: esso si realizza spingendo la ‘vita’ a rovesciarsi contro se stessa, in quanto ‘sapere’, a mortificare la vita… Una scissione può essere data solo nello stato di ‘veglia”, ovvero nel momento in cui si comincia a riflettere e a separare l’esperienza dalla riflessione sull’esperienza. Quando cioè si comincia a pensare. “Tutto il pensare presuppone il due e la dualità”. E quando si comincia a pensare ci si avvia a sostituire l’immediatezza della vita con il sapere attorno al vivente.

In altre parole: gli Ebrei sono colpevoli perché hanno spinto più innanzi di qualunque altro popolo o civiltà l’autocoscienza. Lo hanno fatto per una forma di autodifesa, in quanto eterna minoranza. Il loro “è un caso speciale del destino generale di ogni creatura oppressa, bisognosa, ritagliata dall’elemento vitale… Dovunque la minoranza deve badare a non scoprire nessun punto debole. Essa vive sospettosa, attenta e sotto il controllo della sua coscienza critica. Per essa “il pericolo consiste nel perdere la propria immediatezza e nell’entrare sotto una sorveglianza attenta. A ciò è però connessa una inclinazione all’ironia. Qualcosa di diffidente. Uno stare a lato. Una impercettibile sfiducia in se stessi.” Insomma, per autodifesa gli ebrei sviluppano uno spirito critico che mina definitivamente il loro legame empatico con la vita immediata. E contagiano con tale spirito il resto dell’umanità. Questa la loro colpa. Che, espressa in termini molto più confusi e da punti di vista opposti, è esattamente quella imputata loro da sempre dagli antisemiti.

Non è ancora finita. Ebreo è anche Bruno Bettheleim, del quale ho letto Sopravvissuti (solo la prima parte, quella sui campi di sterminio). Bettheleim sta tra quegli autori che hanno conosciuto davvero il terrore, anzi, l’orrore, prodotto dall’odio antiebraico del quale Lessing tentava di dare una spiegazione, e hanno poi sentito l’urgenza di testimoniarlo (constatando amaramente quanto questo orrore fosse incomunicabile, indescrivibile). Ma a differenza di altri tenta di spiegarlo sottraendolo alla sua unicità, alla sua storicità, e impiegando categorie interpretative più generali (alcune accostabili a quelle di Lessing). L’impressione è che usi gli strumenti del suo mestiere (era uno psicanalista, come Benvenuto) per creare una distanza “scientifica”, il che è normale e corretto, ma che ecceda poi nel “raffreddare” e neutralizzare sotto il microscopio le cicatrici della sua personale esperienza. Non mi ha particolarmente impressionato, né del tutto convinto: ora, in attesa di essere ripreso, sta nello scaffale assieme a Primo Levi, a Robert Antelme, a Jean Amery, ma anche assieme a Solgenitzin, a Salamov e a Gustav Hering.

Di quest’ultimo ho portato invece a termine la rilettura di Un mondo a parte: gliela dovevo, perché quarant’anni fa lo avevo frettolosamente rubricato nella memorialistica concentrazionaria. Invece è un gran libro, anche sotto l’aspetto letterario, e sul tema delle vittime, dei rapporti tra loro e con i carnefici, ha molto da insegnare.

Gli ebrei compaiono infine, sia pure nell’ombra, anche ne “La politica e i maghi“, del solito Giorgio Galli (dico il solito perché ha già scritto sulle stesse tematiche “Occidente misterioso” e “Hitler e il nazismo magico“: tutt’altro che paccottiglia, al di là di quel che i titoli potrebbero far pensare). Galli dà molto credito all’influenza che sarebbe stata esercitata sulla politica moderna (parte da Richelieu e dai Rosacroce) da sette iniziatiche e da personaggi ambigui e a volte insospettabili. A volerlo seguire, anche se non si sbilancia mai in interpretazioni esplicite e disegna tutti i passaggi e collegamenti in maniera apparentemente “neutra”, in una forma documentaria e oggettiva, si arriva a ipotizzare una rete estesa su tutta l’Europa e anche oltreoceano (Reagan, e sin qui è anche credibile, Clinton, un po’ meno): una rete che dai tempi di Elisabetta I si tende sino a Churchill, da Marx alla Russia di Bresnev, da Goethe ad Heisemberg .

Non sto a dire la mia opinione in proposito: è tuttavia indubbio che dal Cinquecento ad oggi c’è stata una continuità nel proliferare di società iniziatiche e sapienziali. Per come la vedo io, ciò è avvenuto in risposta al bisogno congenito degli uomini di presumere una possibilità di controllo o di dominio totale sulle cose e sui fatti, o al desiderio di appartenere comunque alla cerchia ristretta di coloro che questo potere lo deterrebbero. Non c’è necessità di alcuna trasmissione sapienziale diretta, di riti particolari di affiliazione: gli uomini sono sempre pronti ad affidarsi all’irrazionale, quando la ragione non dà loro le risposte che vorrebbero. E hanno necessità di credere che se è stato così da sempre, ciò non sia frutto dei loro limiti cognitivi, ma dell’esistenza di un velo che solo una speciale iniziazione può squarciare.

Sono arrivato in fondo al libro con una certa fatica, per via di una forma spesso approssimativa e di numerose ripetizioni, forse evitabili. Ero comunque incuriosito dai risvolti segreti di personaggi e vicende che davo per scontati e dei quali conoscevo invece solo una faccia o una versione.

Ho notato però la strana assenza, in questo festival della bizzarria, di Adam Weishaupt, il fondatore degli Illuminati di Baviera. Alla setta bavarese Galli dedica solo una brevissima nota, forse perché la magia ha nella vicenda una parte molto marginale. È invece esauriente ed eccezionalmente documentata in proposito la Storia segreta. Adam Weishaupt e gli Illuminati, di Mario Arturo Jannaccone.

Nel mio personalissimo arrangiamento della teoria dei sei gradi di separazione (che è affascinante ma fasulla), ogni libro può essere collegato a qualunque altro attraverso una catena di relazioni. In questo caso la relazione col libro di Galli sarebbe addirittura di primo grado, ma non sono arrivato a Jannaccone per suo tramite. Confesso di aver preso il volume perché l’ho trovato ad un euro, ma poi l’ho immediatamente letto, prima ancora di quello di Galli, perché rispondeva a un interesse che dura da moltissimo tempo.

La mia passione per le sette e le associazioni segrete è infatti precocissima, si perde nella notte dell’infanzia. È probabilmente legata a un particolare senso dell’amicizia. Sin da bambino ho concepito quest’ultima come un legame più forte di qualsiasi parentela. Mi sono anche chiesto se a muovermi fosse un’idea di possesso esclusivo, ma posso onestamente dire che non è così, perché mi piaceva allargare costantemente le mie amicizie e non ne sono mai stato geloso. Al contrario, era piuttosto un costante desiderio di vedere tutti vivere in una armoniosa e costruttiva concordia. Una sindrome da dio insoddisfatto di come gli è venuta la creazione, che cerca di mettere ordine. Questa disposizione all’apertura ha fatto paradossalmente di me anche un intollerante: in linea di principio sono sempre stato convinto che tutti meritassero la mia amicizia, e felice di ottenere la loro: ma di fatto, per guadagnarla certi requisiti mi sono sempre sembrati imprescindibili: in assenza di questi, scatta pesante l’esclusione.

Torniamo però alle società segrete. Queste parrebbero andare in direzione contraria, giocare appunto sull’esclusivismo. Io le interpretavo piuttosto non come una istituzionalizzazione, una ufficializzazione del legame amicale, ma come un rafforzamento. Un modo per cementare il sodalizio attraverso la condivisione di un particolare rituale e di conoscenze riservate. So che potrebbe somigliare sinistramente al matrimonio, ma non è così. Mi importava l’identificazione forte in un gruppo, prima ancora che in una idea, perché sono convinto che le idee debbano essere molte, e consacrarsi ad una finisca per essere limitante, e davvero escludente. Il criterio è la piena fiducia nell’altro, come uomo, a prescindere da come la pensa. Una concezione balzachiana, e d’altro canto la Storia dei tredici è uno dei primi libri “adulti” che ho letto.

Perché il carattere ha la sua parte, ma a fare il resto sono le suggestioni letterarie. Le mie fonti erano innumerevoli. Trovavo società segrete, positive o negative, nei libri scolastici, ad esempio la carboneria: ma soprattutto nei fumetti di Gim Toro, con la Hong del Drago e le Triadi, nei libri di Salgari, con i Tughs, ne “I compagni di Jehù” di Dumas padre, in Balzac, appunto. Il modello originario era però quello de “I ragazzi della via Paal” (ancora oggi darei chissà cosa per ritrovare la vecchia edizione Salani-Biblioteca dei miei ragazzi, con le illustrazioni di Faorzi, per anni la mia Bibbia).

Dei ragazzi di Molnar gli Illuminati avevano in realtà ben poco. Il merito di Storia segreta è quello di raccontarne la vicenda senza nulla concedere a suggestioni misteriche. Il fondatore, Weishaupt, era nella vita quotidiana un modesto professore universitario che aveva ottenuto la cattedra per via di protezioni, quindi fortemente inviso a tutti colleghi e senza ulteriori prospettive di carriera. Ma la percezione che aveva di sé era ben diversa: si vedeva come un campione della lotta contro l’oscurantismo, perseguitato dai suoi avversari ma deciso a far trionfare i lumi della ragione, all’occorrenza servendosi anche di strumenti ben poco razionali. Creò dal nulla una società segreta, si inventò ascendenze nobili, come quella rosacrociana, mutuò rituali e simboli dalla massoneria, fece balenare agli affiliati la prospettiva di rivelazioni sapienziali risalenti addirittura agli egizi, riuscì ad infiltrare gli adepti nelle istituzioni. Ma al dunque la società segreta si rivelò un grande bluff, un castello di carte fondato sul nulla: non c’era un piano, non c’erano scopi precisi se non quello molto vago di una rivoluzione illuminata, non c’erano segreti sapienziali da rivelare, e in assenza di tutto questo gli affiliati erano mossi ognuno da intenti e da finalità diverse. Presto si crearono all’interno del gruppo delle fazioni, delle rivalità, e non appena le autorità ebbero sentore della sua esistenza e cominciarono a intervenire la setta si squagliò.

Il dato più interessante (e sconcertante) che emerge da questa vicenda è l’incredibile facilità con la quale tante persone, anche di discreto livello culturale, siano state pronte ad abboccare e a rischiare la reputazione, se non la pelle. L’altro dato è come la cospirazione abbia suscitato all’epoca un allarme del tutto spropositato rispetto alla sua totale inconsistenza, e come sia stata circonfusa in seguito da un alone di leggenda, andando ad infoltire il già vastissimo repertorio del complottismo. D’altro canto, è comprensibile che l’idea di una setta di “illuminati” che congiura per rendere più razionale e più ragionevole il mondo susciti interesse e simpatia. Vorremmo davvero tutti continuare a credere che qualche Illuminato è ancora tra noi. Anche contro ogni evidenza.

Non ho passato però tutto il mio tempo su testi “impegnati” o funzionali alle mie ricerche. In pomeriggi assolati trascorsi ai bordi della piscina di un amico, lontano dai bombardamenti musicali o pubblicitari e da marmocchi insopportabili con genitori a carico, immerso insomma in quello che i malevoli bollerebbero come un paradiso radical chic ed è invece semplicemente un’oasi di civismo, ho gustato Una vita da libraio, di Shaun Bythell. È il diario di un anno tenuto non da un agente segreto, da un navigatore solitario o da un politico di punta, ma da un semplice rivenditore di libri vecchi o antichi. Va da sé che non è un libro d’azione, che non ha una trama, e che in esso non solo non accadono eventi eccezionali, ma anzi, non accade proprio nulla, se non il ripetersi dei giorni. Eppure ogni giorno ha la sua nota diversa, e dopo un po’ arrivi a conoscere i clienti abituali, con le loro manie e pretese e stramberie, e ti aspetti di rivederli. Come Giunta, Bytell non ha bisogno di condire la realtà con una dose supplementare di ironia: gli è sufficiente raccontarla per tenerci di ottimo umore per oltre duecento pagine.

Non va sempre così, naturalmente. Penso di dover citare in coda anche le “non letture”, ovvero le letture tentate e interrotte. Una riguarda David Foster Wallace. Wallace non è una scoperta recente, perché già lo conoscevo, avevo letto alcuni suoi reportage e tenevo in casa da un pezzo un paio di libri suoi. Ho aperto, confesso senza troppa convinzione, Jnfinite Jest, che avevo accantonato per via della mole (sono milletrecento pagine), e ho trovato uno scrittore bravissimo ma adatto ai ventenni, a chi ha molto tempo davanti (e non sa come trascorrerlo). L’ho richiuso quasi subito. È andata un po’ meglio con Considera l’aragosta, del quale ho letto tre o quattro pezzi, riportandone comunque la stessa impressione: è bravo, ma non è più per me.

Un discorso analogo vale per William Volmann. Volmann mi era però assolutamente sconosciuto fino a un mese fa, sono arrivato a lui solo per aver raccolto un vago accenno ad un libro sulle missioni gesuitiche in Canada nel XVII secolo. Naturalmente l’ho cercato subito e ho scoperto un pazzo scatenato che ha scritto decine di migliaia di pagine sugli argomenti più strampalati. Venga il tuo regno fa parte di una serie di sette volumi, immagino della stessa mole (siamo poco oltre le cinquecento pagine, ma stampate in corpo otto o nove, un vero attentato alla vista), che ricostruiscono varie fasi della storia americana. Altri sette li ha scritti sul tema della violenza, colta in tutte le sue possibili e a volte più improbabili manifestazioni, e in almeno venti altri ha viaggiato tra l’ultima guerra mondiale, il mondo della prostituzione e il teatro Nö giapponese. Mi sono perso dopo trenta pagine.

Quasi quante ne ho scritte tra ieri e oggi (in compenso non ho letto nulla). Mi fermo qui. Non garantisco di non aver dimenticato qualcosa, anzi, sono sicuro del contrario, ma evidentemente si tratta di cose che hanno lasciato poco segno. D’altro canto, venti libri letti in una estate, sia pure di cinque mesi, possono già sembrare molti: ma a conti fatti sono meno di uno la settimana. In tutto questo periodo la pila dei volumi tenuti “in caldo” sul ripiano della scrivania non si è comunque affatto abbassata. Ne sono entrati più di quanti ne siano usciti. A occhio e croce c’è materiale per i prossimi venti anni. È una prospettiva magari un po’ ottimistica, ma i segni sono buoni. La sesta luna di questa estate infinita si è fatta proprio oggi. E oggi era una giornata stupenda.

Libri letti, in ordine di apparizione

Claudio Giunta – L’assedio del presente – Il Mulino 2008,
Claudio Giunta – Una sterminata domenica Il Mulino 2013
Daniele Giglioli – All’ordine del giorno è il terrore- Bompiani 2007
Daniele Giglioli – Critica della vittima – Nottetempo 2014
Luigi Meneghello – Il dispatrio – Rizzoli 1993
Federico Ferretti – Il mondo senza la mappa. Élisée Reclus e i geografi anarchici Zero in Condotta, 2007
Élisée Reclus – Natura e educazione- Bruno Mondadori 2007
Élisée Reclus – Storia di un ruscello – Guerini 2005 (introvabile)
Élisée Reclus – Storia di una montagna – Tararà 2008 (idem)
Amedeo Bertolo – L’anarchico e l’ebreo Eleuthera 2017
Gianfranco Ragogna- Gustav Landauer: anarchico ebreo tedesco – Editori Riuniti, 2010
Gustav Landauer – Per una storia della parola Anarchia – (web)
Stefano d’Errico – Anarchismo e politica nel problemismo e nella critica dell’anarchismo Mimesis 2007
André Neher – L’esilio della parola Marietti 1991
Theodor Lessing – L’odio di sé ebraico Mimesis 1995
Bruno Bettelheim – Sopravvivere – Feltrinelli 1981
Gustav Herling – Un mondo a parte – Laterza 1958
Giorgio Galli – La politica e i maghi – Rizzoli 1995
Mario A. Jannaccone – Storia segreta. Adam Westhaupt e gli Illuminati – Sugarco 2005
Shaun Bythell – Una vita da libraio – Einaudi 2018
David Forster Wallace – Considera l’aragosta – Einaudi 2006

Libri almeno tentati, parzialmente letti o solo citati 

Claudio Giunta -Tutta la solitudine che meritate – Quodlibet 2014
Claudio Giunta – E se non fosse la buona battaglia? –Il Mulino 2017
Daniele Giglioli – Stato di minorità – Laterza 2015
Alessandro Baricco – I Barbari – Feltrinelli 2006
Michel Maffesoli – Il tempo delle tribù – Guerini 2004
Michel Maffesoli – Note sulla postmodernità Lupetti 2005
Christopher Lasch – L’Io minimo – Feltrinelli 1984
Martin Buber – Sentieri in Utopia Comunità 1967
Gustav Landauer – La rivoluzione Diabasis, 2009
Luigi Meneghello – Pomo Pero – Rizzoli 1974
Luigi Meneghello – Fiori Italiani – Rizzoli 1976
George Steiner – Linguaggio e silenzio – Garzanti 2001
George Steiner – Nel castello di Barbablù SE 1971
George Steiner – La barbarie dell’ignoranza Nottetempo, 2005
Otto Weininger Ebraismo e odio di sé – Studio Tesi, 1994
Honoré de Balzac – La storia dei tredici Sansoni 1965
David Forster Wallace – Jnfinite Jest – Einaudi 2006
William T. Volmann – Venga il tuo regno- Alet 2011

La costruzione che distrugge per poter dare forma al mondo

ovvero la forma di un pensiero critico

di Marcello Furiani, 30 aprile 2018

La costruzione che distruggeA parzialissima risposta – peraltro non richiesta – del saggio (o analisi, dissertazione, relazione, studio …) La discesa dal Monte Analogo di Paolo Repetto, vorrei portare alcune riflessioni di tipo metodologico su un tema – il pensiero critico – che a mio avviso soccorre l’intelletto nel comprendere e valutare ciò che si legge. Se – come sosteneva Adorno scrivendo del fenomeno nazista – agire e pensare criticamente significa pensare contro regole che si sono stabilizzate in secoli di tradizione filosofica e scientifica, ne consegue che un linguaggio che si è strutturato su un pensiero e all’interno di una cultura che ha generato nel suo stesso cuore l’orrore, difficilmente potrà darne criticamente conto e ragione. E qui anticipo la mia tesi: spetta a un linguaggio altro, quello poetico e artistico, la possibilità di arrivare a quella forma di testimonianza che è sottratta ad altri linguaggi. Pensiero debole? Tutt’altro: pensiero forte, fortissimo; e vediamo perché.

Ma procediamo con ordine.

Non intendo ricercare una sua definizione esaustiva o dilungarmi sui modelli applicativi che negli ultimi decenni si è cercato di costruire per educare a uno spirito critico (di sfuggita sottolineo soltanto quanto sia limitante racchiudere il pensiero critico entro i confini di un modello, vincolarlo a un preciso algoritmo). E nemmeno ripercorrere il metodo socratico descritto da Platone, che può considerarsi l’origine del pensiero critico comunemente inteso.

Innanzitutto una notazione di carattere etimologico: l’origine di quella che è considerata la più alta e qualificante attività umana è curiosa. Infatti, il termine pensiero deriva dal latino pensum che, nel suo senso proprio, indicava la quantità di lana pesata attribuita alle filatrici di epoca romana e, solo nel suo senso più esteso, significava una generica questione su cui meditare o riflettere. È interessante notare come la concezione latino-occidentale del pensiero abbia un’origine fondamentalmente pratica e manuale, mentre la vicina civiltà greca aveva sviluppato e radicato – già a partire dai poemi di Omero – il concetto ben più strutturato di noûs (intelletto, mente, ragione) più legato alla percezione puramente intellettuale e immediata della realtà da parte del soggetto pensante.

Il pensum era quindi la materia prima, più grezza, designante metaforicamente un elemento o un tema che doveva essere secondariamente trattato, elaborato, conferendogli così una nuova forma. Possiamo in ciò rilevare la peculiarità attribuita al pensiero come qualcosa di straordinariamente semplice che concepisce e confeziona oggetti complessi: l’attività del pensiero si esplica nel comporre oggetti, ovvero pensare significa pensare oggetti composti e compositi. Da questo punto di vista, l’attività del pensiero è ciò che si situa a monte degli oggetti pensati, pur essendo composto della loro stessa sostanza.

Esistono, come sapete, molte critiche: critica letteraria, critica d’arte, critica filosofica e via dicendo. E poi ci sono le sub-critiche: critica filologica, critica formale, critica stilistica, critica sociologica ecc.

Io vorrei soffermarmi su come si forma oggi un pensiero critico, su ciò che struttura oggi un pensiero critico, partendo dal luogo specifico della filosofia.

Michel Foucault in un saggio del 1963 su Bataille[1] – quindi ormai più di cinquant’anni fa – affermava che la filosofia non è altro ormai che la forma sovrana e primaria del nudo linguaggio filosofico: si tratta quindi secondo Foucault di un’attività divenuta ormai autoreferenziale, una sorta di vagabondaggio all’interno del linguaggio stesso che può pervenire fino al vuoto, in assenza di un oggetto concreto su cui possa fare presa e attrito. Sembra così che negli ultimi decenni del secolo scorso la filosofia abbia affrontato – come ha scritto Jean-Luc Nancy[2] – la questione radicale del senso, appunto, negandolo, fino a quasi negare se stessa, scavando in profondità la propria fine, decostruendo il suo proprio senso.

Emerge dunque la necessità per la filosofia di dislocarsi, fino al punto sul quale essa possa trovare, o meglio fare, ancora problema, travasarsi nel luogo di una qualche sua trasformazione, il luogo in cui essa possa convertirsi in critica: potremmo dire mettersi in esilio rispetto alla sua stessa tradizione e alle sue pratiche abituali. Non si tratta – come proverò a illustrare – di approntare una sorta di kit di strumenti, di corredo, di equipaggiamento in dotazione per affrontare questo o quell’oggetto, e cioè gli arnesi della critica letteraria, della critica d’arte e via dicendo perfezionati con gli utensili delle critiche secondarie o sub-critiche. Ma si tratta di un mutamento strutturale che trasforma la filosofia stessa.

Eppure la filosofia nella sua storia ha avuto un grande attrito sul mondo, tanto grande da animare in sé un’immane volontà di potenza: Robert Musil ha scritto, ha potuto scrivere che “i filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema[3]. In altre parole, potremmo dire, come nella metafisica, la filosofia ha negato la verità del mondo in cui viviamo, il mondo delle apparenze, rinviando la verità, come dice Nietzsche, “a un mondo sopra il mondo[4], perché questo è infatti il significato letterale della parola metafisica: al di là della fisica.

Platone ha per primo affermato che la filosofia è un’arte mortale, non solo perché deve vincere negli uomini il timore della morte, ma perché mette a morte il mondo della realtà sensibile, delle apparenze, sacrificandolo all’idea. È questo il grande tema che percorre tutto il Fedone, in cui si dichiara esplicitamente che la filosofia è l’arte del morire, del mettere a morte cioè il corpo, che è terroso, opaco e ci impedisce di conoscere, di assumere una conoscenza vera, ci trascina nel limo, nel disordine delle sensazioni.

Anche Hegel, più di duemila anni dopo Platone, ha ribadito – a partire dalla Fenomenologia dello spirito – l’irrilevanza del mondo delle apparenze, vale a dire del questo e qui sensibile, in quanto inattingibile al linguaggio che appartiene a ciò che è universale. In altre parole, il linguaggio può parlare solo dell’universale e quindi ciò che non è universale non concerne il sapere e viene espulso dal campo del sapere.

Ma non cogliere la singolarità della cosa significa anche la negazione della singolarità del soggetto che si misura con la cosa, del soggetto che esprime istanze – continua Hegel – che sono solo un “incomposto fermentare[5]: una materia informe, che fermenta, si agita, ribolle, quelle che sono le passioni, i sentimenti di un soggetto.

La filosofia, prima della crisi degli ultimi decenni del secolo scorso, ha preteso dunque di ordinare il mondo, le cose, gli uomini e nella sua iattanza non ha certo conosciuto la critica. Quando la filosofia ha pronunciato questa parola – la parola critica – è perché con essa, come ha fatto Kant, ha aperto un tribunale della ragione, che deve decretare ciò che è conoscibile ed è lecito conoscere. Ciò che per essa è inconoscibile – vale a dire extra-moenia, fuori dalle mura – affonda letteralmente, scrive Kant, “in un vasto oceano tempestoso dove regnano nebbie grosse e ghiacci prossimi a liquefarsi[6].

Platone, come abbiamo visto, affida alla filosofia il compito di imparare a morire. Franz Rosenzweig apre proprio il suo grande libro intitolato La stella della redenzione su questo tema: di fatto dunque con un atto di accusa di fronte all’estremismo della volontà di potenza della filosofia, che si spinge, come abbiamo visto fino al tentativo di vincere la morte esorcizzandola nel pensiero. La conoscenza per il filosofo prende il suo inizio in Platone come in Hegel proprio dalla morte, in cui si approda alla conoscenza del tutto che sembra essere il fine della filosofia: il totem del totum[7], parafrasando Adorno. Dunque, prosegue Rosenzweig, in essa domina l’aspirazione o l’illusione di rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente: la terra partorisce i morenti, la filosofia nega la paura della morte, il luogo della caducità e così nega anche la terra, non soltanto il corpo che viene ripudiato e trascurato in favore dello spirito, ma la terra stessa in cui si muove il soggetto appunto dotato di corpo e di spirito.

Nel Fedone Socrate va lieto verso la morte che lo libera dalla prigione del corpo e della sua terrosa opacità che ostacola la conoscenza: è la morte del filosofo. Sembra però che questa morte non riguardi però il soggetto Socrate, e nemmeno Critone il suo amico o gli altri amici che assistono a questa morte, ma si riferisca a tutti quelli che sono fatti di terra, di quella terra che partorisce i morenti, di quella terra negata.

Viene alla mente il grande racconto di Tolstòj La morte di Ivan Il’ič: anche Ivan ha studiato filosofia e di fronte alla morte ne contesta le conclusioni. Ivan sa che Caio è un uomo e che gli uomini sono mortali e che Caio è mortale: questo sillogismo gli sembrava ora giusto per Caio, ma non per lui. Perché Caio è un uomo in genere, non è questo uomo, non è più un Io, è un neutro. Ma lui, Ivan, è diverso, con le sue relazioni, i suoi amori, i rimorsi, i ricordi, le colpe e le omissioni. “Era stato forse per Caio quell’odore di palla di cuoio a spicchi che Vanja tanto amava? […] era stato forse Caio a sentire il fruscio della veste di seta della madre?[8]

All’Io che vuole vivere la filosofia prospetta la morte, la spersonalizzazione della morte. La filosofia esalta questa morte, prosegue ancora Rosenzweig, questa morte neutralizzata come la propria prediletta, come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita. La filosofia propone questa morte, perché la filosofia è innamorata, scrive Rosenzweig, dell’“illud[9], cioè di questo neutro in cui naufraga il soggetto, in cui affonda l’io.

Anche dopo la caduta dei fondamenti, anche dopo l’erosione della metafisica annunciata da Nietzsche con l’esaltazione del mondo delle apparenze, della magnifica iridescenza “del ventre del serpente della vita[10], la filosofia ha mantenuto la sua volontà di potenza.

E con questa entra nel XX secolo.

Si pensi che Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus chiude in poche decine di pagine tutte le proposizioni che corrispondono a tutti gli “stati di fatto” di cui si può parlare. Sul resto, su ciò che eccede la sequenza di proposizioni contenute in queste decine di pagine si deve tacere. “Il mio lavoro” scrive Wittgenstein “consiste in due parti: di quello che ho scritto e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante[11]. Questa seconda parte deve di fatto rimanere muta: Wittgenstein ha inteso tracciare un limite al pensiero, o meglio un limite all’espressione dei pensieri: la critica era per lui esattamente questo limite, questo nec ulterius, questo non oltre. Ha tracciato un limite al linguaggio e “tutto ciò che è oltre questo limite” ha scritto “sarà semplicemente non-senso[12].

Questo ci porta direttamente nel XXI secolo alla filosofia analitica anglosassone. È una filosofia che – come afferma Susan Neiman[13] – impone di dimenticare le questioni relative alla vita e alla morte, al bene e al male: vale a dire le questioni da cui è nata la domanda filosofica. Sembra che il fine della ricerca sia la legittimazione linguistica di ogni affermazione interna alla disciplina filosofica stessa. È curioso, ma assistiamo oggi all’incrocio tra questa filosofia e l’eredità dell’esoterica ontologia heideggeriana. Entro i limiti stabiliti dal linguaggio, per una schiera di nuovi filosofi l’affermazione dell’essere della cosa è un’affermazione aproblematica, non lascia alcun cono d’ombra: si passa a una cosalità immediata, diretta.

E quindi, nella dissoluzione dell’estremismo dell’ermeneutica, c’è questo assolutismo ontologico che in realtà si riduce, come avrebbe detto Adorno, al “miseramente ontico[14], all’affermazione pura e semplice di ciò che esiste. E cosa rimane delle questioni relative alla vita e alla morte, al tempo, alla gioia e al dolore, cosa persiste dell’inquietudine che spinge a pensare, come dice Bataille, che “ciò che è significa ben più di ciò che è[15], cioè che se esiste un impensabile e un irrappresentabile è proprio questo che dobbiamo cercare di pensare e di rappresentare? Questa inquietudine, che ha abbandonato la filosofia tradizionale, ha costruito una diversa modalità di scrittura filosofica: quella del saggio critico, che è stata teorizzata da Gyȍrgy Lukàcs, poi da Walter Beniamin, da Adorno e poi ancora, più vicini a noi, da Elias Canetti, da Maurice Blanchot, insieme a Freud e i grandi scrittori della modernità come Musil, Proust, Thomas Mann e altri.

La filosofia saggistica – o più propriamente il pensiero saggistico – non ha più la pretesa di ormeggiare alla banchina di una verità assoluta. È qui lo scatto: non esiste più la totalità, non esiste più la volontà di potenza di chiudere in un sistema una visione esaustiva del mondo che intende discernere il vero dal non senso. Il pensiero saggistico si muove, come l’arte, nel dominio dell’incerto. Ha detto Leibniz: “Credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto”.

Ne LArte del romanzo di Kundera si dice che parallelamente, mentre Cartesio stabiliva le regole del ben pensare, Cervantes con il suo Don Chisciotte decretava il sapere dell’incertezza, direi una legittimità dell’incerto[16]. Fenomeno, qualche secolo dopo, espresso compiutamente in quel grande romanzo che è L’uomo senza qualità di Musil, in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi, nella scomparsa di quella totalità umana e poetica che non ci compete più, né più ci appartiene.

In qualche modo, il pensiero critico cerca di saldare, di riunire questi due saperi: quello della sistematizzazione razionale e quello dell’incerto, del dubbio, dell’inquietudine. Il pensiero saggistico-critico cerca costantemente di trovare la verità nell’arte – come nelle apparenze del mondo (critica quindi non solo letteraria, artistica, ma anche delle formazioni e delle realtà del mondo) – quindi proprio là dove questa sembra negarsi, cerca la verità nella negazione e della negazione, cerca comunque una verità possibile, anche se relativa, insorgendo contro una filosofia immanente delle cose, adagiata su di esse, fondamentalmente priva di responsabilità.

Ecco, questo è secondo me il grande tema: la responsabilità del pensiero in rapporto al mondo; quando noi parliamo, scriviamo, esprimiamo un pensiero assumiamo una responsabilità immensa, perché non c’è più nulla che la garantisca come nella metafisica. Ora ogni espressione deve assumersi la responsabilità di ciò che esprime, ognuno che traccia un segno su un foglio, su una tela e via dicendo deve assumersi la responsabilità di ciò che proietta nel mondo.

La dimensione della responsabilità emerge in termini ineludibili nel momento in cui si recide un rapporto di corrispondenza tra la realtà e la sua rappresentazione, tra l’immagine il “correlato oggettivo[17] direbbe Eliot, si rompe cioè una sorta di patto mimetico: io dipingo questo fiore e questo fiore corrisponde a qualcosa. Ma Mallarmé dice che la parola fiore non ha alcun odore e che quel fiore non è più un fiore[18]. In questa frattura, già intravista da Saussurre, che affermava che tra significato e significante non c’è alcun rapporto necessario[19] – e che Steiner definisce la vera rivoluzione che caratterizza la modernità[20] – è l’autore a definire il senso della sua opera e se ne assume la responsabilità. Nelle arti questa responsabilità diventa politica: quando Mallarmé dice “dare una parola più pura al linguaggio della tribù[21] intende rompere con i linguaggi standardizzati e con quelle degenerazioni che Flaubert – definendole le “legioni dei diavoli[22] – considerava il male assoluto, cioè la frase fatta, il luogo comune, la chiacchiera.

Oggi assistiamo a una deriva culturale negli ultimi decenni che ha fatto crescere esponenzialmente la semplificazione come dinamica del pensiero, una semplificazione che mortifica e avvilisce ogni possibilità di chiarire un argomento, di acquisire elementi di conoscenza, di costruirsi una competenza, di comprendere diversi punti di vista, tanto meno di problematizzare, finendo per esaltare un’assenza di pensiero o un non-pensiero unico corrotto e involgarito, un’omologazione incolta e illetterata che costituisce un brusio di fondo che fabbrica una nuova legione diabolica e una nuova standardizzazione del linguaggio in cui il senso si inabissa, si estingue la capacità di dirimere, cioè di fare critica. Tutto rischia di scorrerci addosso senza lasciare traccia, senza piantare semi, dove nulla diventa una qualità dell’esperienza, nulla entra nella costruzione della propria identità, nulla ci ferisce o ci salva. E mi riferisco qui non solo alle cosiddetta cultura di massa, ma anche e soprattutto a quella nuova tendenza di far filosofia, la popsophia, la filosofia alla Peppa Pig, tanto per capirci, frequentata da intellettuali griffati[23] che pensano di fare veramente filosofia sovrapponendo il vocabolario di Heidegger a Beautiful, l’analitica esistenziale a Un posto al sole e il decostruzionismo ai Teletubbies, senza alcuna coscienza critica. Ma elevare il discorso da bar a riflessione, però, non è una conquista del pensiero: è una triviale ricerca di consenso, un’adesione acritica all’esistente, travestita da politicamente scorretto, così tanto di moda oggi nella mistificazione di chi pensa che impiantare le parole in luogo delle cose significhi trasformarne la natura[24]. “Logica ed etica sono sostanzialmente la stessa cosa” – diceva Otto Weininger – “un dovere verso se stessi[25].

A proposito della lettura, per esempio, Geoge Steiner ha scritto: “Leggere bene significa correre grossi rischi. Significa rendere vulnerabile la nostra identità, il nostro autocontrollo […] chi ha letto le Metamorfosi di Kafka e riesce a guardarsi allo specchio senza indietreggiare è forse capace, tecnicamente, di leggere i caratteri stampati, ma è analfabeta nell’unico senso che conti realmente[26].

Inoltre osserviamo i danni enormi che la desertificazione della conoscenza storica del pensiero ha provocato, tra cui averci inchiodato a un eterno presente, direi addebitando il tempo di un eterno presente. Ma a questo proposito dice Eliot nei Quattro quartetti: “se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo è irredimibile[27], cioè tutto si scioglie, si polverizza, si liquefa, nuota in una palude, negando il fondamento di ogni critica, ossia la considerazione della temporalità, delle parentele temporali, delle stratificazioni storiche.

La rinuncia alla verità, dopo la fine della metafisica, si è declinata spesso come rinuncia al senso che è stato delegato ad altri saperi, quelli legati alla tecnica e alla sua potenza, rispetto alla quale la filosofia come professione sembra mostrare un’assoluta sudditanza. Il saggio non-accademico si muove altrimenti, si disloca altrove rispetto alle filosofie del limite e della rinuncia, si esilia da esse, propone un pensiero che si costruisce intorno agli oggetti senza la pretesa di esaurirli. Incorpora nel suo movimento le tensioni e le contraddizioni che attraversano il reale e che emergono come tali nel suo corpo in opere che appaiono, come dice Adorno, “corrugate o addirittura dilaniate[28].

Se la dialettica era destinata a risolvere la contraddizione, Benjamin propone una dialettica sospesa, arrestata, in cui gli estremi emergono e aprono una tensione critica che non può e non deve avere soluzione, anzi significano proprio nella loro inesausta tensione. Benjamin afferma che in questa immagine dialettica si realizza “l’ora della conoscibilità[29] – come è emersa anche in Proust – segnando ancora una volta la complicità di questa filosofia critica con le forme e i saperi artistici che Platone aveva voluto espellere dalla Repubblica. Il saggio si pone così come una scrittura e una modalità di conoscenza critica proprio in quanto ha appreso a ibridare immagine e concetto per recuperare al pensiero filosofico quella compatibilità e quella contiguità con l’esperienza umana che la filosofia sembrava aver perduto.

Si tratta di continuare a confrontarsi con la pluralità conflittuale del mondo, quella complessità che si afferma, secondo Nietzsche, nelle forme antinomiche e contraddittorie del tragico. Si tratta di trasformare l’infinito e indifferente scorrere di interpretazioni nuovamente in conflitto delle interpretazioni, per cogliere il senso di un mondo lacerato e il senso delle opere che questa lacerazione provano a raccontarla.

È necessario che il pensiero pensi anche contro se stesso. Altrimenti la filosofia, come ha detto Adorno, si illude di conoscere ciò che pensa semplicemente assimilandolo a sé, ma così essa conosce propriamente se stessa e solo se stessa e non il mondo.

L’arte di per sé procede criticamente, traducendo quella che convenzionalmente viene definita ispirazione dell’artista, la visione della madeleine proustiana, all’interno di regole linguistiche e sintattiche, operando una violenza su se stessa. E il critico, a sua volta, opera una violenza per ritrovare la madeleine, per rinvenire quell’ispirazione che l’artista ha dovuto nascondere dentro le procedure sintattiche. Ed è un processo polemico: da polemos, la guerra che Eraclito diceva essere il padre del mondo[30].

Certo, molte sono le cose inesprimibili, molte sono le cose prive di espressione: è l’Ausdrucklose, il privo d’espressione di Benjamin. L’Ausdrucklose indica il passaggio dall’idea del bello a quella del vero, il punto di sospensione dell’opera, il luogo in cui il contenuto si trova in uno stato di sospesa incertezza, presente immobile rispetto al tempo fluido della narrazione e, tuttavia, oscillante tra il mito che si disegna come passato e la redenzione che si dispiega come futuro. È l’apparizione dentro l’opera dell’origine, di ciò che storicizza il suo tempo, il quale – proprio perché si dà come un continuum – si rivela in realtà immobile: il divenire precipita nel suo telos e si annulla. Arrestarlo nell’Ausdrucklose è il compito della critica[31].

Il pensiero si legittima soltanto in quanto si assume la responsabilità di cercare di esprimere l’inesprimibile, anche per approssimazione, anche se è necessario procedere alla frantumazione di “una totalità falsa e aberrante[32], dice ancora Benjamin. È quella che Kafka chiama, in un’espressione paradossale ma illuminante, “la costruzione che distrugge per poter dare forma al mondo[33]. Viene a mancare la certezza propria della metafisica, ma anche la certezza perentoriamente pretesa dei nuovi realisti. Io credo che solo dall’incontro tra filosofia e poesia possa nascere una modalità di indagine su ciò che non ha espressione e questo colloquio deve potersi attuare nelle zone d’ombra, dove non è una logica dialettica che potrà far parlare l’opera d’arte. Se è vero che esiste un dissidio tra filosofia e poesia, in quanto quest’ultima non è vincolata alla verità, oggi una filosofia che si identifichi con la scienza è inimmaginabile, a meno di non costringere la filosofia in un’angusta analisi logico-linguistica, invece di volgerla a interrogare le opere d’arte intorno all’inespresso e all’inesprimibile, mettendo a frutto la capacità della filosofia, in quanto estetica, di accogliere e svolgere il senso non-discorsivo presente nelle creazioni artistiche, la cui verità è irriducibile sia alla composizione meramente formale sia al messaggio rinvenuto nell’opera.

Un romanziere, Imre Kertész, presentando un suo libro di scritti critici ha affermato: “Non considero saggi nel senso tradizionale del termine gli scritti che seguono. Parlerei piuttosto di approssimazioni, anche se naturalmente questo genere letterario non esiste. Da una parte vorrei sottolineare il fatto che nessuno di questi lavori esaurisce il proprio oggetto, ma riesce al massimo ad approssimarsi ad esso, dall’altro vorrei evidenziare che essi affrontano – sebbene da un altro punto di vista – lo stesso argomento delle mie opere narrative: l’inavvicinabile”[34].

Un solo passo verso l’inavvicinabile, nel senso racchiuso nelle increspature di un’opera – sia questa un libro, un quadro, un film, un’architettura o nelle pieghe delle realtà – vale la sfida che il pensiero critico lancia nei confronti del pensiero della certezza: la verità non è netta, ma ha, come ha scritto Hermann Melville, “confini sfrangiati[35].

Muoversi su questi confini è compito del pensiero critico.

 

Tre post scriptum

  1. Su Maffesoli: vorrei cavarmela con una battuta: è un sociologo, debole in filosofia.
  1. Su Alessandro Baricco: è autoreferenziale fino all’acidità da reflusso gastroesofageo, post italocalvinista di riporto, ben attento a non deplorare mai nulla, a rassicurare sui conflitti e sulle contraddizioni della postmodernità. Il suo è un composto di cibo masticato, impastato e imbevuto di quella saliva che tutto concilia, scolora le oscurità, annulla virtù e talento, contrabbanda la rapidità con l’efficienza, la banalità per complessità e rende tutto commestibile in questo luna park del consumo. Bolo per analfabeti di ritorno, altro che l’ascia di Kafka.
  1. Sul postmoderno e, tra le righe, ancora su Maffesoli: Nell’esperienza greca il mito è vissuto come un tentativo di colmare il dolore della distanza dall’origine, ma anche come la consapevolezza che non c’è mai un vero ritorno all’origine. Nella modernità i miti sono diventati domestici, sono tutt’al più cani da compagnia, più spesso false idee comodamente acquattate nella pigrizia del nostro pensiero. Basta pensare al ruolo che nella città greca aveva il teatro, la tragedia. La città teatro contro la città ipermercato. C’è una connessione tra spazio simbolico e rappresentanza del conflitto, da una parte, e forma dell’agire politico, dall’altra. Nel mondo greco prendere posizione, decidere è tragico, perché non c’è soluzione conciliativa, non c’è mediazione razionale. Il conflitto, che non è sanabile, quindi tragico, è solo rappresentabile.

Ogni conflitto nella modernità è, invece, risolubile attraverso la risarcibilità, poiché tutto è ridotto a misura del denaro, slegato per definizione a qualsiasi concetto di valore, nel politeismo dei valori che è indifferenza a ogni valore, che è un infischiarsene degli dei. E della tragedia non conserva nemmeno la memoria. Il conflitto irriducibile può essere rappresentato, trasformato nella rappresentazione e nello spazio simbolico del racconto; il conflitto moderno è, invece, irrappresentabile, perché è del tutto contingente, cioè, filosoficamente, non necessario, non essenziale.

La modernità ha preteso di realizzare il mito, di far coincidere inizio e fine, uomo e Dio. E l’Altro è dissolto, svanito; ma senza vera alterità non c’è vero conflitto e senza conflitto vero non c’è trasformazione della realtà e creazione dello spazio simbolico. La rappresentazione tragica, invece, esprime il senso della irriducibilità dell’altro a se stessi e la creazione di uno spazio per contenerlo.

Si diceva: condizione postmoderna. Vorrei far notare come da allora ci sia stato un profluvio di questo prefisso post tutte le volte che “il presente rivolge lo sguardo su se stesso per cercare di auto comprendersi[36], di darsi un’identità. La prosa sociologica, antropologica, politica, psicoanalitica, letteraria, filosofica è un’alluvione di post: post-industriale, post-democrazia, post-fordismo, post-umano, post-edipico, post-comunismo, post-fascismo, post-ideologico, post-strutturalismo ecc., per finire, appunto, a post-moderno.

Noi siamo quelli che vengono dopo, siamo i postumi. Postŭmus, nell’antica Roma, era il figlio che nasceva dopo la morte del padre.

Il fatto che ogni epoca interpreti se stessa nell’orizzonte del dopo è ovvio, ma oggi il nostro dopo non è “un dopo storico- relativo, ma un dopo assoluto[37]. Un dopo, appunto, che ha i tratti inquietanti e perturbanti del postumo; viviamo un’esistenza postuma, come se ci stessimo aggirando tra rovine in un dialogo tra morti.

Vediamo ora che cosa vuol dire essere postumi in questa percezione del dopo che ho appena descritto. Venire dopo la morte del padre non significa semplicemente o soltanto “essere senza padre, ma essere generato da un padre morto[38], significa essere la traccia della sua assenza. Un presente postumo non contempla più un legame dialettico col passato, né come suo superamento, né come sua conferma, né come suo rinnovamento, né come sua rifioritura in altra forma. Viene meno ogni figura di eredità, quindi di donazione. Il presente si specchia nella sua impotenza, nella malinconia dolente della percezione del venir meno di chi lo ha generato.

E allora comprendiamo che della democrazia, dell’umano, del fascismo, del comunismo, della modernità ecc. resta soltanto quel post, cioè rimane un guscio vuoto, una svuotata e stremata definizione di sé e del proprio tempo sulla base di un’impotenza a essere umani, comunisti, fascisti, padri ecc.

Ci si definisce facendo appello a una possibilità storica estinta e si assume questa impossibilità come proprio stesso essere.  È la figura della possibilità, è il possibile che si è corroso, che è tramontato, non la sua realizzazione.

Nel suo saggio L’esausto su Samuel Beckett Gilles Deleuze, rimarcando la differenza tra “stanco” ed “esausto” scrive: “Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare[39].

Ecco, siamo trasmigrati da un paradigma dell’essere, dove lo scopo era la realizzazione dell’umano, a un paradigma del divenire prosciugato di senso, dove ci si muove velocemente ma senza uno scopo, dove mezzi e fini si confondono deponendo ogni preoccupazione etica, dove la realtà visibile è quella virtuale nella scomparsa del confine tra fantastico e reale e nell’insistente cura dell’immagine che mortifica ogni contenuto. E dentro questo scenario si muovono corpi inabili a trasformarsi in nulla, tantomeno in simboli, corpi che parlano un linguaggio incenerito e sembra non percepiscano più nemmeno il proprio sentire, corpi senza memoria (perché l’oblio è la condizione necessaria affinché il desiderio, unico motore della società dei consumi, possa rinnovarsi senza intoppi né ritardi), puri consumatori di merci, sedotti e arresi all’inganno della facilità che conduce al balbettìo e all’idiozia.

[1] Cfr. Michel Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, 2004.

[2] Cfr. Jean-Luc Nancy, Decostruzione del cristianesimo, Volume 1, Cronopio, 2007.

[3] Robert Musil, L’uomo senza qualità, pag. 243

[4] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1970, p. 34.

[5] Georg W. Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1960, vol. I, pag. 8.

[6] Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, 2007, p. 199.

[7] Cfr. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004, pag. 339.

[8] Lev Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, Mondadori, pag.

[9] Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, 1985, pag. 3.

[10] Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), Adelphi, 1979, pag. 11.

[11] Ludwig Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, 1974, pag. 72.

[12] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1974, in Prefazione.

[13] Cfr. Susan Neiman, In cielo come in terra. Storia filosofica del male, Laterza, 2013.

[14] Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pag. 11.

[15] Georges Bataille, L’abate C., ES, 2008, pag. 102.

[16] Cfr. Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, 1988.

[17] Cfr. Thomas Stearns Eliot, Amleto e i suoi problemi in Il bosco sacro, Bompiani, 1995.

[18] Cfr. Stèphane Mallarmé, Erodiade, ES, 1997.

[19] Cfr. Ferdinand de Saussurre, Corso di linguistica generale, Laterza, 1978.

[20] Cfr. George Steiner, Vere presenze, Garzanti 1992, pag. 95.

[21] Stèphane Mallarmé, La tomba di Edgar Poe, v. 6, in Sonetti, SE, 2002.

[22] Cfr. Gustave Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni, Adelphi, 1980.

[23] Mi riferisco ai più feroci fautori della popsophia, come Simone Regazzoni, Salvatore Patriarca, Leonardo Arena, Marcello Ghilardi, autori di opere che consegnano il discorso filosofico alle perversioni di un mercato editoriale dove il profitto a qualunque costo ha spesso il sopravvento sull’eleganza e la ricercatezza della qualità.

[24] Cfr. a questo proposito un illuminante articolo di Nicla Vassallo, Sopravvivere al pop pensiero, Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2008.

[25] Otto Weininger, Sesso e carattere, Feltrinelli, 1978, pag. 25.

[26] George Steiner, Linguaggio e silenzio, Garzanti, 2001, pag. 142.

[27] Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, Burt Norton I, Garzanti, 1979, vv. 4-6.

[28] Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, Torino, Einaudi, 2001, pag.275.

[29] Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi 2010, pp. 1237-1238.

[30] Cfr. Eraclito, in G. Colli, La sapienza greca, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14

[31] Il discorso benjaminiano sul carattere critico dell’Ausdrucklose arriva a definirsi compiutamente attraverso l’esplicito riferimento a Hölderlin, a partire dal saggio Le due poesie di Hölderlin, raccolti in Metafisica della gioventù, Einaudi, 1982.

[32] Walter Benjamin, Le affinità elettive di Goethe, in Angelus Novus, Einaudi, 1981, pp. 221-222.

[33] Franz Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi, Feltinelli, 1984, p. 83.

[34] Imre Kertész, Il secolo infelice, Bompiani, 2012, p.

[35] Cfr. Herman Melville, Billy Budd, Feltrinelli, 2014.

[36] Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli 2012, pag. 39.

[37]Ivi, pag. 40.

[38] Ivi, pag. 42.

[39] Gilles Deleuze, L’esausto, Cronopio, 2005, pag. 9.

Progetto “Amico libro”

Linee di indirizzo

di Paolo Repetto, 30 maggio 1999

Il problema

Si vendono sempre più libri, ma i giovani leggono sempre meno. L’incremento delle vendite è legato alla stabilizzazione di un nucleo consistente di lettori forti, che appartengono però alle fasce generazionali adulte o mature; la forbice tra questi e coloro che non leggono affatto continua in realtà ad allargarsi. Inoltre, l’aumento quantitativo ha un contraltare nell’abbassamento della qualità: la gran parte di ciò che viene pubblicato e venduto non si presta affatto ad educare ad una lettura consapevole, critica e creativa.

La scolarizzazione di massa è ormai realizzata, ma si devono fare i conti con un crescente analfabetismo di ritorno. Ciò significa che la scuola non riesce a creare e a trasmettere una consuetudine con la lettura che permanga nel giovane come scelta, come ricerca autonoma di un piacere.

 

Le cause

Se ragioniamo in termini realistici, nell’ottica nuda e cruda della domanda e dell’offerta all’interno del mercato della comunicazione e della formazione, il libro è una merce obsoleta. Come bibliomani avremmo magari diecimila ragioni per sostenere che non è vero, ma come operatori della formazione dobbiamo accettare la realtà. Beninteso, questo non significa arrendersi. Soltanto, si deve prendere atto della situazione, se davvero si vuole cercare di modificarla.

Perché il libro è obsoleto? Perché il calo internazionale non solo della lettura ma anche della semplice capacità di leggere segna il passaggio da una modalità di acquisto delle conoscenze ad un’altra. Di quali conoscenze, e se questo passaggio sia un bene o un male, è un altro discorso (anzi, è lo stesso, ma il fatto che siamo qui a parlare di un progetto di rilancio della lettura rende implicita la nostra opinione). Di fatto il passaggio sta avvenendo, anzi, è già avvenuto.

Se una merce che noi riteniamo ancora essenziale risulta obsoleta per il mercato, l’unico modo per evitarne la sparizione è la “ricollocazione”: vale a dire, l’offerta sotto altra forma, l’aggancio ad altri significati. Il libro è stato per oltre venticinque secoli l’unico strumento alternativo alla spada e al denaro per emergere. Impadronirsi della lettura ha significato per generazioni impadronirsi di uno strumento per sottrarsi o ribellarsi al potere, o magari per esercitarlo. Con la diffusione dell’alfabetizzazione (introduzione della stampa, riforma protestante ecc.), e quindi con la progressiva o almeno potenziale accessibilità di massa, questo significato strumentale si è prima modificato (l’occasione offerta a tutti di un avanzamento sociale), poi ha cominciato a venire meno. Il colpo di grazia lo ha dato l’irrompere dei moderni mezzi di elaborazione e trasmissione delle conoscenze.

In questo senso la funzione del libro è ormai finita, liquidata dalla immediatezza e dalla velocità degli altri strumenti comunicativi (e formativi), che meglio rispondono alle esigenze di una vita interpretata all’insegna appunto della velocità e delle conoscenze a rapido consumo. Il venir meno di questa funzione finalizzata in qualche misura al successo è oggi avvertito chiaramente (vedi ad es. sportivi, imprenditori, uomini di spettacolo e politici che si vantano di non aver mai letto un libro – cosa di cui fino a qualche anno fa si sarebbero vergognati). Il fatto poi che questo non sia vero, e che la dimestichezza con la lettura abbia anche una ricaduta in termini pratici – di successo, se la vogliamo mettere su questo piano – è difficilmente percepibile, soprattutto quando si è abituati a pensare la propria esistenza in tempi stretti, e non a proiettarla sul lungo periodo.

Per arrivare al dunque. Se la lettura non può più essere promossa come tramite al successo e neppure come strumento primario e imprescindibile della conoscenza (anche se noi sappiamo che lo è), occorre proporla sotto un’altra luce, cambiare strategia di marketing. Al valore utilitaristico va sostituito quello edonistico: all’utilità dello strumento la gratuità del piacere. L’utilità il lettore la scoprirà poi da solo.

 

Le responsabilità

Il piacere della lettura passa, tra le altre cose, anche attraverso la fisicità del rapporto col libro. Occorre pertanto lavorare anche su questo versante, sulla restituzione di uno specifico valore all’oggetto libro. Questo valore non è infatti oggi fisicamente intrinseco al prodotto. Ciò che da un lato ha facilitato o è parso facilitare l’accesso pratico alla lettura, l’editoria di massa, le collane economiche e più recentemente la vendita nelle edicole e nei supermercati, dall’altro ha sottratto al libro la sua aura e la sua specificità di prodotto diverso. Quello che un tempo era un bene di lusso, reso tale dalla non indispensabilità e da un valore aggiunto di status culturale, è stato eguagliato ai prodotti di rapido consumo (anche nella qualità e nella cura). Tra cinquant’anni sugli scaffali nostre case o delle ultime superstiti biblioteche ci saranno volumi di un secolo fa, ma ben pochi di quelli pubblicati oggi.

Una parte di “responsabilità” in questa trasformazione di immagine va ascritta, sia pure indirettamente, alla scuola. La polluzione dei libri di testo e soprattutto la loro obsolescenza quasi immediata, decretata dalle riedizioni costantemente “aggiornate” ma legata in parte anche alla necessità di inseguire affannosamente nuove filosofie e impostazioni didattiche, ha contribuito in larga misura a minare il rispetto per il libro come oggetto. Sino a qualche decennio fa il libro di testo doveva essere religiosamente salvaguardato, magari per poter essere riutilizzato dai fratelli minori. Oggi, consentendo o addirittura inducendo pratiche come quella dell’evidenziazione, che vanno a sommarsi ad una tendenza generalizzata all’incuria, ne viene sancita la condizione di prodotto usa e getta. E questa percezione si riverbera immancabilmente, oltre che sull’oggetto libro in generale, anche sui suoi contenuti.

In questa operazione la scuola ricopre un ruolo paradossale. Da un lato è il tramite, il supermercato che deve promuovere sui suoi scaffali il prodotto lettura. Dall’altro deve far dimenticare subito il legame tra il prodotto e il supermercato, pena il fallimento dell’intera operazione. Se non si riuscirà a sganciare l’immagine del libro da quella della scuola sarà tutto inutile. Il libro, la lettura vanno riversati il più possibile “fuori” della scuola, inseriti nei ritmi della quotidianità esterna, ma come cunei che esercitano nei confronti di questi ultimi un’azione frenante.

Un altro compito che la scuola può e deve assolvere è quello di filtrare i cascami dell’attuale polluzione libraria. Si sta moltiplicando il numero dei libri decisamente stupidi prima ancora che inutili, che non solo non concorrono ad una educazione alla lettura, ma alimentano la maleducazione linguistica e morale. Non è affatto vero che va bene tutto, purché si legga. Il genuino piacere della lettura nasce dalla scoperta delle molteplici dimensioni, diverse da quelle della quotidianità, nelle quali attraverso essa ci si può addentrare. La lettura non può risolversi in una perdita di tempo: al contrario, il tempo deve valorizzarlo, aiutandoci a spenderlo per conoscere altri luoghi, altri mondi, altre storie.

Nemmeno si può lasciare questo ruolo ad altre agenzie informative. Gli entusiasmi suscitati negli ultimi anni da alcune rubriche televisive di promozione libraria non tengono conto degli effetti collaterali di qualsivoglia proposta “mediatizzata”. Anche le trasmissioni più raffinate e più oneste (il Pickwick di Baricco, per intenderci), quelle che non si riducono a spot della “produzione culturale” più recente ma chiamano alla riscoperta di testi ormai classici, non si sottraggono al principio per cui il mezzo è di per sé una parte non marginale del messaggio. Inducono ad una lettura teleguidata, e in molti casi si sostituiscono alla lettura stessa. Quando l’effetto è esattamente lo stesso, vengano letti Pinocchio o Il giovane Holden, significa che a colpire l’interesse non è stato il libro, ma la sua presentazione.

Infine, per rispondere subito a quella che potrebbe essere una legittima obiezione, ovvero che anche la scuola in fondo veicola più o meno direttamente le scelte degli allievi (e la funzione di filtraggio che sopra le si attribuiva ne è l’esempio più probante), è necessario chiarire meglio quale dovrebbe essere il suo ruolo. La scuola non deve offrire pesci, ma insegnare a pescare. Non è suo compito suggerire le letture, o almeno non è quello primario, quanto piuttosto renderle possibili. La scuola deve quindi anzitutto insegnare a leggere, perseguire questa competenza come obiettivo primario: per farlo dovrà necessariamente scegliere i testi sui quali fare esercitare gli allievi, ed è certamente opportuno che al di là della funzione strumentale questi testi abbiano anche una valenza ludica e culturale, trasmettano una qualche conoscenza e il desiderio di ampliarla. Ma la cosa poi deve fermarsi lì: il piacere di leggere sta anche nelle scoperte che uno fa per conto proprio, seguendo un suo percorso particolare e singolare. La scuola deve spianare il percorso, non programmarlo o tracciarlo.

 

Quali rimedi?

Le strategie promozionali vanno diversificate, all’interno della scuola, non soltanto perché ci sono fasce d’utenza diverse, ma perché totalmente differente è l’obiettivo. Nel caso della scuola primaria l’operazione promozionale è intesa a creare una consuetudine ed una abitudine: può quindi far leva, se condotta con buon senso e con buoni materiali, su un approccio “quantitativo”. Nella scuola superiore deve essere mirata invece soprattutto al recupero, a contrastare una crescente disaffezione: e qui è necessario puntare sulla qualità. Anche se in entrambi i casi la concorrenza delle altre agenzie “formative” dispone di mezzi superiori, perché può giocare sulla “facilità” della visione rispetto alla “fatica” della lettura, quest’ultima mantiene per i piccoli il fascino della scoperta di una potenzialità, di una indipendenza: sarebbe quindi sufficiente coltivare bene questo fascino, stimolando una crescente autonomia nelle scelte e nel rapporto con il libro. L’intervento sulla fascia adolescenziale è invece più complesso, proprio perché volto a quell’utenza che lo stimolo proveniente dalla scoperta non lo prova più, e che sottoposta ad una molteplicità di input tende necessariamente a scegliere quelli che esigono un minore investimento in termini di tempo e di impegno. A meno che …

A meno che non si abbia il coraggio di ammettere che in una campagna di questo tipo il grande spiegamento di mezzi finanziari e strumentali, la pubblicizzazione, la creazione di eventi, pur se necessari, non sono affatto decisivi. È invece indispensabile il ricorso ad una strategia sottile, che deve far perno su un fattore che sfugge ad ogni quantifìcazione: l’elemento umano. Per trasmettere una passione non è sufficiente la professionalità: questa è indispensabile per mettere a disposizione dei ragazzi le esche e il combustibile: ma la scintilla, se non si vuole sperare soltanto nell’autocombustione e nella tradizione domestica, deve essere accesa dalla voglia indotta negli studenti di emulare, di consonanza.

Ciò significa ipotizzare uno spazio ed una modalità di intervento diversi per gli insegnanti. Senza evocare scenari da libro “Cuore” (ma solo perché non si danno le condizioni oggettive, in quanto Cuore rimane un bellissimo libro), è possibile ad esempio immaginare outing, dichiarazioni motivate, arricchite dal coinvolgimento diretto degli allievi per il ricorso ai testi. Tanto meglio se le dichiarazioni d’amore per la lettura verranno da docenti non sospetti di tirare acqua al proprio mulino, non appartenenti agli ambiti disciplinari formalmente più coinvolti. E se verranno sostanziate dall’esemplificazione di quella fondamentale ricaduta sulla percezione del sé e degli altri, sul senso da dare alla propria esistenza, sui valori sui quali fondare le proprie relazioni con gli altri, sull’apertura di sconfinati orizzonti spaziali e temporali entro i quali muoversi che solo i veri lettori conoscono. Per quanto possa apparire un fattore troppo vago e liquido e imponderabile, rimane l’indispensabile prerequisito per tradurre un’azione dimostrativa in un intervento di una qualche efficacia.

Al di là delle tante strade che possono essere intraprese, ciò che veramente preme è che chi opera nella scuola abbia chiari la direzione e il fine. La direzione è quella di un approccio del tutto nuovo al problema, più coraggioso e realistico, libero dai vincoli di un ritualismo che serve solo a riempire moduli e produrre relazioni finali. Il fine è la reinvenzione per il libro e per la lettura di uno status che li collochi fuori delle mode effimere e li sottragga al confronto impari con i nuovi media. Leggere non può essere più o meno divertente che guardare la televisione o giocare con la play station: la lettura fa accedere ad una dimensione totalmente diversa, e proprio su questo occorre insistere. “Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri” ha scritto Sebastiano Vassalli. Va quindi promossa come “il” divertimento per antonomasia, che suppone e nel contempo deve tornare a garantire, come è stato per millenni, lo spazio in assoluto più idoneo per l’esercizio di una totale libertà.