di Paolo Repetto, 16 ottobre 2020
In un angolo dei giardini di Kensington, ad Hyde Park, poco lontano dalla statua dedicata a Peter Pan, c’è un monumento bruttissimo: una sorta di ara pacis in sedicesimo decorata nella parte anteriore da un altorilievo. L’ho visto per la prima volta più di cinquant’anni fa, ma allora non avevo affatto compreso a chi fosse dedicato (in realtà non ci provai nemmeno, perché in quell’occasione l’avevo scelto come riparo per sottrarmi alla vista dei vigilanti notturni del parco: non funzionò, avevano un maledettissimo cane). Ho scoperto solo molto tempo dopo che quell’insignificante parallelepipedo ricorda William Henry Hudson, e che la figura femminile alata del fregio, tutt’altro che leggera, quasi imprigionata nel marmo, dovrebbe rappresentare Rima, l’eroina di “Verdi dimore”.
Anche se avessi prestato maggiore attenzione mi sarebbe stato difficile riconoscerla, malgrado di Rima fossi già da tempo innamorato: lo ero infatti nella versione offertane al cinema da Audrey Hepburn. Il film omonimo era una vera pizza, credo rientri con merito tra i dieci più brutti mai realizzati, e per fortuna quando lo vidi avevo già il libro alle spalle, altrimenti quest’ultimo lo avrei saltato a piè pari: ma Audrey era riuscita a evocarmi l’idea di una ninfa dei boschi (avevo un debole per le ninfe), a dispetto persino di una inverosimile parrucca, e Rima sarà per sempre lei. Tutto comunque avrei immaginato ad eternare la memoria di Hudson, tranne un blocco squadrato di marmo (e mi fa specie che a volerlo sia stato un gruppo di amici suoi: per fortuna dai miei non mi aspetto nulla di simile).
W.H. Hudson non ha goduto di una grossa fortuna in Italia: è indubbiamente meno conosciuto di quanto meriterebbe, non fosse altro per la sua attualità come ecologista della prima ora, visto che non tutti, e io tra questi, possono apprezzare l’eccezionale fluidità e la felicità del suo inglese. Per quest’ultima dote era ammirato persino da Conrad (che scriveva: Quest’uomo è un prodotto della natura, scrive con la stessa facilità con cui l’erba cresce) e lodato da Borges, il che è tutto dire: ma anche a leggerlo in traduzione possiamo goderne l’elegante semplicità, che fa sì che le sue pagine sembrino scritte ieri. Come Conrad, del resto, non era un madrelingua anglosassone puro, ma arrivava da una triangolazione familiare piuttosto complessa, essendo figlio di inglesi trapiantati negli Stati Uniti e migrati poi in Argentina in cerca di miglior fortuna. Da bambino parlava prevalentemente lo spagnolo. In Inghilterra arrivò solo da adulto, e non cominciò a scrivere prima di aver acquisito il pieno possesso dell’idioma, senza inflessioni regionali. Ciò ne spiega la nitidezza.
Non mi addentro però nelle analisi letterarie né voglio raccontare la biografia di Hudson, che è senz’altro meno avventurosa di molte altre, ad esempio di quella di Waterton. Vorrei solo richiamare l’attenzione su alcune delle sue opere più significative, quelle che meglio testimoniano le infinite sfaccettature dei suoi interessi, per sottolineare la straordinaria modernità che caratterizzava il suo modo di pensare, e ne fa dunque un classico. Come tale, Hudson offre innumerevoli spunti per riflettere anche sul presente. La biografia verrà poi fuori più o meno direttamente dalle opere stesse, che tratterò non nell’ordine temporale della composizione, ma in una sequenza che rispecchia la storia personale dell’autore.
1. Un’infanzia nel Nordeste
Gli anni dell’infanzia Hudson li ha rievocati in Un mondo lontano (Far Away and Long Ago, 1920). Fu il suo ultimo libro, si decise a scriverlo solo molto tardi, già anziano, correndo consapevolmente il rischio di una narrazione mutila e frammentaria, eccessivamente condizionata dal filtro dalla nostalgia. Nella prefazione scrisse che “quando uno si sforza di richiamare alla mente la propria vita infantile nella sua completezza, si rende conto che non è possibile. Gli episodi, le persone, gli avvenimenti che con uno sforzo riusciamo a rievocare non si presentano in bell’ordine: anzi, non c’è alcun ordine, alcuna regolare successione e progressione”. A meno che, per un qualche motivo – nel suo caso una grave malattia che lo costrinse a letto un paio di mesi – la mente si sgombri totalmente degli altri pensieri (come se la foschia e le ombre delle nubi si fossero dileguate e tutto il vasto panorama mi apparisse in piena luce). Ebbene, Hudson ce l’ha fatta, il libro non è né una trita celebrazione dei bei tempi andati né una lacrimosa rievocazione dei propri anni più felici, ma diventa racconto di un mondo particolare, percepito e vissuto attraverso gli occhi di un ragazzo, come fosse in presa diretta. Gliene siamo grati, perché la narrazione è davvero avvincente.
Quello dell’infanzia libera e spensierata, vissuta in una immersione totale nella natura, è uno dei topoi più ricorrenti nella letteratura moderna, a partire da Paul et Virginie e da Rousseau su su fino ai piccoli selvaggi di Edgrard Rice Bourrougs e di Kipling; direi che è secondo per frequenza solo a quello dell’infanzia maltrattata e infelice, sul modello di Dickens e più ancora su quello di Gorkij. E proprio il confronto con l’Autobiografia di Gorkij può riuscire significativo.
Hudson visse i suoi primi venticinque anni nella Pampa argentina, verso la metà dell’Ottocento (era nato nel 1841): in un mondo cioè ancora selvaggio e violento, governato dalla legge primordiale dei gauchos e dai loro coltelli, nel quale le istituzioni erano pressoché inesistenti (non solo perché fisicamente remotissime, ma perché passavano di mano in mano da un mese all’altro). A rappresentare il potere erano di volta in volta le milizie delle diverse fazioni in lotta, che facevano saltuariamente la loro comparsa ma si comportavano né più né meno come le bande di disertori e di fuggiaschi, egualmente determinate a razziare le estancias e a fare bottino. Nella rievocazione di quel mondo non nasconde nulla della sua realtà spietata: assiste sin da bambino a scene di estrema violenza, incontra la povertà, si confronta con i pericoli. Ma vive tutte queste esperienze con naturalezza: sono i rischi di un paese nuovo, nel quale vale comunque per ciascuno, povero o ricco, il principio dell’assoluta libertà. Poi ci pensano la fortuna, le malattie, l’intraprendenza diversa dei singoli a costruire delle gerarchie. Quello che rimane in mente, quando si termina di leggere queste pagine, è il senso di una libertà totale e selvaggia, sterminata come la pampa, dove all’orizzonte non si scorgono nemmeno villaggi, ma solo fattorie isolate, lontane tra loro intere giornate a cavallo.
Dicevo che nel rileggere le pagine di Hudson non ho potuto fare a meno di pensare a Gorkij. Quest’ultimo ha vissuto la sua infanzia nella pianura russa, altrettanto sterminata ma coltivata e addomesticata da secoli, dove di libero e selvaggio c’era ben poco, mentre sui rapporti tra gli abitanti pesava l’ombra di una oppressione continua, e la violenza esplodeva incontrollata non appena sfuggiva al controllo di una violenza “superiore”, quella dell’autorità e dello stato. Le pagine dell’Autobiografia di Gorkij grondano costantemente di questo senso di oppressione, perché dovunque il protagonista scappi, da qualunque parte volga i suoi passi, trova sempre bene o male lo stesso clima. La pianura russa Gorkij la percorse tutta a piedi, quasi sempre fuggiasco, inseguito o guardato con sospetto, mentre Hudson a partire dai sei anni aveva cominciato a scorrazzare liberamente col suo pony. Questo sarebbe già sufficiente a spiegare, prescindendo dalle successive differenti vicissitudini e dai percorsi di vita intrapresi, la considerazione diametralmente opposta che i due maturarono dei loro simili, e in particolare del mondo contadino.
Nel caso di entrambi, comunque, al centro della narrazione non è l’infanzia in sé, ma ci sono i personaggi incontrati, gli animali, i paesaggi, le usanze, ormai appunto lontani, nel tempo come nello spazio. L’infanzia è solo il luogo mentale dal quale scaturiscono i ricordi, e naturalmente detta anche la scala delle percezioni: come Gorkij, in più di un caso Hudson sottolinea fortemente l’imponenza, l’altezza, la robustezza dei personaggi che hanno colpito la sua fantasia (e probabilmente nel suo caso agisce anche un meccanismo psicologico di proiezione, perché lui stesso era alto quasi due metri – ma anche Gorkij rimarca spesso e volentieri la propria prestanza fisica): il Capitano Scott era un uomo enorme, un gran sportivo; il viaggiatore che resuscita dall’annegamento era uno degli uomini più grossi che abbia mai visti: doveva pesare almeno cento chili; un’ora prima ci eravamo stupiti della sua corpulenza e della sua forza. Oppure: L’Alcalde era un uomo grosso, alto più di un metro e ottanta. È lo sguardo tipico di un bambino, dal basso verso l’alto. Hudson evidentemente non lo ha mai perso, mentre Gorkij non ha mai potuto essere solo un bambino.
Quanto all’ambiente, Hudson non è un ecologista della domenica, non scopre un mondo delle meraviglie nel quale aggirarsi a bocca aperta come un turista, accettandone acriticamente ogni aspetto e convertendosi magari all’integralismo più stolido: per lui vale piuttosto il processo contrario. Quella dimensione la assorbe col latte materno, c’è dentro, per anni conoscerà solo quella: comincerà semmai a viverla in maniera diversa proprio per via del distacco da essa che ad un certo punto gli è imposto, ma trasferirà la sensibilità educata dalla pampa anche ad altri luoghi. Un suo recensore e amico, Edward Garnett, sintetizza perfettamente questo rapporto: “Si potrebbe dire che fino a sedici anni Hudson si è riempito gli occhi e il cuore della natura: dopo ha cominciato forzatamente a riflettere su ciò che aveva visto e andava vedendo, e a trasmettere queste cose al cervello, a ricomporle in un grande quadro di bellezza e di armonia, rendendosi conto anche di quanto delicato e fragile fosse questo quadro”.
Hudson differisce anche dagli altri grandi naturalisti, come Humboldt ad esempio, o Linneo, o lo stesso Darwin, che per quanto appassionati vivono la natura prima con la testa che col sangue, con uno sguardo che pur se partecipe procede comunque dall’esterno. Per questo non sarà mai un grande classificatore, uno scienziato della natura, ma uno che la natura prima ancora che osservarla la vive, e sa che le classificazioni sono solo una convenzione conoscitiva nostra, che con la natura ha poco a che vedere. (Per capire comunque la sua attitudine verso il mondo naturale basta leggere le pagine dedicate ai serpenti ne Il libro di un naturalista. Oppure dichiarazioni come questa: “Provo un sentimento d’amicizia verso i maiali in generale, e li considero tra le bestie più intelligenti. Mi piacciono il temperamento e l’atteggiamento del maiale verso le altre creature, soprattutto l’uomo. Non è sospettoso o timidamente sottomesso, come i cavalli, i bovini e le pecore; né impudente e strafottente come la capra; non è ostile come l’oca, né condiscendente come il gatto; e neppure un parassita adulatorio come il cane. Il maiale ci osserva da una posizione totalmente diversa, una specie di punto di vista democratico, come se fossimo concittadini e fratelli; dà per scontato che capiamo il suo linguaggio, e, senza servilismo o insolenza, ci dimostra un cameratismo spontaneo e amabile, o un’aria cordiale”.)
Anche in questo caso si rivela interessante il confronto con Gorkij. Dell’interesse di quest’ultimo per la natura c’è in effetti ben poco da dire. Ne conosce quasi solo gli aspetti più ostili, i campi che attraversa sono irrigati dal sudore dei contadini, le foreste, le poche sopravvissute, sono riserve di materiali ed energia, i fiumi, quando non canalizzati per i trasporti, sono solo ostacoli. Del maiale parla soltanto per raccontarne il cruento rito della macellazione. Non meraviglia dunque che inneggi alla tecnica come strumento da un lato di dominio, per assoggettare la natura, dall’altro di emancipazione, per sottrarle l’enorme massa di coloro che ne sono ancora schiavi, “servi della gleba” appunto, nella accezione più letterale dell’espressione. Ogni aspetto della natura, compresa quella umana, è per lui materia informe e disordinata, che ai fini della costruzione dell’uomo nuovo va addomesticata e rieducata. Niente di più lontano dall’immagine del gaucho e dello spazio libero e selvaggio nel quale questi si muove.
2. Rosse pianure …
Un mondo lontano non è solo l’ultima prova narrativa di Hudson. A mio parere è anche la migliore. Ma Guillermo Enrique, divenuto ormai William Henry, aveva a quel punto già alle spalle una intensa, anche se piuttosto tardiva e non molto fortunata, carriera di narratore. Aveva esordito nel 1885, ultraquarantenne, con La terra di porpora (The Purple Land). Anni dopo Borges avrebbe definito questo romanzo un capolavoro, (“uno dei pochissimi libri felici che ci siano al mondo”), esagerando non poco, ma all’epoca la sua uscita non aveva suscitato alcun interesse. Se Un mondo lontano è il romanzo dell’infanzia e dell’adolescenza, La terra di porpora può essere considerato quello di formazione, dell’educazione politica e sentimentale. In termini molto generici anche questa può essere considerata un’opera autobiografica, perché Hudson, a dispetto di una grave malattia reumatica contratta a sedici anni, che lo rese parzialmente invalido per il resto della sua esistenza, continuò per oltre un decennio a viaggiare, quasi sempre da solo, lungo mezzo continente, dalla Patagonia alle foreste equatoriali, e proseguì nelle sue peregrinazioni anche dopo il trasferimento in Inghilterra.
Anche La terra di porpora è ambientato nella Pampa, e in particolare nella regione conosciuta sino alla metà del diciannovesimo secolo come Banda Orientale, corrispondente all’odierno Uruguay. L’area era dilaniata all’epoca da continue guerre civili, alimentate dalla contesa tra i due grandi e scomodi vicini (sono le lotte che vedono la partecipazione attiva di Garibaldi, e la terra è “rossa” anche e soprattutto del sangue su di essa versato).
Il protagonista è un giovane inglese, Richard Lamb (cognome con ascendenze letterarie esplicite, paradossalmente preso a prestito da un autore che incarnava l’esatto opposto della personalità dell’avventuriero). In teoria Richard cerca lavoro, per sistemarsi con la giovane che ha sposato dopo una fuga-rapimento dalla casa di lei: in realtà è un’anima irrequieta a caccia di avventure, anche sentimentali. Lo si potrebbe definire un incrocio tra i picari spagnoli e i vagabondi romantici. Hudson gli presta tutti i propri sogni e persino i propri tratti fisici (lui stesso era un bellissimo uomo, assai consapevole del fascino che esercitava sull’altro sesso), attribuendogli in più una salute di ferro e una disarmante spensieratezza giovanile (quelle di cui avrebbe voluto godere, ma che gli erano state sottratte dalla malattia): caratteristiche che lo fanno passare quasi indenne da una disavventura all’altra e cadere comunque sempre in piedi. Richard Lamb è uno che ama sinceramente la vita, in ogni suo aspetto, ed è quindi disponibile ad accettarne senza eccessi di entusiasmo e senza troppe recriminazioni tanto i doni che le sconfitte. Chi volesse cercare in lui le grandi passioni ideologiche o esistenziali dei suoi contemporanei russi, i tormenti o le epiche lotte alla Knut Hamsun, rimarrebbe deluso. La storia, per esplicita ammissione dell’autore, che parla a più riprese di una “moderna Troia”, è raccontata sulla falsariga dell’Odissea. Durante il viaggio verso una lontanissima estancia, nella quale si reca a cercare inutilmente lavoro, e soprattutto poi sulla via del ritorno, Richard incorre in una serie di peripezie degne di quelle di Ulisse e ad esse chiaramente ispirate. È coinvolto in duelli rusticani coi gauchos, aggredito da cani feroci, accolto da famiglie indigene povere ma ospitali, si imbatte in una colonia di suoi connazionali completamente alcolizzati, spezza il cuore di più di una giovinetta e sfugge a stento dalle grinfie di navigate matrone, finisce in carcere e poi si arruola e combatte in una milizia rivoluzionaria: insomma, sembra cercarle tutte per ritardare il ricongiungimento con la sua Penelope (e soprattutto col suo implacabile genitore).
A suo modo Borges aveva ragione: La terra di porpora è un libro “felice”, e non stupisce che possano esserlo anche i suoi lettori, se riescono a condividere la spensieratezza del protagonista. Se volessimo necessariamente ascriverlo ad un genere, potrebbe essere considerato un western di buona levatura, che al netto di qualche tributo al tardo romanticismo ha nulla da invidiare ai romanzi di Cormac Mc Carty. E comunque non so decidermi se considerare il suo eroe un epigono o un anticipatore: sembra uno di quei personaggi che riescono ad essere in sintonia con ogni epoca proprio perché non appartengono a nessuna. Nella sua leggerezza, che a volte sembra persino superficialità, Richard Lamb è un uomo libero: non cerca la libertà nelle terre selvagge (tipo Balla coi lupi o Into the wild), ma se la porta addosso, ovunque vada e si trovi. E in questo senso è un contemporaneo di ogni epoca, ma è anche sempre uno straniero. Il che mi fa correre subito la mente all’attitudine mentale di due categorie umane che da sempre mi affascinano, l’anarchico e l’ebreo, sulle quali sono tornato sovente e che tendo volentieri a sovrapporre.
Lo sfondo sul quale si dipanano le avventure di Lamb è una esaltazione della semplicità e del frugale benessere che caratterizzano la vita rurale del Sud America; e diventa implicitamente una critica del modello di civiltà dell’Occidente “evoluto” e industrializzato. Le vicende militari, i disordini che turbano questa serenità di fondo sono imputabili proprio alla penetrazione di questo modello. Hudson manterrà inalterata sino all’ultimo la sua simpatia per quei popoli che conservano (o meglio, conservavano ancora all’epoca sua) la capacità di rapportarsi alla natura in maniera spontanea e aperta, accettandone tutte le contraddizioni, il bene e il male. Al contrario, la domesticazione, il controllo sempre più intrusivo che l’uomo tende a esercitare sul mondo, sui suoi simili e prima ancora su se stesso, è all’origine di ogni tragedia e sofferenza.
3. … e verdi foreste
La fama, o almeno, un certo successo, arrise a Hudson solo con un romanzo molto più tardo, Verdi dimore (Green Mansions, 1904), quello appunto dove compare Rima. Siamo ancora una volta nell’America Meridionale, ma cambiano decisamente gli scenari. Dalla Pampa bruciata dal sole e dal vento la vicenda si trasferisce nelle foreste lussureggianti della Guyana. La narrazione parte al solito da un’esperienza diretta, perché la jungla amazonica Hudson l’ha davvero conosciuta nelle peregrinazioni di gioventù.
Questa volta il protagonista è un giovane venezuelano, Abel Guavez de Argensola, costretto a seguito di una rivoluzione e dopo aver visto assassinare il padre a rifugiarsi nella foresta a sud dell’Orinoco. Riesce a farsi accogliere da una tribù indigena, che lo considera una sorta di stregone, e si mette in cerca dell’oro che dovrebbe consentirgli di tornare a Caracas e prendersi la sua vendetta. Durante uno spostamento viene però morso da un serpente velenoso ed è salvato solo dall’intervento di una misteriosa e bellissima fanciulla, che si esprime in un linguaggio simile al canto degli uccelli e ha un rapporto “musicale” sia col mondo animale che con quello vegetale. La ragazza è appunto Rima, unica superstite di una razza scomparsa, personificazione dell’innocenza originaria e della natura incontaminata. Naturalmente Abel se ne innamora all’istante, e la segue sino al suo rifugio, le Verdi Dimore, dove la ragazza vive con un anziano che parrebbe essere suo nonno.
C’è però un problema, perché gli indigeni considerano Rima l’incarnazione di uno spirito maligno, e chiedono ad Abel di ucciderla. Il giovane rifiuta, e accompagna invece la fanciulla nella ricerca del luogo in cui risiedeva un tempo il suo popolo. A questo punto il colpo di scena: il vecchio, che si chiama Nuflo, confessa di essere uno dei banditi che anni prima avevano assaltato il villaggio di Rima, e di aver portato via la bimba per sottrarla al massacro compiuto dai suoi compagni. Dopo di che fugge per tornare a Verdi Dimore, dove ha nascosto un notevole quantitativo di oro. Rima lo segue, viene scoperta dagli indigeni, si rifugia su un albero al quale questi appiccano il fuoco, e muore nel rogo. Abel, sopraggiunto in ritardo, non può che constatarne la morte, anche se una sorta di visione gli fa capire che lo spirito di Rima non lo abbandonerà mai.
Ho voluto raccontare la trama di questo romanzo, sia pure per sommi capi, per sottolineare come non sia certo stata l’originalità della vicenda a decretarne il successo. Questo è legato semmai alla capacità di Hudson di creare atmosfere piene di fascino e di mistero servendosi dei semplici ingredienti offerti dalla natura, sia pure da una natura lussureggiante. Hudson in effetti non ha avuto bisogno di inventare effetti speciali: gli è bastato miscelare nella maniera giusta quelli naturali per tenere il lettore sospeso costantemente in una dimensione incantata. Tutto ciò che dice delle piante e degli animali, delle proprietà delle prime e dei comportamenti dei secondi, è scientificamente esatto, ma viene proposto in una chiave che fa apparire quelle proprietà e quei comportamenti quasi magici. Non è solo un effetto ottico: dietro c’è la concezione della natura “sentita” dall’interno anziché osservata dall’esterno. Proprio in Verdi dimore parla della “opaca, plumbea maschera della mera curiosità intellettuale”, alla quale contrappone “il sentimento della infinita, misteriosa bellezza della natura nella sua vitalità selvaggia”. A parte il “selvaggia”, che al nostro poeta non sarebbe piaciuto, sembra di sentir parlare Pascoli. E varrebbe la pena confrontare la sinfonia che Rima riesce a suonare con le fronde degli alberi con quella orchestrata da D’Annunzio ne “La pioggia nel pineto”, per rendersi conto di quale delle due davvero nasca da una comunione intima con la natura.
Credo che Verdi dimore abbia i requisiti per soddisfare ancora oggi molti palati; ma non sono affatto convinto che il libro venga apprezzato correttamente. Non ci sono più le condizioni per farlo, il nostro rapporto con la natura si è invertito, quelli che per Hudson erano ancora spazi sconfinati, alle cui leggi si doveva sottostare, per noi sono ormai delle aree addomesticate, delimitate, regolamentate. E quel che sfugge alla salvaguardia artificiosa, di selvaggio ospita ormai solo lo sfruttamento e lo scempio. Ma, soprattutto, una sensibilità (quando c’è) educata secondo i dettami e le pseudo-filosofie della new age, che pure ha fatto di quest’opera un libro di culto, non può coglierne che gli aspetti più superficialmente “di tendenza”, e piegarli alle proprie fisime naturistiche. Per Hudson comunicare con gli uccelli o vivere di bacche e frutta rientrava in una quotidianità che semplicemente si adattava all’ambiente, senza alcuna forzatura ideologica o religiosa o salutista. Nasceva da qualcosa che a noi oggi manca totalmente: la naturalezza.
Non è un comunque caso che, a differenza di quanto avviene nelle opere precedenti, la vicenda sia ambientata questa volta in un luogo di fantasia, pur conservando nei dettagli le caratteristiche naturali. Verdi Dimore è in fondo un paradiso perduto, un eden violato, e più che un altro luogo rappresenta un altro tempo. Persino gli indigeni della foresta non sono più in grado di accettare il rapporto totale e pacifico con la natura che Rima invece conserva. Sono anch’essi contaminati; le loro superstizioni, le credenze magiche, il terrore del male sono solo il primo passo che li allontana dalla natura e li avvicina alla “civiltà”. E Abel, come tutti gli esploratori, come tutti gli intrusi in un mondo che credono di amare ma che in realtà sfugge alla loro comprensione, è suo malgrado il detonatore che farà esplodere la tragedia.
4. Anime cristalline
La storia del viaggiatore, profugo o esploratore, che si innamora di una bella ragazza appartenente ad un mondo non suo, misterioso, era già stata anticipata da Hudson in un altro romanzo. Ne L’era di cristallo (A Cristal Age), uscito anonimo in una prima edizione nel 1887 e ripubblicato col nome dell’autore solo vent’anni dopo, viene raccontato attraverso una metafora tra l’utopistico e il fantascientifico l’impatto dell’autore con la “civiltà” occidentale, segnatamente con il mondo anglosassone dell’età vittoriana. E su quest’opera vorrei soffermarmi un po’ più diffusamente, perché è forse la meno conosciuta tra quelle di Hudson, ma non per questo la meno significativa.
Prima di tutto la vicenda. A narrare in prima persona è Mr Smith, naturalista dilettante, del quale in realtà sappiamo poco o nulla, che si risveglia, presumibilmente dopo essere stato investito da una frana durante un’escursione, sotto un cumulo di pietre e terra, in mezzo a radici che lo hanno quasi imprigionato. Non sa darsi altra spiegazione se non che dal momento in cui gli è occorso l’incidente sia trascorso molto tempo. Quando riesce a liberarsi e a mettersi in cammino non riconosce i luoghi, gli mancano tutti i consueti riferimenti, città, villaggi e campanili; inoltre il fiume che attraversa la valle è limpido e la campagna appare lussureggiante e incontaminata, spettacolo tutt’altro che usuale nell’Inghilterra della seconda rivoluzione industriale; e quando incontra i primi umani, incolonnati in processione per un funerale, si accorge che anch’essi sembrano cambiati in modo radicale, già a partire dall’abbigliamento. È colpito in particolare dalla loro eccezionale bellezza fisica, dall’armoniosità dei loro corpi, così come in seguito, conoscendoli meglio, sarà affascinato dalla loro “cristallina purezza di cuore”, dal fatto che appaiono sempre sereni e rilassati.
Smith realizza a questo punto di essere stato catapultato in un lontano futuro, e che nel frattempo deve essersi verificato nel mondo qualche apocalittico stravolgimento. Dal maestoso vecchio dalla barba candida che guida la processione apprende ad esempio che l’intera umanità è ora organizzata non più in nazioni e imperi, dei quali è scomparso anche il ricordo, ma in svariate case comuni, lontane e indipendenti l’una dall’altra, ciascuna guidata da un “Padre” e da una “Madre”, con nessuna altra forma di struttura sociale. Queste colonie vivono di una agricoltura praticata con metodi arcaici ma in perfetta armonia coi cicli naturali. L’unica tecnologia di cui i coloni dispongono è un sistema di globi di ottone che produce una sorta di musica d’atmosfera. Insomma, tutte le sue conoscenze e le sue abitudini di pensiero sono messe in discussione. Il concetto stesso di città, ad esempio, è assolutamente estraneo agli abitanti di questo mondo, è per loro inconcepibile.
“Quindi che cosa intende per città? – domandò il vecchio
– Che significa? Una città, secondo come la intendo io, non è altro che un gruppo di case: centinaia e migliaia, o centinaia di migliaia, molto vicine le une alle altre, dove si può vivere comodamente durante anni senza vedere mai l’ombra di un filo d’erba.
– Temo – rispose il vecchio – che l’incidente che ha sofferto in montagna le abbia causato qualche danno al cervello, perché in caso contrario non riesco a spiegarmi le sue strane fantasie.
– Signore, mi sta dicendo davvero che non ha mai udito parlare dell’esistenza di una città, dove vivono ammucchiati migliaia di esseri umani in un piccolo spazio?”
Il vecchio non riesce nemmeno ad immaginare una cosa del genere. Queste persone sembrano avere volutamente rimosso i concetti più basilari della società da cui il narratore proviene. Invitato a visitare la Casa, si rende conto che se la lingua parlata è rimasta l’inglese, il sistema di scrittura è cambiato a tal punto che egli non è più in grado di leggerla. E inoltre, quando cerca di far notare questa continuità ai suoi ospiti, costoro non capiscono a cosa si riferisca: gli rispondono che parlano “il linguaggio degli esseri umani – Questo è tutto”.
Nella comunità tutti sono vegetariani, e intrattengono un rapporto di pacifica simbiosi con gli animali e con l’ambiente, e di rispetto reciproco. Ma anche questo rapporto è stato ricondotto alla sua essenziale naturalezza. Rivolgendosi ad un cane che sembra volerlo confortare in un momento di smarrimento, ma con la sola presenza, senza smancerie, Smith dice: “E insieme alla nobiltà canina dei vecchi tempi (si riferisce ai cani specializzati nella caccia), che fine hanno fatto … quelli più degenerati di tutti, i cani da salotto e i loro vari simili … Nessuno dice di te che ti manca solo la parola, mio gentile tutore. Adesso il culto dei cani, con tutte quelle escrescenze di fanatismo che prosperavano sopra il ceppo umido e putrido dell’intelletto umano, è avvizzito progressivamente sino a scomparire, senza lasciare traccia alcuna”. Nel mondo dei cristalliti ognuno e ogni cosa sta al suo posto, ed è quello destinato dalla natura, non quello arbitrariamente assegnato dagli uomini.
Trattandosi comunque di una comunità di umani, e non di spiriti perfetti, esistono al suo interno regole di convivenza rigorose, e la menzogna è considerata un reato gravissimo, punito con l’isolamento. La scoperta più strabiliante è però che tutti appaiono molto più giovani rispetto alla loro età reale, come avessero finalmente trovato l’elisir di lunga vita. Il vegliardo, ad esempio, che altri non è che il Padre della Casa, ha quasi duecento anni.
Nel frattempo, anzi, dal primo momento in cui l’ha vista nella processione funebre, Smith si è innamorato di una bellissima ragazza, Yoletta, (la quale naturalmente ha più del doppio dei quattordici anni che dimostra). Ne è sconvolto, tanto la passione è immediata e travolgente. Senza pensarci troppo su chiede dunque di rimanere in prova per un anno presso la comunità, ed è accettato. Dovrà adattarsi a uno stile di vita completamente nuovo, cosa che lo espone naturalmente a continui errori e incomprensioni, ma in nome del sentimento per Yoletta è disposto a tutto.
Non tarda però ad avvertire che qualcosa non quadra. Nella grande Casa non ci sono bambini, e dalla cultura e dalla sensibilità dei suoi abitanti è assente ogni tratto di romanticismo, ogni riferimento alla sessualità. La stessa Yoletta parla con lui di amore, ma in termini generici e neutri, senza mostrare alcuna passione. Scopre allora che la casa funziona come un grande alveare, nel quale la funzione riproduttiva è riservata al Padre e alla Madre, mentre tutti gli altri vivono in comunità, come fratelli, e in astinenza sessuale. Per Smith è una vera mazzata, perché ciò significa che il suo passionale amore per Yoletta è destinato a rimanere inappagato: e davanti a questa prospettiva, disperato, nel tentativo di liberarsi dal suo desiderio ingerendo un farmaco misterioso finisce involontariamente per suicidarsi.
Ironia della sorte, a sua insaputa proprio lui e la donna che amava erano stati prescelti per diventare i nuovi Padre e Madre della Casa. Non solo: Smith non ha capito che Yoletta cominciava a nutrire per lui qualcosa di sempre più somigliante a una passione romantica. Quando lei glielo confessa non è nemmeno più in grado di risponderle, perché l’irrigidimento della morte ha ormai paralizzato il suo corpo. Siamo in Inghilterra, non in America, e non è tassativo il lieto fine.
Non pretendo che da questa sbrigativa sintesi si capisca granché, ma la storia è in effetti tutta qui. Anche in questo caso chi ha letto il romanzo in inglese assicura che il linguaggio usato, soprattutto nelle descrizioni degli ambienti e dei paesaggi, è superbo, ed evoca atmosfere languidamente nostalgiche, in perfetto stile pre-raffaellita. Ma al di là di questo non siamo certamente di fronte ad un capolavoro, nemmeno Borges avrebbe osato definirlo tale. E tuttavia, ripeto, si tratta di un libro estremamente originale e significativo, per più motivi.
Intanto perché non è il parto isolato di un cervello stravagante. Rientra in una grande ondata di letteratura utopica (e distopica) che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tanto in Inghilterra che negli Stati Uniti e, sia pure in misura minore, anche in Francia. L’età di cristallo vi si inserisce però con una sua spiccata originalità, e questo è il vero motivo di interesse.
5. Quando ancora esisteva il futuro
La generazione di Hudson ha prodotto, come dicevo, una fioritura eccezionale di utopie letterarie. Quelle citate nelle storie della fantascienza o della letteratura utopica si contano a decine. Nella quantità trovano naturalmente posto le tendenze e le visioni più svariate, perché a monte stanno motivazioni spesso diametralmente opposte, che vanno della fiducia positivistica nel progresso tecnologico fino al suo rifiuto e alla denuncia degli sconquassi ambientali e morali da esso causati. C’è anche, e direi soprattutto, lo sconcerto provocato dalla rivoluzione darwiniana: l’ottimismo illuministico sulla perfettibilità ed eccezionalità umana, che era a fondamento di quasi tutte le utopie settecentesche, vacilla. Allo stesso modo vengono rimessi in discussione il discorso sulle razze e anche l’antica presunzione che riservava all’uomo un posto speciale nella natura. Tutto l’edificio concettuale sul quale la cultura occidentale si era retta almeno dai tempi di Aristotele si sgretola.
Queste motivazioni sono poi declinate con esiti molto diversi, a seconda che vengano a sostanziarsi di istanze sociali (e quindi siano interpretate in chiave marxista, socialista o anarchica) o si colleghino ad un rinascente spiritualismo, incontrino le prime rivendicazioni femministe, con la prospettiva di uno sconvolgimento dei ruoli di genere, o si limitino ad una più generica critica del razionalismo scientifico e del perbenismo borghese. Rimane il fatto che a cavallo tra i due secoli l’idea di un rivolgimento prossimo venturo appare egualmente condivisa (e, a seconda dei casi, caldeggiata o temuta) a destra e a sinistra, ciò che spiega anche il clima di irrazionale entusiasmo col quale si andrà incontro al primo conflitto mondiale, persino da parte dei socialisti e di qualche anarchico. Questo clima è alimentato da una classe intellettuale irrequieta e insoddisfatta, che vede nella guerra il trauma necessario per dare uno scossone a strutture di potere sclerotiche e anacronistiche o per produrre una “purificazione degli animi”. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta degli effetti che la letteratura utopica mira ad anticipare.
Di come poi la trasformazione in atto potesse essere diversamente interpretata ho già scritto a proposito dell’opera di Robida e di quella di Verne (cfr. Futuro anteriore): ma qui vale la pena ampliare un po’ il panorama, allargandolo alla cultura anglosassone. Devo quindi aprire una digressione, per accennare alle opere più significative in questo contesto, quelle che consentono di inquadrare il romanzo di Hudson nel panorama. Magari cercando di non tirarla troppo per le lunghe.
La narrativa utopica tardo vittoriana ha i suoi precursori. Un ruolo di primo piano in questo senso lo riveste Edward Bulwer Lytton, autore poliedrico, famoso all’epoca per bestseller come Gli ultimi giorni di Pompei e Zanoni. In un romanzo della tarda maturità, La razza ventura (The Coming Race, 1871), narra di un popolo (gli Ana) dotato di uno straordinario potere – il vril, una forza interiore capace di controllare gli istinti animali e trasformarli in energia positiva –, che abita il sottosuolo terrestre (la Terra Cava), si avvale di una conoscenza scientifica e di una tecnologia avanzatissime (può ad esempio curare qualsiasi malattia e animare gli oggetti, creando degli automi) e appare destinato in futuro a dominare la terra. Più che di una utopia si può parlare in realtà di una distopia, perché a dispetto della giustizia, dell’ordine, dell’assenza di contrasti e dell’assoluta uguaglianza di diritti tra uomini e donne che caratterizzano la loro società, rimane il fatto che gli Ana progettano di tornare un giorno in superfice e di sterminare gli umani. Il libro è francamente un gran polpettone, ma il suo successo ha motivato un sacco di epigoni, e ha senz’altro esercitato una nefasta influenza, soprattutto agli inizi del secolo scorso, su menti facilmente suggestionabili (non ultimo, Hitler). Nella temperie irrazionalistica che caratterizza l’inizio del terzo millennio è tornato a fungere da riferimento per le teorie più strampalate, e viene saccheggiato da ufologi, complottisti, terracavisti, neo-nazisti, da tutta quella costellazione di spostati che è uscita allo scoperto con i lasciapassare forniti dalla postmodernità.
Un altro antesignano, che viaggia però in una direzione per me decisamente più interessante, è Samuel Butler. In Erewhon (1872) immagina un mondo dal quale sono state eliminate non solo tutte le macchine, compresi gli orologi, compiendo un salto indietro di almeno due secoli, ma anche tutte le ipocrisie delle convenzioni sociali. Butler aveva trascorso diversi anni in Nuova Zelanda, dove faceva l’allevatore di pecore, e per ambientare la sua storia sceglie appunto il paesaggio neozelandese, che non a caso ha fornito gli scenari per la trilogia cinematografica de Il signore degli anelli. Erewhon è il palindromo di Nowhere (la Nuova Zelanda sta giusto agli antipodi dell’Inghilterra), e i suoi abitanti vivono in una sorta di mondo alla rovescia, nel quale tuttavia non è tutto oro, perché vi regna un poco sensato conformismo dell’anticonvenzionale. Ad esempio, i malati vengono trattati come criminali e i criminali come malati. L’intento di Butler è naturalmente satirico: tutto l’insieme dei costumi, delle leggi e dei comportamenti degli erewoniani viaggia sul registro della bizzarria, ma al tempo stesso porta allo scoperto quanto siano ipocritamente bizzarri quelli da noi adottati.
Più che a scrivere una storia Butler pare intenzionato a creare una cornice nella quale inserire diversi piccoli saggi (magistrali i tre capitoli che compongono Il libro delle macchine), nei quali i rapporti sociali e i comportamenti individuali vengono esplorati alla luce della teoria darwiniana, ma sempre con uno spiccato e ironico distacco. I riscontri odierni alle sue anticipazioni sono comunque notevoli. La rivolta contro le macchine è stata innescata dalla profezia di un filosofo per il quale “alla fine le macchine avrebbero soppiantato il genere umano, e noi, rispetto ad esse, non saremmo stati considerati molto di più di quanto le bestie dei campi lo siano da noi”. In effetti, ci stiamo arrivando. Oppure il fatto, che trova un singolare riferimento nella nostra attualità, che gli erewoniani non erigono monumenti né scrivono epigrafi per i loro morti. L’usanza, un tempo diffusissima, è caduta in disuso “con grande gioia di tutti, per le statue degli uomini illustri, che in tutta la capitale oggi non sono più di due o tre”.
Queste due opere escono tra l’altro quando in Francia Verne ha già pubblicato una decina dei suoi Viaggi straordinari e ha scritto Parigi nel XX secolo (1863, ma sarà pubblicato solo centotrenta anni dopo). Per non parlare di quel che accade nella scienza e nel pensiero politico. Il terreno per la coltivazione di nuove utopie è ampiamente dissodato.
Nell’ultimo ventennio del XIX secolo, infatti, le anticipazioni visionarie si succedono a raffica, dando vita a diversi filoni. Il modello che potremmo definire “apocalittico”, perché ipotizza che una catastrofe sconvolga ad un certo punto la civiltà occidentale, ha il suo capostipite in Richard Jeffries, un eccentrico naturalista e vagabondo. Nel 1885 Jeffries pubblica Dove un tempo era Londra (After London), la cui vicenda si svolge in uno scenario da film post-atomico e dove si prospetta per l’umanità, colpevole dei peggiori crimini contro la natura, un forzato ritorno a regimi e modi di vita medioevali. Le città inglesi sono invase dai ratti, gli animali domestici si sono rinselvatichiti, le foreste hanno riguadagnato la campagna e pullulano di selvaggi feroci. I discendenti degli “antichi” vivono in insediamenti isolati attorno a un grande lago interno, ma dell’antica civiltà rimane ben poco: “Ci sono pochi libri e ancora meno persone in grado di leggerli; e i libri sono tutti manoscritti, perché non viene più praticata l’arte della stampa, visto che nessuno vuole più leggere”.
Il protagonista, Sir Felix Aquila, sopravvissuto ai miasmi mortiferi che emanano dal terreno e dalle paludi, scopre alla fine un luogo incontaminato e idilliaco e decide di creare in esso la sua utopia feudale. Non ci è detto quale sarà l’esito della sua iniziativa, ma almeno è lasciato uno spiraglio alla speranza.
Jeffries trova un ammiratore e un prosecutore decisamente meno pessimista in William Morris, autore di Notizie da nessun luogo (News from Nowhere, 1890), nel quale profeticamente immagina che in un futuro non troppo remoto la società consumista, basata sul mito della crescita illimitata, governata dalla ragione economica e improntata ad una assurda omogeneizzazione del mondo, arrivi al collasso. Il crollo di un sistema di questo tipo aprirà la strada ad una organizzazione sociale basata sul collettivismo e sul controllo democratico dei mezzi di produzione, nella quale non esisteranno più la proprietà privata e la divisione in classi. Il mondo nuovo praticherà un’economia agraria e artigianale, recuperando per tutti il piacere di godere della bellezza di una campagna rigogliosa, ripulita dalle scorie, dai fumi e dagli egoismi della società del profitto. (Morris meriterebbe però un discorso a parte, ben più ampio, e non è detto che in futuro non ci torni su)
A Crystal Age rientra in questo filone narrativo. È ancor più specificamente un’utopia del ritorno alle origini, ad un’esistenza comunitaria in perfetto accordo con la natura – una natura le cui leggi non sono evidentemente quelle rivelate da Darwin – e, soprattutto, un’utopia anti-urbana (è stata definita anche “utopia pastorale”). A Jeffries lo apparenta, oltre che l’odio per la città, l’idea del passaggio traumatico, del crollo rovinoso del modello produttivo capitalistico e industriale (“Nella loro follia gli uomini speravano di ottenere dalla conoscenza l’assoluto dominio sulla natura … Ma … C’è stato un rogo possente, come quelli del Savonarola. Molte delle cose che per noi erano del massimo valore sono state consumate a cenere: la politica, la religione, le dottrine filosofiche, insieme agli ismi e alle ologie di ogni sorta. Scomparse anche le scuole, le case, le prigioni, gli ospizi di mendicità, gli stimolanti e il tabacco; i monarchi e i parlamentari; i cannoni col loro rombo che seminava morte e i pianoforti che rumoreggiavano pacificamente. La storia e la stampa, il vizio e l’economia politica, il denaro e innumerevoli altre cose ancora, tutte consumate dal fuoco purificatore, come se fossero stoppie ed erbacce prive di valore”.); a Morris la convinzione che solo una rivoluzione “estetica”, un recupero del sentimento della bellezza possa cambiare il mondo.
Non tutti i profeti dell’apocalisse condividono però la speranza – nel caso di Morris, la fiducia – in una rigenerazione dell’umanità e in una sua conversione a perseguire la bellezza. Mattew Phipps Shiel, ad esempio, con La nube purpurea (The Purple Cloud, 1901), chiude idealmente all’alba del nuovo secolo la stagione utopica con una visione decisamente pessimista. Il protagonista, che per primo raggiunge il polo nord, ultima tappa della conquista e del dominio sulla terra, provoca indirettamente la fuoruscita di una strana nube di porpora che uccide tutti gli umani (ma non lui). A lui non resta che compiere l’opera, incendiando nel suo peregrinare le grandi città che incontra: Londra, Parigi, Istanbul.
La maggior parte degli scrittori utopistici della generazione di Hudson (e, nella fattispecie, di quelli americani) viaggia invece in direzione opposta, e pone l’enfasi sul progresso tecnologico come garanzia di un futuro migliore. Sono i banditori di una utopia tecnologico-economicistica, più o meno vagamente socialisteggiante, e alla loro testa c’è senza dubbio Edward Bellamy, con Guardando indietro 2000-1887 (Looking Backward, 1888). Il libro di Bellamy, dove si parla di industria nazionalizzata, distribuzione equa dei profitti, orari di lavoro ridotti, pensione a quarantacinque anni, carte di credito, raccolta differenziata, cooperative di consumo, incontra un successo incredibile (ne possiedo una traduzione italiana edita da Treves nel 1891, ed è già la quinta edizione). Vende in America quasi quanto La capanna dello zio Tom, suscita reazioni discordanti (anche in Italia, dove Paolo Mantegazza scrive Nell’anno 3000 – Sogno, 1897, facendogli il verso) e uno stuolo di imitatori, e crea un vero e proprio movimento di opinione.
Le idee di Bellamy vengono in parte riprese, ad esempio, da King Camp Gillette (proprio lui, l’inventore del primo rasoio di sicurezza) che in The Human Drift (1894, mai tradotto in italiano) vagheggia un’utopia social-metropolitana. Metropolis è il nome che dà alla città immaginata, un gigantesco agglomerato urbano da sessanta milioni di abitanti, costruito tutto in acciaio e vetro, percorso da strade sopraelevate (sulle quali viaggiano solo i mezzi pubblici e le biciclette), e nel quale non circola moneta (anche Bellamy fonda tutto sulle carte di credito), che ricava tutta l’energia necessaria dallo sfruttamento delle risorse idriche (le cascate del Niagara). Un incubo che si va reificando più rapidamente forse di quanto sperasse chi lo ha concepito.
Questa fiducia nel progresso trova comunque l’espressione più compiuta in Una Utopia Moderna (A Modern Utopia, 1905) di G.H. Wells. Wells era, al pari di Morris, un assiduo frequentatore dei circoli della Società fabiana, il movimento politico-culturale di orientamento socialista che si prefiggeva di portare, attraverso l’istruzione scientifica e l’elevazione morale ed estetica, le classi lavoratrici a gestire in proprio i mezzi di produzione. Ci credeva seriamente, ed era anche preoccupato per il crescente successo tra quelle stesse classi del marxismo, che considerava, anziché utopico, catastrofico. Il libro va dunque letto, prima che come un romanzo, come una dichiarazione d’intenti riformista.
Più di un secolo fa Wells prefigurava nella sua Utopia un modello politico, economico e sociale che oggi, in presenza della globalizzazione e di una emergenza ambientale sempre più drammatica, aggravata dal ricorrere di pandemie e di crisi economiche devastanti, viene auspicato e visto come ineluttabile da molti, a destra come a sinistra: uno Stato Mondiale, una tecnocrazia sovranazionale retta da una élite di scienziati e tecnici selezionati sulla base del merito e dell’integrità morale, senza alcuna discriminazione di razza o di ceto sociale. D’altro canto, molti degli elementi socio-economici ipotizzati da Wells li riconosciamo già oggi nei modelli capitalisti più avanzati, soprattutto in quelli scandinavi o germanici.
Il sistema economico descritto in Una Utopia Moderna prevede l’iniziativa privata individuale, ma anche uno stretto controllo da parte dello stato, che interviene direttamente a garantire la giustizia sociale. Per contro, ogni utopiano ha diritto a ricevere una “reddito di cittadinanza” che gli garantisca una esistenza dignitosa: ma deve dimostrare, lavorando e cooperando con gli altri, di volersi rendere utile all’intero sistema sociale, altrimenti ne sarà escluso.
Wells non pensa ad un modello amministrativo rigido e totalitario: per realizzare un progetto sociale così giusto ed efficiente è sufficiente una corretta pianificazione, che coordini in modo funzionale la comunicazione, i trasporti, la produzione e il sistema energetico. Gli utopiani parlano un unico linguaggio, che è la sintesi di più lingue (ma Wells pensa comunque all’inglese come base di partenza per questo idioma), e per lo scambio di informazioni si avvalgono di tecnologie molto evolute. Loro e le loro merci possono spostarsi con facilità e a costi contenuti da un paese all’altro dello stato mondiale attraverso una un’efficiente rete di trasporti su strada e su rotaia. Tutta l’infrastruttura è alimentata da un sistema energetico ibrido, che sfrutta ogni fonte presente in natura: energia idrica, combustione, maree ecc.
Esistono però anche utopie che potremmo definire “conservatrici”, nelle quali il progresso tecnologico si associa ad un controllo sempre più rigido esercitato dallo stato sulla vita dei cittadini. In Ionia (1898), di Alexander Craig, ad esempio, le leggi contro il crimine e in difesa della moralità sono severissime (castrazione al primo sbaglio, eliminazione per i recidivi) ed è praticata l’eugenetica attraverso il controllo statale sui matrimoni: vige persino la proibizione per le donne brutte di sposarsi e avere figli. In compenso i traguardi raggiunti nel campo della tecnica sono avanzatissimi (aerei e auto mossi dall’elettricità, riciclaggio dei rifiuti, sfruttamento del campo magnetico per l’energia). Tutta la terra è proprietà dello stato e i lavoratori possiedono azioni delle aziende che li impiegano. Nel complesso comunque il regime in vigore a Ionia ricorda sinistramente qualcosa che di lì a poco non rimarrà confinato nel regno dell’utopia, e la parentela è ulteriormente rafforzata dal feroce antisemitismo che percorre l’opera e dal culto ossessivo per l’immagine della Grecia classica (la lingua parlata a Ionia è il greco, il governo ha sede in una Acropoli, il fiume principale si chiama Stige, ecc.). Non solo: questa società ideale si è evoluta in una valle remota dell’Himalaja, la stessa area verso la quale quarant’anni dopo si indirizzeranno le ricerche dell’Ahnenerbe nazista, a caccia di prove dell’ascendenza ariana (e, en passant, del misterioso regno sotterraneo di Agarthi).
In qualche caso il risultato è più ambiguo. Addison Peale Russell immagina in Sub-Coelum (1893) una società decisamente puritana, nella quale invalgono molte limitazioni sessuali e l’impurità, sia maschile che femminile, è punita addirittura con l’ergastolo; non esiste privacy e viene esercitata una forte pressione morale collettiva, nella quale tutti sono chiamati a interpretare il ruolo dell’informatore. Per altri aspetti invece Russell offre una immagine avanzata rispetto ai tempi: orari di lavoro ridotti, differenze economiche livellate, superamento di ogni forma di razzismo, addirittura viene favorito il meticciato. Il compito dei “controllori” non è gravoso, perché la riforma morale ha portato alla quasi eliminazione della disonestà, della corruzione e dei vizi, compresi l’ubriachezza, il gioco d’azzardo e gli sport violenti. Non solo: ha indotto anche una diversa attenzione prestata alla natura. Il libro riserva infatti molto spazio al rapporto con gli animali. Oltre agli scoiattoli e alle scimmie, i suoi preferiti, Russell include passaggi su api, farfalle, cani, cavalli, oranghi, serpenti, insetti e vita microscopica. Il capitolo più lungo del libro esalta le incredibili qualità dei topi. (A proposito: una osservazione peregrina. In questo elenco, così come nel bestiario di Hudson, mancano quasi completamente i gatti, al contrario di quanto accade per Waterton – lui i topi proprio li odiava – che addirittura ne riportò uno selvatico, enorme, dai suoi viaggi nella Guyana).
La vera novità risiede però nel ribaltamento dei ruoli di genere. A Sub-Coelum molti uomini scelgono di svolgere i lavori domestici, mentre le donne esercitano ogni tipo di professione: ad esempio, quasi tutto il personale medico è femminile. Ciò che non toglie che l’impressione generale sia quella di una società piatta, grigia e fondamentalmente repressa.
6. Niente sesso, siamo inglesi
E questo ci riporta finalmente a Hudson e a L’era di cristallo. L’originalità di Hudson rispetto a tutta questa produzione fanta-utopica sta infatti nella speciale attenzione che dedica alla problematica sessuale. Evidentemente il suo impatto con le ipocrisie della società vittoriana, col dominio delle apparenze e delle buone maniere che celava una diffusissima repressione sessuale, è stato traumatico. D’altro canto non era l’unico né il primo a parlarne: Butler queste cose le aveva già beffardamente smascherate, e quasi tutti gli esploratori e viaggiatori di questo periodo ne hanno subite le conseguenze sulla propria pelle. Il clima doveva essere davvero insopportabile, per spingere tanti giovani inglesi a cercare respiro mettendosi per le vie del mondo.
Hudson però non si limita a denunciare questa repressione; vuole andare alle radici, capirne le origini e le ragioni. E le trova nella identificazione dei comportamenti sessuali con i modi di esercizio del potere. Il suo Mr Smith accetta di buon grado ogni altro cambiamento delle sue abitudini di pensiero, ma non riesce a reprimere l’istinto sessuale che lo porta a desiderare Yoletta in maniera passionale e possessiva. Questo rende impossibile il suo integrarsi nella società dei “cristalliti”. Per Hudson tale pulsione, che è in fondo un desiderio imperioso di potere e di autoaffermazione, è ciò che caratterizza e avvelena la società borghese vittoriana.
Si badi che Hudson è tutt’altro che un sessuofobo. Non risulta avesse problemi con le donne, anzi, apprezzava molto i loro favori ed era ricambiato. Il problema stava semmai nel modo di concepire e vivere la sessualità col quale si era scontrato dopo il trasferimento in Inghilterra. In fondo i comportamenti degli uomini e delle donne della pampa raccontati ne La terra di porpora sono ancora genuini, disinibiti, in qualche modo gioiosi, alla stregua di tutti gli altri tipi di rapporto con la natura. La distorsione sessuale è quindi per Hudson solo la spia e il simbolo di una più generale distorsione del rapporto che la società borghese ha con tutto ciò che è natura, e con la natura umana stessa. Un rapporto all’insegna della conquista, del possesso, dello sfruttamento: totalmente materiale, nel senso più dispregiativo del termine, e quantitativo. Yoletta dice ad un certo punto a Smith che gli sembra “un animale affamato che voglia divorarla”.
In sostanza: per Hudson quel che impedisce alla società umana di evolvere armoniosamente verso una condizione di pace, di eguaglianza e di collaborazione, è l’impulso sessuale, individualistico e distruttivo. Riferendosi al sentimento di Smith lo caratterizza spesso come “bestiale”, lo paragona a quello che anima una “belva divoratrice di uomini”, un “lupo famelico”: e si pone il problema se questo impulso sia naturale, il che chiuderebbe ogni discorso sulla possibile realizzazione dell’utopia, o non sia invece un portato della strada intrapresa dalla civiltà. In quest’ultimo caso solo l’abbandono, anche traumatico, del modello sociale, economico e culturale vigente consentirebbe la ripartenza.
Hudson in realtà non dà una risposta chiara alla sua domanda. Da un lato, se è vero che Smith alla fine soccombe, sia pure indirettamente, al desiderio, ciò non significa che l’utopia vada confinata in un’orbita extraterrestre, ovvero che quel desiderio c’è, è iscritto nel nostro istinto e non lo si può cancellare. Significa piuttosto che non si può ovviare ai guasti millenari di una “civilizzazione” snaturante con le pozioni magiche, ma occorre un’opera di lenta rieducazione. E questa può avvenire solo guardando indietro, a un modello di vita che Hudson identifica con l’antico culto della grande Madre, con il mitico dominio delle donne che si accompagnava ad una religione non del trascendente ma della natura. Non credo che Hudson abbia conosciuto direttamente l’imponente studio su Il matriarcato (Das Mutterrecht) pubblicato da Bachofen nel 1861 (fu tradotto in inglese solo molti anni dopo). Ma ne ha quasi certamente colto l’eco attraverso libri come La società antica, di Lewis Henry Morgan, che da Bachofen mutuava l’idea una primitiva società matriarcale, egualitaria e pacifica.
In qualche modo era ciò che aveva sempre avvertito, e di cui aveva già scritto: Rima era una incarnazione di quel mondo perduto, ma anche ne La terra di porpora alla fin fine a far intravvedere una strada alternativa sono solo le figure femminili, pur quando in apparenza sembrano sconfitte. Ne L’era di cristallo poi le figure chiave sono tutte femminili: sono la grande Madre della Casa, responsabile della perpetuazione dell’umanità, colei che sceglie e guida gli eletti, e Yoletta, sua erede. Tutti gli altri, compreso il grande Padre, sono figure di contorno, depositarie al più della conoscenza di come funziona tecnicamente il nuovo mondo, custodi delle regole ma non della memoria e della sua intima connessione con le leggi naturali.
C’è però un rovescio della medaglia. Già dal primo contatto con Chastel, la grande Madre della casa, Smith esce turbato: “L’incontro aveva intaccato profondamente la spontaneità fiduciosa ed ottimistica del mio carattere. Ormai ero inquinato dalla malinconia, che stava progressivamente offuscando quella visione speciosa di felicità perfetta da cui ero stato attratto sin dal mio arrivo nella casa”. È turbato perché volente o nolente deve ammettere che la soluzione al problema adottata dai cristalliti, completamente diversa da quella della precedente cultura, è effettivamente la più naturale.
In natura il sesso esiste in ragione della fecondità e in funzione della procreazione: tutto il castello psicologico e sociale che la cultura patriarcale vi ha edificato sopra è appunto una costruzione “culturale”, finalizzata al dominio. Rimossa questa, il sesso non è più un problema dei singoli, ma torna ad essere una strategia riproduttiva, quella ad esempio tipica dell’alveare. Va quindi amministrato in funzione di una responsabilità biologica: che è quella di garantire la continuità della specie, e quindi anche di evitare le crisi di sovrappopolamento e di esaurimento delle risorse che potrebbero metterla in forse. Insieme a Darwin, probabilmente, Hudson aveva letto anche Malthus.
Quindi, sotto un profilo razionale e di sottomissione alla natura la soluzione dei cristalliti sembra legittimata in pieno. Poiché il sesso è strettamente connesso alla fecondità e alla riproduzione, secondo una logica che la Natura segue anche con altre specie è riservato ad una sola coppia, che per poter assolvere a questo compito deve detenere l’autorità sul gruppo-famiglia. Rimane però il fatto che proprio nell’atteggiamento della grande Madre, nel suo tormentoso pensiero dominante della fertilità e della procreazione, Hudson avverte una forma di individualismo non poi così diversa dalla sua. E avverte anche una grande solitudine.
Quando prima scrivevo che la “storia” raccontata ne L’era di cristallo è molto semplice mi riferivo naturalmente al puro intreccio. Al contrario, la narrazione si dispiega poi attraverso una vera galleria di simboli, che impone un livello di lettura più alto, nel quale l’interesse per la vicenda cede il passo a quello per le atmosfere, per i segnali che arrivano dalla sua ambientazione. Ciò che immediatamente colpisce è la “pietrificazione” della società dei cristalliti, che non è mitigata dalla ricchezza e dalla fecondità della natura nella quale la grande Casa è immersa. Quest’ultima è costruita interamente in granito, simbolo evidente di una immutabilità che attraversa diacronicamente le successive generazioni. Ha l’apparenza esteriore di un tempio, con tanto di colonne sulla facciata anteriore: non un tempio costruito dagli uomini, però, quanto piuttosto una struttura generata direttamente dal terreno, emersa dalla roccia sottostante.
Anche il tempo appare pietrificato: non si svolge linearmente, ma è costretto in una ripetizione ritualistica. La ritualizzazione in qualche modo rimanda ad un allineamento alla ciclicità naturale: ma se la ripetizione è naturale, la ritualizzazione ne è solo un surrogato. Il “per sempre” sancito nella pietra è la fine della storia – qui è addirittura inteso come non-inizio – e il ritorno dell’identico è cosa ben diversa dall’Eterno Ritorno di cui parla Nietzsche: sembra anzi contrapporsi allo sviluppo disordinato della Natura (citata sempre da Hudson con la maiuscola) e alle possibilità di variazione, di innovazione che esso comporta. Hudson apprezza Darwin, ha capito la sostanziale correttezza della sua lettura della storia naturale, ma respinge poi quelle che ne appaiono, secondo l’interpretazione più diffusa nella sua epoca, influenzata dalle teorie di Spencer, le inevitabili conclusioni. Lo angoscia l’idea di una lotta di tutti contro tutti, di una guerra ferina che sancisce la sopravvivenza del più adatto: ma l’immobilità pacifica del mondo di cristallo gli evoca quella dei cimiteri. Di qui l’impasse nella quale si trova bloccato, e alla quale non può sottrarsi se non con una soluzione drastica, facendo uscire di scena il suo alter-ego.
Il primo incontro di Smith con gli abitatori dell’utopia avviene d’altronde con un funerale. Non c’è una tomba, il corpo viene semplicemente restituito alla terra: nessun tentativo di sottrarlo all’oblio naturale cui è destinato. E questo vale per tutti i comportamenti dei cristalliti. La loro purezza morale è semplicemente una resa, una subordinazione alle leggi naturali (o presunte tali). L’amore, l’affettività, sono fattori strumentali alla riproduzione, la famiglia è un regolatore della sessualità, il lavoro – e questo arriva dalle teorie estetiche di Ruskin – è arte applicata, rappresentazione mimetica delle verità di natura e quindi risposta essenziale a quanto questa richiede. Non può esserci idea più estranea a questo mondo di quella del consumo, e conseguentemente della necessità di produrre senza tregua per consumare senza sosta. Il valore degli oggetti sta nella loro durata: e anche i cristalliti durano a lungo, proprio perché non si fanno consumare da passioni, vizi, istinti, progetti, delusioni. Ma la loro è una vita fondamentalmente inerte, che si limita a trascorrere. La pietrificazione sembra essersi in qualche modo estesa anche ai loro cuori, alle loro anime.
Questo, si badi bene, è ciò che io ho letto ne L’era di cristallo: forse non è esattamente quello che l’autore voleva rappresentare, anzi, forse questi ha involontariamente – ma non inconsapevolmente – sortito l’effetto contrario. Ma la sensazione di ambiguità, di irresolutezza che emana da queste pagine non poteva certo ignorarla.
Confesso di essere uscito dalla lettura con un po’ di tristezza per la sorte di Smith, ma anche con un certo sollievo. Non riuscivo ad immaginare per lui un futuro da Padre dell’alveare: credo che dandogli la morte Hudson gli abbia evitato l’imbarazzo di rimpiangere la sua vecchia condizione. È vero che la responsabilità del fallimento viene attribuita dall’autore allo “spirito del lupo”, ma è anche vero che la capacità di vivere lo “spirito nuovo” dell’utopia sembra appartenere solo all’altra sfera, quella femminile. Il tentativo di reprimere quell’istinto si rivela per Smith fatale: l’utopia era in realtà per lui invivibile, e il mondo dei cristalliti appare a noi, in definitiva, arido e freddo. Come del resto accade, ad essere sinceri, per tutte le visioni utopiche.
7. Arrivano le Amazzoni
Prima di proseguire oltre mi sento però in obbligo, per una mia smania di completezza, di chiudere la digressione in cui mi ero avventurato.
Abbiamo visto come la questione dei rapporti di genere sia affrontata in quasi tutte le visioni utopiche di questo periodo: essa diventa tuttavia il vero perno del cambiamento solo quando si tratti di romanzi scritti dalle donne. Le scrittrici di lingua inglese trovano una ideale progenitrice in Sarah Scott, autrice, più di un secolo prima, nel 1762, di Millenium Hall. Nel romanzo si racconta di una colonia femminile nascosta in un luogo remoto della Giamaica, dedita al recupero fisico e morale dei disabili. Ma sotto il velo pietistico e devozionale dell’istituzione si scopre una realtà molto più complessa. Il luogo è gestito da un gruppo di donne pienamente autosufficienti e autonome; gli unici uomini che lo abitano sono disabili recuperati alla virtù e inseriti nella vita sociale (in ruoli di servizio). Gli occasionali visitatori maschi, com’è il caso dei due protagonisti, devono sottoporsi anch’essi ad una forma di rieducazione o di riabilitazione: questo perché è dato per scontato che gli uomini “o hanno cattive intenzioni o sono squilibrati”. Da quel che si legge nel romanzo è una vera e propria castrazione psicologica. Sembra che per essere civilizzati questi uomini debbano perdere le loro caratteristiche maschili e sperimentare com’è la vita per le donne. Che è un po’ lo stesso lavaggio del cervello di cui è oggetto Smith ne L’era di cristallo, e che Hudson sembra vagheggiare, sia pure in maniera più sottile.
Si può facilmente intuire perché alla sua comparsa il romanzo della Scott abbia suscitato polemiche e velenosi attacchi, con l’accusa alla sua autrice di tendenze lesbiche o più grossolanamente di odiare gli uomini perché deturpata dal vaiolo e privata della loro attenzione. Le sue epigone della fine del secolo successivo hanno invece vita relativamente più facile, e possono essere maggiormente esplicite nel rivendicare un mondo che assegni loro una parte diversa. In tal senso, a volte prospettano un semplice riequilibrio dei rapporti di genere, in altri casi preconizzano un vero e proprio ribaltamento o una radicale separazione.
In Mizora. A profecy (1881), ad esempio, Mary Elizabeth Bradley Lane porta la sua eroina a scoprire nell’Artico una nuova terra al femminile, dalla quale gli uomini sono assenti da tremila anni. Le donne che la abitano possiedono il “segreto della vita”, ovvero della procreazione autonoma, e hanno creato un modello alternativo, compiutamente matriarcale, di comunità, di governo e di rapporti familiari. A dispetto delle intenzioni dell’autrice ne viene fuori l’immagine di una società totalitaria, nella quale la “sorellanza” non è poi così aperta: con l’ausilio dell’eugenetica tutte le donne di Mizora sono bionde, alte e con gli occhi azzurri. Anche in questo caso non può sfuggire la sinistra parentela con le Schutzstaffel di Himmler.
La Bradley è americana, e si sente. Non colloca la propria società ideale in un altro tempo, ma in un altro luogo. All’epoca sua l’Ovest nordamericano riservava ancora uno spazio ai sogni e alle fantasie. Anche la soluzione proposta appare tipica di una mentalità in bianco e nero, poco tollerante delle vie di mezzo e aliena dalle sfumature (come del resto accade per i suoi contemporanei maschi, Bellamy e Craig).
Mostrando un’attitudine più moderata, in New Amazonia (1889) l’inlese Elizabeth Corbett sdoppia i viaggiatori-protagonisti, un uomo e una donna, e quindi anche i punti di vista dai quali la società utopica è giudicata. Nel mondo riformato che i due visitano (che non è localizzato ai confini del mondo, ma in una Irlanda del futuro) gli uomini non sono banditi, ma ogni subordinazione femminile nei loro confronti è scomparsa, sia nel settore pubblico che nell’ambito familiare. Le donne hanno anzi il monopolio del potere politico, al quale gli uomini hanno rinunciato senza eccessive resistenze (si presume, dopo aver constatato il fallimentare bilancio della loro gestione del mondo): ma è un potere strettamente esecutivo, di organizzazione e di coordinamento, mentre a valere è piuttosto la rete diffusa di rapporti tra gruppi di donne che allevano i figli in comunità. Le Amazzoni fondono il passato col futuro, il culto pre-storico della Madre con il socialismo: in New Amazonia sono scomparse le differenze di classe, nell’ambito della ginecocrazia vige una democrazia reale, tutti hanno le stesse opportunità e la scienza è mirata solo a garantire il benessere e la salute delle cittadine.
8. Nel segno della Grande Madre
Non mi dilungo in altri esempi perché quelli ricordati coprono già sufficientemente lo spettro delle idealità utopiche della letteratura vittoriana (e quindi delle critiche ai modelli istituzionali e sociali vigenti all’epoca). C’è abbastanza carne al fuoco per trarne alcune considerazioni finali.
La prima che mi viene in mente, proprio a partire dalle ultime opere citate, è che tutte trattano il tema dei ruoli di genere, ma non quello della sessualità. O almeno, mentre nel romanzo di Hudson questa rappresenta il nodo centrale, nelle utopie “al femminile” sembra ricoprire un ruolo marginale. I modelli stessi di riferimento dell’uno e delle altre ci suggeriscono che si parla di cose molto diverse.
Nel caso delle scrittrici il rimando va essenzialmente alla versione del mito delle Amazzoni così come era entrato nella cultura della Grecia classica: la Bradley Lane lo riprende e lo ripropone pari pari. Hudson guarda invece, sia pure in un gioco di sponda, agli studi di Bachofen, filtrati attraverso la nuova lente darwiniana. A qualcosa quindi di molto più antico, ad un culto più universale, diffuso in età pre-storica dal nord-europa all’estremo oriente. Non è impossibile che qualche suggestione indiretta sia arrivata da Das Mutterrecht anche alle creatrici di utopie al femminile, ma se un’influenza c’è stata è rimasta molto superficiale. In effetti, il ribaltamento dei ruoli non significa poi molto, se non è frutto di un cambiamento più profondo dell’attitudine nei confronti di tutta la natura. E quindi anche nella considerazione del ruolo “naturale” della sessualità.
Personalmente rimango ancorato ad una spiegazione naturalistica molto semplice del diverso rapporto che uomini e donne hanno con la sessualità (e quindi del diverso ruolo che ad essa attribuiscono nella società ideale). In sostanza: sia per gli uomini che per le donne il sesso è uno strumento, per raggiungere però fini diversi. O meglio, lo stesso fine con modalità diverse. Per i primi è importante, per assicurarsi la continuità biologica, spargere attorno il più semi possibile, per le seconde lo è assicurare la sopravvivenza dei semi che hanno incubato. Per i maschi il sesso costituisce pertanto “il” problema prioritario dall’adolescenza sino alla vecchiaia, per tutto il periodo nel quale rimangono sessualmente attivi, mentre per le femmine esaurisce la sua funzione una volta raggiunto lo scopo riproduttivo. Tutto questo non piacerà alle femministe, a chi rivendica anche per le donne il diritto ad una vita sessuale libera e appagante: ma non si tratta di negare loro questo diritto, solo di chiarire che, lo si voglia o no, per le donne questo è un bisogno “culturalmente” indotto: legittimo quanto mai, ma non “naturale”.
La seconda considerazione è che tutte queste letture sono accomunate da un equivoco di fondo, perché il matriarcato vi è associato “naturalmente” a un modello di società più giusto, egualitario e pacifico.
Ora, gli esempi cui si può fare riferimento nei tempi storici di società in cui l’elemento femminile abbia avuto un qualche peso decisionale nella vita pubblica, oltre che in quella familiare, non sono molti. Mi vengono in mente quelli degli spartani, dei vichinghi e degli irochesi: tutti popoli che brillavano per capacità (e ferocia) guerriera. Ed è anche spiegabile che le cose stiano così: si trattava di società nelle quali gli uomini erano sempre e totalmente impegnati nelle attività militari, e la responsabilità di reggere la famiglia e di garantire il funzionamento della città era necessariamente trasferito sulle spalle femminili. Occorre quindi distinguere tra società matrilineari, quelle in cui la discendenza passa per la linea femminile, senza che ciò conferisca necessariamente alle donne una autorità riconosciuta (vedi la società ebraica), e società matriarcali, nelle quali le donne esercitano un effettivo potere politico: ma solo per constare che queste ultime esistono unicamente nei miti e nelle utopie.
Di per sé questo non significa nulla. Non c’entrano le disposizioni naturali, visto che la società patriarcale si è rivelata, come giustamente afferma Hudson, la meno “naturale” immaginabile. Ma nemmeno significa che una società matriarcale andrebbe in direzione diversa, che sarebbe cioè più giusta e più pacifica. Come dicevo, manca qualsiasi controprova.
A volerli cogliere, però, alcuni indizi di segno positivo li abbiamo. Non riguardano per il momento improbabili società “matriarcali”, ma i comportamenti politici effettivi entro gli schemi della società patriarcale. I riscontri storici e quelli offerti dalla realtà del panorama politico odierno dicono che anche agendo all’interno di un sistema creato a immagine delle caratteristiche maschili le donne riescono in genere a mitigarne le derive peggiori.
In effetti, attualmente gli unici leader politici credibili sono donne. Della Merkel e della Von der Leyen sappiamo tutto, ma c’è anche il gruppo delle nordiche (la norvegese Erna Solberg, la danese Mette Frederiksen, l’islandese Katrín Jakobsdóttir, la finlandese Sanna Marin), c’è la neozelandese Jacinda Ardern, ci sono diverse leader asiatiche che senza eccessivi strombazzamenti stanno facendo nei rispettivi paesi un eccellente lavoro. Sono convinto che sarebbe stata una buona leader persino Hilary Clinton (senz’altro meglio del marito), al di là del fatto che rispetto a Trump lo sarebbe chiunque.
La cosa ha a mio avviso una spiegazione abbastanza ovvia, che riguarda il tipo di selezione. Per arrivare a certi livelli di potere le donne devono possedere una preparazione e una capacità decisamente maggiori rispetto ai loro concorrenti uomini (il caso italiano non fa testo, e comunque nessuna delle “ministre” che hanno sfilato negli ultimi tempi deteneva ruoli di vero potere). Questo è reso necessario sia dalle resistenze opposte da una mentalità maschilista radicata, sia dal fatto che cimentandosi nella politica le donne partecipano ad un gioco le cui regole sono state create su misura per i maschi. La sfida è vedere se lavorando all’interno di questo sistema riusciranno anche a modificarne le regole, oppure a farlo funzionare al meglio delle sue potenzialità.
Per intanto, un punto può già essere loro assegnato. Ho dei dubbi che una donna voglia e riesca davvero ad esercitare l’attrazione carismatica necessaria ad un leader populista. Che la cosa sia legata al perdurare di un pregiudizio di fondo maschilista, che si tratti cioè del fare di necessità virtù, o invece, come tendo a credere, sia dovuta al fatto che il populismo non è nelle corde femminili, per una disposizione caratteriale che sarebbe troppo lungo analizzare, sta di fatto che una leadership femminile difficilmente assume connotazioni demagogiche. Voglio dire che una donna intelligente, e intelligente al punto di accedere a ruoli di grossa responsabilità politica, sa che le masse che si lasciano trascinare da pifferai stonati come Trump o Erdogan o Bolsonaro sono quelle appunto più nutrite di quel pregiudizio, quindi non prova nemmeno a suonare lo strumento e cerca di guadagnarsi i consensi con l’efficienza e la capacità di mediazione (la Meloni e la Le Pen, i cui casi parrebbero contraddire questa convinzione, rimangono comunque per il momento all’opposizione).
I segnali per coltivare la speranza che il crescente coinvolgimento femminile possa portare anche ad una prassi politica diversa, meno personalistica e più equilibrata, non mancano. Senza arrivare a parlare di matriarcato, termine che evoca comunque una idea di potere esclusivo ed escludente, né più né meno come quello patriarcale, sono gli stessi motivi più profondi ed ancestrali, le disposizioni naturali cui faceva riferimento Hudson, a suggerire questa possibilità. Un tipo di investimento diverso nei confronti della riproduzione e della continuità non può che produrre una idea molto differente di futuro.
Riconsiderando infine le distinzioni che ho operato più sopra, a proposito dei differenti modelli utopici, tra gli apocalittici e i bardi del progresso, o tra visionarietà al maschile e al femminile, mi accorgo che avrebbe forse più senso distinguere tra le utopie riguardanti l’uomo e quelle relative all’umanità. Nel primo caso, che è senz’altro quello di Morris e nella sostanza poi anche quello di Hudson, il sogno di una redenzione passa attraverso il cambiamento che i singoli individui sono in grado di operare entro sé, accompagnato o guidato dal confronto con gli altri: la trasformazione passa infatti per il riconoscimento della diversità altrui, e il riconoscimento implica una accettazione, a partire dalla riconciliazione con la diversità propria. Negli altri casi, a determinare il cambiamento sono un evento o una condizione, (indipendentemente dal fatto che si tratti di una catastrofe o del raggiungimento di traguardi scientifici e tecnici), oppure una forza o una volontà esterne. Il sogno è quello di cambiare la società per cambiare gli uomini, mentre nel primo caso cambiano gli uomini per trasformare la società. È la differenza che corre tra i diversi movimenti che hanno cercato negli ultimi duecento anni, a partire dalla Rivoluzione francese, di calare e realizzare sulla terra quelle che in precedenza erano solo fantasticherie millenaristiche. In linea di massima, tra il comunismo, marxista e non, da un lato, e l’anarchismo dall’altro (che potrebbero essere fatti discendere rispettivamente dal cristianesimo – comprensivo della variante “riformista” – e dall’ebraismo).
Si potrebbe anche distinguere tra utopie chiuse, o terminali, che congelano la situazione utopica raggiunta e mirano solo a preservarla, riponendo nessuna fiducia nella capacità di una autodeterminazione degli individui, e utopie aperte, che lasciano spazio alla libertà di scelta di questi ultimi, e quindi alla loro responsabilità. Tra le utopie del recinto e le utopie del libero pascolo.
Aggiungo un’ultima breve considerazione, riguardante il tema ricorrente dell’inversione dei ruoli di genere. È evidente che a livello letterario il discorso ha il valore di una provocazione piuttosto che una proposta, e ciò vale tanto più per un periodo come quello vittoriano. Se si vuole ottenere attenzione si deve provocare. Il fatto è però che le idee, quando vengono costrette in uno slogan, spesso finiscono per essere prese alla lettera. Si rischia quindi in questo caso di credere che la soluzione sia quella di invertire l’ordine dei fattori, senza considerare che il prodotto finale non cambia. Il problema non è avere una quota maggiore di donne-manager, o magistrate, o primarie ospedaliere, quanto piuttosto che quei ruoli, così come vengono assegnati, gestiti, vissuti oggi da chiunque li ricopra, garantiscano equità ed efficienza. Il che significa, tradotto in soldoni, che è inutile cambiare gli attori se il copione è scadente.
9. Fuori dall’Eden
Infine, una riflessione sul destino dell’Utopia (quella con la maiuscola). Scorrendo questi testi ho potuto constatare quanto in effetti fossero bravi a leggere il futuro i loro autori. Troviamo rappresentati in essi tutti gli incubi che ci circondano oggi, e non solo quelli profetizzati come cause del collasso della civiltà consumista e produttivista, per i quali era sufficiente forse davvero un po’ di lungimiranza, ma anche quelli che all’epoca erano presentati come sogni di liberazione, destinati a migliorare il futuro. Molte di quelle che per gli utopisti erano soluzioni sono diventate oggi dei problemi. Il che può significare due cose: da un lato, ad essere pessimisti, che la parte “negativa” della natura umana (il “legno storto” di Kant) ha ormai preso un tale sopravvento da poter volgere in danno, ovvero in disuguaglianza e in distruzione, tutto ciò che era stato pensato come salvifico. Dall’altro, se si è solo razionalmente scettici, che ogni disegno sociale progettato a tavolino non soltanto non potrà soddisfare le infinitamente varie aspettative di tutti, ma finirà irrimediabilmente per tradursi in una gabbia. Quello che è stato chiamato socialismo reale, se raccontato sotto forma di utopia cinquant’anni prima sarebbe stato un modello quasi perfetto, un tappeto verde da biliardo posato su un piano levigato, sul quale le biglie corrono dritte e prendono le angolature loro suggerite dalla stecca. Ma appena calato nella realtà quel tappeto ha dovuto fare i conti con le forme irregolari della natura, in questo caso di quella umana, si è strappato, macchiato, sfilacciato: quello straccio verde si è immediatamente rivelato per quel che era, una copertura posticcia e artificiale.
Cosa rimane, allora? Dell’Utopia, intesa nel significato che fino a un secolo fa le si attribuiva, di sogno di rigenerazione collettiva sul quale parametrare l’agire individuale, e non solo quello politico, non è rimasto proprio nulla. È venuta meno ogni speranza di potersi anche solo approssimare a quel sogno, a dispetto di chi vuole leggere i processi di trasformazione in atto, sociali, psicologici, economici come il preludio ad una “liberazione” (“La società, finalmente creativa e libera dal modello matematico, si apre ad una nuova conoscenza erotica”, Maffesoli), all’uscita da un secolo buio quanto altri mai (“un secolo scellerato, che ha conosciuto genocidi, massacri, stermini”, Baricco).
Ma c’è un’immagine che mi pare davvero emblematica (e conclusiva) di come sia ridotta l’odierna capacità di immaginazione. È offerta dallo Steampunk. Lo Steampunk è un filone letterario, divenuto ormai anche fenomeno di costume (nel senso che gli adepti “inscenano” eventi a tema, tengono raduni e festival ai quali partecipano vestiti da esploratori o da aeronauti, e purtroppo giocano pericolosamente con le società segrete e le teorie del complotto), nel quale si racconta “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse arrivato prima”. Le storie sono ambientate in un passato che ha a modello proprio l’Inghilterra vittoriana, ma combinano anacronisticamente conoscenze e tecnologie reali di diverse epoche con ciò che nell’immaginario di quelle stesse epoche era ritenuto possibile o probabile, prendendo spunto proprio dagli autori di cui ho parlato in questo e in altri testi, Verne e Robida e Welles in testa (tecnicamente non sono dunque utopie, ma ucronie).
Insomma: nell’impossibilità di immaginare un qualsivoglia futuro migliore, nell’incapacità addirittura ormai di immaginare un futuro, oserei dire nella paura stessa di pensarci, ci si consola col fantasticare di un passato che avrebbe potuto essere diverso. Col costruire una storia parallela che avrebbe, forse, potuto evitare al mondo di ridursi come si è ridotto. È una pulsione infantilistica, la stessa in fondo che induce ciascuno di noi a rivangare vari momenti della nostra esistenza, cullandoci nel pensiero di come avrebbe potuto essere “se”. A quanto pare, è tutto quel che ci rimane.
Ce n’è a sufficienza per una disperazione senza lacrime.
P.S. Sono riuscito a scrivere più di trenta pagine su W. H. Hudson senza accennare (o quasi) alle uniche opere sulle quali egli da anziano voleva fondata la sua reputazione, e che in effetti sono oggi quelle per cui è ricordato: ovvero gli studi naturalistici. Sono molti, e alcuni sono considerati – a differenza dei romanzi – dei veri capolavori. Non si tratta di opere scientifiche nel senso stretto del termine: sono narrazioni, spesso aneddotiche, sempre appassionate e coinvolgenti, che toccano ogni aspetto della natura, dagli animali alle piante al mondo minerale. Naturalmente di riassumerle non se ne parla nemmeno: e direi nemmeno di presentarle. Vanno lette e basta.
In italiano sono stati tradotti:
Il libro di un naturalista (Muzzio, 1989, ora riedito da Elliot, 2019), Il viaggiatore in piccole cose (Muzzio 1993), La vita della foresta (Einaudi 1987), A zonzo in Patagonia (Ibis 2013), El Ombù (Theoria, 1987: in realtà questo potrebbe essere definito un libro di antropologia), ma solo alcuni sono ancora rintracciabili.
Per leggere The Naturalist in la Plata, (1892) o Birds in a Village, (1893) bisogna conoscere bene l’inglese. Varrebbe la pena impararlo anche solo per leggere Afoot in England, (1909), resoconto di camminate dal Surrey al Devon e alla Cornovaglia, o lungo tutta la costa inglese orientale. O per godersi A Shepherd’s Life: Impressions of the South Wiltshire Down, forse il suo libro più amato dagli inglesi.
(le illustrazioni sotto riportate, di Al Collins, sono tratte da:
- H. Hudson – The Land’s End: A Naturalist’s Impressions in West Cornwall – Appleton, NY, 1908)
Bibliografia
Le opere trattate in questo scritto sono citate nelle seguenti edizioni:
William H. Hudson – Un mondo lontano – Adelphi, 1974
William H. Hudson – La terra di porpora – Rizzoli, 1963
William H. Hudson – Verdi dimore – Mondadori, 1976
William H. Hudson – L’era di cristallo – Guida, 1982
Edward Bulwer Lytton – La razza ventura – Arktos, 1980
Samuel Butler – Erewhon – Adelphi, 1988
Jules Verne – Parigi nel XX secolo – Elliot, 2017
Richard Jeffries – Dove un tempo era Londra – Serra e Riva, 1983
William Morris, – Notizie da nessun luogo – Garzanti, 1995
Edward Bellamy – Guardando indietro 2000-1887 – UTET, 1957
King Camp Gillette – The Human Drift – Ulan Press, 2012
George H. Wells – Una Utopia Moderna – Mursia, 1990
Addison Peale Russel – Sub-Coelum – Nabu Press, 2010
Alexander Craig – Ionia – Read Books, 2007
Sarah Scott – Millenium Hall – Broadview Press Ltd, 1995
Mary Elizabeth Bradley – Mizora. A profecy – Jean Pfaelzer, 2000
Elizabeth Corbett – New Amazonia – British Library, 2011