di Paolo Repetto, 30 dicembre 2019
Ragguaglio sull’agonia della lettura
“Questi risultati ci preoccupano perché è un problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Se ora non interveniamo rischiamo di pregiudicare il futuro di una generazione. I dati non sono particolarmente diversi da quelli che abbiamo visto nella precedente rilevazione, ma sono molto peggiori di quelli di una ventina di anni fa. Se paragonati al Duemila si denota una significativa diminuzione della capacità di apprendimento dei giovani. Stiamo risentendo di un paio di decenni di poco interesse sull’istituzione scolastica. Serve un’inversione di tendenza importante: bisogna tornare a parlare di scuola, tornare a volergli bene, rafforzando anche il ruolo degli insegnanti”. (Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, commentando i risultati dell’indagine Ocse-Pisa 2018)
È un discorso che ho già sentito, più di una volta. Non ultima, in occasione del progetto di cui sopra. Non è certo questione di tornare a “parlare di scuola”: se ne è parlato sin troppo, senza mai arrivare al dunque. Per questo è ridotta così. Quanto al volerle (e non al volergli!) bene, passa appunto per il riconsiderare il ruolo degli insegnanti. E qui ci areniamo subito su un banco di sabbia. Questo è un paese nel quale il passaggio di cattedra dalla primaria alla secondaria superiore si ottiene con un corso-farsa di quaranta ore, magari per andare a insegnare matematica, filosofia o lingue, e dove ad auspicare una verifica periodica del livello di preparazione e di competenza dei docenti – e magari anche un accertamento psicologico, visto che il loro rischio di burnout ( che sarebbe il surriscaldamento cerebrale) è tre volte superiore a quello di qualsiasi altra categoria – ed una selezione che ne consegua, si viene tacciati d’infamia. Ma è anche il luogo dove la filosofia “aziendale” inaugurata dalla riforma Moratti e perseguita da tutte quelle successive, quella per la quale il cliente ha sempre ragione e i risultati si misurano sul suo gradimento, ha creato condizioni impossibili per l’insegnamento anche ai docenti più motivati.
Concentriamoci però per il momento sulla fattispecie che ha dato origine a questo pezzo, la disaffezione alla lettura. A distanza di due decenni i nodi del problema non sembrano granché cambiati, se non nel senso che lo sfascio è andato oltre le più fosche previsioni. Si scrive sempre di più, si pubblicano troppi libri, si legge sempre di meno. L’analfabetismo di ritorno dilaga. Sono cambiati invece, e parecchio, i fattori: a far concorrenza alla lettura non ci sono più solo il cinema o la televisione, sono subentrati altri media, assai più insidiosi. Che non hanno soltanto distratto dalla lettura, ma ne hanno modificato le modalità stesse, così come hanno modificato quelle della scrittura, facendone attività completamente altre rispetto a quelle tradizionali. La scrittura e la lettura si sono aperte a un numero infinitamente più grande di utenti, in teoria si sono “democratizzate”: nella realtà hanno perso quei caratteri (l’articolazione, la complessità) che ne facevano gli elementi chiave della formazione, della conservazione e della trasmissione delle conoscenze, e che agivano direttamente sul nostro cervello nella creazione dell’intelligenza.
Oggi si legge anche su supporti diversi dal libro, sul tablet, sul pc, sul lettore di ebook, sugli smartphone: ma già questo, di per sé, induce con lo strumento una consuetudine diversa, di ordine fisico oltreché mentale, che si riverbera poi anche sul testo: ciò che scorre su uno schermo, tattile o meno, rimanda a qualcosa di volatile, di superficiale. Appare destinato ad essere immediatamente spazzato via da altro, da ciò che lo circonda o da ciò che lo seguirà immediatamente. Ne riparleremo.
Prima fornisco qualche aggiornamento sulla situazione della lettura, nella scuola e fuori. Mi baso su dati concreti, e parto da quelli ufficiali relativi all’Italia, che tengono conto di tutte le diverse modalità di lettura. Non sono un appassionato delle indagini statistiche, ne conosco i limiti oggettivi e i rischi di manipolazione, ma penso comunque che rimangano al momento lo strumento più affidabile per misurare la temperatura culturale di un paese. E che quando segnalano stati permanenti di alterazione non ci si possa nascondere dietro i se e dietro i ma: un qualche allarme devono destarlo.
Dunque: il nostro paese è agli ultimi posti in Europa nella classifica dei lettori (inchiesta del Global English Editing). Nel 2018 solo il 40% degli italiani ha letto almeno un libro nel corso dell’anno. Nell’Italia meridionale il numero si riduce ancora, scendendo al 27,5%. Per avere dei termini di confronto, la percentuale è del 90% in Svezia, dell’82% in Danimarca, dell’80% nel Regno Unito, del 79% in Germania, del 73% in Francia e dell’86% nei Paesi Bassi. Non mi si obietti che i primi sono paesi freddi e noiosi, dove per nove mesi l’anno le alternative alla lettura sono ben poche, perché in India, dove tanto freddo non fa e la natura è più rigogliosa che da noi, il tempo settimanale mediamente dedicato alla lettura (oltre dieci ore) è esattamente il doppio che in Italia (cinque ore). Per non parlare della Cina, dove la media è di quattro o cinque libri letti ogni anno per abitante (e sono un miliardo e mezzo). Il caso India smentisce poi anche l’altra immancabile obiezione: che i libri siano troppo cari, e quindi sia una questione di spesa. Palle. Il reddito medio pro capite degli indiani è cinque volte inferiore a quello degli italiani, ma leggono due volte di più.
Non è finita qui. I dati degli ultimi venti anni relativi al nostro paese parlano di una crescita della percentuale di lettori nel primo decennio del nuovo secolo (dal 41% al 47 % tra il 2001 e il 2010), e di una discesa quasi in picchiata negli ultimi otto anni. Non credo proprio c’entrino per la prima fase i progetti di incentivazione alla lettura, e il loro naufragio per la seconda: anche se il calo concerne per l’appunto soprattutto le fasce più giovani. In soli tre anni, dal 2015 al 2016, la quota di lettori tra i quindici e i diciassette anni è diminuita dal 53,9% al 42,1%. E anche tra i venti e i ventiquattro anni si è scesi dal 48,9% al 44,7%. Nella loro aridità, e pur rendendo conto solo dell’aspetto quantitativo della lettura, questi numeri ci dicono parecchio.
Per dare un po’ di soddisfazione alle mie amiche sottolineo che per fortuna, ad evitarci di scendere dagli ultimi posti continentali a quelli mondiali, ci sono le donne. Sono loro le lettrici più forti, sia pure relativamente: il 47,1% legge almeno un libro nel corso dell’anno, contro il 33,5% dei maschi, e il 15% ne legge in media uno al mese, contro il 12,6% degli uomini. E non c’entra la disponibilità di tempo (altra possibile obiezione cretina): lo dimostra il fatto che il 58,7% delle ragazze tra gli undici e i diciannove anni, quindi in età scolare e con impegni esattamente simili a quelli maschili, ha letto almeno un libro, mentre i loro coetanei sono solo il 38%. Quelle di diciotto e diciannove anni si avvicinano addirittura alle medie europee, ben il 70,2% (contro un misero 36,5% dei maschi), mentre quelle tra i quindici e i diciassette arrivano al 68,8% (i loro pari età si fermano al 42%). Non esiste una sola fascia d’età in cui i lettori maschi siano superiori alle lettrici femmine. Non che questo sia di qualche conforto, ma è un dato da considerare.
Ciò che maggiormente sconforta, però, è che nel quadro di un trend mondiale tutto sommato stabile, il nostro, che era già messo male prima, è tra i paesi che accusano un calo maggiore. E le conseguenze si vedono. Una recente indagine sui livelli mondiali di alfabetizzazione (è quella cui si riferisce il ministro), realizzata dall’ OCSE e consistente in sei questionari relativi alla lettura, alla scrittura e al calcolo, ha dato risultati spaventosi. Sui ventisette Paesi presi in considerazione, l’Italia si piazza penosamente ultima.
Le risposte erano valutate sulla base di cinque livelli crescenti. Bene, intanto il 5% degli italiani non ha raggiunto neppure il primo livello, ciò che significa che è letteralmente analfabeta (e si parla di oltre due milioni!), mentre al primo livello, ovvero a rischio di analfabetismo, si è fermato complessivamente (cioè compresi gli analfabeti “certificati” di cui sopra) il 42%. Stiamo dicendo che quasi un italiano su due è un analfabeta funzionale di primo livello. Al secondo livello si ferma un altro 39%: sommiamo ai precedenti e constatiamo che quattro italiani su cinque sono sotto la soglia della mediocrità culturale. Al terzo livello si trova il 18,8%. A raggiungere il quarto e il quinto livello di competenza linguistica e matematica è una sparutissima pattuglia. Un quadro desolante, che spiega meglio di qualsiasi trattazione sociopolitica perché siamo messi così male.
Per contro, se andiamo invece a considerare l’editoria, troviamo che l’offerta libraria è in continuo aumento (dati AIE 2018). Nel 2017 sono stati pubblicati in Italia 70.159 titoli, per la gran parte prime edizioni. Se tuttavia prendiamo in considerazione il numero di copie stampate (attorno ai centosessanta milioni di copie nel 2017) ci accorgiamo che mentre rispetto a vent’anni fa i titoli pubblicati sono aumentati di una volta e mezza, le copie stampate sono diminuite della metà. Il che sarà una buona notizia per le foreste, ma ha significati meno positivi per la lettura. Significa che la corsa a proporre novità continue per attrarre i consumatori e rispondere a tutti i gusti, sulla falsariga delle politiche di vendita attuate negli altri settori, sacrificando l’attenzione alla qualità, nel mercato librario non paga. E significa anche per i lettori una sempre maggiore difficoltà ad orientarsi entro un’offerta spropositata e invadente.
Quanto al piano dal quale sono partito, quello dell’età scolastica, abbiamo anche qui dei dati significativi (dati Istat del 28 dicembre 2018). Tra i sei e i quattordici anni bambini e ragazzi sono discreti lettori: il 48,5 circa di loro legge almeno un libro l’anno (nulla di paragonabile con i loro coetanei scandinavi, ma insomma), mentre tra i quindici e i diciassette come abbiamo visto la percentuale scende, e si allinea quasi a quella nazionale. Ora, non c’è dubbio che l’adolescenza sia un’età ingrata, di norma piuttosto stupida, e che nella testa dei ragazzi di quell’età circolino un sacco di cose che con la lettura hanno poco a che vedere: ma è altrettanto vero che nei loro coetanei scandinavi la consuetudine con i libri non viene meno, e questo perché è sapientemente coltivata. Ci sono poi senz’altro ragioni storiche, che rendono poco raffrontabili paesi in cui saper leggere era d’obbligo sin dalla fine del medioevo, non fosse altro per motivi religiosi, e nei quali il primo esempio e lo stimolo maggiore arrivano proprio dalle famiglie, col nostro, che non aveva ancora sconfitto l’analfabetismo mezzo secolo fa e nel quale il 60% delle famiglie ha in casa meno di cinquanta libri (ma la metà di queste non arriva nemmeno a dieci), e solo il 6% ne possiede più di quattrocento. Qui però non si parla più della difficoltà di attirare nuovi giovani lettori, qui si parla di un calo: quindi le ragioni del ritardo storico non sono più sufficienti a fornire la spiegazione. Deve esserci dell’altro.
C’è per intanto una chiara responsabilità della scuola. Gran parte del disamore giovanile per la lettura nasce direttamente nelle aule scolastiche. Per tanti motivi. Anche se resto dell’idea che i “progetti di incentivazione” non siano sufficienti ad affrontare il problema (in Italia, quando va bene lasciano il tempo che trovano) mi rendo conto tuttavia che l’inerzia totale che ha caratterizzato le ultime politiche scolastiche non solo non aiuta a risolverlo, ma nemmeno consente di arginarlo o anche soltanto di inquadrarlo. I progetti in realtà, se impostati come si deve, qualche risultato lo danno. Dodici anni fa la Spagna, che navigava in acque politiche ed economiche ancor meno tranquille di quelle italiane, ha preso di petto la questione, ha costituito una rete che ingloba (ma soprattutto impegna a darsi da fare) tutti gli attori del mondo del libro, dagli editori alle biblioteche ai librai, e ha come terreno di gioco proprio la scuola, ha varato una legge ad hoc (il “Plan de fomento de la lectura”) e in un decennio è passata da percentuali simili alla nostra ad un 60%. Guarda caso, il successo di quel progetto ha coinciso con la scoperta e il lancio a livello internazionale di una schiera di autori di ottimo livello, che a partire da una particolare attenzione per la storia patria, tutta da ripensare dopo i quarant’anni di coma franchista, hanno sfornato opere in grado di sfidare in ogni campo il monopolio della narrativa di lingua anglofona (i cinque titoli più letti in Spagna nel 2018 erano tutti di autori spagnoli). Lo stesso sta avvenendo per le letterature scandinave, sia pure per motivazioni diverse. Tra l’altro, il numero di titoli pubblicati dalle case editrici spagnole è di pochissimo superiore a quello italiano, per un mercato quasi nove volte più ampio (i parlanti in lingua spagnola al mondo sono circa 520 milioni). Ciò significa aver operato una selezione intelligente e offrire al pubblico una produzione capace non solo di attrarre, ma di abituare e incentivare alla lettura.
Torniamo però alla nostra scuola. Da cosa nasce la disaffezione dei ragazzi? Certo, in primo luogo dall’effetto di distrazione operato dai nuovi media: ma anche da come il libro è usato nell’ottica famigerata del “programma”. Io non penso che non si debbano avviare e aiutare i ragazzi a leggere I promessi sposi, o la Divina Commedia: ma c’è modo e modo di presentare queste cose. Già il diluire in un’ora di “lettura guidata” settimanale le disavventure di Renzo e Lucia è insensato e controproducente: lascio immaginare quanto lo sia un triennio in compagnia di spezzoni danteschi. Personalmente ho dovuto attendere vent’anni prima di decidermi a riprendere in mano quei testi, e a proporli con una convinzione non prettamente professionale ai miei allievi. Ciò non mi ha impedito di diventare un lettore forte, anzi, probabilmente lo sono diventato perché ho cercato da subito qualcosa da contrapporre a quella che mi appariva come una pratica quasi punitiva. Insomma, quello che potrebbe riuscire stimolante, inizialmente magari solo a livello di esercizio enigmistico, nel confronto con la lingua, diventa con l’imposizione ripetitiva un vero deterrente. E appare comprensibilmente difficile che a rendere vivi questi autori possano essere docenti che a loro volta li hanno già odiati. C’è per contro anche il rischio che a vivacizzarli, ad attualizzarli troppo, si finisca per stravolgerne completamente il senso, la bellezza e la portata storica, e renderli ancor più indigesti.
Il fatto è che, al di là dei problemi spiccioli di competenza cui accennavo prima, noi paghiamo lo scotto di due atteggiamenti opposti che si sono storicamente succeduti, ottenendo gli stessi risultati negativi. Dapprima ha dominato un arroccamento intellettuale che potremmo definire di stampo crociano, ma che ha origine ben prima di Croce (e che comunque ha avuto una parte preponderante nelle politiche di organizzazione del nostro sistema educativo). Ne ho già parlato altrove: al fondo c’è la presunzione di appartenenza del letterato ad una dimensione quasi sacrale, alla quale si può accedere, come diceva di fare Machiavelli, solo dopo aver indossato i paramenti sacerdotali. Il che sarebbe persino in qualche misura giusto, se non si risolvesse in una celebrazione ritualistica da un lato e nello sprezzo per tutto ciò che resta fuori, che è profano, dall’altro. Per spiegarmi meglio: se ai tempi delle medie avessi confessato di adorare Salgari e Verne, e di trascorrere molte più ore settimanali di un indiano nella loro lettura, sarei stato redarguito e invitato a non sprecare il mio tempo. Per non parlare dei fumetti, che erano oggetto di totale scomunica. Ebbene, sono convinto che gli inglesi leggano molto perché hanno imparato ad amare la lettura su Lewis Carroll, su Stevenson e su Kipling, nessuno dei quali è stato mai bollato, a differenza di quanto accadeva qui da noi, come uno “scrittore per ragazzi”. Certo, tra Stevenson e Salgari c’è una bella differenza, ma il problema è che in Italia nessuno scrittore con le doti letterarie di Stevenson si sarebbe “abbassato” a scrivere di pirati. E comunque, entrambi ti facevano tenere gli occhi incollati ad un libro.
Il paradosso è che questo atteggiamento “elitario” è poi rimasto, di fatto, nei comportamenti dalle avanguardie contestatrici e decostruttrici della seconda metà del Novecento (il disprezzo crociano per la letteratura “borghese” è parente stretto di quello riservato alle “Liale” dalla cultura “impegnata”). Abbiamo assistito a cinquant’anni di dissacrazioni insensate, fini a se stesse, mai propositive di qualcosa che andasse bene o male a riempire i vuoti creati dall’opera di demolizione. E anche il venir meno della divisione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, che altrove è sempre stata risolta in una accezione molto più comprensiva ed elastica del significato del termine, da noi ha dovuto passare attraverso cerimonie di “riabilitazione” che conferissero a tutto l’imprimatur “culturale”. Si pensi ad esempio alla vicenda dei fumetti: ho smesso di leggerli, e con me lo hanno fatto in blocco le generazioni successive, quando hanno cominciato a spiegarmi quali ideologie o idealità stavano dietro i cazzotti di Tex. Lo stesso vale per le letture giovanili. Come possono appassionarti Il richiamo della foresta o Kim (cito questi perché nella letteratura italiana non c’è un equivalente, e neppure ci sono opere che possano essere adattate alla lettura giovanile, come I viaggi di Gulliver o il Don Chisciotte), quando nell’intento di “legittimarli” culturalmente te li propongono sezionati senza anestesia, così che possa distinguere se la voce narrante è intradiegetica o extradiegetica, e non confondere la fabula con l’intreccio. Che leggere possa essere anche qualcosa di normale, e che nel momento stesso in cui offre piacere trasmetta in automatico degli stimoli alla conoscenza e alla consapevolezza, questo nella scuola non passa.
Il caso inglese cui mi sono appellato ci porta però nel cuore del problema. Abbiamo visto come gli inglesi leggano il doppio rispetto agli italiani, e questi ultimi infatti hanno a guidarli Di Maio e Salvini e quella incredibile corte dei miracoli che siede al governo o in parlamento. Ma anche gli inglesi hanno Boris Johnson, e in alternativa Corbin, e non si può certo dire che quanto a rappresentanza politica stiano molto meglio. Bisogna chiedersi allora se il rapporto più o meno forte con la lettura ha ancora a che vedere con la consapevolezza civica. E se così non fosse, perché.
Forse occorre andare più in profondità. Oppure chiamare un’altra volta in causa Baricco, anche se a questo punto la mia potrebbe sembrare un’ossessione persecutoria, o un gioco astioso a impallinarlo. Non è così: al contrario. É che Baricco si presta perfettamente al discorso che sto facendo, rimane al momento uno degli interlocutori più qualificati: o quantomeno, è tra i pochissimi che si mettono in gioco e affrontano seriamente (dal loro punto di vista) l’argomento. Il fatto poi che mi trovi d’accordo con lui quasi su nulla non significa che non gli riconosca questo merito.
Sulle bariccate
“Con il format televisivo Pickwick (significativo il sottotitolo: del leggere e dello scrivere), poi ripreso in Totem, portato a teatro e adattato in molte performance live, Baricco ha inventato una modalità di trasmissione della cultura in cui è possibile isolare dei frammenti di senso provenienti dal patrimonio della tradizione e declinarli in un linguaggio compatibile con la grammatica mentale dell’umanità presente […]”.
“Baricco descrive il mondo in cui viviamo come il risultato di una rivoluzione, quella digitale, che non ha conquistato i luoghi tradizionali del potere e del sapere, li ha aggirati e oltrepassati scavandogli sotto dei tunnel, per andare a costruire al di là una nuova dimensione dell’esistenza, in cui molti di quei poteri e di quei saperi sono disattivati. Contrariamente a quanto vorrebbe il senso comune, questo mondo non è il prodotto di strumenti che ci si sono inspiegabilmente attaccati addosso. Un’umanità nuova, modellata da una rivoluzione mentale, da uno scatto cognitivo, ha creato gli strumenti che le servivano per modificare il mondo secondo le proprie esigenze. Un’esigenza soprattutto: smaterializzare la realtà, comprimerla e compattarla per renderla disponibile a una migrazione epocale nata come una fuga e figlia della paura. Fuga da dove, paura di cosa? Fuga dal Novecento, e paura della teoria di catastrofi che l’organizzazione mentale della civiltà novecentesca aveva prodotto” (Paolo Gervasi, A che gioco giochiamo? Perché Baricco ha ragione e noi dovremmo smetterla di fare quella faccia – dal blog Che fare)
Non so se Baricco abbia isolato dei frammenti di senso, può darsi, all’epoca non ci ho fatto caso. Pickwik mi piaceva, almeno inizialmente, e consigliavo ai miei allievi di seguirlo. Per me era il modo di raccontare libri che avrei voluto incontrare quando frequentavo il liceo, e al quale ho cercato di attenermi per tutta la mia carriera di insegnante. Poi ha cominciato a irritarmi, lo trovavo sempre più insopportabilmente lezioso, e avvertivo che la presentazione si stava sovrapponendo al libro, che questo stava diventando solo un pretesto, e che lo spettacolo si stava divorando anche la letteratura. L’ho considerata un’occasione sprecata, come si poteva già evincere dalla bozza di presentazione di vent’anni fa.
Ma non è di Pickwik che intendo parlare, quanto della successiva evoluzione del pensiero di Baricco. Perché, a dispetto della puzza al naso dei circoli alti della cultura italiana, credo che Baricco vada preso sul serio, in quanto si è fatto alfiere di un modo di pensare (forse per la maggioranza non proprio di pensare, ma senz’altro di sentire) molto diffuso e a mio parere assai insidioso.
Nel 2006 Baricco raccoglieva sotto il titolo “I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione”, una serie di riflessioni pubblicate quotidianamente, per diversi mesi, su “La Stampa”, dando loro la struttura di un vero e proprio trattato e dichiarando apertamente l’ambizione di spiegare il cambiamento di cui tutti siamo testimoni, ma del quale nessuno riesce a comprendere i modi e il verso.
Per Baricco non stiamo assistendo alla trasformazione interna di una civiltà, al passaggio da una fase all’altra, ma ad una vera e propria rivoluzione, che sancisce il tramonto di un’epoca e prelude a quella successiva. A definire una civiltà sono i modi della percezione, dell’esperienza del mondo, soprattutto quelli relativi allo spazio e al tempo: e hanno naturalmente una fondamentale importanza i mezzi che rendono possibili e indirizzano questi modi. La civiltà che sta nascendo è caratterizzata da tecnologie totalmente innovative, le TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione), che non si limiteranno a potenziare, magari in modo esponenziale, le nostre facoltà conoscitive, ma ne cambieranno, anzi, ne stanno già cambiando, l’utilizzo e i parametri. L’esperienza del mondo che i cosiddetti nativi digitali faranno, limitandosi alla sua superfice, sarà facilitata dall’eliminazione degli attriti dello scavo, dell’approfondimento, dello studio, e li porterà a dar vita ad un rinnovamento radicale della società, e quindi a tagliare i ponti con tutto quanto fino ad ora è stato considerato imprescindibile per qualsivoglia crescita, in qualsiasi ambito. Avviene alla fine di ogni epoca: i “barbari” che irrompono stravolgono le vecchie regole, le vecchie istituzioni, fondano nuovi modelli di convivenza.
Fin qui, quanto all’analisi, nulla da eccepire. In fondo Baricco non fa che mettere in chiaro ciò che tutti quanti, più o meno confusamente, già avvertiamo. E lo fa in maniera efficace: quando non si perde davanti allo specchio è un grande comunicatore. Il problema si pone invece allorché passa a trattare dell’atteggiamento da assumere nei confronti di questa trasformazione. Pur chiamandosene personalmente fuori, dichiarando di esserne inquietato quanto tutti noi, Baricco la considera ineluttabile: ritiene pertanto che, ci piaccia o meno, dobbiamo prepararci ad affrontarla e, per quanto possibile, a governarla. Parole sensate: solo che poi questo modo di governarla sembra ridursi un po’ troppo ad una rassegnata acquiescenza. Ma non si limita a questo. Se la prende con gli apocalittici, coi profeti di sventura che in effetti ad ogni trasformazione, sin dai tempi biblici, hanno vaticinato sciagure e disastri, mentre poi il mondo è andato avanti come e meglio di prima. E anche questo è vero, o lo è almeno dal punto di vista dei vincitori, ovvero dei barbari che periodicamente hanno affossato le diverse civiltà. Ma non lo è altrettanto per gli affossati: perché le sventure non sono state soltanto predette, per loro si sono concretamente verificate. Voglio dire che il passaggio dei barbari ha sempre lasciato cataste di cadaveri, e rovine fumanti e tesori dispersi, e un occhio di considerazione per tutto questo bisognerebbe averlo, anche augurandoci che nel nostro caso si tratti solo di immagini metaforiche.
È a questo punto che mi diventa impossibile seguirlo. Il ritenere che tutto debba essere sacrificato all’avvento del nuovo suona molto deterministico, molto hegeliano, per non dire staliniano (“per fare le frittate bisogna rompere le uova”). Quindi, non discuto il fatto che sia in atto una mutazione antropologica, e che i nostri nipoti sentiranno e vivranno in maniera molto diversa dalla nostra. Penso anch’io che le cose andranno così: ma rivendico almeno che la direzione che hanno presa possa non piacermi, e che io debba fare il possibile per ostacolarla, senza sentirmi un reazionario abbarbicato a idealità e valori “romantici e borghesi”, che nell’accezione di Baricco sta a significare obsoleti e ipocriti.
Perché poi è lì che Baricco vuole arrivare, pur fingendo tutte le cautele e persino qualche falsa nostalgia per il mondo che fu. Non voglio mettere sotto accusa le intenzioni, soprattutto non voglio fargli dire quel che non ha detto: ma devo evidenziare le contraddizioni. Verso la fine de “I barbari” scrive “Nella grande corrente, (occorre) mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”. Verissimo: non fosse che ci ha raccontato sino ad ora il nuovo che avanza come una “fuga dagli orrori del Novecento”, e riesce difficile capire a questo punto cosa andrebbe recuperato dalle macerie.
Nel saggio che va a complemento del primo, “The Game”, pubblicato nel 2018, scrive: “L’insurrezione digitale è stata una mossa istintiva, una brusca torsione mentale. Reagiva a uno shock, quello del ‘900. L’intuizione fu quella di evadere da quella civiltà rovinosa infilando una via di fuga che alcuni avevano scoperto nei primi laboratori di computer science”. Quindi si evade da una “civiltà rovinosa” attraverso la breccia aperta dalla rivoluzione digitale: verrebbe da dire, dalla serpe che quella civiltà ha allevato in seno. Ma si evade per andare dove? Verso una filosofia della vita completamente nuova, che prevede “superficie al posto di profondità, viaggi al posto di immersioni, gioco al posto di sofferenza”. In altre parole: la cultura che sta emergendo dalla digitalizzazione del mondo non si fonda sulla discesa in profondità, alla ricerca del senso nascosto, ma sulla diffusione in orizzontale del nostro sguardo, delle nostre conoscenze, resa possibile proprio da un armamentario tecnologico che azzera i tempi e annulla le distanze. Il tema vero non è dunque in cosa consista la nuova cultura, ma come la si acquista e la si vive.
E qui Baricco esce allo scoperto. A suo parere la mutazione in corso si configura come un rifiuto della vecchia concezione “penitenziale” della cultura, alla quale viene contrapposta una concezione gioiosa e ludica. Da buoni “barbari”, i nuovi prediligono il movimento, “l’inseguimento del senso là dove è vivo in superfice”: ma un movimento soprattutto virtuale, visto che la “rivoluzione copernicana” di cui parla prevede “la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”. La superfice sulla quale si viaggia è quella dello schermo, del monitor, e non a caso la metafora della nuova realtà è il video-gioco: “Storicamente il videogame è uno dei miti fondativi dell’insurrezione digitale”.
In sostanza: “Il cuore della faccenda è lì: il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l’armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese”.
Dunque, i nuovi barbari rifiutano l’eredità di un secolo scellerato, che ha conosciuto genocidi, massacri, stermini, intraspecifi e non: e il loro rifiuto passa innanzitutto per lo smascheramento di quell’anima (intesa in senso laico, borghese) che è per Baricco una creazione degli intellettuali romantici dell’ottocento, e in nome della quale, o quantomeno di una esasperazione e distorsione del suo senso, può essere giustificata ogni atrocità. Non che i soggetti della mutazione siano del tutto coscienti di questa motivazione (questo Baricco lo concede): piuttosto sono mossi da una paura istintiva di ripetere i disastri provocati dalle generazioni precedenti, e di esserne coinvolti. Ma la loro paura ha radici più ancestrali: “Hanno paura di pensare serio, di pensare profondo, di pensare il sacro: la memoria analfabeta di una sofferenza patita senza eroismi deve crepitare, da qualche parte, in loro”.
Ecco che viene fuori il mito dell’età dell’oro: “una sofferenza patita senza eroismi”, della quale è rimasta, in profondità, una “memoria analfabeta”. È bene che spieghi meglio. Nella vecchia concezione (quella romantico-borghese, la mia, per intenderci) il percorso di costante approssimazione al senso – che poi in realtà è già esso stesso il senso – offre un piacere che fa tutt’uno con la fatica, che nasce dall’applicazione, dalla volontà, dall’emozione continua della scoperta e della conquista sudata. In luogo del videogioco, la metafora qui potrebbe essere perfettamente rappresentata dalla montagna: non a caso l’alpinismo è nato proprio nell’8oo, e lo spirito che lo anima è lo stesso che informa la concezione del conoscere (e del vivere) messa sotto accusa dai “nuovi barbari”. La direttrice è comunque quella verticale, cambia solo il verso: salire in altezza, scendere in profondità. Chi ama la montagna capisce bene a cosa mi riferisco: scalare, o anche semplicemente ascendere, sono attività tra le più faticose, ma sono anche quelle che producono il piacere più genuino e più intenso. Che non ha a che fare con la “vittoria sull’Alpe”, perché l’Alpe rimane lì, tutt’altro che sottomessa, e se affrontata nella maniera giusta ti incute solo rispetto: e perché sai, per quante vette tu salga, che ne rimangono infinite altre, e non le salirai mai tutte. La vittoria è quella di un aspetto peculiare della nostra natura, “connaturato” (e non snaturante) al comportamento della nostra specie, che si chiama “cultura”.
Ed è tale da quando siamo diventati homo, non dall’Ottocento.
Mi sorprende che Baricco, che non nasconde la sua passione per le escursioni alpine, consideri penitenziale, o peggio ancora, un retaggio borghese, questo piacere. Che arrivi a pensare che la modalità di esistenza decisiva del nuovo mondo, il divertimento, sia il contrario della conoscenza. E che addirittura ascriva alla fatica e alla difficoltà di praticare individualmente questo percorso la spinta a intrupparsi in una sorta di spiritualità collettiva, a coltivare le idee di nazione o di razza. “Ciò che non era immediatamente rinvenibile nella pochezza dell’individuo, risultava evidente nel destino di un popolo, nelle sue radici mitiche, e nelle sue aspirazioni”.
Questo vale certamente per le forme degenerate di quello spirito, quelle che, per restare dentro la metafora dell’alpinismo, hanno preso la forma della “lotta con l’Alpe” di Giudo Rey o del “bagnar le labbra alla coppa della morte” di Guido Lammer. Ma le esasperazioni vanno messe in conto sempre, e sono appunto un distorcimento, un tradimento. Non sono intrinseche all’idea, ma alla fragilità di chi le professa. Con le idealità hanno nulla che vedere: ne costituiscono solo una declinazione paranoide, a volte caricaturale: quella che tra l’altro nella nostra epoca è indotta proprio dal trionfo della virtualità e dalla iperconnettività (ci sarebbe stata la corsa ai quattordici ottomila senza la visibilità televisiva, e quindi gli sponsor, ecc …?)
Insomma, Baricco ci prospetta un mondo nel quale la concatenazione delle vette alpine potrà essere fatta in orizzontale, facendosi posare su ciascuna di esse da un elicottero, o meglio ancora, realizzandola tranquillamente a casa, al caldo e al sicuro, davanti alla consolle di un videogioco. La fatica dilettevole di cui parla è in realtà rifiuto incondizionato e aprioristico della fatica. Non solo di quella di studiare, ma anche di quella di rapportarsi concretamente, fisicamente con gli altri, senza trincerarsi dietro lo scudo di uno strumento che deresponsabilizza e permette di entrare ed uscire all’istante in quelle che sono soltanto parodie di sentimenti e di affetti (chiedere l’amicizia a chi non si conosce, uscire da una relazione con un tweet, …), o di godere di una “interattività diffusa” che sta a significare soltanto una rete di legami effimeri e leggeri. Oggi ciascuno di noi può interagire con islandesi e filippini e aborigeni australiani: ma per condividere che?
Baricco però si rende conto che al momento di definire gli atteggiamenti da assumere la sua proposta di interpretazione rimane troppo vaga, che non basta auspicare una disposizione tutto sommato umanistica, con la quale “vivere e comprendere la tecnologia senza arroccarsi né tuttavia fare carta straccia della parola scritta, del pensiero complesso e non banale”. Forse nel frattempo si è guardato attorno e ha visto che i conti non tornano. Questo sembra potersi desumere da un piccolo saggio comparso recentemente su “La Repubblica” (10 gennaio 2019), dal titolo “E ora le élites si mettano in gioco”, che chiude così: “Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare”. Non è il massimo della concretezza, ma qualche indicazione la offre. Soprattutto, però, porta allo scoperto le contraddizioni di fondo.
Se ho davvero fiducia nella cultura, l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto non mi fa vomitare, mi fa riflettere. Vomitare significa liberarsi lo stomaco di qualcosa di indigesto lasciando che la reazione arrivi dal mio corpo, da una sua intolleranza naturale. Ma in verità questa intolleranza non è naturale. Non è presente in alcuna altra specie animale. In noi è dettata dalla cultura. Se vomito, dopo sono libero, ma vuoto. Se rifletto analizzo le cause del mio disagio, considero la vicenda sotto vari aspetti, compreso il modo in cui mi è raccontata e le strumentalizzazioni di varia provenienza di cui è oggetto, libero la mente da pregiudizi e cerco di definire un mio atteggiamento concretamente conseguente. Sono tutte cose in cui il mio stomaco non ha alcuna parte, e non per una freddezza o insensibilità particolare, ma perché, al contrario, considero un mio dovere etico fare lo sforzo di conoscere, per agire poi in ragione di questa conoscenza.
Questo processo, come dicevo sopra, non è nato ieri con l’idea romantica di anima. Va avanti da centinaia di migliaia di anni. Quindi l’idea di un ritorno a una attitudine “pre-borghese” nei confronti della natura, della vita, della conoscenza mi sembra frutto di un nichilismo molto “soft”, buonista, semplificatorio e mediatico, adatto ad un consumo superficiale e veloce. Molto in linea appunto con la nuova disposizione mentale “barbarica”.
Ora, se non posso che plaudire all’invito a “Non smettere di leggere libri, tutti”, trovo sia poi difficilmente compatibile con la “superfice al posto di profondità”, con i “viaggi al posto di immersioni”. Trovo soprattutto che mal si concili con la realtà che questa nuova attitudine di pensiero sta delineando. A meno che quel “tutti”, anziché ai potenziali lettori non si riferisca ai possibili libri, stando a significare che “va bene tutto, purché si legga”. Magari senza fare troppa fatica.
Il problema è che, segnatamente in Italia, si legge invece ben poco, come raccontano le indagini cui ho fatto riferimento sopra. E anche quel poco non lo si digerisce affatto. I dati sulla frequentazione dei libri vanno integrati infatti con quelli sulla comprensione della lettura. “Non sono dati incoraggianti quelli emersi dall’ultima indagine del rapporto Ocse-Pisa 2018 (l’indagine valuta le competenze in lettura, matematica e scienze di seicentomila quindicenni di tutto il mondo, divisi in settantanove paesi) sulle competenze dei quindicenni studenti italiani, sia in rapporto all’intero Paese sia in confronto con la classifica mondiale: gli alunni italiani vengono sonoramente bocciati in lettura (meglio le ragazze), vanno un po’ meglio in matematica mentre “crollano” in scienze, la materia “peggiore” secondo l’ultimo rapporto. Per l’Italia hanno partecipato alla prova d’indagine 11.785 studenti, divisi in cinquecentocinquanta scuole: ebbene, gli alunni italiani ottengono un pessimo punteggio in lettura – 476 – inferiore alla media Ocse fissata a 487, con un giudizio ancor più preoccupante: solo un quindicenne italiano su venti riesce a distinguere tra fatti e opinioni quando legge un testo di un argomento che non gli è familiare. La media Ocse è uno su dieci. Addirittura gli studenti italiani che hanno difficoltà di base nella lettura “semplice”, che non riescono cioè ad identificare l’idea principale di un testo di media lunghezza, sono uno su quattro”.
Qui occorre capirci. O gli studenti italiani sono già incamminati a percorrere le nuove sconfinate praterie di senso aperte dalla tecnologia digitale, avanguardie rivoluzionarie che si spingono ad esplorare le terre incognite armate di minuscoli smartphone, dopo essersi liberate del fardello di una cultura vetusta e inutile; oppure sono letteralmente allo sbando, e l’iperconnessione ha creato nei loro cervelli un enorme cortocircuito, del quale ci arriva l’odore di strine. E allora sono sì le avanguardie, ma di uno sfacelo imminente. Perché stazionano al disotto di una media OCSE che negli ultimi quindici anni è scesa a sua volta. Segno che qualcosa sta cambiando a livello globale, e non esattamente nella direzione profetizzata da Baricco.
In un saggio-pamphlet di qualche anno fa (Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina 2011) l’economista e divulgatore scientifico Nicholas Carr sosteneva che l’utilizzo delle nuove tecnologie sta modificando profondamente l’attività e gli equilibri stessi del nostro cervello, dal momento che le aree coinvolte nella lettura di un libro cartaceo vengono sottoutilizzate, mentre quelle collegate alla lettura su schermo tendono all’ipertrofia. Il risultato inevitabile è che il pensiero logico-deduttivo, lo scavo interiore, l’esercizio della facoltà della memoria, e cioè le specifiche abilità e attività collegate alla cultura della pagina a stampa, che richiedono un notevole impegno di tempo, sono destinate a passare in secondo piano rispetto alle competenze fisiologiche necessarie per la fruizione dei nuovi media, i quali privilegiano invece lo svolgimento in contemporanea di più funzioni (il multitasking). Ci si attenderebbe che la conseguente liberazione di tempo sia andata a vantaggio quanto meno di una più intensa e aperta attività relazionale: che cioè i giovani emancipati dalla oppressiva cultura libresca sfruttino gli spazi temporali riconquistati per incontrare i loro coetanei, sia pure in un rapporto giocoso e superficiale. Invece pare non sia affatto così.
Torno alle cifre, perché se trattate con criterio sono più eloquenti di mille discorsi. Queste le traggo dall’inchiesta ISTAT Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale, aggiornata a tutto il 2017. I primi numeri riguardano lo stato della “rivoluzione digitale”. Per l’Italia, la media degli utenti giornalieri di Internet è del 65,3 % della popolazione. Nell’anno in cui usciva “I barbari”, tanto per intenderci, erano il 36%. In testa ci sono naturalmente i giovani: le generazioni nate tra il 1966 e il 1980 col 79,6%, quelle tra il 1981 e il 1995 con l’86,1%, e i nati tra il 1996 e il 2010 con il 73,6 % (tra i laureati le cifre si avvicinano al 100%). (Una rilevazione europea più recente indica però, per i giovani tra i sedici e i diciannove anni, una percentuale molto più alta, attorno al 91%: che è comunque la più bassa in Europa, dopo quella della Romania). L’accesso ad Internet avviene per il 78% via smartphone, per il 69% tramite computer, o notebook, per il 29% col tablet. E soprattutto gli adolescenti risultano utilizzare Internet in luoghi diversi (a casa propria, sul luogo di studio, a casa di altri, altrove) il che indica una fruizione giornaliera che non è più relegata alla propria abitazione e ad una postazione fissa (infatti, solo il 20% di loro si collega tramite computer).
Ancora una nota di genere: le ragazze tra gli undici e i diciassette anni risultano utilizzare più frequentemente dei coetanei maschi sia il telefono cellulare sia internet. C’era naturalmente da aspettarselo. Volendo, da questo dato si possono trarre una indicazione e un auspicio positivi, nel senso che di fronte ad un cambiamento radicale della mentalità e dei valori è l’elemento femminile a guadagnarci, oserei dire a trovarsi non solo in condizione di parità, ma addirittura di vantaggio – perché i valori e la mentalità in disarmo erano indiscutibilmente informati ad una dominanza maschile –, e che una “femminilizzazione” della civiltà ventura potrebbe eliminare o contenere proprio le derive criminali di quella precedente. Non lo ha fatto Baricco, lo faccio io. Anche se è una ipotesi tutta da verificare.
Si può dunque affermare che almeno per quanto concerne il primo momento, quello del passaggio a nuove tecnologie, la rivoluzione è già compiuta. Stiamo entrando nella fase “costituente”. E cominciamo a intravvederne gli effetti.
La stessa inchiesta mette infatti in evidenza un rapidissimo cambiamento nel modo di relazionarsi con i coetanei da parte degli adolescenti. La frequentazione quotidiana diretta, fisica, degli amici, fuori dall’ambito scolastico, riguarda una quota via via decrescente di giovani: si passa dal 60,1% del 2008, al 56% del 2011, arrivando nel 2014 al 53,2%. Negli ultimi cinque anni la percentuale è scesa ancora, al di sotto del 50%.
Fino a ieri l’esperienza della relazione con i pari età era considerata un passaggio fondamentale della crescita e della trasformazione in adulti. Non solo: era intesa come assolutamente naturale, indispensabile per una corretta maturazione. Dava l’occasione di confrontarsi in campo neutro, al di fuori dalle sicurezze famigliari e dei regolamenti scolastici, di smorzare eccessive presunzioni e sicurezze, di vincere paure e timidezze. Non mancavano naturalmente i possibili risvolti negativi, e in qualche caso poteva anche rivelarsi devastante. Ma di norma consentiva di instaurare il primo vero rapporto di tipo spontaneo, non mediato o controllato dagli adulti, e insegnava ad autoimporsi regole e limitazioni. Da cosa viene sostituita questa frequentazione al tempo della rivoluzione digitale?
A quanto risulta sopra, da una solitudine diffusa, che alimenta forzatamente il distacco dalla realtà ed una confusione crescente tra i due piani, quello reale e quello virtuale. Baricco come abbiamo visto ne parla, (“la dissoluzione della frontiera psicologica che separa come due momenti diversi dell’esperienza il mondo reale e quello digitale”), ma la cosa non sembra preoccuparlo più di tanto: è un aspetto della nuova attitudine psicologica, che in fondo rispecchia una dimensione economica e un futuro professionale già decisamente “virtualizzati” (si pensi alla “virtualità” della finanza, che ha in mano il mondo). La fine dei sodalizi fisici, profondi e duraturi è compensata a suo giudizio dal moltiplicarsi dell’apertura a relazioni multiple, occasionali, temporanee e superficiali, che corrono lungo i fili della rete per tutto il globo. E questo anzi, assieme alla facilità di informazione, aiuterà le nuove generazioni ad acquistare maggiore consapevolezza dei problemi sociali ed ambientali, e consentirà l’esercizio di una reale democrazia diretta, la creazione di movimenti spontanei, di grandi aggregazioni su tematiche specifiche, di forme di resistenza non manipolabili e non controllate dai vecchi sistemi di potere partitici e al tempo stesso dotate di una grande forza d’urto, di un grande peso (stava pensando ai i pentastellati, preconizzava Greta o le sardine?)
È questo modo di banalizzare il problema, di mettere cornici alle finestre per farle sembrare quadri, a riuscirmi particolarmente indigesto. Per il momento, l’unica cosa che sembra davvero crescere è una presunzione di irresponsabilità totale, alimentata sia dallo spostamento dei soggetti coi quali ci si relaziona in una dimensione virtuale, ciò che ne annulla la realtà fisica e psicologica, sia dal senso di leggerezza e transitorietà che ogni azione acquista in questo contesto. E ciò spiega le ultime drammatiche cifre che vado a proporre, pescandole dalla recente Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo prodotta dall’ISTAT (marzo 2019).
Nella presentazione si fornisce una descrizione essenziale del fenomeno: «Per bullismo si indicano generalmente le prepotenze perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti dei loro coetanei. La definizione del fenomeno si basa su tre condizioni: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione. Esso è pertanto contraddistinto da un’interazione tra coetanei caratterizzata da un comportamento aggressivo, da uno squilibrio di forza/potere nella relazione e da una durata temporale delle azioni “vessatorie”».
Nell’indagine, ai ragazzi da undici a diciassette anni è stato chiesto se nei dodici mesi precedenti l’intervista hanno subìto una o più prepotenze. Il fenomeno risulta in continua crescita ed evolve rapidamente: le nuove tecnologie sono divenute ulteriori potenziali strumenti attraverso cui compiere e subire soprusi. Da qui la necessità “di monitorare anche il cyberbullismo, che consiste nell’invio di messaggi offensivi, insulti o foto umilianti tramite sms, e-mail, diffuse in chat o sui social network, allo scopo di molestare una persona per un periodo più o meno lungo. Un aspetto che differenzia il cyberbullismo dal bullismo tradizionale consiste nella natura indiretta delle prepotenze attuate in rete: non c’è un contatto faccia a faccia tra vittima e aggressore nel momento in cui gli oltraggi vengono compiuti”.
Poi arrivano le cifre. “Più del 50% degli intervistati 11-17enni riferisce di essere rimasto vittima, nei 12 mesi precedenti l’intervista, di un qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento. Una percentuale significativa, quasi uno su cinque (19,8%), dichiara di aver subìto azioni tipiche di bullismo una o più volte al mese. In circa la metà di questi casi (9,1%), si tratta di una ripetizione degli atti decisamente asfissiante, una o più volte a settimana. Le ragazze presentano una percentuale di vittimizzazione superiore rispetto ai ragazzi. Oltre il 55% delle giovani 11-17enni è stata oggetto di prepotenze qualche volta nell’anno mentre per il 20,9% le vessazioni hanno avuto almeno una cadenza mensile (contro, rispettivamente, il 49,9% e il 18,8% dei loro coetanei maschi). Il 9,9% delle ragazze subisce atti di bullismo una o più volte a settimana, contro l’8,5% dei maschi”.
Per quanto concerne il nostro tema specifico, “il cyberbullismo ha colpito il 22,2% di tutte le vittime di bullismo. Nel 5,9% dei casi si è trattato di azioni ripetute (più volte al mese). La maggior propensione delle ragazze/adolescenti a utilizzare il telefono cellulare e a connettersi a Internet probabilmente le espone di più ai rischi della rete e dei nuovi strumenti di comunicazione. Tra le 11-17enni si registra, infatti, una quota più elevata di vittime: il 7,1% delle ragazze che si collegano ad Internet o dispongono di un telefono cellulare sono state oggetto di vessazioni continue tramite Internet o telefono cellulare, contro il 4,6% dei ragazzi. Vi è inoltre un rischio maggiore per i più giovani rispetto agli adolescenti. Circa il 7% dei bambini tra 11 e 13 anni è risultato vittima di prepotenze tramite cellulare o Internet una o più volte al mese, mentre la quota scende al 5,2% tra i ragazzi da 14 a 17 anni”.
Proviamo ora a convertire le cifre in persone e in fatti. Dire che oltre il cinquanta per cento dei giovani ha subito atti di bullismo significa dire in concreto che più di due milioni e mezzo di ragazzi o ragazze in questo paese sono stati (e sono attualmente) vittime di questo tipo di violenza: e che ci sono in circolazione almeno altrettanti persecutori (considerando che l’incidenza di quelli seriali è compensata dal fatto che un atto di vigliaccheria viene commesso di solito in gruppo).
Facciamo pure la tara al fenomeno. Il bullismo è sempre esistito, dentro come fuori delle scuole. Probabilmente era meno intenso, senz’altro era meno visibile, perché non veniva raccontato in rete, documentato coi telefonini e ripreso dalla grancassa dei media. Ufficialmente, all’interno della scuola, era meno tollerato: di fatto, era forse subito in maggior silenzio dalle vittime. La sua recrudescenza in questi ultimi anni non è però soltanto frutto di un’impressione creata dalla maggiore visibilità: dentro la scuola stanno esplodendo le stesse dinamiche relazionali negative che già caratterizzano la quotidianità esterna, e che evidenziano un generalizzato imbarbarimento dei costumi. I nuovi barbari evidentemente non sono solo cacciatori orizzontali di senso: sono prima di tutto bulli a scuola, prevaricatori e violenti in famiglia, e rivendicano orgogliosamente una maleducazione ottusa.
Quel che è certo è che il cyber-bullismo non esisteva: è un prodotto specifico della rivoluzione digitale. E il fatto che il fenomeno sia in costante aumento ci dice che non si tratta di una semplice spellatura causata dai traumi del passaggio. È una ferita che si sta allargando. Ha un bel dire Baricco che “Ciò che è percepito dai più, soprattutto da noi di sinistra, come un’apocalisse imminente è, in verità, il vero annuncio del futuro” (appunto!). E che durante una rivoluzione di questa portata non può andare tutto liscio e i conflitti, le violenze, le sofferenze e le perdite vanno messi in conto, ma che alla fine i conti tornano, perché la migrazione ha fatto uscire l’umanità dall’inferno del Novecento. Stento davvero a credere che i piccoli bulli di oggi possano diventare cittadini responsabili, digitalizzati o meno, di un futuro mondo migliore. Ho invece l’impressione che a dispetto di tutte le azioni di contrasto che inchieste come quella appena citata immediatamente evocano, e che purtroppo hanno le stesse probabilità di successo del progetto da cui sono partito per queste riflessioni, il domani non riserverà ai nostri nipoti “esperienze autentiche, creatività e conoscenza”. Esperienze senz’altro sì: ma di un genere del quale farebbero volentieri a meno.
Non si tratta di essere “apocalittici”, ma di guardare in faccia la realtà. Al momento la gioiosa rivoluzione cui Baricco ci invita a partecipare senza storcere troppo il naso ha prodotto solo danni. Anche a volerli considerare uno scotto da pagare rimane poi il problema di fondo: da pagare per cosa? un obolo per dove? Per il paradiso dei surfers della conoscenza? Per un mondo nel quale tutti abbiano la possibilità di far sentire la loro voce, anche quando non hanno proprio nulla da dire, e ciò che hanno sarebbe meglio non lo dicessero? Perché questa, piaccia o meno, è la realtà con la quale si confronta chi nel quotidiano c’è immerso, e magari ha scarsa lungimiranza, non riesce a scrutare nel futuro, ma il presente lo vede benissimo. E, forse proprio perché ha poco futuro davanti, si sente in dovere di attribuire il giusto valore al passato. E di rivendicare il diritto alla sua difesa.
Qualcuno da incolpare
A dispetto delle apparenze non sono uno che si crogiola nelle nostalgie. Soltanto, di fronte ad una prospettiva che mi pare disastrosa mi ostino a cercare di capire, e nel caso sono disposto a mutare opinione, sempre che qualcuno riesca a farmi intravvedere spiegazioni plausibili e rimedi possibili. È chiaro che Baricco non mi ha convinto. Non mi ha convinto prima, col saggio sui barbari e con quello sul Game, e non mi convince nemmeno ora, quando torna col breve intervento su Repubblica ad affondare l’attacco contro le élites. Non per difetto di lucidità nel trattarli, che anzi, ce n’è sin troppa, ma perché siamo alle solite: a spiegarmi qual è il problema e cosa devo fare o pensare è chi il problema in qualche misura ha contribuito a crearlo, o almeno fa pienamente parte della casta che lo ha creato. E che adesso quella casta la mette sotto accusa, togliendomi anche la piccola soddisfazione di farlo dal di fuori, e addirittura invertendo le parti.
Sentiamo. “Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì”.
“Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente […] Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono”.
Andiamo con ordine. Intanto l’attacco era prevedibile. È un refrain da tempo nell’aria, lo fischiettavano molti già nel secolo scorso, nelle più disparate tonalità, da Charles Wright Mills a Christpher Lasch, Oggi viene ripreso con toni decisamente più beceri da un sacco di nuovi profeti della “rivolta delle masse”, giù giù a scendere, fino Trump e a Salvini e di Maio. Di nuovo c’è l’inclusione nel concetto di “élites del potere” di una nuova categoria, quella degli intellettuali. Ma è un’inclusione che, come vedremo, nasce da un grosso malinteso.
Baricco va dritto al bersaglio, per scoprire peraltro l’ovvio: le élites sono costituite da “coloro che contano”, una minoranza ricca e molto potente. Sono quelli, per dirla con una sua elegante espressione, che “tengono per i coglioni il mondo”. Il mondo sarebbe poi “la gente”: ovvero tutta la moltitudine esclusa dalla “zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi”. La gente (se preferite, il popolo) si è lasciata strizzare le palle sino a che le sono arrivate almeno le briciole del pasto: ma dopo che la crisi ultima ha inceppato la distribuzione, si è presentata a regolare i conti: “È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o la cancellazione delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Sono riscossione crediti”.
Abbiamo già elementi sufficienti per capire a che profondità si spinga l’analisi di Baricco. La “gente” di cui parla non rappresenta affatto l’insieme multiforme del “popolo”. Perlomeno, non ancora. E comunque lo rappresenta male. La maggior parte di coloro che ricevono il reddito di cittadinanza o strappano le cartelle di Equitalia non riscuote crediti, perché non aveva mai maturati. Metterla giù in maniera diversa è appunto “populismo” della peggior specie.
Ma a me interessa qui il concetto baricchiano di élite. Il termine francese starebbe a indicare “coloro che sono stati scelti”. Scelti per cosa? Per rappresentare e guidare tutti gli altri. Che abbiano tradito questo mandato, è fuori di dubbio. Ma lo è altrettanto il fatto che tutta la storia è costellata di questi tradimenti, perché chi è stato scelto tende a rendere questa condizione stabile o addirittura ereditaria. E infatti, il cammino storico è anche costellato delle conseguenti rivoluzioni. Non mi sembra dunque così folgorante l’intuizione per cui la rivoluzione “digitale” “era una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, una nuova moralità”. Mai sentito parlare della rivoluzione francese?
Veniamo però agli azzerandi. Intanto, nel lungo elenco che ho accluso le élites sono confuse con i VIP, con coloro cioè che “compaiono”, in un modo o nell’altro, nel mondo mediatizzato. Baricco sembra adottare una versione aggiornata e americanizzata del termine, nella quale l’idea di una scelta, di una responsabilità conferita, scompare, a favore del puro e semplice criterio della visibilità. E allora dovrebbe procedere di conseguenza. Non si capisce infatti cosa c’entrino i broker, gli artisti di successo e quelli che stanno nei consigli di amministrazione con coloro che hanno in casa più di cinquecento libri. Io ne ho almeno trenta volte tanti, ma non sono né un uomo di successo, né un influencer, né tantomeno un uomo di potere. E, al contrario di Baricco, non amo affatto comparire (nell’universo sconfinato dei social network e dei blog esiste una sola mia immagine, di spalle, ficcata lì quasi a tradimento da un amico. Di questo amico, e di tutti coloro che mi corrispondono, non ne compare nemmeno una).
Se le élites sono “quegli umani lì”, appartengo (apparteniamo) a un altro ramo della specie. Non uso i miei più di cinquecento libri come massa d’urto per sfondare, come carico per pesare o come suppellettili per stupire: non li ho ereditati da nessuno, li ho raccolti io, lungo una vita spesa da un lato a lavorare, nella scuola, in campagna e in altre attività che probabilmente Baricco nemmeno immagina esistano, dall’altro a cercare di capire anche attraverso loro il senso di quello che stavo facendo: mi hanno aiutato, e oggi li considero i miei migliori compagni di viaggio.
Ma il fatto davvero importante è che non sono l’unico. Esiste tutto un mondo di persone che possiedono centinaia di libri perché semplicemente trovano piacere e conforto nella loro compagnia. Costoro fanno il proprio lavoro senza esserne schifate, non hanno debiti con Equitalia, non sono complici dell’ingiustizia e della violenza del sistema, ma nemmeno credono nelle gioiose rivoluzioni che proprio i più autorevoli esponenti o rampolli delle élites vengono periodicamente a proporre loro.
Non sono “quegli umani lì”, moralmente ciechi. Sono umani che moralmente ci vedono benissimo: piuttosto, sono loro a risultare invisibili agli occhi dei “rivoluzionari”, barbari e no. Sono persone che all’ingiustizia e alla violenza oppongono quotidianamente, sui posti di lavoro, in famiglia, nelle relazioni sociali, un comportamento corretto, che non è dettato da un moralismo ottocentesco e ipocrita, ma dal buon senso, dalla razionalità, da un istinto positivo di sopravvivenza. Sono quelli che le macerie le rimuovono, che tacitamente ogni volta ricostruiscono, e lo hanno fatto da sempre nella storia.
Queste persone si sono guadagnate tutto ciò che possiedono, spesso persino una lingua che non hanno succhiato col latte materno, che è stata sudata sui banchi di scuola, ma che ha aperto loro un mondo infinito, proprio quello dei libri, e non le porte delle accademie, dei salotti buoni o della televisione. In quegli spazi non saprebbero nemmeno muoversi, e comunque non interessano loro, perché non hanno tempo da perdere. Non si riconoscono nella “gente”, non ambiscono ad accedere ai piani superiori, non sono etichettabili né come borghesi, né come ceto medio, né come proletari, anche perché queste categorie, nella loro accezione storica, non esistono più. Sono piuttosto degli aristocratici nel pensare, dei democratici (consapevoli) nell’agire.
Certo, queste persone vedono con raccapriccio la mutazione, e non perché temano di perdere il posto o la poltrona: in realtà sono loro i veri corpi d’élite, quelli che hanno portato da sempre avanti il mondo, che hanno davvero conferito un senso all’eccezionalità di essere homo. Non li ha mai scelti nessuno, si sono scelti sempre da soli. E la loro non è una scelta di sacrificio, al contrario, è una scelta di piacere, di divertimento, e di questo i libri sono una gran parte.
Io credo che “questi uomini qui” la rivoluzione l’abbiano già fatta, da sempre, al proprio interno, e l’abbiano esportata senza clamori, con umiltà, all’esterno. Hanno costruito con la carta muri di sostegno, o di contenimento delle slavine e della barbarie, e non i muri divisori di cui parla Baricco, che sono una specialità invece dell’élite di cui lui fa parte. E quindi si sottraggono senza alcuno sforzo al Game, non perché rifiutino ostinatamente le novità comunicative, ma perché hanno già imparato a farne un uso alternativo.
È naturale la loro resistenza di fronte ad “un mondo in cui la loro (nostra) mediazione non è più richiesta, e in cui non è più comprensibile il valore degli oggetti che crediamo di custodire, e che dovremmo tramandare”. Perché non sono oggetti quelli che si impegnano a tramandare, e nemmeno privilegi, capitali, poltrone, ma forme profonde di conoscenza e idee alte di moralità che il mondo non può permettersi il lusso di perdere.
Intendiamoci, questo almeno lo sa benissimo anche Baricco. “Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più. Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti”.
Il problema nasce, come già dicevo, quando deve venire al dunque: cosa bisogna fare, allora? “Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio”.
E Cioè? Non è che “loro”, lui, le élites consacrate dalla visibilità, “i più veloci che vanno avanti, creando il futuro”, potrebbero ad esempio rallentare un attimo, rimboccarsi le maniche e dare per una volta una mano a sgomberare le macerie, per poter poi ritirare su tutti i muri che hanno “gioiosamente” contribuito ad abbattere, magari diradando un po’ le marchette televisive e anche quelle teatrali e librarie? Ecco, per scendere nel concreto: non è che Baricco potrebbe seguire gli esempi, che già esistono, di un uso davvero “democratico” e innovativo del web, mettendo a disposizione gratuitamente le sue riflessioni, consentendo di scaricare i suoi libri, anziché limitarsi ad autografarli per un pubblico adorante e pagante? E stanando così anche quelli che si rifugiano nelle loro biblioteche? È un gesto piccolo, ma proprio in ragione della visibilità e dell’appartenenza di chi dovrebbe compierlo potrebbe riuscire, una volta tanto, davvero rivoluzionario.
Non può permetterselo? Ci fossero delle difficoltà, potrà sempre farsi ospitare sul sito dei Viandanti.
L’articolo-saggio di Baricco comparso su Repubblica ha prodotto naturalmente reazioni a catena, puntualmente registrate e pubblicate (almeno le più significative) sulla testata. A significare che almeno il merito di aver sollevato la questione Baricco ce l’ha. Tra le molte ho scelto di allegare a questo scritto quella di Mila Spicola, insegnante, pedagogista e scrittrice. Per due ragioni. Da un lato perché trovo più che condivisibili alcune osservazioni, quelle relative ad esempio ai criteri (inesistenti) di reclutamento degli insegnanti: dall’altro perché offre un esempio dei rischi introdotti proprio dalle nuove modalità di comunicazione, di scrittura. Rischi legati all’eccessiva velocità, che si traduce in superficialità, nello smantellamento gratuito di un sistema di regole che non sarà il verbo evangelico ma è stato costruito nei secoli, con molta fatica, proprio per arrivare a condividere una piattaforma linguistica comune chiara e precisa. Fare la democrazia non significa abbattere le porte per facilitare l’accesso, ma rendere tutti capaci di aprirle, magari con un minimo sforzo. Le porte abbattute prima o poi risultano d’intralcio, il libero accesso senza chiavi si risolve in una Babele. Quindi, cominciamo col dare l’esempio di un minimo di rigore, anche se il termine non va più di moda. Se si usa una voce latina, ad esempio, la si cita nella dizione corretta, per cui si scrive auctoritas, e non autoritas. Dopo “non ci riferiamo” si mette “ai ceti poveri”, e non “dei ceti poveri”. Imperfezioni di questo genere appaiono certamente veniali nel contesto di una scrittura per altri versi chiara, diretta e accattivante, almeno per chi ama lo stile sbarazzino. Ma, come diceva quel tale, parlando del pesto con le noci, occorre prestare attenzione anche ai particolari apparentemente insignificanti, perché si comincia così e si finisce poi a letto coi consanguinei.
Ciò su cui mi trovo meno d’accordo, però, è affermazione più volte ribadita che la cultura non ha offerto alle masse una possibilità di riscatto, ma è diventata al contrario strumento di ricatto. Perché non l’avrebbe offerta? Perché non ha consentito di azionare gli ascensori sociali, che hanno continuato ad essere gestiti da coloro che la cultura l’hanno sempre detenuta e indirizzata. Il che è vero, ma solo in parte, solo se si ritiene che il ruolo della cultura sia quello di far ascendere socialmente. Io ritengo debba essere piuttosto quello di fare crescere interiormente. E non mi si venga a dire che il messaggio delle élites era diverso. Sarà anche così, ma si poteva benissimo tradurlo diversamente: se l’ho fatto io, che non sono nemmeno troppo sveglio, possono farlo tutti.
Appendice
MILA SPICOLA – La ribellione delle masse, Baricco, Mazzucato e nemmeno io mi sento tanto (bene)
“L’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone ovunque”: Ortega y Gasset, La ribellione delle masse. 1930. Rileggetelo se lo avete letto, leggetelo se non lo avete fatto. E leggete anche qualche riflessione fatta intorno a quel libro, per avere chiaro cosa ha significato, in quel tempo e dopo.
Ho letto attentamente e più volte sia il libro, The Game, sia l’articolo di Alessandro Baricco comparso su Repubblica, e anche quello di Marina Mazzucato, uscito in replica a Baricco, sempre su Repubblica. Molte le cose che possiamo condividere, e come potrebbe essere altrimenti? Riflessioni necessarie. Decisive. Alcune no, ma molte da sviluppare.
Non oggi, né stamattina, né solo dal 2008 a oggi, le masse si ribellano alle élite, è il percorso della Storia. La mia tesi è che oggi le masse si ribellano sì, come ieri, a forti diseguaglianze sociali, ma che vi sia un ingrediente ulteriore e che l’analisi non è così semplice: si ribellano alla cultura come ricatto, brandita dalle élite, quando le élite stesse hanno distrutto l’idea della cultura come riscatto e dunque se la sono andata a cercare eccome la ribellione. Sono sotto gli occhi tu tutti le conferme a questa mia idea.
E non so nemmeno se infilarci quel periodico senso di rifiuto delle autoritas nella Storia quando le classi culturali egemoniche diventano solo strumenti di conservazione del potere e non cercatrici di verità e conoscenza per perseguire progetti di comunità ovvero di sincero bene comune capace di comprendere non solo le proprie ma soprattutto le altrui ragioni e sentimenti.
Ma siccome oggi ogni disegno d’avvenire, di crescita, di riorganizzazione della produzione e dunque della società e della cultura, è impensabile fuori da un discorso sui saperi, nuovi e vecchi, sulla conoscenza, nuova e vecchia, forse è lì che dobbiamo andare a scavare: sul sapere delle masse e sulle masse al sapere. Perché lo slogan la cultura alle masse è ancora uno slogan.
Ipse dixit ma lui chi è? Spostare la verità alla credibilità. Nell’era della diffidenza, conta più la persona credibile che il vero. No, non è la prima volta che accade. Cristo non è stato l’unico. E se la persona non è credibile, meglio il falso piuttosto che accettare il vero da persone di cui si diffida. Accade quando: ma che, me stai a fregà? Direbbero a Roma.
Le élite hanno fregato larghe fasce di società, non voglio chiamarlo popolo perché l’idea di popolo è un a priori o a posteriori alla bisogna, artificiale e abusata. Ma masse, sì. Possiamo chiamarle masse. C’è del buono nel populismo? C’è del giustificabile, però, sì. Le famose ragioni dell’avversario. E ne ha di ragioni l’avversario. A voglia. Bisognerebbe ammetterlo.
Il tradimento delle masse non è stato solo o soltanto sul terreno della ricchezza ma soprattutto sul tema culturale, per le masse, sul tema identitario, per quelle élite progressiste che facevano riferimento alle socialdemocrazie. Si sono tradite promesse non solo di benessere materiale, ma di riscatto, di meritocrazia, di onestà. E non ci riferiamo soltanto di ceti poveri, ma anche e soprattutto di ceto medio impoverito o privo di comfort zone relazionali. I nemici sono le lobby, gli amici degli amici che impediscono il regolare percorso del riscatto.
Le masse nel dopo guerra hanno avuto tutte l’accesso a scuola, ma la scuola non è riuscita a garantire il “successo scolastico”, chiamiamolo così, a tutta la massa. Non tanto per intenzione, sono enormi gli sforzi di scuole e docenti, al di là della vulgata, ma per disorganizzazione di sistema, per carenza di risorse, per mancata necessità di formare un ceto docente di professionisti da selezionare con cura e non di impiegati da campare e immettere a casaccio, delitto che parte dal vertice e da élite distratte. Altro tradimento.
Per mantenere una qualche parvenza di efficacia ed efficienza, si è conservata tale e quale la separatezza tutta reazionaria tra cultura manuale (definita non cultura, e dunque non degna di pari rigore, apprezzamento e qualità) e cultura teorica e, all’interno di quella teorica, identiche e ulteriori separazioni gerarchiche tra culture umanistiche, scientifiche, tecniche.
Come se il tecnico non dovesse pensare o l’umanista non dovesse sapere come si accende il mondo. Non solo: formazioni diverse, per vite diverse, per riconoscimenti economici diversi, per linguaggi diversi, anche di valore, hanno scavato abissi reazionari, spacciati per progressismo. Non lo è. Lungi ma molto dall’obiettivo dell’uomo completo che era la parte più illuminante del Marxismo. Dunque paratie tra élite e massa. “Scusa, chi vi vieta di studiare?” A chi lo chiediamo? A un bambino a cui abbiamo tolto prima di dare?
La prima ribellione contro le élite nasce dentro le scuole e contro le scuole quando non son capaci, non tanto per loro quanto per altrui responsabilità, di accogliere, supportare, motivare. Che il 50/60 % circa di studenti italiani abbia usufruito almeno una volta di lezioni private per recuperare insufficienze significa due cose: che la scuola è insufficiente e che chi non può permettersele rimane indietro senza che il sistema se ne occupi in modo sistematico e strutturato.
Quale riscatto? Quale ascensore? Quale mobilità? Ed ecco che la questione si complica e i piani si intersecano: la cultura diventa il ricatto di quelli che stanno più su, non il riscatto per quelli che stanno più giù. E una società di ascensori, bloccati o funzionanti, e non di orizzonti liberi, è la precondizione dei demagoghi. Luna, che fai in cielo, dimmi che fai, dice la massa errante.
“Hai dei dati per supportare ciò che dici?” dice l’élite. Dall’altro lato la rabbia. Che pare senza ragione ma ha mille ragioni. Masse enormi in preda l’analfabetismo funzionale. E sono proprio quelle masse a ribellarsi, non solo per questioni di fame, ma per farsi ascoltare.
Vero è, come ricorda Baricco, che l’accesso a tutte le informazioni oggi è consentito alle masse. Ma non è cultura e siamo in preda a babeli linguistiche. Leggono poche e superficiali notizie in rete e non comprendono perché la filosofia, la poesia, la letteratura, cioè il riflettere consapevolmente, l’approfondire, il legare i puntini, non è stato dato insieme al cacciavite nelle immense periferie della speranza, non si è coltivata fino in fondo l’utopia possibile dell’istruzione come riscatto. Siamo il paese che legge meno, fino ad oggi non è mica stato un problema.
C’era la fabbrica aperta e funzionante a dare comunque un posto nel mondo al pastore errante e a tenerlo buono e complice, oggi le crisi glielo hanno tolto quel posto e complice non può più esserlo. I libri potrebbero salvarlo. Promesse tradite insieme a lacerti di supposto bene comune puntualmente smentito da tutte le élite che si sono susseguite. E dunque la rabbia verso la cultura come ricatto a fronte di un sapere minimo che per molti non ha significato riscatto.
I demagoghi poi son bravi perché lo han tramutato nell’incolto al potere e nel potere degli incolti. Se lo meritano? Eppure son state per prime le nostre élite progressiste a tradire chi se lo meritava, se ormai milioni di diplomati e laureati eccellenti vanno a mostrare eccellenze altrove perché da noi il loro merito non viene né cercato, né individuato, né riconosciuto, né ripagato, in modo libero, economicamente o nel ruolo. Non è mica responsabilità delle masse, ma delle élite chiuse, se è la cooptazione a dettar le regole nella finta valutazione prevalente. Le masse si ribellano per come possono, col voto, scegliendo dunque gli incolti.
Lungi dal governarle quelle valanghe informative digitali che sono liane di una foresta amazzone buia e non districabile se si avanza raso terra, le masse rabbiose sono facili dall’esserne governate. Si muovono per sentito dire, per percezione, per branchi di fiducia necessaria a panzane insostenibili e le ignoranze sono il mezzo più efficace usato da abili manovratori di potere per goderne e nello stesso tempo apparire come salvifici.
Salvifici perché ne comprendono le paure, le emozioni, le ragioni, gli svaghi e gli stadi, cinematografici, musicali, digitali o sportivi. Vale per il pensionato del Galles che vota convinto per la Brexit, come vale per l’operaio dell’Arkansas, come per il disoccupato di Canicattì, come l’ultras dell’Olimpico, come per il pop singer un po’ spaesato, come il piccolo artigiano delle valli bergamasche. Accomunati spessissimo da un “quanti libri ha letto lei nell’ultimo anno?” “Nessuno”. O uno, al massimo due. E le élite progressiste che fanno? Langue sepolta in un campo di grano, non è la rosa, non è un tulipano, è un disegno di legge per la promozione della lettura.
Ci giro e ci rigiro: compito del popolo è istruirsi, diceva quello. Compito della sinistra, o delle élite progressiste e riformiste, o chiamiamole come vogliamo, era istruire il popolo, le masse. Non lo abbiamo fatto, abbiamo finto di farlo.
In realtà abbiamo messo un po’ di cipria a un sistema d’istruzione che è rimasto a invecchiare fascista, e cioè profondamente convinto, inconsapevolmente, per sciatteria, delle divisioni, mentre si ostinano a definirle unioni. E noi zitti. Divisioni ovunque, ovvero che la teoria dovesse essere totalmente separata dalle prassi, e che l’intelligenza è tutta teoria e la prassi è del poco intelligente e, da doppio binario a doppio binario, a chi offrire il primo e a chi il secondo e non entrambi? Vedi caso combinazione ai poveri. Porta dritto dritto a divisioni e poi a diseguaglianze sociali.
I poveri non han richieste in tal senso, mica vogliono gli asili e il tempo pieno, a ben riflettere non vorrebbero nemmeno l’obbligo scolastico eh; e dunque scordiamocene, a loro niente asili, niente tempo pieno, niente recupero delle insufficienze. Niente cultura perché non c’han testa e mica ci vuole Leopardi per avvitare bulloni. O montare pc. O lavare piatti.
Però serve a capire il bicameralismo perfetto e come si approva una legge di bilancio e come vengono sottratte libertà democratiche. Qualora noi volessimo sollecitare le masse su questi temi nessun stupore se ci ritroviamo senza gente intorno. Se non quelli del binario nostro. E i docenti? A volte élite, a volte massa, a volte esclusi, a volte ribelli, a volte, boh. A seconda da chi siano, da dove vengano e da come sono arrivati dietro una cattedra. Mille soli diversi, diceva un altro.
Dimenticando, o non sapendo, per primi proprio i docenti, oltre che le élite, che ci vuol scuola democratica e democrazia della cultura per mantenere la democrazia, oltre che pane. La cultura come riscatto e per il riscatto viene negata puntualmente dal sistema, non dai singoli, agli esclusi con ogni genere di ragioni o priorità altre.
Sic et simpliciter. L’uomo completo non lo abbiamo voluto. Marx, Gramsci, Trentin, Visalberghi, ma anche il Kennedy che avrebbe attuato una riforma della scuola pubblica democratica negli Stati Uniti come mezzo per recuperare alla democrazia radicale e piena le enormi masse povere hanno scritto e detto cose dimenticate da troppi e per troppo tempo. Di che parlo? Torniamo a studiare e a unire i puntini per capire, nemmeno le élite studiano più. Se non se stesse.
Un concetto fondamentalmente progressista che la sinistra ha tradito e non c’è stata élite progressista nei paesi dove oggi si ingrassa il populismo che fa eccezione: l’uguaglianza sociale ha come premessa l’uguaglianza culturale di ciascuno, va perseguita la seconda per conseguire la prima. Ma in realtà quell’uguaglianza sociale con premessa l’uguaglianza culturale le élite non l’hanno mai voluta né perseguita radicalmente, perché diciamocelo, mica il tacchino vota per il Natale.
Ed ecco a voi la ribellione delle masse alle élite. La più pericolosa, sull’ignoranza, dopo che le élite l’hanno nutrita.
Sono citati in queste pagine:
Indagine Ocse–Pisa sui livelli di competenza – 2018
Indagine conoscitiva su bullismo e cyberbullismo – ISTAT, 2019
Generazioni in Rete. Come abitiamo l’era digitale – ISTAT, 2018
Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia – AIE (Associazione Italiana Editori), 2018
Il mercato del libro in Italia 2016 – Giornale della libreria, 27/01/ 2017
The Ultimate Guide to Global Reading Habits – Global English Editing, 2018
Alessandro Baricco – I nuovi barbari. Saggio sulla mutazione – Fandango, 2006
Alessandro Baricco –The Game – Einaudi, 2018
Alessandro Baricco – E ora le élites si mettano in gioco – su La Repubblica, 10/01/2019
Nicholas Carr – Internet ci rende stupidi? – Raffaello Cortina, 2011
Christopher Lasch – La ribellione delle élite – Il tradimento della democrazia – Feltrinelli, 2001
José Ortega y Gasset – La ribellione delle masse – Il Mulino, 1962
Charles Wright Mills – L’élite del potere – Feltrinelli, 1986