di Paolo Repetto, 24 aprile 2020
Sono grato a Marco Moraschi, che ha inserito in calce al suo intervento (Le regole del gioco) il link ad un articolo di Alessandro Baricco comparso su La Repubblica il 26 marzo scorso (Virus: è arrivato il momento dell’audacia). Avendo da tempo cessato di seguire i quotidiani (non ne sto facendo un vanto: è pigrizia, ho capito che ciò che mi interessa in genere rimbalza sul web, e lo attendo li), mi era naturalmente sfuggito. E invece devo constatare che gli interventi di Baricco non andrebbero mai persi.
Anche questa volta, come sempre, ho parecchie cose da obiettare. Ma almeno mi si dà l’occasione, lo stimolo a rifletterci un po’ su. Questo a Baricco lo si deve riconoscere, e non è la prima volta che lo faccio. A differenza dei nostri grandi pensatori di caratura internazionale, da Agamben a Cacciari fino ai nipoti di Severino, che quando escono dall’Ente per scendere tra noi meschini o sparano cazzate o non dicono assolutamente nulla, Baricco prende posizione su problemi, tendenze, trasformazioni reali. Ha un modo tutto suo di leggerli e interpretarli, ma ben venga. Almeno se può discutere.
Seguendo uno schema al quale neppure io e gli altri intervenuti sul tema del coronavirus ci siamo sottratti, Baricco identifica undici punti (Undici cose che ho capito su questo momento: va bene, poi qualcuno non è un vero punto, sta lì per fare scena, ma quelli essenziali ci sono). Mi limito dunque a seguire il suo schema.
UNO – “Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all’ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti”. Sull’esordio sono perfettamente d’accordo, non potrebbe essere altrimenti. Il fatto è che non solo non finirà, ma c’è da chiedersi anche se in qualche modo cambierà. Perché il 26 marzo, quando Baricco scriveva, indubbiamente le dimensioni del fenomeno non erano ancora del tutto chiare, e questo verrà fuori più avanti: ma che il mondo fosse governato, in quel momento e già da un pezzo, da gente come Trump, Boris Johnson, Borsonaro, giù giù sino ad arrivare ad Orban, e ancora, a scendere, fino a Di Maio e Salvini e Di Battista, tutti personaggi che alle elementari o stavano nell’ultimo banco o stazionavano addirittura fuori dell’aula, questo era chiarissimo. Non è un romanzo, scrive Baricco. Infatti, è tutt’altro. Costoro comandano già, e dove non comandano riescono comunque a muovere e manipolare l’opinione pubblica.
Quindi non siamo in una situazione di anarchia, che resta poi da capire cosa significhi davvero: siamo proprio in quella roba fino al collo.
Questa constatazione ci manda direttamente al punto:
QUATTRO. “Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini”. Questo significa che “nonostante le apparenze, noi crediamo nell’intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi”.
Mi sembra ottimismo della volontà. La “gente” in realtà si è allineata quando ha sentito snocciolare le cifre dei morti e si è vista appioppare multe da quattro o cinquecento euro. Altrove, come in Cina o nelle Filippine, lo ha fatto dopo le prime fucilazioni dei trasgressori. La fiducia nelle élites e nei competenti è rimasta la stessa, decisamente bassa, anche perché questi ultimi, un po’ per la novità del caso e un po’ perché di fronte ad un’emergenza simile le oggettive incompetenze non potevano che evidenziarsi, hanno fatto di tutto per screditarsi.
CINQUE – Ma soprattutto mi sembra ben poco rassicurante la prospettiva futura: “Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L’intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un’emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve”. Appunto. Anche in questo caso, direi che di clown se ne sono visti all’opera (pardon, in televisione) parecchi. Con risultati sconfortanti. Ma questo non dipende dal fatto che: “Ci guida, nel modo migliore possibile, un’élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale”, quanto piuttosto da quello che l’élite non sa abbastanza di tutto, e nemmeno di ciò in cui dovrebbe essere invece specializzata. Abbiamo visto virologi, all’inizio della crisi, dichiarare che avrebbe fatto meno vittime di una normale influenza. Anche se avessero padroneggiato la razionalità digitale, probabilmente, avrebbero sparato le stesse stupidaggini. O forse già la padroneggiano, e hanno desunto una nuova accezione del concetto di vittima dalla pratica dei videogame. Come Baricco stesso ammette, parlando di chi ci guiderà in futuro: “Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto”. Dove quello sbagliare in fretta, visto che appunto non di videogiochi si sta parlando ma delle pelle di persone reali, mi fa tremare i polsi.
Torniamo ora indietro, al punto DUE.
“La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un’estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l’utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento”.
In questo periodo (inteso come sequenza di frasi che assume un significato autonomo e compiuto) sono contenute un paio di verità e un paio di mezze verità che si traducono in sciocchezze. È verità senz’altro il fatto che gli strumenti digitali si sono rivelati provvidenziali in molti sensi, per alleviare il peso dell’isolamento e per consentire una informazione più diffusa e tempestiva. Così come è vero che l’ostilità pregiudiziale nei loro confronti è senz’altro scesa. Meno d’accordo sono invece sul fatto che stessimo cumulando un ritardo solo per “eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale”. O meglio, lasciando perdere la nostalgia (di che, delle cabine telefoniche? dei piccioni viaggiatori?) e la fighetteria intellettuale, il timore e il sospetto in molti c’erano senz’altro, e continueranno ad esserci: ma non per ignoranza o per ristrettezza di vedute, quanto piuttosto proprio per quella che Baricco definisce “una delle utopie portanti della rivoluzione digitale”, il fatto che gli strumenti digitali possano diventare una estensione quasi biologica dei nostri corpi. Stiamo parlando di una “incorporazione” della tecnologia (che a breve diverrà tale anche letteralmente, e anzi, lo è già, con l’utilizzo di microchips sottopelle o di altri strumentari incorporati in ausilio e a potenziamento delle funzioni naturali). Ora, quello che Baricco non prende mai minimamente in considerazione è il fenomeno dell’autonomizzazione della tecnica: in altre parole, siamo ormai al punto che la tecnica si nutre di se stessa, evolve indipendentemente dai bisogni dell’uomo per i quali era nata, si autoprogetta, si autoproduce, e non è necessario attendere i computer pensanti (non credo che 2001. Odissea nello spazio sia tra i film di culto di Baricco). Non è nemmeno necessario essere degli integralisti anticibernetici per rendersene conto e nutrire qualche timore: io uso il computer costantemente, a questo punto quasi non saprei farne a meno, ma questo non mi impedisce di rendermi conto di quanto mi stia condizionando, di come lo stia facendo ad esempio proprio adesso, nel modo stesso in cui mi spinge a formulare e ad esternare queste riflessioni. Con la tecnica noi abbiamo avuto da sempre, da Prometeo in poi, un problema, che era quello della possibilità di un suo utilizzo improprio o malvagio. Ma adesso ne abbiamo un altro, a mio giudizio altrettanto o forse anche più grave. Se un’auto nelle mani di un deficiente poteva diventare un’arma di distruzione, un’auto che decide, che sceglie in proprio sulla base di una sua logica di autoconservazione algoritmica può darsi sia più sicura per chi la guida, ma non so quanto lo sia per chi sta fuori: e comunque, il fatto che sottragga al guidatore la scelta dell’azione da compiere mi sembra piuttosto grave.
Ora, Baricco non ha certo in mente questo, ma al di là delle correzioni che potremo portare alla nuova civiltà amica il fatto di fondo rimane. A suo parere le protesi artificiali limitavano il nostro corpo, mentre le estensioni “quasi” biologiche lo esalteranno. Ne è proprio così convinto? A me sembra molto più probabile che lo condizioneranno, e che anzi già lo stiano facendo.
Insomma, il ragionamento di Baricco è sempre lo stesso, quello proposto ne “I barbari” e ribadito ne “The Game”: ci siamo già dentro, è inutile recriminare, diamoci piuttosto da fare a controllare la rivoluzione. Che sarebbe ineccepibile, se il cambiamento in atto fosse davvero controllabile. Quello che sembra sfuggirgli è che “da dentro” non siamo più in grado di controllare niente, che la logica che sta alla base della rivoluzione digitale è quella della colonizzazione completa dell’umanità, e non per una volontà perversa, quella appartiene solo agli umani, ma perché è intrinseca alla sua “natura” evolutiva. E che quindi solo rimanendo almeno con un piede fuori si può cercare di impedire che la porta si chiuda alle nostre spalle.
TRE – Al contrario. Per Baricco la quarantena ci sta insegnando che “più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe”. Perché “chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali”. E questo significa che “mentre dicevamo cose tipo ‘ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali’, quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell’intelligenza”.
Confesso che ci sono passaggi nei quali pur con tutta la buona volontà non riesco a seguirlo. Mi si sta dicendo che dopo questo digiuno di rapporti “fisici” i nostri adolescenti non si daranno più convegno per smanettare poi sullo smartphone ciascuno per conto proprio? Che si intensificherà sul lungo termine (sul brevissimo, è sperabile) la ricerca di occasioni d’incontro e di convivialità? Che l’abitudine forzata alla comunicazione a distanza maturata in queste settimane lascerà immediatamente e completamente il posto alle conversazioni, alle confessioni, alle esternazioni non in streaming? Che la quantità indicibile di rapporti umani che stavamo ammassando (ma dove? ma quando? ma chi?) verrà non solo recuperata, ma ampliata? Capisco l’entusiasmo, ognuno ha il diritto di pensarla come vuole, ma qui si rasenta il delirio.
Salto la SEI e la SETTE, puri effetti scenici, e accenno solo alla
OTTO – “L’emergenza Covid 19 ha reso di un’evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l’agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione”. Di qui l’esortazione: “La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi”. Un po’ di schiena dritta, perdinci. Dimenticando che la paura non detta l’agenda degli umani da qualche tempo a questa parte, ma da sempre, da quando la specie homo è comparsa, perché la prima coscienza che ha avuto è stata quella della propria inadeguatezza. Poi, in alcuni uomini la volontà, vuoi di potenza, vuoi di conoscenza, ha prevalso, ma la paura è stato il fattore che ha garantito la nostra sopravvivenza.
Vengo infine alle ultime tre, che offrono materia ampia di riflessione (e spero ne offrano, a distanza di un mese, anche a Baricco stesso).
NOVE – “A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo”. Ahi, ci siamo. Tutte le cautele e i “qui lo dico e qui lo nego” del caso, ma “resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l’entità del rischio e l’entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell’intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo”. Traduco: la stiamo facendo più grossa di quanto non sia. E questo perché l’intelligenza novecentesca, con la sua scarsa flessibilità e la sua adorazione dello specialismo, non ha affiancato ai medici anche dei clown. Vediamo un po’ di scendere sulla terra. Ad oggi, a un mese esatto dalla comparsa dell’articolo di Baricco, ci sono nel mondo più di 2,6 milioni di persone contagiate, e i morti imputabili al virus sono 180 mila (dati della Johns Hopkins University). Per capirci, molti più della somma di quelli di Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente questi numeri sono da considerare stimati per difetto: le persone sottoposte a tampone non sono nemmeno l’un per mille, le cifre trasmesse da diversi governi (vedi Cina) sono fortemente taroccate al ribasso, per non parlare di quelle in arrivo dall’Africa o dall’America Latina. Ciò che rimane indubbio è che in assenza delle le misure “sproporzionate” che sono state adottate quelle cifre sarebbero molto più alte.
Ma Baricco non vuole infilarsi “in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla precedescivolosità della cera da pavimenti”. Va più in profondità. “C’è un’inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire”. Come dargli torto. La paura peculiare della specie umana è, guarda un po’, proprio quella della morte. Abbiamo paura della morte perché ne abbiamo consapevolezza. Ma questo a Baricco non va bene. Ne abbiamo troppa. “La civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa ‘capacità di morte’. Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte”. Non so su che fronte abbia combattuto il nonno di Baricco, il mio su quello del Carso, e credo non si sia mai abituato a pensare la morte. L’ha avuta davanti per quattro anni, e ne aveva un tale orrore che non ha mai voluto parlare di quell’incubo infinito, non lo ha fatto coi figli e non lo ha fatto con me che ero il suo primo nipote, depositario del nome avito e delle sue rarissime confidenze. Questa a Baricco proprio non gliela perdono: mi fosse venuto a dire che la perdita di un figlio, in famiglie dove ne nascevano dieci, riusciva per forza di cose meno tragica di quanto lo sia oggi, avrei potuto dargli ragione. Ma quando mi racconta che “delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse”, eh no, questo non passa. Come sarebbe a dire “capaci di portare”? di trascinare, semmai, di costringere a farsi ammazzare, per non essere fucilati alle spalle (le decimazioni per ammutinamento, per il rifiuto di andare all’assalto o per diserzione hanno fatto migliaia e migliaia di vittime, che a quanto pare non si erano affatto abituate a pensare serenamente la morte). Forse il nonno di Baricco era un generale: il mio era un semplice fante.
Quindi, quando sento che “La meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un’offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare”, avverto subito echi di Seneca e odore d’incenso. Ma il primo si è dato la morte per evitare che gliela dessero gli altri, erano già alla porta: mentre i turibolari propongono semplicemente uno scambio, questa vita per un un’altra. Mettiamola così: nessuno, anche senza essere Berlusconi, accetta con saggezza la morte. Al più lo fa con rassegnazione, che è la fase ultima cui approda uno stato d’animo realmente disperato. Per favore, non raccontiamoci la palla che una comunità possa “essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo”. Ci siamo difesi discretamente bene fino ad oggi, semplicemente evitando il più possibile di pensarci, almeno consciamente.
DIECI – “Ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene”. Ma non gli sembravano spropositate, ad esempio, le misure? “Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc.”. Davvero? forse sono un po’ lento, ma non ho avuto la stessa impressione. E comunque non bisogna essere sleali, si deve concedere a Baricco l’attenuante di aver scritto queste cose un mese fa (per quanto …). Ma dove vuole andare a parare? Eccolo: “é possibile che si scelga, in effetti, l’emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l’aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L’emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l’ha. E anche abbastanza coerente con l’intelligenza del Game, che resta un’intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi”. Riassumo: mentre per Agamben e per i neo com (ne-ocomunisti e neo-complottisti a reti unificate) il Covid è una “epidemia inventata” per testare futuri scenari di regime, mentre per i neo-con(servatori) è la punizione divina che si abbatte sul mondo per la politica religiosa di papa Francesco, per Baricco è invece la grande prova generale per la missione finale: salvare il pianeta. Insomma, se non si chiama in causa l’astuzia della ragione o la collera divina, ci si rifugia nell’autoconservazione della natura (e della specie). Che si tratti di un virus, che si comporti aggressivamente come un virus, che occorra combatterlo come un virus, sembra ben poco rilevante per tutti. Il che non significa che non si possano trarne delle lezioni: ma evitando, per favore, almeno per un minimo di rispetto per le centinaia di migliaia (per ora) di vittime, di leggerlo come uno strumento e di darne interpretazioni strumentali. Perché poi,
UNDICI – e siamo alla fine, si arriva a conclusioni di questo tipo: “Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare… Se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è”.
Ora, se qualcuno ha la stessa percezione, se qualcuno ha in mente come dovrebbe avvenire questa redistribuzione (perché ci siamo inventanti il reddito di emergenza, perché ci saranno più posti di lavoro nella produzione di reagenti e mascherine, perché abbiamo scoperto che i nostri bisogni sono per la gran parte superflui? voglio capire), come accederemo, complice il Covid, a un livello diverso di equità, per favore me lo spieghi, perché naturalmente Baricco, a dispetto delle promesse del sottotitolo del suo intervento, non lo fa.
Io, al contrario di lui, di cosa ne ho capita una sola: non devo più tornare su questo argomento. Non sono più a tempo a fare come Manzoni, che “di mille voci al sonito/ mista la sua non ha”, ma posso almeno smettere subito, per evitare di dire le stesse sciocchezze che rinfaccio agli altri, o di fare a queste ultime da cassa di risonanza.
Aspetterò in silenzio e con speranza che il mio amico Armando esca dal tunnel terribile in cui il virus lo ha cacciato oltre un mese fa: poi lascerò che sia lui, che non è un personaggio del Game ma un essere molto umano e molto intelligente, a spiegare a Baricco la faccenda dell’opportunità.