Dio ne scampi dagli audaci (e dai clown)

di Paolo Repetto, 24 aprile 2020

Sono grato a Marco Moraschi, che ha inserito in calce al suo intervento (Le regole del gioco) il link ad un articolo di Alessandro Baricco comparso su La Repubblica il 26 marzo scorso (Virus: è arrivato il momento dell’audacia). Avendo da tempo cessato di seguire i quotidiani (non ne sto facendo un vanto: è pigrizia, ho capito che ciò che mi interessa in genere rimbalza sul web, e lo attendo li), mi era naturalmente sfuggito. E invece devo constatare che gli interventi di Baricco non andrebbero mai persi.

Anche questa volta, come sempre, ho parecchie cose da obiettare. Ma almeno mi si dà l’occasione, lo stimolo a rifletterci un po’ su. Questo a Baricco lo si deve riconoscere, e non è la prima volta che lo faccio. A differenza dei nostri grandi pensatori di caratura internazionale, da Agamben a Cacciari fino ai nipoti di Severino, che quando escono dall’Ente per scendere tra noi meschini o sparano cazzate o non dicono assolutamente nulla, Baricco prende posizione su problemi, tendenze, trasformazioni reali. Ha un modo tutto suo di leggerli e interpretarli, ma ben venga. Almeno se può discutere.

Seguendo uno schema al quale neppure io e gli altri intervenuti sul tema del coronavirus ci siamo sottratti, Baricco identifica undici punti (Undici cose che ho capito su questo momento: va bene, poi qualcuno non è un vero punto, sta lì per fare scena, ma quelli essenziali ci sono). Mi limito dunque a seguire il suo schema.

UNO – “Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all’ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti”. Sull’esordio sono perfettamente d’accordo, non potrebbe essere altrimenti. Il fatto è che non solo non finirà, ma c’è da chiedersi anche se in qualche modo cambierà. Perché il 26 marzo, quando Baricco scriveva, indubbiamente le dimensioni del fenomeno non erano ancora del tutto chiare, e questo verrà fuori più avanti: ma che il mondo fosse governato, in quel momento e già da un pezzo, da gente come Trump, Boris Johnson, Borsonaro, giù giù sino ad arrivare ad Orban, e ancora, a scendere, fino a Di Maio e Salvini e Di Battista, tutti personaggi che alle elementari o stavano nell’ultimo banco o stazionavano addirittura fuori dell’aula, questo era chiarissimo. Non è un romanzo, scrive Baricco. Infatti, è tutt’altro. Costoro comandano già, e dove non comandano riescono comunque a muovere e manipolare l’opinione pubblica.

Quindi non siamo in una situazione di anarchia, che resta poi da capire cosa significhi davvero: siamo proprio in quella roba fino al collo.

Questa constatazione ci manda direttamente al punto:

QUATTRO. “Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini”. Questo significa che “nonostante le apparenze, noi crediamo nell’intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi”.

Mi sembra ottimismo della volontà. La “gente” in realtà si è allineata quando ha sentito snocciolare le cifre dei morti e si è vista appioppare multe da quattro o cinquecento euro. Altrove, come in Cina o nelle Filippine, lo ha fatto dopo le prime fucilazioni dei trasgressori. La fiducia nelle élites e nei competenti è rimasta la stessa, decisamente bassa, anche perché questi ultimi, un po’ per la novità del caso e un po’ perché di fronte ad un’emergenza simile le oggettive incompetenze non potevano che evidenziarsi, hanno fatto di tutto per screditarsi.

CINQUE –  Ma soprattutto mi sembra ben poco rassicurante la prospettiva futura: “Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L’intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un’emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve”. Appunto. Anche in questo caso, direi che di clown se ne sono visti all’opera (pardon, in televisione) parecchi. Con risultati sconfortanti. Ma questo non dipende dal fatto che: “Ci guida, nel modo migliore possibile, un’élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale”, quanto piuttosto da quello che l’élite non sa abbastanza di tutto, e nemmeno di ciò in cui dovrebbe essere invece specializzata. Abbiamo visto virologi, all’inizio della crisi, dichiarare che avrebbe fatto meno vittime di una normale influenza. Anche se avessero padroneggiato la razionalità digitale, probabilmente, avrebbero sparato le stesse stupidaggini. O forse già la padroneggiano, e hanno desunto una nuova accezione del concetto di vittima dalla pratica dei videogame. Come Baricco stesso ammette, parlando di chi ci guiderà in futuro: “Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto”. Dove quello sbagliare in fretta, visto che appunto non di videogiochi si sta parlando ma delle pelle di persone reali, mi fa tremare i polsi.

Torniamo ora indietro, al punto DUE.

La gente, a tutti i livelli, sta maturando un senso di fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un’estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l’utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento”.

In questo periodo (inteso come sequenza di frasi che assume un significato autonomo e compiuto) sono contenute un paio di verità e un paio di mezze verità che si traducono in sciocchezze. È verità senz’altro il fatto che gli strumenti digitali si sono rivelati provvidenziali in molti sensi, per alleviare il peso dell’isolamento e per consentire una informazione più diffusa e tempestiva. Così come è vero che l’ostilità pregiudiziale nei loro confronti è senz’altro scesa. Meno d’accordo sono invece sul fatto che stessimo cumulando un ritardo solo per “eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale”. O meglio, lasciando perdere la nostalgia (di che, delle cabine telefoniche? dei piccioni viaggiatori?) e la fighetteria intellettuale, il timore e il sospetto in molti c’erano senz’altro, e continueranno ad esserci: ma non per ignoranza o per ristrettezza di vedute, quanto piuttosto proprio per quella che Baricco definisce “una delle utopie portanti della rivoluzione digitale”, il fatto che gli strumenti digitali possano diventare una estensione quasi biologica dei nostri corpi. Stiamo parlando di una “incorporazione” della tecnologia (che a breve diverrà tale anche letteralmente, e anzi, lo è già, con l’utilizzo di microchips sottopelle o di altri strumentari incorporati in ausilio e a potenziamento delle funzioni naturali). Ora, quello che Baricco non prende mai minimamente in considerazione è il fenomeno dell’autonomizzazione della tecnica: in altre parole, siamo ormai al punto che la tecnica si nutre di se stessa, evolve indipendentemente dai bisogni dell’uomo per i quali era nata, si autoprogetta, si autoproduce, e non è necessario attendere i computer pensanti (non credo che 2001. Odissea nello spazio sia tra i film di culto di Baricco). Non è nemmeno necessario essere degli integralisti anticibernetici per rendersene conto e nutrire qualche timore: io uso il computer costantemente, a questo punto quasi non saprei farne a meno, ma questo non mi impedisce di rendermi conto di quanto mi stia condizionando, di come lo stia facendo ad esempio proprio adesso, nel modo stesso in cui mi spinge a formulare e ad esternare queste riflessioni. Con la tecnica noi abbiamo avuto da sempre, da Prometeo in poi, un problema, che era quello della possibilità di un suo utilizzo improprio o malvagio. Ma adesso ne abbiamo un altro, a mio giudizio altrettanto o forse anche più grave. Se un’auto nelle mani di un deficiente poteva diventare un’arma di distruzione, un’auto che decide, che sceglie in proprio sulla base di una sua logica di autoconservazione algoritmica può darsi sia più sicura per chi la guida, ma non so quanto lo sia per chi sta fuori: e comunque, il fatto che sottragga al guidatore la scelta dell’azione da compiere mi sembra piuttosto grave.

Ora, Baricco non ha certo in mente questo, ma al di là delle correzioni che potremo portare alla nuova civiltà amica il fatto di fondo rimane. A suo parere le protesi artificiali limitavano il nostro corpo, mentre le estensioni “quasi” biologiche lo esalteranno. Ne è proprio così convinto? A me sembra molto più probabile che lo condizioneranno, e che anzi già lo stiano facendo.

Insomma, il ragionamento di Baricco è sempre lo stesso, quello proposto ne “I barbari” e ribadito ne “The Game”: ci siamo già dentro, è inutile recriminare, diamoci piuttosto da fare a controllare la rivoluzione. Che sarebbe ineccepibile, se il cambiamento in atto fosse davvero controllabile. Quello che sembra sfuggirgli è che “da dentro” non siamo più in grado di controllare niente, che la logica che sta alla base della rivoluzione digitale è quella della colonizzazione completa dell’umanità, e non per una volontà perversa, quella appartiene solo agli umani, ma perché è intrinseca alla sua “natura” evolutiva. E che quindi solo rimanendo almeno con un piede fuori si può cercare di impedire che la porta si chiuda alle nostre spalle.

 

TRE – Al contrario. Per Baricco la quarantena ci sta insegnando che “più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe”. Perché “chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali”. E questo significa che “mentre dicevamo cose tipo ‘ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali’, quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell’intelligenza”.

Confesso che ci sono passaggi nei quali pur con tutta la buona volontà non riesco a seguirlo. Mi si sta dicendo che dopo questo digiuno di rapporti “fisici” i nostri adolescenti non si daranno più convegno per smanettare poi sullo smartphone ciascuno per conto proprio? Che si intensificherà sul lungo termine (sul brevissimo, è sperabile) la ricerca di occasioni d’incontro e di convivialità? Che l’abitudine forzata alla comunicazione a distanza maturata in queste settimane lascerà immediatamente e completamente il posto alle conversazioni, alle confessioni, alle esternazioni non in streaming? Che la quantità indicibile di rapporti umani che stavamo ammassando (ma dove? ma quando? ma chi?) verrà non solo recuperata, ma ampliata? Capisco l’entusiasmo, ognuno ha il diritto di pensarla come vuole, ma qui si rasenta il delirio.

Salto la SEI e la SETTE, puri effetti scenici, e accenno solo alla

OTTO – “L’emergenza Covid 19 ha reso di un’evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l’agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione”. Di qui l’esortazione: “La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi”. Un po’ di schiena dritta, perdinci. Dimenticando che la paura non detta l’agenda degli umani da qualche tempo a questa parte, ma da sempre, da quando la specie homo è comparsa, perché la prima coscienza che ha avuto è stata quella della propria inadeguatezza. Poi, in alcuni uomini la volontà, vuoi di potenza, vuoi di conoscenza, ha prevalso, ma la paura è stato il fattore che ha garantito la nostra sopravvivenza.

Vengo infine alle ultime tre, che offrono materia ampia di riflessione (e spero ne offrano, a distanza di un mese, anche a Baricco stesso).

NOVE – “A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo”. Ahi, ci siamo. Tutte le cautele e i “qui lo dico e qui lo nego” del caso, ma “resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l’entità del rischio e l’entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell’intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo”. Traduco: la stiamo facendo più grossa di quanto non sia. E questo perché l’intelligenza novecentesca, con la sua scarsa flessibilità e la sua adorazione dello specialismo, non ha affiancato ai medici anche dei clown. Vediamo un po’ di scendere sulla terra. Ad oggi, a un mese esatto dalla comparsa dell’articolo di Baricco, ci sono nel mondo più di 2,6 milioni di persone contagiate, e i morti imputabili al virus sono 180 mila (dati della Johns Hopkins University). Per capirci, molti più della somma di quelli di Hiroshima e Nagasaki. Naturalmente questi numeri sono da considerare stimati per difetto: le persone sottoposte a tampone non sono nemmeno l’un per mille, le cifre trasmesse da diversi governi (vedi Cina) sono fortemente taroccate al ribasso, per non parlare di quelle in arrivo dall’Africa o dall’America Latina. Ciò che rimane indubbio è che in assenza delle le misure “sproporzionate” che sono state adottate quelle cifre sarebbero molto più alte.

Ma Baricco non vuole infilarsi “in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla precedescivolosità della cera da pavimenti”. Va più in profondità. “C’è un’inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire”. Come dargli torto. La paura peculiare della specie umana è, guarda un po’, proprio quella della morte. Abbiamo paura della morte perché ne abbiamo consapevolezza. Ma questo a Baricco non va bene. Ne abbiamo troppa. “La civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa ‘capacità di morte’. Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte”. Non so su che fronte abbia combattuto il nonno di Baricco, il mio su quello del Carso, e credo non si sia mai abituato a pensare la morte. L’ha avuta davanti per quattro anni, e ne aveva un tale orrore che non ha mai voluto parlare di quell’incubo infinito, non lo ha fatto coi figli e non lo ha fatto con me che ero il suo primo nipote, depositario del nome avito e delle sue rarissime confidenze. Questa a Baricco proprio non gliela perdono: mi fosse venuto a dire che la perdita di un figlio, in famiglie dove ne nascevano dieci, riusciva per forza di cose meno tragica di quanto lo sia oggi, avrei potuto dargli ragione. Ma quando mi racconta che “delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse”, eh no, questo non passa. Come sarebbe a dire “capaci di portare”? di trascinare, semmai, di costringere a farsi ammazzare, per non essere fucilati alle spalle (le decimazioni per ammutinamento, per il rifiuto di andare all’assalto o per diserzione hanno fatto migliaia e migliaia di vittime, che a quanto pare non si erano affatto abituate a pensare serenamente la morte). Forse il nonno di Baricco era un generale: il mio era un semplice fante.

Quindi, quando sento che “La meraviglia di una civiltà di pace sarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un’offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare”, avverto subito echi di Seneca e odore d’incenso. Ma il primo si è dato la morte per evitare che gliela dessero gli altri, erano già alla porta: mentre i turibolari propongono semplicemente uno scambio, questa vita per un un’altra. Mettiamola così: nessuno, anche senza essere Berlusconi, accetta con saggezza la morte. Al più lo fa con rassegnazione, che è la fase ultima cui approda uno stato d’animo realmente disperato. Per favore, non raccontiamoci la palla che una comunità possa “essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo”. Ci siamo difesi discretamente bene fino ad oggi, semplicemente evitando il più possibile di pensarci, almeno consciamente.

DIECI – “Ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene”. Ma non gli sembravano spropositate, ad esempio, le misure? “Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc.”. Davvero? forse sono un po’ lento, ma non ho avuto la stessa impressione. E comunque non bisogna essere sleali, si deve concedere a Baricco l’attenuante di aver scritto queste cose un mese fa (per quanto …). Ma dove vuole andare a parare? Eccolo: “é possibile che si scelga, in effetti, l’emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l’aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L’emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenario augurabile, ma non posso negare che una sua razionalità ce l’ha. E anche abbastanza coerente con l’intelligenza del Game, che resta un’intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi”. Riassumo: mentre per Agamben e per i neo com (ne-ocomunisti e neo-complottisti a reti unificate) il Covid è una “epidemia inventata” per testare futuri scenari di regime, mentre per i neo-con(servatori) è la punizione divina che si abbatte sul mondo per la politica religiosa di papa Francesco, per Baricco è invece la grande prova generale per la missione finale: salvare il pianeta. Insomma, se non si chiama in causa l’astuzia della ragione o la collera divina, ci si rifugia nell’autoconservazione della natura (e della specie). Che si tratti di un virus, che si comporti aggressivamente come un virus, che occorra combatterlo come un virus, sembra ben poco rilevante per tutti. Il che non significa che non si possano trarne delle lezioni: ma evitando, per favore, almeno per un minimo di rispetto per le centinaia di migliaia (per ora) di vittime, di leggerlo come uno strumento e di darne interpretazioni strumentali. Perché poi,

UNDICI – e siamo alla fine, si arriva a conclusioni di questo tipo: “Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare… Se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è”.

Ora, se qualcuno ha la stessa percezione, se qualcuno ha in mente come dovrebbe avvenire questa redistribuzione (perché ci siamo inventanti il reddito di emergenza, perché ci saranno più posti di lavoro nella produzione di reagenti e mascherine, perché abbiamo scoperto che i nostri bisogni sono per la gran parte superflui? voglio capire), come accederemo, complice il Covid, a un livello diverso di equità, per favore me lo spieghi, perché naturalmente Baricco, a dispetto delle promesse del sottotitolo del suo intervento, non lo fa.

Io, al contrario di lui, di cosa ne ho capita una sola: non devo più tornare su questo argomento. Non sono più a tempo a fare come Manzoni, che “di mille voci al sonito/ mista la sua non ha”, ma posso almeno smettere subito, per evitare di dire le stesse sciocchezze che rinfaccio agli altri, o di fare a queste ultime da cassa di risonanza.

Aspetterò in silenzio e con speranza che il mio amico Armando esca dal tunnel terribile in cui il virus lo ha cacciato oltre un mese fa: poi lascerò che sia lui, che non è un personaggio del Game ma un essere molto umano e molto intelligente, a spiegare a Baricco la faccenda dell’opportunità.

 

Barbari e no

una risposta a I buoni e i cattivi maestri

di Paolo Repetto, 21 aprile 2020

Caro Stefano, non c’è stato alcuno sconfitto, meno che mai un K.O., per il semplice motivo che non c’è stato nessuno scontro di ideologie, ma un confronto di idee. Quindi possiamo proseguire, non prima però che io ti abbia ringraziato, perché questo match (forzatamente) a distanza mi ha aiutato a riflettere in un momento nel quale stanchezza e rassegnazione stavano avendo il sopravvento. Parto dalle tue argomentazioni, ma vorrei procedere su due piani distinti: quello dei fatti, o della razionalità, e quello delle simpatie, o dell’emozionalità.

Faccio una premessa. Io mi reputo una persona quasi sempre razionale (e quanto a questo, sotto molti aspetti, tu lo sei senz’altro più di me). Per questo motivo, al di là dei modi un po’ ruvidi nei quali mi esprimo, ma in genere solo con chi ritengo essere in grado di capire che appunto di schiettezza si tratta, e non di arroganza, tendo a non formulare giudizi, ma a dare delle valutazioni: il che non è esattamente la stessa cosa. Un giudizio si basa, come giustamente dici tu, sulla presunzione dell’esistenza di valori assoluti, relativamente ai quali una cosa appare buona o cattiva. Una valutazione ha invece un carattere più “utilitaristico”, nel senso che valuta la mia compatibilità con un oggetto, una persona o una situazione. Questo non significa che non creda nei valori assoluti: l’amicizia, ad esempio, e la lealtà; ma anche la giustizia, intesa come equità e reciprocità, l’eguaglianza, intesa come parità delle opportunità, e la libertà, intesa come pratica del rispetto per gli altri e legittima pretesa di rispetto da parte degli altri. Non è nemmeno del tutto vero, però, che mi astenga dal formulare dei giudizi: solo che in questi non hanno peso né il genere, né l’etnia, né la religione né altri fattori pregiudiziali. Distinguo semplicemente tra persone che reputo intelligenti e persone che ritengo stupide, e tale distinzione mi sembra necessaria per poter fare delle scelte e garantire la mia sopravvivenza senza compromettere quella altrui. Questo per dire che per me uno svedese cretino è un cretino, una donna intelligente è intelligente, un equadoregno laborioso è una persona laboriosa (non ridere!). E cerco di comportarmi di conseguenza.

Veniamo ai fatti. Ho viaggiato molto meno di te, e ho quindi un campo di esperienze assai più ristretto. Sufficiente comunque a confermarmi quel che ho sempre pensato, ovvero che in giro, come in montagna, uno, a meno di imbattersi in situazioni particolarmente sfortunate, ci trova quel che ci porta (e questo vale ovunque, in Italia come in tutto il resto del mondo). Ho ricordi molto belli di gesti di ospitalità totalmente gratuiti in Germania e in Olanda, di grande urbanità e simpatia in Spagna e in Grecia, magari un po’ meno in Inghilterra e in Francia (che comunque per molti aspetti adoro). Persino in Alto Adige e in Austria ho trovato un’atmosfera decisamente amichevole, in quest’ultima addirittura dopo un iniziale cortese rifiuto alla prenotazione, venuto meno quando si è chiarito che non eravamo romani (e chissà perché, non ho dubitato un istante che il pregiudizio fosse figlio di una qualche sgradevole esperienza). Non posso dire nulla invece dei paesi extraeuropei, a meno di considerare tale la Turchia (quella pre-Erdogan, che mi ha affascinato), perché non li conosco: ma conosco neri e gialli e magrebini di diversa provenienza, e con alcuni ho un rapporto di stima reciproca che potrebbe senz’altro diventare amicizia se si desse l’occasione di una frequentazione più assidua. Lo so, suona un po’ come il classico “non sono razzista, ma …”, ma tu mi conosci ormai abbastanza per sapere che vuol dire un’altra cosa. E comunque, questi sono i fatti.

Quindi, certamente, è il bagaglio delle esperienze specifiche a condizionare la nostra disposizione. Poi ci sono quegli aspetti più generali della cultura e delle abitudini di ciascun popolo nei confronti dei quali vale piuttosto il tipo di educazione ricevuta o di condizionamento ambientale. Ma anche qui, la chiave profonda di lettura rimangono per me le attitudini “genetiche” individuali. Nel mio caso, come dicevo prima, dicono di una razionalità talmente esasperata da rasentare l’autismo. Non sopporto letteralmente le manifestazioni chiassose, ad esempio ogni forma di mascheramento o di travestitismo o di auto-spettacolarizzazione, e di lì, a salire, i professionisti della trasgressione e della provocazione, ecc … Nonché tutta una serie di scarti anche piccoli dalla linearità che tocchino o invadano in qualche modo i miei spazi (leggiti il mio Il libro degli abbracci). Cose che per gli altri possono risultare divertenti, o quantomeno tollerabili, mi intristiscono e mi mettono a disagio. Per venire all’oggetto specifico della nostra discussione, ad esempio, non sopportando minimamente l’ubriachezza (la ritengo una totale assenza di rispetto di sé e degli altri) ho molti problemi a capire la diffusione di un problema del genere tra i nordici. Anzi, proprio non la capisco, e nemmeno mi sforzo di farlo. Avranno i loro motivi, ma per me nessun motivo giustifica il degradare se stessi e mettere a disagio gli altri. Quindi la mia stima per popoli che paiono coltivare quell’abitudine è tutt’altro che incondizionata (e dico paiono, perché poi in realtà nemmeno in Islanda, il sabato sera, quando secondo la leggenda girano auto deputate appositamente a raccogliere gli ubriachi riversi per strada, ne ho visto uno. Ho tuttavia la testimonianza diretta di mia figlia Chiara, che in Inghilterra ci vive ed è cittadina inglese, e racconta di colleghi che occupano ruoli di responsabilità e prestigio nella sua azienda e si sbronzano regolarmente al pub il venerdì sera. Quindi, non è solo leggenda).

Ma, e qui viene il punto che mi preme chiarire, quando si parla di temi come l’Europa e la sua possibilità di essere o meno una vera e unica comunità, non sono il carattere, l’espansività o la cupezza dei singoli o di intere comunità ad interessarmi, ma la loro affidabilità: e l’affidabilità si misura nella capacità di far fronte agli impegni che si assumono nei confronti degli altri.

Ora, io capisco a cosa ti riferisci quando parli delle emozioni, e dei ricordi che si stampano nella mente. Un suk o un parco nazionale africano, o un villaggio nepalese, ti emozionano certamente più di un centro commerciale di Parigi o di Stoccolma, e probabilmente anche più di Notre Dame o di un lago finlandese. Allo stesso modo in cui impressionano meglio la memoria fotografica. Ma non dobbiamo confondere i due piani. Quando sono in giro, mi fa molto piacere trovare persone cordiali, allegre e sorridenti anziché musoni freddi come i finlandesi, ma ciò che importa poi davvero, se penso in una possibile prospettiva di “convivenza”, politica ed economica, è ad esempio che se devo andare da A a B e mi viene dichiarato che il percorso in ferrovia è di due ore, ci arriverò al massimo in due ore e cinque, non in quattro, e soprattutto che arriverò. Oppure, che troverò persino su una perduta scogliera, per non parlare dei centri cittadini, delle toilettes pubbliche pulite e funzionanti. Questo ti farà sorridere, ma la misura del civismo di un popolo si misura a cominciare da poche cose “neutre” ma basilari. Le amicizie poi, se ho voglia e tempo e fortuna, me le conquisto, ma i servizi che un paese mi promette, come cittadino o come semplice turista, mi spettano e li esigo. Sono una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché io mi senta nello spirito giusto. Se non mi vengono offerti, mi rimane anche poca disposizione per le amicizie. E non mi sembra leale dire: sono fatti così, è il loro carattere, ci si deve adeguare, cosa sono in fondo due ore in più, perché stando così le cose si rinuncia in partenza alla possibilità di stare assieme, venendo a mancare i fondamentali del rispetto reciproco. (Conoscendomi sai anche che se parto con lo spirito di sopravvivere nutrendomi di bacche o di pane raffermo da due mesi e camminando sedici ore al giorno sono – pardon, ero – in grado di farlo: ma qui si parla di un’altra cosa).

Ora, a me risulta che tutti i paesi entrati a far parte della comunità europea abbiano aderito di loro spontanea volontà, abbiano anzi spinto per anni per poter essere ammessi, consapevoli che nella comunità vigevano certi regolamenti e certi vincoli, e che chi ha voluto andarsene lo abbia fatto liberamente (Brexit docet). Non capisco allora perché ci si lamenti quando ci viene chiesto di rispettarli. Obiezione prevedibile: ma anche gli altri (vedi Germania con le sue banche, la Francia con i suoi prodotti agricoli, ecc) non sempre li hanno rispettati. Esatto: solo che noi non siamo mai stati in grado di richiamare alcuno all’ordine, perché eravamo costantemente impegnati a piatire flessibilità finanziarie e dilazioni per riforme che dovrebbero essere operanti da decenni.

Ecco. A questo proposito, cioè al “quanto agli altri”, credo vadano fatte delle precisazioni. Accenni ad esempio nella tua mail all’inclinazione dei norvegesi al suicidio. Come a dire: se si ammazzano a frotte significa che poi tanto perfetta questa loro società non è. Ora, lasciamo andare le componenti legate all’impronta luterana e anche quelle dovute alla condizione climatica: passiamo ai fatti. Se vai a scorrere le ultime pagine del mio La verità vi prego sui cavalli, il libricino dedicato al viaggio in Islanda, ci troverai queste cifre, desunte dalle tabelle ufficiali dell’OMS per il 2018: “Nella graduatoria dei tassi di suicidio la Finlandia è solo al ventunesimo posto, la Svezia e la Norvegia si piazzano al trentacinquesimo e al trentasettesimo, ben dopo la Francia, gli Stati Uniti e la Germania, per non parlare del Giappone e di tutti gli stati dell’ex blocco sovietico. L’Islanda, guarda un po’, è solo quarantaduesima, vicina alla Svizzera e subito prima di Trinidad e Tobago. Dopo viene tutta una serie di paesi, compresi la Siria e il Messico e chiusa in bellezza da Haiti, nei quali non è neanche il caso di affannarsi a suicidarsi, ci pensano gli altri o la natura stessa a toglierti il pensiero. L’Italia in questa macabra graduatoria è al sessantaquattresimo posto, ma sappiamo come va dalle nostre parti: un inveterato perbenismo di matrice cattolica induce a rubricare come morti accidentali molti casi di suicidio”. Sono dati ufficiali (li ho ripresi dal mio scritto perché in questo momento internet non mi funziona), che mi pare smentiscano definitivamente la vulgata dei nordici iperdepressi.

E ancora. Le malefatte nascoste, ciò che si cela dietro l’immagine tirata a lucido di civismo e probità dei paesi di cui stiamo parlando. Mi spiace, ma devo rimandarti ancora una volta ad un mio scritto. Non è un delirio di autocitazionismo o una presunzione di possesso della verità, ma trattandosi di cose che ho già cercato di approfondire in altre occasioni faccio prima a spedirti direttamente alla fonte. Questa volta si tratta del libretto dedicato alla Svizzera, Ho visto anche degli Svizzeri felici. La Svizzera non rientra nel novero dei paesi della comunità, ma si presta benissimo ad esemplificare la persistenza di certi stereotipi sulle magagne altrui. È stata accusata ad esempio di aver respinto, durante l’ultima guerra mondiale, decine di migliaia di ebrei, condannandoli a finire nei campi di sterminio. Ora: “Dall’inizio alla fine della guerra hanno chiesto ospitalità alla Svizzera e sono stati accolti nel suo territorio 293.773 rifugiati e internati provenienti da tutta Europa. Circa 60.000 sono civili perseguitati (dei quali 28’000 ebrei), ai quali si aggiungono i circa 60.000 bambini e i 66.000 profughi provenienti dai paesi limitrofi, e 104.000 tra militari, disertori, renitenti alla leva e prigionieri di guerra evasi”. Questo in un paese di quattro milioni di abitanti, chiuso tra le potenze dell’Asse e in costante procinto di essere invaso. La commissione ebraica incaricata di verificare i respingimenti ne ha accertati circa tremila. E sai che gli ebrei in queste cose sono scrupolosi. Ora, tralasciando il piccolo particolare che quei poveretti chiedevano asilo là perché erano perseguitati proprio qui da noi, proviamo a fare un pensierino a come percepiamo il fenomeno e a come ci comportiamo, oggi, nei confronti di chi fugge dalla Libia o dalla Siria o da altri paesi dove la guerra è endemica.

Di più: la Svizzera è stata anche accusata di aver trattenuto i beni depositati nelle sue banche appartenenti ad ebrei internati in Germania e scomparsi. Infatti: solo che già prima del Duemila le Banche svizzere hanno sborsato un miliardo e 250 milioni di dollari per chiudere la vicenda dei fondi ebraici in giacenza. Non so quanto la cifra fosse equa, ma l’hanno fatto. Da noi, dove pure gli espropri di stato dei beni ebraici sono stati consistenti, non è mai stata stanziata nemmeno una lira. In compenso sono al lavoro da cinquant’anni quattro commissioni. Ho fatto qualche ulteriore ricerca, e non mi risulta che altri stati, tranne almeno parzialmente la Germania, abbiano risarcito chicchessia per le ruberie e i danni materiali e morali provocati ad altri popoli (il contenzioso nostro con la ex-Jugoslavia è aperto ancora oggi, la Grecia ci ha rinunciato già da quel dì, un contentino è stato dato a suo tempo solo a Gheddafi, per garantirci i rifornimenti di petrolio). Non vado oltre, ma potrai trovare altri illuminanti dettagli.

Infine. I gestori tedeschi dell’albergo hanno senz’altro peccato di una preconcetta supponenza, ma io direi più ancora di goffaggine, perché in fondo intendevano farvi un complimento. Se non ricordo male, però, tu stesso mi hai raccontato che in Etiopia vi hanno sputato letteralmente in faccia, e conoscendovi non dubito che il vostro comportamento non fosse stato diverso da quello tenuto in Germania. Vi hanno sputato solo perché italiani, il che, al di là dell’ignoranza e della maleducazione della persona singola, la dice però lunga sul tipo di ricordo che abbiamo lasciato in quelle popolazioni, e smentisce la favola che ci siamo sempre raccontati degli “Italiani, brava gente”. Anche in questo caso ti rimando a un paio di libri, questa volta per fortuna non miei: uno si intitola appunto “Italiani, brava gente”, scritto da Angelo del Boca, lo storico più accreditato delle nostre avventure/disavventure africane; l’altro è “Tempo di massacro”, di Ennio Flaiano, testimonianza in presa diretta.

Ora, tutta questa pappardella per arrivare a dire in fondo tre semplici cose (le altre, e sono tante, avremo modo spero di dibatterle ancora).

La prima è che al di là di tutto dovremmo ringraziare il cielo di essere nati qui e non in un’altra parte del mondo, magari meno grigia, più variopinta, più calda, ma senz’altro meno sicura. Io lo faccio tutti i giorni, forse per il retaggio inconscio della precarietà che ho vissuto da bambino. Sono anche contento di non avere come vicini gli iraniani, i messicani, i colombiani, i russi, ecc. Nulla di personale, ma mi vanno bene i francesi, gli svizzeri, gli austriaci e gli sloveni, che pure qualche pregiudizio nei nostri confronti ce l’hanno.

La seconda, conseguente immediatamente la prima, è che dobbiamo fare attenzione agli stereotipi. Ne siamo pieni, io stesso nel desktop della mente ho le figurine degli inglesi spocchiosi, dei tedeschi grezzi, dei francesi pieni di sé e maligni, ma poi all’atto pratico bado alle persone e non alla loro provenienza. E nemmeno mi disturba più di tanto che gli altri abbiano di noi un’immagine tutta pizza e mafia e inaffidabilità (i tedeschi qualche ragione ce l’hanno, in due guerre abbiamo girato loro le spalle per due volte), perché so che una immagine simile la coltivano in realtà solo gli imbecilli, dei quali mi importa francamente poco, e che semmai avrò occasione di dimostrare quanto siano infondate. Non mi sono mai sentito umiliato in nessuna parte d’Europa. Come dice Enzensberger (lo faccio dire a lui perché io questa esperienza non l’ho fatta), come atterri arrivando da un altro continente in qualsiasi aeroporto europeo ti senti subito a casa. E lui era un terzomondista, una volta.

La terza, quella che purtroppo ha riscontro nell’attualità di questi giorni, è che dopo un inizio all’insegna della ritrovata fraternità nazionale, di una compattezza davanti al pericolo, del “siamo un popolo di eroi di santi e di cantanti (dal balcone)”, tutto questo afflato di orgoglio patriottico, originato dalla strizza per la crescita delle cifre dei contagi e dei decessi, si è già sgonfiato: ciascuno va per conto suo, è iniziata la caccia ai responsabili (in vista magari di future richieste di risarcimento), le procure aprono nuove inchieste mentre ce ne sono milioni che giacciono ferme da anni, i rom fanno tranquillamente i loro funerali, gli autonomi si scontrano nuovamente con la polizia, che a differenza che nelle Filippine non può sparare, persino Sgarbi è tornato in tivù. Davanti a una situazione come questa, altro che dibattito sul MES: non sarà necessario chiedere di uscire dall’Europa matrigna. Se almeno gli altri hanno imparato qualcosa da questa vicenda, provvederanno loro a buttarci direttamente fuori.

La Cina è pronta ad accoglierci, potremmo diventare una sua ennesima provincia, come il Tibet. Solo che la flessibilità cinese è inferiore anche a quella tedesca o olandese, è paragonabile solo a quella della ghisa. Ovvero, pari a zero.

 

Camera con vista sul futuro

di Paolo Repetto, 9 aprile 2020

Da un mese e mezzo vivo confinato in un terrazzino al settimo piano. Fortunatamente è orientato a sud, e aggetta su un fazzoletto triangolare di verde, al di là del quale corre un ampio viale e si allarga poi una distesa periferica di costruzioni basse. Non mi è quindi impedita la vista in lontananza, a centottanta gradi, dei profili dell’Appennino retrostante Genova: del Tobbio, delle alture della Val Borbera e di quelle della valle dell’Orba. Consolazione magra, ma di questi tempi ci si aggrappa a tutto.

Più che all’orizzonte, però, anche per non rinfocolare troppo la nostalgia, quando alzo la testa dai libri guardo in questi giorni di sotto, in cerca di forme di vita che si muovano tra lo spalto e il rettilineo di via Testore e mi rassicurino che non è esplosa una bomba al neutrino. La via appare sgombra e inutilmente scorrevole, mentre di norma è intasata da auto in doppia fila, ed è vuoto e silenzioso anche il marciapiede sul quale estate e inverno sostano e schiamazzano gli avventori del bar (e proprietari delle auto in doppia fila), tutti rigorosamente col bicchiere in mano. Solo negli orari consentiti dal decreto c’è una piccola e compostissima fila davanti al minimarket d’angolo.

Quando riguadagno l’interno cerco di rimpicciolirmi il più possibile e di muovermi come un astronauta, lento e levitante. La condizione di quarantena impone naturalmente di trovare linee nuove di compromesso con lo spazio in cui vivi e con chi lo condivide con te. Tre persone per ventiquattro ore al giorno per cinquanta giorni sono più di tremilacinquecento persone, anche al netto delle uscite per i rifornimenti o per le mie mezz’ore quotidiane d’aria attorno all’isolato: uno sproposito, per ottanta metri quadri. A breve saranno a rischio di crollo i palazzi più ancora che i viadotti – anche se questi ultimi, pur sgravati del traffico, continuano allegramente ad afflosciarsi,). Diventa un’arte lo scansarsi.

Non solo: il “distanziamento sociale” induce a cercare nella televisione un surrogato di quel contatto con l’esterno che è venuto drammaticamente a mancare. Ti riduci, non fosse altro per l’aggiornamento sulle perdite giornaliere e sul progredire del contagio, a sedere davanti alla televisione, e stenti poi a rialzarti, perché in effetti non hai altro di urgente da fare. Insomma, se si conserva un po’ di coscienza critica si può verificare su noi stessi cosa significa rimbambimento depressivo.

Questo spiega forse perché mi sforzo di rappresentare invece la mia attuale condizione come un’opportunità, secondo la moda ormai invalsa di considerare opportunità qualsiasi disgrazia o accidente capiti. Non è facile, e infatti ci sto girando attorno senza risolvermi sin dall’esordio di questo pezzo: ma voglio provarci.

Mettiamola così: io godo di un punto d’osservazione privilegiato, rispetto a tutti gli amici che vivono in campagna o dispongono almeno di un piccolo giardino, e soffrono in maniera molto attutita gli “effetti collaterali” di questa crisi. Io vivo nel cuore della battaglia, come un reporter di guerra. Loro non sanno cosa si perdono, perché quando il tran tran quotidiano muta così drasticamente si attivano, per forza di cose, dei sensori diversi, e si colgono aspetti del reale che nella normalità sfuggono o appaiono assolutamente insignificanti.

Ora, senza pretendere a discorsi filosofici o ad analisi psicologiche o sociologiche, per i quali conviene rivolgersi ad altri, vorrei limitarmi a fornire qualche esempio di ciò che una condizione di normalità non ci indurrebbe mai a considerare significativo. Vado in ordine sparso, e lascio aperte queste pagine, come già i miei precedenti interventi antivirali, a ogni sorta di integrazione, correzione e aggiunta.

 

1)    Parto proprio dalla televisione. Non mi sarei mai atteso di scoprire attraverso la tivù quanto è grande il patrimonio librario degli italiani. Con questa storia dello streaming, per cui si interviene da casa, vedo fiorire ovunque insospettabili librerie domestiche. Mi si obietterà che è abbastanza normale, uno non si collega dando le spalle al lavandino della cucina o alla cassetta dello sciacquone, ed è vero: ma vi invito a fare caso, nel corso dei collegamenti, non all’intervistato, che in genere non ha granché di interessante da dire, ma al tipo di scaffalature che ha alle spalle e alla disposizione dei volumi, anche senza cadere nella mia maniacale pretesa di riconoscere dal dorso le case editrici, e quindi gli orientamenti culturali del proprietario, o di leggere addirittura i titoli (questo si può fare meglio sul monitor del computer, ingrandendo e mettendo a fuoco i particolari). A volte il gioco è davvero mal condotto. Ieri ho visto una povera Billy nella quale pochi volumi totalmente anonimi, tipo quelli usati dai mobilieri nelle esposizioni, erano sparsi in assembramenti ridottissimi su ripiani per il resto desolatamente vuoti (non c’erano nemmeno vasi o teste di legno africane o altre suppellettili), e questo solo nella colonna immediatamente alle spalle del parlante. Avendo il tizio calibrato male l’inquadratura si scorgevano le colonne ai lati completamente deserte.  Penso che a un certo punto abbia preso coscienza dell’assurdità della situazione, o qualcuno gliela abbia fatta notare, perché ha cominciato a impappinarsi e ha chiuso frettolosamente il collegamento. Sono rimasto con l’angoscia per quegli scaffali vuoti.

In altri casi, invece, regìe più accorte predispongono una inquadratura di sghimbescio, facendoci intravvedere infilate di scaffali grondanti libri lungo tutta una parete. In realtà ci tolgono l’unico piacere, quello appunto del gioco al riconoscimento.  Si tratta in genere di filosofi o liberi pensatori. I rappresentanti della vecchia guardia, le figure istituzionali, si coprono invece le spalle con solide enciclopedie, trentacinque volumi tutti uguali e tutti ugualmente intonsi, forse per mantenere un profilo neutrale, o trasmettere un’immagine di solidità, ma più probabilmente perché non possono esibire altro. Mentre i direttori di riviste e quotidiani sono preferibilmente incorniciati dalle raccolte cartacee delle loro creature, alla faccia di tutti gli archivi digitali, o dalle intere collane edite in allegato. Insomma, tutto piuttosto pacchiano. C’è un futuro per giovani che volessero specializzarsi in Scenografia delle Screaming, anziché in Storia. Elisa ha perso un’occasione.

Comunque, non mi si venga a dire che l’editoria è in crisi. Non so se gli italiani leggono, ma senz’altro hanno comprato libri. Forse lo hanno fatto recentemente, avendo sentore della crisi e prevedendo i collegamenti in remoto. Ma lo hanno fatto.

In compenso, mia figlia Chiara, che lavora in Inghilterra nel settore finanziario, mi racconta che nelle videoconferenze i suoi colleghi si presentano quasi sempre dando la schiena a quadri di autori in qualche modo riconoscibili e riconosciuti (almeno a livello locale). In Inghilterra va l’arte, in Italia la letteratura (ma proprio stasera, nel salotto-streaming della Gruber, alle spalle della vicepresidente della Confindustria campeggiava un’opera di Gilardi, mentre dietro tutti gli altri convitati virtuali le librerie sembravano in terapia intensiva, tanto il loro respiro era artificiale).

Mi sono anche chiesto come me la caverei io, dovendo collegarmi da casa (non dal terrazzino di Alessandria, ma da Lerma). Sarei in grave imbarazzo, perché in qualunque ambiente e da qualsiasi angolatura avrei alle spalle libri, e tutti libri ai quali tengo e che farebbero la gioia di un riconoscitore, nonché scaffalature autoprodotte. Quindi, o dovrei programmare una serie di interventi con inquadrature diverse, o sarei tenuto per equità a rinunciare. Forse mi conviene adottare quest’ultima soluzione.

 

2)   Per dimostrare che non sono poi così prevenuto nei confronti della televisione, eccomi a riconoscerle dei meriti, quando ci sono. Uno dei più grandi, nella gestione di questo terribile momento, è senz’altro l’oscuramento di Sgarbi. Lo stiamo pagando ad un prezzo altissimo, trattandosi tra l’altro solo di una parziale e tardiva riparazione a una schifezza che andava avanti da anni, ma insomma, aggrappiamoci anche alle piccole consolazioni. Se assieme al virus avessimo dovuto sopportare anche lui la tragedia sarebbe diventata del tutto insostenibile. Rimane purtroppo il timore che non appena cessata l’emergenza possa ricomparire. Dicono che usciremo da questa prova migliori: bene, il suo ritorno o meno sui teleschermi sarà la cartina di tornasole.

 

3)   Un altro merito della tivù è quello di aver dato fondo al magazzino dei film western (quelli veri, intendo). Purtroppo però sto scoprendo che li avevo già visti tutti, e non solo la gran parte, come pensavo. Mara si diverte, ogni volta che durante lo zapping si imbatte in un cappello a larghe tese e in un cavallo, a chiamarmi per verificare se lo riconosco, e a sentirsi elencare all’istante titolo e interpreti, spesso anche il regista. A molti questo esaurimento delle scorte non parrà una cosa di particolare rilievo, ma per me lo è. È sintomatico, simbolico di un ciclo che si è esaurito e di un mondo che ha fatto il suo tempo. Può andare definitivamente in archivio (non mi riferisco solo al western). Il fatto è che dentro quel mondo ci sono anch’io.

 

4)   Cambiano i rituali. Fino a un paio di mesi fa nella mia liturgia mattutina, subito dopo il caffè e la prima sigaretta, veniva il siparietto di Paolo Sottocorona, con le previsioni meteo fino a due giorni avanti, offerte con garbo e ironia, sottintendendo sempre: “se non andrà proprio così non prendetevela con me, faccio quello che posso”. Ho smesso completamente di seguirlo, anche perché di come sarà il tempo nei prossimi due giorni non mi può fregare di meno, visto che li trascorrerò comunque in casa. Ho introdotto invece un rituale vespertino, quello del collegamento con la Protezione Civile, con tanto di snocciolamento delle cifre dei contagi e dei decessi. So che le cifre sono approssimate e virtuali, e che i costi umani reali di questo dramma li conosceremo davvero, forse, solo dopo che si sarà totalmente consumato: ma mi dà l’illusione di partecipare in qualche modo ad una cerimonia collettiva di addio, assieme ad altri milioni di telespettatori, per evitare che sei o settecento persone ogni giorno se ne vadano insalutate, senza un funerale, senza qualcuno che le accompagni, inghiottite immediatamente dalle statistiche.  Che è esattamente il contrario di quanto cercano di fare, ed è anche comprensibile perché lo facciano, coloro che danno l’informazione.

 

5)   Ho provato a tenere una conta differenziata per età e per genere delle persone che incontro al supermercato, che vedo passare dal terrazzino o che incrocio durante i duemila passi quotidiani extra moenia. È probabile che le mie statistiche siano viziate da una deformazione prospettica, da un campionamento troppo parziale, ma io riporto solo quanto ho potuto constatare, e cioè che le percentuali per genere sono inversamente proporzionali a quelle ufficialmente rilevate dei tassi di contagio.  Le donne in sostanza contraggono il virus due volte meno degli uomini, e stanno in giro due volte di più. Forse proprio perché rassicurate dalle statistiche, o forse più semplicemente perché nelle situazioni critiche sono meno ipocondriache e più spicce dei maschi, o magari perché nel fare la spesa non si fidano dei mariti e vogliono avere l’ultima parola nella scelta dei prodotti. Sia come sia, sono protagoniste nella quotidianità dell’emergenza.  Mi faceva notare Nico Parodi che al di là della crisi il tema del nuovo ruolo femminile e delle prospettive che disegna sarebbero da affrontare non più con il cazzeggio degli psicologi e dei sociologi da talk show, ma andando a sommare tutta una serie di evidenze e di proiezioni scientifiche. Credo che qualcuna, di tipo nuovo, verrà fuori anche da questa situazione.

Per quanto concerne invece le classi di età, gli anziani sembrano decisamente molto più girovaghi dei giovani, a dispetto del fatto di essere maggiormente a rischio. Probabilmente anche questo dato ha spiegazioni plurime, compatibili comunque l’una con l’altra. Intanto, già sotto il profilo prettamente demografico in città come Alessandria vivono molti più anziani che giovani, per motivi logistici. Questi ultimi tendono a decentrarsi nella cintura dei paesi attorno, hanno maggiore facilità di spostamento e frequentano probabilmente anche in questo periodo, per gli approvvigionamenti, i grandi centri commerciali periferici. Poi sembra che gli anziani abbiano perfettamente inteso il senso del messaggio lanciato dal governo e rimbalzato da tutte le reti televisive, che non è “Abbiate riguardo per la vostra salute” ma “Non cercatevi guai perché non abbiamo le risorse per curarvi”, e vogliano ribaltarlo, dimostrando di sapersela cavare comunque. Infine c’è il fatto che i giovanissimi, anche se liberi da incombenze scolastiche, non li si incontra al supermercato, perché sono esentati per statuto dal farsi carico del vettovagliamento o di altre incombenze spicciole. È probabile abbiano escogitato luoghi e modi diversi per ritrovarsi, oppure si brasano beatamente davanti al computer o al telefonino (come del resto facevano anche prima).

6)   E i cani, che avevamo lasciato come grandi protagonisti della resistenza allo stress da quarantena?  Continuano stoicamente a reggere agli straordinari cui sono sottoposti, ma rilevo un calo nella frequenza delle uscite, forse connesso a quanto dicevo sopra. Erano infatti soprattutto i giovani a offrirsi come conduttori, e nel frattempo questi hanno trovato scuse diverse per le uscite, o si sono definitivamente poltronizzati. Un’altra cosa piuttosto voglio segnalare. È naturale vedere nelle aiuole qui sotto solo animali di piccola taglia, come si addice a bestiole che vivono in appartamento.  Ma allora, mi chiedo, che fine hanno fatto i pittbull e i mastini tibetani che giravano un tempo? Dispongono tutti di confortevoli giardini? E se no, dove li portano a pisciare? E se si, che ci facevano in giro, prima?

 

7)   Chiudo, per il momento, accennando al rischio molto concreto per tutti dell’abitudine all’ozio. L’ozio forzato snerva, per due principali motivi: da un lato perché dopo aver scatenato una prima insofferenza insinua sottilmente l’idea che i progetti che avevi in mente non siano poi così importanti e così urgenti, visto che comunque non puoi dare loro corso e devi fartene una ragione. Dall’altro, la prospettiva di molto altro tempo vuoto a disposizione spinge a rimandare anche le cose che potresti fare subito, e che ti eri sempre chiesto se mai sarebbe capitata l’opportunità di farle. È quanto mi sta accadendo con tutti i propositi di completamento dei lavori lasciati a metà sul computer, o di lettura dei libri accumulati, cose per le quali persino quando ancora ero in servizio riuscivo a trovare un paio d’ore la sera o di notte, mente adesso giro attorno e inseguo da un libro o da un sito all’altro sempre nuove distrazioni. Sono al punto che l’idea di quel che mi aspetta al rientro a Lerma, dei lavori di riassetto del giardino e del frutteto sconciati dai nubifragi autunnali mi spaventa, e ad ogni nuova dilazione imposta tiro quasi un sospiro rassegnato di sollievo. Non è una sindrome da poco, e non credo di essere l’unico a viverla.  Se un po’ può servire a smorzare l’ansia di accelerazione continua che si viveva in precedenza, oltre un certo limite rischia di convincere alle beatitudini del letargo.

In me quest’ultima pulsione sta già vincendo. Spero di non averla indotta anche in chi, già fiaccato dalla noia, ha provato sin qui a seguirmi.

Effetti collaterali

di Paolo Repetto, 12 marzo 2020

La futurologia fantascientifica (letteraria, cinematografica, ma anche quella statistica) ci aveva abituato all’idea che la catastrofe sarebbe arrivata dallo spazio, con un asteroide o un meteorite gigantesco. Era una previsione tutto sommato quasi rassicurante, perché confinava il pericolo in uno spazio remoto e appendeva la spada di Damocle al filo di una probabilità infinitesimale. E poi, a mala parata, c’erano sempre Bruce Willis e i suoi astronauti pronti a ficcargli in quel posto un paio di atomiche e a disintegrarlo. Invece ci è arrivato addosso un corpuscolo maligno e invisibile, che non sconquassa, non sconvolge la natura e non tocca le cose, ma colpisce selettivamente solo la specie umana, facendone strage (e quindi da Armageddon, di vent’anni fa, siamo passati a Contagion, che anni ne ha meno di dieci e racconta proprio la storia di un’epidemia, nata a Hong Kong come una banale influenza, che però si rivela essere un virus mortale). Una strage silenziosa, strisciante, con numeri che crescono in maniera esponenziale giorno per giorno e davanti alla quale teoricamente non siamo impotenti, ma di fatto è come lo fossimo.
Stiamo affrontando questa situazione con misure esclusivamente “naturali”, visto che di antidoti scientifici al momento non si vede l’ombra, né la si vedrà, a quanto pare, per molti mesi ancora. È da sperare soltanto che a quel punto la violenza del virus si sia già esaurita da sola, quanto meno per assenza di ulteriore materia prima da contagiare.
Davanti ad una emergenza simile sarebbe forse il caso di sospendere non solo le attività pratiche, ma anche quelle speculative. Di mettere in quarantena non solo la quotidianità del vivere, del lavoro, dei rapporti sociali, ma anche giudizi, pregiudizi, predizioni e commenti, lasciando spazio solo all’informazione statistica, profilattica e normativa. A confondere le idee già si prodigano la rete, la televisione e la stampa.
E tuttavia, in questo spettrale deserto da coprifuoco, anche volendo non si può smettere di pensare. Qualcosa bisogna pur fare per far trascorrere giornate sempre più irreali. Se uno non accetta di lasciarsi rimbambire dalla televisione o dallo scatenamento dei social, e non riesce a farsi completamente assorbire dalla lettura, non gli rimane che riflettere un po’ più in profondità su quanto sta accadendo, a prescindere dal numero dei morti, dei contagiati, dei guariti e dei posti letto disponibili nei reparti di terapia intensiva.
È il mio caso. Ho forzatamente rinunciato alla scrittura “estemporanea” della quale mi diletto, che a fronte della condizione che stiamo vivendo mi è apparsa in tutta la sua futilità, e ho provato a buttare giù di getto qualche considerazione su ciò che sta accadendo. So che è prematuro, che un mese o forse più di quarantena e gli sviluppi imprevedibili della crisi mi faranno tornare da diverse angolature su questi temi, spero solo in una luce non troppo fosca, e che altri motivi di riflessione subentreranno, dettati dai comportamenti individuali e collettivi che adotteremo: ma l’ho fatto senza la pretesa di spiegare o interpretare alcunché, pensando invece che potrebbe essere interessante confrontare le impressioni iniziali con ciò che, al virus piacendo, potrà essere messo a bilancio quando l’incubo avrà fine.
Ora vado anche oltre. Partecipo queste cose agli amici, le propongo come spunti. Mi piacerebbe che qualcuno ricambiasse. Il fenomeno ci sta toccando tutti in eguale maniera. Il virus, quanto a questo, sembra essere molto democratico.
Dunque. Io registro questi più immediati effetti:

1)    Innanzitutto lo spiazzamento. Una brutale percezione del vuoto e dell’assurdo della nostra esistenza (vedi, esemplare, “La peste” di Camus). Non mi riferisco alla percezione impaurita e superficiale dettata dall’alea di un pericolo misterioso e invisibile, ma a qualcosa di più profondo: la consapevolezza improvvisa di quanto sia inconsistente, insignificante e irrilevante ciò che normalmente facciamo: consapevolezza imposta dal fatto che non possiamo più farlo. Ci rendiamo conto allora che lo facciamo proprio per non guardare in faccia la realtà (e questo appunto ci caratterizza come umani, in positivo o in negativo, a seconda dei punti di vista – ma comunque è condizione comune): e in un simile momento la realtà siamo invece costretti a guardarla in faccia tutto il giorno. Non importa come evolverà la situazione, se riusciremo o meno a riprenderne in mano le redini, e in quanto tempo. Lo squarciamento del velo, c’è stato – almeno per coloro che non sono già completamente lobotomizzati: e ricucirlo non sarà facile (ma sarebbe poi auspicabile?)

2)   Poi la constatazione che davanti a problemi di questa portata non possiamo riporre fiducia in un comune positivo sentire, che non esisterà mai, ma solo in una dittatura che imponga un comune obbedire (il caso cinese ne è una conferma clamorosa). È un’idea che circola ormai da tempo in relazione al problema ambientale (la dittatura tecno-ecologica di cui parlava tra gli altri Pier Paolo Poggio). Può piacere o no, credo che in realtà non piaccia a nessuno, ma resta il fatto che il coronavirus ha dato una sterzata brusca al dibattito sull’organizzazione futura della società, la quale dipenderà da decisioni traumatiche dall’alto e non certo da insorgenze rivoluzionarie o da riformismi all’acqua di rose.

3)   Senz’altro la conferma dell’inadeguatezza di chi ha delle responsabilità di potere, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. E non mi riferisco al caso specifico italiano, che pure offrirebbe fior di pezze esemplificative. Davanti a emergenze come questa appare inadeguato chiunque, come dimostra la gestione della crisi in altri paesi. Il fatto è che non si può riduttivamente farne una questione di limiti della classe politica: ciò che emerge clamorosamente è una impreparazione generale della società, ovvero un difetto intrinseco al sistema, che non è in grado di affrontare alcun problema di natura diversa da quella produttivistico-consumistica, o più genericamente “di natura”, quali che siano i regimi o i modelli sociali. Tra parentesi, a titolo molto personale, è anche una conferma della validità (sia pure solo su un piano ideale) dell’opzione anarco-intelligente (quella di un Landauer o di un Berneri, dei post-anarchici, per intenderci), che punta tutto sull’educazione all’autoresponsabilità.

4)   Si comincia a prendere coscienza che andiamo incontro ad una “sobrietà” forzata nei comportamenti e nei consumi, della quale ancora non possiamo prevedere né la misura né i tempi. Al momento è persino scandaloso che la si consideri tale, paragonata alle condizioni di vita in cui versa più di metà dell’umanità, ma naturalmente tutto questo dipende dai parametri assurdi cui siamo abituati. La “decrescita felice” appartiene già al passato. Decrescita sarà senz’altro, ma traumatica.

5)   Dovremo procedere, e in effetti lo stiamo già facendo, a una ridefinizione di valori considerati fino a ieri (sia pure ipocritamente: ho in mente il “tasso di perdite tollerabili” stabilito dal Pentagono) indiscutibili. Prima di tutto del valore di ogni singola vita, rispetto alla necessità di scelte inderogabili: sta accadendo, e sembra non suscitare particolare scandalo, negli ospedali al collasso che devono scegliere a chi assicurare le cure adeguate disponibili. Il problema è reale, e di fronte all’urgenza dei numeri non è nemmeno il caso di rivangare le recenti strette alla politica sanitaria: si porrebbe comunque, anche con qualche posto-letto in più. Ma tutto questo dovrebbe rimette in discussione, sotto una luce ben diversa, tematiche come quella dell’eutanasia e del diritto a decidere del proprio fine vita: più in generale, i termini in cui va concepito l’essere vivente (e quindi, aborto, accanimento terapeutico, ecc …). Per intanto, però, sta già certificando una valutazione utilitaristica della vita. Gli anziani, i malati, coloro che rappresentano un costo per la società, in una situazione di emergenza possono essere sacrificati. In Inghilterra addirittura si adotta il darwinismo sociale. Non a caso Spencer era inglese. Ha una sua logica, ma è il ritorno a una concezione e a una prassi che sino a ieri erano considerate appannaggio delle popolazioni primitive.

6)   La situazione ci costringe anche ad adottare modelli di computo diversi, ad avere una differente percezione delle cifre. Le migliaia, quando è possibile che ci includano, valgono molto più delle centinaia di migliaia di cui si ha notizia a distanza. Il rito serale inaugurato da un paio di settimane della conta dei morti ha l’effetto alone di rendere molto più concreti anche altri numeri, relativi ad altre situazioni. Quelli della guerra in Siria, ad esempio, o dei profughi inghiottiti dal Mediterraneo. Questo è, almeno per il momento, l’effetto che riscontro su di me. Il rischio è che sul lungo periodo e con numeri in crescita geometrica si crei assuefazione anche alla macabra contabilità domestica.

7)   Sull’entità del collasso economico naturalmente non mi pronuncio. Al di là del fatto che non ne ho le competenze, reputo che nessuno sia oggi minimamente in grado di immaginare gli scenari economici futuri. L’unica cosa certa è che quanto sta accadendo oggi stenderà un’ombra particolarmente lunga. Sempre che solo di un’ombra si tratti. È un’altra eredità scomoda che lasciamo ai nostri figli e nipoti.

Rilevo soltanto un fatto. Per dieci giorni, quando il bubbone non era ancora esploso in tutta la sua virulenza ma già stava manifestando le sue dimensioni, la preoccupazione principale, prima ancora che quella sanitaria, è parsa quella economica. Le compagnie aeree avevano appena iniziato a cancellare i voli che davanti al parlamento già si svolgevano manifestazioni di tour operator, di albergatori, di venditori di souvenir. Con assembramenti che ricordavano molto le manzoniane processioni contro la peste. Ogni epoca ha i suoi riti propiziatori (del contagio).

8)   Le consolazioni. Naturalmente qualcuno ha iniziato subito a parlare delle opportunità. Le famiglie per una volta riunite, l’occasione di fare insieme cose che non si erano mai fatte, di riscoprire modalità di rapporto da tempo scomparse. Non vorrei sembrare cinico, ma temo che la forzata coabitazione causerà invece una piccola catastrofe aggiuntiva. Nelle camere iperbariche che sono diventati i nostri appartamenti si verificherà un aumento dei divorzi, dei femminicidi, degli odi e degli screzi intergenerazionali, delle liti condominiali per il volume degli apparecchi televisivi. Persino i cani, poveracci, stanno pagando il loro tributo. Essendo rimasti l’ultima scusa per poter mettere fuori il naso sono costretti a corvée massacranti, per consentire a tutti i membri della famiglia di uscire, e accusano problemi di vescica sovrastimolata. C’è poi chi saluta l’occasione di una riscoperta della lettura. Ma come dicevo sopra, è dura anche leggere, o scrivere, con la mente che distratta dal pensiero di quel che accade, silenziosamente, là fuori. Anche questo piacere necessita di condizioni ambientali adeguate.

Piuttosto, un’opportunità concreta l’ho individuata anch’io. Se il sostegno economico già stanziato per i mancati guadagni di imprenditori, professionisti, commercianti e artigiani sarà parametrato, anziché sulle richieste, sulle dichiarazioni dei redditi degli ultimi cinque anni, dovremmo realizzare un buon risparmio, a tutto vantaggio degli investimenti per il potenziamento futuro della sanità.

9)   A differenza di molti miei amici, che ipotizzano un cambiamento radicale, sia pure forzato, della nostra mentalità e dell’attitudine nei confronti della vita e del mondo, ho la sensazione che non impareremo nulla. Non saremo più ragionevoli, più tolleranti e più buoni. Anzi, probabilmente il ricordo del passato benessere renderà ancora più dura la competizione per riconquistarlo a livello individuale o nazionale. E la storia è lì a dimostrarlo. A tre quarti di secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, quando ancora non è del tutto scomparsa la generazione che l’ha vissuta, ci ritroviamo tra i piedi, assieme ad una mai sopita conflittualità imperialistica, tutto il ciarpame ideologico di cui da sempre quest’ultima è condita: razzismo, nazionalismo, antisemitismo, complottismo, ecc. Il virus attacca i polmoni deboli, purtroppo risparmia i cervelli bacati.

Ci sarebbero ancora un sacco di altri risvolti, alcuni solo apparentemente marginali, dei quali trattare. Ma temo che avremo fin troppo tempo per farlo. Per ora le mie impressioni a caldo sono queste. E mai come questa volta mi piacerebbe essere smentito.

Il giorno della marmotta

di Paolo Repetto, 2 aprile 2020

Quando comporranno il mio manifesto funebre dovranno scontarmi un anno. Perché ho già capito che quello in corso mi sarà interamente sottratto: e comunque già mi è stata rubata la primavera, che per un anziano come me è la stagione di una fugace rinascita. Non dicono infatti i saggi pellerossa: ho vissuto tante primavere e ho superato tanti inverni? (non so se lo dicono, ma mi piace pensarlo).

Non voglio farla tragica, ci sono situazioni ben più serie della mia, alcune delle quali le vivo anche da molto vicino, e ho quindi quasi ritegno a parlare delle mie nevrosi da quarantena. Ma l’alternativa è il silenzio totale, e questo lo vedrei come una resa al virus e al disamore per la vita che si sta insinuando in tutti noi. Provo così, a venti giorni esatti dalle prime impressioni proposte su questo sito, a ricapitolare un po’ la situazione.

Parto dal titolo di questo intervento. C’è un film americano dei primi anni novanta, che non conoscevo affatto e che solo uno come Geppi poteva segnalarmi, distribuito in Italia col titolo Ricomincio da capo, mentre nell’originale fa riferimento a una ricorrenza celebrata negli Stati Uniti e in Canada il 2 di febbraio, il Groundhog Day, giorno della Marmotta. Si tratta di una delle tante ricorrenze riciclate (e non solo per promuovere consumi, ma nel tentativo di surrogare con una liturgia laica la scomparsa dei tempi sacri) delle quali si nutre la modernità: trascrizioni profane di antiche celebrazioni cristiane, a loro volta già istituite pescando in più antiche tradizioni pagane e riadattandole. (Sul tipo di quella di Halloween, che si è sostituita nel mondo protestante alla festa di Ognissanti, a sua volta ricalcata sulle credenze celtiche nel ritorno dei morti il giorno del Samhain).

Nella versione americana della ricorrenza si è adattato un proverbio scozzese, che recita più o meno: Se il giorno della Candelora è luminoso e chiaro, ci saranno due inverni in un anno. In effetti, proprio di una rivisitazione della Candelora si tratta, che anche dalle nostre parti è indicata come spartiacque temporale per i vaticini meteorologici. Noi basso-piemontesi diciamo: Su fa bruttu a ‘ra Candlora, da l’invernu a summa fora (mi si perdoni la trascrizione alla buona: non sono un filologo dialettale. Il dialetto mi limito a parlarlo).

Ma cosa c’entra in tutto questo la marmotta? C’entra perché gli americani sono dei bambinoni e hanno bisogno di spettacolarizzare un po’ tutto, e allora si sono inventati un cinema particolare: in questo giorno si dovrebbe tenere d’occhio l’ingresso di una tana di marmotta (già la location è abbastanza problematica), perché è il periodo in cui i suoi inquilini si risvegliano. Ora, se la marmotta emerge dal buco e non vede la sua ombra, perché il tempo è nuvoloso, l’inverno ha i giorni contati; se invece è una giornata limpida e soleggiata la marmotta scorgerà la sua ombra, si spaventerà e si rintanerà velocemente. Ciò significa che l’inverno andrà avanti fino a metà marzo.

Si farebbe molto prima a dare un’occhiata al cielo, senza disturbare la povera marmotta: ma tant’è, anche noi appena svegli non guardiamo dalla finestra, ma accendiamo il televisore per seguire le previsioni meteo.

Bene, tutte queste premesse per arrivare alla spiegazione dei titoli, il mio e quello originale del film: che però con quello che voglio dire c’entrano solo di striscio. Nel film accade infatti che un giornalista inviato nel Connecticut a scrivere un pezzo di folklore sulla celebrazione, e giustamente scazzato (un po’ come Forster Wallace al Festival dell’aragosta nel Maine), si ritrova bloccato in un paesino da una tempesta di neve e scopre, con crescente disperazione, che lì i giorni si ripetono tutti esattamente uguali, introdotti al mattino dal “Salve. Oggi è il giorno della marmotta” sparato dalla radio locale. L’idea è originale, una cosa alla Robida – ma lui il tempo non lo fermava, lo faceva correre addirittura all’indietro, e almeno c’era un po’ di movimento, di novità, sia pure a rovescio. Quel che in fondo tutti oggi vorremmo.

Ecco dove volevo arrivare con questo lungo giro. Da un mese, ogni mattino, è come se qualcuno mi dicesse dalla radio: “Salve. Oggi è il giorno del coronavirus, e sarà esattamente simile a ieri e a domani”. Anzi, non è come se qualcuno me lo dicesse: me lo urla la tivù, me lo dicono i giornali, che ormai non sanno più che titoli inventare, li hanno già esauriti tutti. La sostanza è sempre la stessa. Cifre dei contagiati, dei decessi e dei guariti – queste ultime ovvie (se non fossero guariti sarebbero deceduti), ma servono a far apparire un po’ meno cupa la faccenda. Per il resto, le rituali raccomandazioni sui comportamenti da tenere, e gli altrettanto rituali giri d’opinione con giornalisti, attori, cantanti, e politici a piede libero, per l’occasione allargati anche a virologi e operatori sanitari.

Mi si potrà obiettare che in fondo i giorni si susseguivano tutti uguali, o quasi, anche prima. Senz’altro era così in tivù, fatto salvo l’oggetto dei talk e delle interviste. Ma la quotidianità era un po’ più mossa. Incontravi gli amici, cosa ben diversa dal sentirli anche tutti i giorni per telefono, scazzati come te e progressivamente sempre più imbozzolati, per cui ti rendi conto di quanto l’empatia abbia bisogno del contatto fisico; ti inventavi lavori, occupazioni, blitz nei musei, al cinema, in libreria, o semplicemente su un sentiero di campagna. Ma non è tanto ciò che effettivamente facevi, a mancare (qualcuno mi dice: in fondo non ho mutato di molto le mie abitudini): pesa l’idea di non poterlo fare, di non essere nella condizione di decidere anche per cose piccolissime e apparentemente insignificanti. Pesa l’assenza di una qualsiasi possibilità di progettare il proprio tempo.

In questo mese ho avuto l’opportunità di mettere mano ad un sacco di cose che avevo lasciato indietro, ai libri che avevo raccolto proprio in vista di eventualità drammatiche simili (ma a questa specifica non avevo mai pensato, mi ero fermato a fratture multiple alle gambe o a lungodegenze), eppure non sono riuscito a concludere alcunché. È come se avessi già accettato l’idea che avrò un futuro, per quel che ne rimane, assolutamente vuoto, e che devo lasciarmi indietro qualcosa per riempirlo.

Passiamo adesso da quel che provo dentro a quello che mi vedo attorno.

Quando esco a fare la spesa, o anche solo per un breve giro attorno all’isolato, per non perdere l’uso delle gambe, vedo persone sempre più distanziate e sempre più protette. Nei giri a vuoto non incontro praticamente nessuno, ma le rare volte che incrocio qualche altro passante, in automatico ci spostiamo sui lati opposti della strada.

È già un riflesso condizionato, che in realtà non ha alcun valore profilattico, ma è diventato immediatamente istintivo. Mi chiedo se riusciremo a liberarcene una volta che l’incubo sia cessato (sempre che cessi). Temo di no: che rimarrà per il futuro un’ombra su tutte le situazioni di prossimità con gli altri.

Vedo anche che a dispetto di questi comportamenti, enfaticamente celebrati come virtuosi, mentre invece sono dettati da una comunque giustificata paura, la sottovalutazione del fenomeno da parte di molti non è rientrata. Ha solo cambiato motivazione. Prima era dettata nei più dall’ignoranza, in alcuni da una effettiva esperienza nel campo, che induceva a proiettare quanto accade in un panorama sanitario già da sempre inquietante, anche se sottaciuto, e in altri ancora da una inguaribile tendenza a scorgere ovunque indizi di complotto e attentati alla democrazia (vi suggerisco di leggere gli interventi in proposito di Giorgio Agamben comparsi a partire dalla fine di febbraio su “Il manifesto”. Tra l’altro, avrete per una volta l’occasione di capire di cosa sta parlando, mentre lui paradossalmente non l’ha capito affatto).

Ora, per gli ignoranti purtroppo non c’è vaccino: probabilmente molti sono passati nel giro di questi giorni dalla sottovalutazione all’allarmismo esasperato e inconcludente. Per chi ha delle competenze, la cosa è più complessa, perché in effetti il balletto delle cifre, la confusione tra valori assoluti e valori percentuali, il mancato coordinamento stesso tra i vari organismi che dovrebbero gestire la cosa e che si fanno invece la guerra, anche attraverso le cifre, impedisce obiettivamente di avventurarsi in analisi e giudizi. Forse varrà la pena attendere che l’emergenza si plachi, per riflettere con mente più sgombra. Purché però nel frattempo non si tenda a ridurre l’effetto del virus a un “colpo di grazia” inferto a gente destinata comunque a morire. Siamo tutti destinati a morire, ma non siamo molto ansiosi che la pratica sia sbrigata più velocemente.

Quanto ai “complottisti” (e ci faccio rientrare tutti quelli che insorgono contro un presunto progetto di aggressione alle libertà democratiche), quel punto di vista – riassumibile nel “ne muoiono tanti tutti i giorni per altre malattie, indotte dal sistema e dal suo modo di produzione, e nessuno se ne allarma: quindi è evidente che questa è una epidemia inventata per far passare leggi e provvedimenti liberticidi” – lo hanno assunto da subito. Anche qui rimando ad una intervista, che ho letto proprio oggi, rilasciata tal Francesco Benozzo, docente universitario, sul sito Libri e parole.

Confesso la mia ignoranza: non sapevo che Benozzo fosse un “poeta-filologo e musicista, candidato dal 2015 al Nobel per la letteratura, autore di centinaia di pubblicazioni, direttore di tre riviste scientifiche internazionali, membro di comitati scientifici di gruppi di ricerca internazionali (e qui giù sigle e acronimi tipo: IDA: Immagini e Deformazioni dell’Altro – n.d.r) e molto altro ancora. Dirò di più: non sapevo neppure che Benozzo esistesse, non mi è mai capitata tra le mani una delle centinaia di pubblicazioni che lo segnalano per il Nobel – eppure sono uno che di roba ne fa passare.

Comunque: dopo averci informato che lui vive (beato!) in mezzo a un bosco nel Trentino, e che quindi dei divieti se ne fa un baffo (che sia un sodale di Mauro Corona?) e che sta lavorando ad un poema dal titolo Màelvalstal. Poema sulla creazione dei mondi (dal che si desume che stavolta il Nobel non glielo toglie nessuno – a meno che mi candidi anch’io. Ci sto pensando), il professor Benozzo ci rivela che siamo tutti marionette inconsapevoli, vale a dire una massa di coglioni, che si stanno facendo infinocchiare, con la scusa di una epidemia inventata, dagli sgherri del sistema. E porta a convalida della sua tesi l’apprezzamento di Noam Chomsky (ti pareva che il grande vecchio potesse una volta tacere!), di cui è intimo e col quale quotidianamente corrisponde.

Il problema in questo caso non è se l’epidemia esiste o meno. Il problema è che esiste gente come Benozzo (lo dico a prescindere da questa sua esternazione e in nome di quella libertà di parola che lui vede già come strangolata – “chi non la pensa come i medici ufficiali viene denunciato, se è un medico viene invece radiato” (sic) – La mia, comunque, si rassicuri, non è una fatwah: è solo un’amara constatazione), gente piena di sé e pronta a pontificare su qualsivoglia argomento, soprattutto su quelli nei quali a dispetto delle riviste internazionali che dirige o cui collabora non ha alcuna competenza (Benozzo a quanto pare di capire è un docente di Filologia), pur di esibirsi e di far sapere che esiste. Al che, si potrebbe obiettare, c’è comunque rimedio: di personaggi così ce n’è a bizzeffe, i social li hanno moltiplicati, o ne hanno moltiplicata la visibilità: basta non dar loro spazio, non fare da cassa di risonanza (al contrario di quanto in effetti sto facendo). Ma il fatto è che quelli come Benozzo girano per le università – sono piene di nipotini di Agamben – e fanno la ruota davanti a ragazzotti sprovveduti, che avrebbero bisogno di essere guidati a un po’ di conoscenza, se non dai “grandi maestri” presso i quali Benozzo si è abbeverato, almeno da persone di buon senso e di onesta umiltà intellettuale. Non solo: bruciano nel falò delle loro vanità e dei loro vaniloqui anche quegli argomenti seri che si potrebbero riservare, con un po’ di intelligenza, a un dopo-crisi davvero costruttivo, per quanto lontano e improbabile. La riorganizzazione della sanità, le spese militari, l’uso politico della scienza e il monopolio che le è conferito sulla verità, ecc …

Ecco. Vedete quanto poco basta a cambiarti la prospettiva, a smuovere le acque, in questi frangenti calamitosi e forzatamente cheti. Avevo in mente una serie di altre riflessioni sulla vita al tempo del virus, ma per oggi l’ho tirata già sin troppo in lungo e rimando quindi a una prossima missiva. Soprattutto, però, ero convinto di non riuscire più a formulare alcun progetto, mentre me ne ritrovo uno già pronto tra le mani. In realtà è la continuazione di un impegno che sto portando avanti nel mio piccolo da tempo: quello di stigmatizzare la cialtronaggine, di qualsiasi tipo e su qualsiasi versante si annidi. Il virus a quanto parte invece di sedarla l’ha scatenata, e il clamore ha risvegliato la marmotta che è in me. Non ho visto la mia ombra, stamattina (anche perché non sono uscito). E allora, pur consapevoli che i cialtroni sono legione, bardiamo Ronzinante e buttiamoci nella mischia. Per questa volta, se c’è qualche donchisciotte libero, sono anche disposto a fare Sancho Panza.