di Paolo Repetto, aprile 2010
Leadership
Credo che il collega Lucidi abbia centrato perfettamente il problema, o meglio, la definizione di leadership, che nel nostro caso diventa appunto un problema. Su quali parametri può infatti essere valutata una “buona” leadership? Su quella dei risultati? Ma quali? Quelli “misurabili” oggettivamente, numericamente quantificabili (efficacia, economicità, efficienza)?
Su questa base, stante il mandato ricevuto, Himmler sarebbe da considerarsi un ottimo leader. Credo che avremo bisogno di qualche altro valore. La stima reciproca tra i componenti del gruppo (3d), ad esempio, mi sembra già un buon valore. O il livello alto della motivazione, o più ancora, la proposta di motivazioni di alto livello, non guastano. Ma, come giustamente dice Lucidi, queste dimensioni stentano a trovare spazio in una misurabilità “scientifica”.
Penso di aver agito da leader in pochissime occasioni nella mia vita (anche se gli altri sostengono il contrario), all’interno di gruppi sportivi e di gruppi “letterari”. Non ho aperto alcuna nuova via di salita all’Eiger, e le riviste che ho fondato hanno tirato avanti per pochi numeri: ma le amicizie che ho contratto e che si sono intrecciate all’interno di questi gruppi durano tutt’oggi, così come il comune ricordo di momenti vissuti con intensità e passione. Ha qualcosa a che vedere, tutto questo, con lo stile della leadership?
Burnout
Per affrontare il problema del burnout occorre anzitutto identificare i reali fattori stressogeni. E provo anch’io a suggerirne qualcuno. Ma credo che il problema vero nasca dopo, quando ci rendiamo conto che rispetto a quei fattori, o almeno alla gran parte di essi, non possiamo fare granché.
Comunque, ecco alcune considerazioni:
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esiste in primo luogo una distanza anagrafica tra allievi e docenti sempre più marcata, per la diminuzione del turn over conseguente le restrizioni nelle assunzioni e lo slittamento dell’età pensionabile. Ma è soprattutto distanza nelle idealità, dovuta alla “velocizzazione della storia”, all’accelerazione delle trasformazioni economiche, politiche, sociali e culturali. Crea enormi difficoltà di comprensione e di comunicazione La cosa risulta demotivante per gli allievi, che non riescono ad entrare in sintonia, a partecipare delle idealità e della visione del mondo che ogni insegnamento comunque veicola. Ma lo è tanto più per i docenti, che frustrati dalla mancanza di risultati e di riscontri gratificanti entrano in crisi di identità, sentono venir meno il loro ruolo;
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pesa una eccessiva differenza nei linguaggi e nelle modalità di comunicazione. La consuetudine con la dimensione mediatica, che mette in gioco modalità di coinvolgimento totalmente diverse, ha abbassato drasticamente la capacità di attenzione dei giovani rispetto ad una didattica tradizionale, basata principalmente sulla lezione frontale. Gli allievi non reggono oltre una certa soglia, gli insegnanti incontrano grosse difficoltà: soggettive, ad adeguarsi ad un insegnamento fondato su modalità comunicative, e quindi anche su strategie, diverse e complesse; e oggettive. a competere con i modelli raffinati di proposta “formativa” che con le stesse tecniche sono offerti dalle agenzie esterne alla scuola;
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si aggiunge la dispersione: l’ansia di offrire tutto e di tutto. In un mondo che si globalizza e si complica, la tentazione è quella di offrire, per tutte le discipline, tutto il nuovo, senza tuttavia tagliare niente del vecchio. Con risultati troppo spesso superficiali, poco comprensibili e poco appetibili per gli allievi, frustranti per i docenti;
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persiste l’ambiguità: cosa deve offrire la scuola? una preparazione al lavoro o una formazione alla vita? Possono starci entrambe le cose, ma andrebbero dosate con un equilibrio condiviso da tutti gli ordini e i livelli dell’istituzione, e correttamente dichiarato all’utenza. Nella realtà non avviene così, col risultato che la scuola scontenta tutti, e per primi coloro che operano al suo interno.
L’elenco potrebbe naturalmente continuare all’infinito, basterebbe addentrarci nel campo delle relazioni tra colleghi, o dell’assenza di occasioni per valorizzare competenze “altre”; ma mi fermo qui, e lascio spazio alle riflessioni altrui.
Rischio
Mi riferisco a quanto affermato da una collega. “Parlare, leggere … serve a poco”. Concordo. E tuttavia, non sono neppure tanto convinto che dia migliori risultati “l’esperire”, almeno nell’accezione negativa del termine da lei usata. Credo che quasi tutti siamo stati testimoni, soprattutto in questi ultimi anni, di tragedie che hanno coinvolto qualche nostro allievo, che hanno sconvolto per qualche settimana, forse per qualche mese, i suoi compagni: E dopo? Non è cambiato nulla, la ferita si è cicatrizzata subito, si ricomincia daccapo. A questo credo dovremmo rassegnarci. Sono invece persuaso che la strada non sia quella di esorcizzare la tentazione del rischio, dal momento che è così connaturata alla psicologia adolescenziale, quanto piuttosto quella di indirizzarla verso il rischio calcolato, governabile. Mi viene in mente l’alpinismo, per personale esperienza, ma potrebbero essere cento altri gli sbocchi alla ricerca di “emozioni forti”. Posso garantire che mezza giornata appeso ad una roccia, pur con tutte le protezioni e le sicurezze possibili, ti fa vedere il rischio sotto una prospettiva assolutamente diversa, ti fa amare la vita di un trasporto assoluto. Non sto parlando di creare palestre di roccia in ogni scuola, naturalmente: Semplicemente, penso che per cominciare potremmo aiutarli a distinguere tra il rischio corso sconsideratamente e quello assunto con razionalità e consapevolezza, calcolabile e governabile. E per far questo, magari non bastano, ma anche le parole (e magari qualche lettura) servono.
Bullismo
Un paio di esperienze maturate diversi anni fa, quando il bullismo esisteva come oggi ma si chiamava teppismo, e ancora non aveva conosciuto l’effetto volano della medializzazione , mi portano a pensare che la scuola stia trascurando, tra le tante ipotesi piuttosto fumose e scontate di prevenzione e di contenimento, l’unica praticabile: quella di responsabilizzare concretamente gli allievi, i compagni sia delle vittime che dei persecutori. Per spiegare il senso di una responsabilizzazione concreta devo fare due premesse: una riguarda i dati statistici del fenomeno, l’altra concerne il campo delle priorità alle quali l’azione deve essere ispirata. Le statistiche ci dicono che il fenomeno è diffuso particolarmente, o quasi esclusivamente, tra gli allievi delle classi del secondario inferiore o dei primi due anni del secondario superiore. È facile capire il perché: vittime più fragili e indifese, persecutori più immaturi. Per quanto concerne invece le finalità alle quali ogni tipo di intervento deve essere mirato, credo occorra fare un po’ di chiarezza: per come la vedo io, l’ordine di priorità dovrebbe essere il seguente:
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salvaguardia delle vittime;
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contenimento dei prevaricatori;
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eventuale loro “recupero”.
So benissimo che i tre intenti non possono essere perseguiti separatamente, che devono marciare di conserva. Ma in situazioni di conclamata emergenza, come è in effetti quella attuale, si mira a salvare dapprima ciò che è più prezioso. L’impressione è invece che nel tentativo di portare a riva capra e cavoli, si finisca per non garantire affatto la parte più indifesa.
A questo punto, passiamo alla proposta operativa. Lo definirei un sistema di “tutoraggio”, gestito dagli allievi stessi e controllato dal corpo docente. Una volta identificati i soggetti a rischio, e intendo a rischio di essere perseguitati, li si “affida” a compagni scelti tra gli allievi frequentanti le ultime classi, capaci per motivi anagrafici e per conoscenza delle dinamiche di istituto di esprimere autorevolezza o, non guasta neanche questo, di incutere timore. La scelta naturalmente deve essere oculata, concordata sulla base di un patto preciso tra il docente o il gruppo di docenti che la opera e il “tutor”. Per quanto mi concerne, ho sempre optato per un tutoraggio doppio, cercando di equilibrare la coppia dei “responsabili” con la scelta di uno tra i più svegli e di uno tra i più “tosti”. Ha funzionato al di là di ogni aspettativa, e non solo in termini di salvaguardia della vittima, ma anche di ulteriore maturazione civica dei difensori., e in alcuni casi di nascita di amicizie che perdurano al di fuori dell’ambiente scolastico.
Prevengo le obiezioni. C’è un vago sapore di sistema “mafioso”, in tutto questo? Non direi proprio: in primo luogo perché occorre considerare che la vittima, prima o poi, cercherà per conto proprio una “protezione”, e magari, viste le incertezze e le debolezze istituzionali, potrebbe risolversi a demandarla proprio ai persecutori, cedendo loro completamente; in secondo luogo perché è evidentemente molto più facile, attivando un sistema di questo tipo, far venire allo scoperto le situazioni di bullismo, che spesso rimangono coperte per i timori della vittima o per la disattenzione dei docenti (e i primi sono correlati alla seconda); in terzo luogo perché il tutto deve funzionare attraverso un sistema di controllo costante da parte del personale scolastico. Ripeto: il sistema ha funzionato sempre bene: non so quanto possa essere “istituzionalizzato”, ho un po’ paura di questo termine. Ma si potrebbe sempre provare.
POF
Mi occupo del coordinamento e della stesura del POF del mio Istituto dai tempi eroici, da quando nessuno capiva cosa cavolo dovesse essere e le indicazioni provenienti dall’alto si contraddicevano puntualmente. In questi anni ho combattuto una lunga battaglia per far intendere ai colleghi che il POF è un documento collettivo, che deve esprimere finalità e politiche condivise, che il classico “fallo tu, che scrivi bene” è l’esatto opposto dello spirito che dovrebbe essergli sotteso. Con risultati, temo, desolanti. L’idea di autonomia che è passata è infatti quella di uno spazio libero, del quale i più pronti e i più attivi possono coltivare porzioni, talvolta in forma cooperativa, più spesso difendendone gelosamente i confini. La visione di una progettualità multiforme, ma confluente in un’unica strategia, si arresta al momento dell’enunciazione teorica: poi entrano in scena le consuetudini (questo lo abbiamo sempre fatto, là li abbiamo sempre portati,…), le ambizioni (è un concorso di prestigio, possiamo vincere un viaggio in Australia, è sponsorizzato direttamente dal tale, ecc…), le buone intenzioni prive di raccordo con tutto il resto (non si può ignorare il problema dei cani randagi, dobbiamo mobilitarci contro il buco nell’ozono), e tutte le altre motivazioni più o meno pertinenti che euforizzano la fase della programmazione.
In sostanza, a dispetto della precoce stesura di un pentalogo approvato dal collegio docenti, nel quale si precisa quali debbano essere i requisiti dei progetti, e a quali macroaree gli stessi debbano afferire, mi ritrovo tutti gli anni con una media di quaranta-cinquanta progetti, che paiono a volte partoriti da una fantasia disneyana, e che viaggiano ciascuno per conto proprio, sgomitando per la conquista delle ore e dei fondi. Col risultato che, in un modo o nell’altro, ogni anno si ripete la cerimonia dei tagli, dei ridimensionamenti, della contrattazione degli spazi, dei colleghi delusi che vivono tutto questo come un affronto personale.
Debbo confessare, per non sembrare troppo pessimista, che a furia di taglia e cuci ogni volta riusciamo a trovare bene o male la quadratura. Ma è lo spirito del POF che non sembra avere ancora trovata la strada per scendere sul capo dei colleghi. La Pentecoste, per come la vedo io, è lontana: e stento a credere che la mia sia solo un’esperienza particolarmente sfortunata.