Rifiuti

di Paolo Repetto, 26 aprile 2022

Due settimane di forzata semi-immobilità fiaccano qualsiasi resistenza. Negli ultimi giorni ho cominciato a giocare coi tasti del telecomando e a fare lo slalom tra le pause pubblicitarie, per rivedere per l’ennesima volta vecchi film western ed episodi del primo Barnaby. Ma ho anche seguito i telegiornali e le rassegne stampa, su quattro o cinque canali diversi, illudendomi di accedere a una varietà di opinioni e trovando invece le stesse discussioni oziose e addirittura gli stessi ospiti che si avvicendavano da una rete all’altra, dando prova di una straordinaria ubiquità. Risultato: tra virologi e psicologi e sociologi e generali in pensione, le nuove star degli ormai onnipresenti talk di “approfondimento”, ho capito che della situazione sanno tutti più o meno quanto me.

Se voglio fare un paio di riflessioni non devo dunque tenere conto delle notizie principali, quelle che occupano la gran parte dei servizi televisivi e le prime dieci pagine dei quotidiani, la guerra in Ucraina e la persistenza del Covid, né della mattanza strisciante che si consuma sui luoghi di lavoro o tra le mura domestiche. Mi concentro invece su alcuni episodi di cronaca spicciola, che vengono segnalati ed esecrati, ma sui quali si riflette poco o si fanno solo stucchevoli discussioni da salotto.

Dunque. Negli ultimi quindici giorni ho appreso che:

  • a Napoli un anziano sceso in strada per buttare la spazzatura è stato aggredito e strattonato da un gruppo di giovinastri, e cacciato alla fine lui stesso nel cassonetto. Il tutto, comprese le urla e le richieste di aiuto della vittima e le risate dei persecutori, filmato e messo in rete da spettatori evidentemente molto divertiti.
  • Sul treno Genova-Torino una carrozza con posti riservati e prenotati per un gruppo di disabili è stato occupata da altri passeggeri, che si sono rifiutati non solo di sgomberare ma persino di lasciarsi identificare dai poliziotti intervenuti. I disabili hanno dovuto attendere i treno successivo.
  • A Milano uno psicologo sessantenne è stato aggredito mentre passeggiava per strada e colpito con un pugno in pieno viso da un giovane staccatosi da una banda che sopravveniva in direzione opposta. Tutto questo senza alcuna motivazione, probabilmente come gesto di iniziazione. Lo psicologo rischia ora di perdere la vista da un occhio.

Rifiuti 02

Mi fermo qui, ma potrei continuare all’infinito, perché episodi di questo tipo, che in fondo appaiono secondari di fronte alle continue esplosioni di violenza omicida per un posteggio, per uno sguardo storto in discoteca o per una lite condominiale, sono comunque ormai la quotidianità, e vengono riportati in genere solo sui giornali o nelle emittenti locali. In realtà secondari non sono affatto, perché non sono nemmeno “giustificati” da una pur futile motivazione. Sono il frutto di stupidità pura, di assenza di qualsivoglia sensibilità civica, della presunzione (purtroppo fondata) di godere di una totale impunità. Cinquant’anni fa sarebbero state notizie da prima pagina, e avrebbero suscitato uno sdegno unanime. Oggi sembrano accettate con una passiva rassegnazione.

Quello che colpisce è appunto il tipo di reazione: rassegnata, come ho già detto, da parte dell’opinione pubblica, e totalmente passiva da parte di quelle istituzioni che dovrebbero garantire un minimo di sicurezza. Nello stesso periodo non ho letto né visto infatti che qualcuno dei protagonisti negativi sia stato identificato, malgrado provvedano essi stessi in genere a diffondere le immagini delle loro gesta. E meno che mai che sia stato sbattuto in galera o, come io auspicherei, messo alla gogna (non quella mediatica, ma quella reale) o preso a calci nel sedere o lasciato alla mercé delle vittime. Ho saputo invece di macchine della polizia assediate e danneggiate, di vigili e conducenti di autobus massacrati, di raid per le vie principali delle grandi città, in pieno giorno, da parte di bande che quando va bene si danno appuntamento per scontri a bastonate e coltellate, e quando va male danno la caccia ai passanti. Tutto questo è intollerabile, sento ripetere ad ogni nuovo episodio: ma in realtà continua ad essere tranquillamente tollerato. Sono vicende assimilate ormai ai fenomeni atmosferici: accadono e non possiamo farci niente, salvo lamentare nebulose responsabilità “sociali”.

Le responsabilità invece non sono affatto nebulose. Se le forze dell’ordine non intervengono, o se quando intervengono non sembrano avere alcun potere di dissuasione, è anche perché ad ogni randellata distribuita dalla polizia si levano immediatamente accuse di uso eccessivo della violenza e scattano provvedimenti che dissuadono gli agenti da un impegno che (e questo costituisce un altro aspetto del problema) è già di per sé piuttosto scarso. È perché qualsiasi delinquente arrestato, a meno che non abbia sterminato una famiglia e sia stato beccato con il coltello insanguinato o con la pistola fumante, viene “denunciato a piede libero”, così che possa riprovarci dopo mezz’ora, come è appunto accaduto un paio di volte in questi giorni. È perché personaggi con curriculum delinquenziali impressionanti girano impuniti per strada, colpiti da provvedimenti ridicoli e inapplicabili come il daspo, che sembra essere diventato una patente per stalker e persecutori e potenziali assassini. È infine perché magistrati animati da un malinteso spirito di redenzione (o semplicemente da una interpretazione lassista delle leggi) concedono disinvoltamente scarcerazioni o libertà condizionate ad assassini efferati.

Ora, queste cose parrebbero scritte da Belpietro o da Feltri, ragionamenti da osteria, e proprio qui sta il nocciolo del problema: sta nel fatto che si lascino cavalcare questi problemi, fingendo che non esistano o liquidandoli con uno sbrigativo sdegno rituale, agli esponenti della reazione più becera o ai nostalgici del manganello, a quelli che poi paradossalmente della violenza di strada sono in realtà i principali supporter. Paiono ragionamenti da osteria perché per queste cose la sinistra dei salotti non ha tempo. Soprattutto, non ha la voglia né la capacità di operare un ripensamento che scenda un po’ più terra terra, per cogliere le motivazioni spicciole, le necessità immediate, senza perdersi nell’aria fritta del “disagio sociale”.

Se questa violenza esiste, argomenta infatti la sinistra diligente e dottrinaria, è perché essa manifesta un disagio “sociale” crescente: quindi occorre agire sul disagio e sulla società. Perfetto. Tranne per un paio di fatti. Il primo è che poi quella stessa sinistra non esprime una minima idea concreta di come “agire sulla società”, e riserva le sue priorità alle problematiche oziose del numero dei generi o alla “correttezza politica”. Il secondo è che questo disagio diventa una giustificazione riservata ai soli persecutori, mentre non viene mai considerato quello delle vittime. La società, alla fin fine, sono gli altri. Attribuire la responsabilità alla società è come dire che se qualcuno sbaglia la colpa è di chi gli sta attorno. In quest’ottica il vecchietto, i disabili e il passante un po’ se la sono meritata. Non sto scherzando; c’è tutta una frangia, nemmeno tanto ristretta, dell’estrema sinistra demenziale, che giustifica Cesare Battisti (il brigatista, non l’irredentista) come un combattente per la libertà. È l’ennesima interpretazione distorta del dettame evangelico, di quel “chi è senza colpa scagli la prima pietra” che mi ha sempre lasciato perplesso, perché si presta a troppe interpretazioni di comodo.

Parliamoci chiaro. Se un adolescente viziato, figlio in genere di genitori distratti o protettivi ad oltranza, o un energumeno frustrato o un semplice idiota in vena di bravate si aggirano per le strade, non c’è dubbio che costoro abbiano alle spalle situazioni di disagio, ma non raccontiamoci che queste nascono dalla povertà, dal bisogno, dallo sfruttamento, ecc. Stiamo parlando di gente che vive né più né meno lo stesso disagio che viviamo io e la maggioranza degli umani, aggravato nel nostro caso dal fatto di scoprici anche potenziali e inconsapevoli vittime del primo idiota di passaggio.

Rifiuti 03

E allora, occorre ammettere innanzitutto che qualcuno nasce più stupido o più carogna degli altri. L’ambiente, l’educazione, la famiglia, le compagnie, faranno poi il resto, ma il dato di fondo rimane una inclinazione particolarmente perversa (dico “particolarmente” perché la natura egoistica è comune a tutti gli uomini: qui non si tratta però di semplice egoismo, ma di violenza gratuita e insensata). Questa inclinazione può essere nella maggior parte dei casi contenuta o persino corretta quando gli strumenti di integrazione sociale (quelli appunto che ho citato prima) funzionano: trova invece libero sfogo quando quegli strumenti sono essi stessi allo sfacelo. Hobbes aveva visto giusto. Lasciati a se stessi gli umani finirebbero per scannarsi a vicenda, non fosse altro perché la presenza di soggetti particolarmente aggressivi o squilibrati innescherebbe reazioni a catena di autodifesa. Se si vuole evitarlo occorre riservare il monopolio della violenza ad una “istituzione” superiore. Questo non è un portato della nostra “specificità” umana (e qui Hobbes sbagliava, ma in buona fede, perché i comportamenti sociali degli animali all’epoca sua non erano affatto conosciuti): è un modello naturale che troviamo in tutte le società delle antropomorfe, e non solo. Il portato umano, la differenza che rende unica la nostra specie, sta piuttosto negli strumenti di controllo che la “civilizzazione” ha sviluppato per controllare e limitare i possibili abusi di questo monopolio. Ovvero, il diritto individuale, la coscienza “civica”, la partecipazione diretta o indiretta al potere.

Messa così, la questione non si riduce più ai discorsi da osteria o alle sparate populiste dei vari Belpietri, ma va a toccare quei delicati equilibri di convivenza che la nostra cultura e nostra civiltà in particolare hanno saputo trovare con laboriose e secolari alchimie, e che non saranno la perfezione, ma andrebbero comunque difesi strenuamente, perché al momento non siamo in grado di immaginarne altri. Questi equilibri sono basati sul giusto dosaggio di molteplici ingredienti, che si chiamano libertà, legalità, diritto, giustizia sociale, autorità, democrazia, ecc… Possono e debbono certamente essere migliorati, adeguandoli alle sempre più veloci trasformazioni ambientali, culturali ed economiche, ma non possono essere semplicemente ignorati o addirittura rifiutati, come invece sta accadendo, in nome di un “liberi tutti” che azzera tutti i valori e che nella foga di riconoscere pari legittimità ad ogni cultura ne cancella in realtà le differenze maturate storicamente.

Mi sono spinto in un discorso che può sembrare troppo complesso e scivoloso per essere affrontato in quattro righe, dal quale esco subito ma che va comunque tenuto presente per leggere entro un quadro di sfondo anche le situazioni “spicciole” da cui sono partito. Intendo dire che gli equilibri cui accennavo sopra prevedono una linea abbastanza netta di demarcazione tra i comportamenti, e che i comportamenti che si pongono al di là di questa linea comportano l’esclusione dal contesto sociale, se si vuole evitare che questo contesto esploda. Che abbiano poi una origine “culturale” (nel senso negativo dell’assenza di una cultura o di un suo distorcimento) o siano dettati semplicemente dalla stupidità, all’atto pratico immediato importa poco.

Importa invece che siano sanzionati prontamente e adeguatamente. Prontamente perché una comunità il cui equilibrio è stato violato deve sentirsi rassicurata e rafforzata da fatto che esso viene immediatamente ripristinato. Questo significa in pratica, almeno allorché l’evidenza del reato e l’identità dei protagonisti sono fuori discussione, evitare le lungaggini procedurali e gli eccessi di guarentigie che servono solo a “raffreddare” l’impatto emozionale della vicenda, a farla dimenticare sotto l’incalzare di altre vicende analoghe: quando invece è proprio l’effetto emozionale ad avere una valenza educativa. Lo sdegno si rafforza e agisce psicologicamente sia sui singoli che sulla comunità, nel senso che ribadisce l’esistenza di valori condivisi e la necessità di difenderli, quando riceve una risposta immediata: in caso contrario lascia il posto solo alla rassegnazione, alla sensazione di impotenza, alla sfiducia nei confronti dell’appartenenza.

Per essere efficaci, inoltre, i provvedimenti debbono essere adeguati: ovvero evidenti, tangibili e possibilmente anche investiti di una carica simbolica. Personalmente, come cultore dell’“occhio per occhio”, avrei in mente un sacco di punizioni con queste caratteristiche. Ma anche rimanendo nei limiti di un equilibrio superiore dettato dalla civiltà e dalla cultura del diritto, la prevalenza del bene comune sugli egoismi e sulle intemperanze individuali può essere ribadita senza scendere allo stesso livello degli stupidi o dei delinquenti. Ad esempio: per i buontemponi che si divertono a cacciare gli anziani nei cassonetti, dopo un opportuno soggiorno in galera per schiarirsi le idee potrebbe riuscire molto educativo collaborare (e non alla patetica maniera attuale dei “lavori socialmente utili”, ma in un regime di lavoro forzato modello “Nick mano fredda”), alla raccolta dei rifiuti lasciati per strada e allo svuotamento, al lavaggio, alla manutenzione dei contenitori stessi. Col triplice vantaggio di rendere coscienti i balordi di un grosso problema sociale, di costringerli a collaborare per risolverlo e di raffreddare di molto in loro gli entusiasmi per i cassonetti. Non so quanto poi questa “coscienza civile” in certe teste e in certi animi possa attecchire, ma senza dubbio quella delle vittime e di tutti coloro che in queste ultime possono identificarsi ne uscirebbe rinsaldata. Sempre, appunto, che l’intervento sia tempestivo, visibile e senza sconti.

Rifiuti 04

Tutto ciò che ho scritto sin qui non ha naturalmente alcun valore propositivo. So benissimo in che mondo vivo. E per certi aspetti ne ho maturato esperienze molto significative, che possono essere applicate al nostro discorso. Ho assistito infatti per anni (e cercato, nei limiti delle mie funzioni, di oppormi) al disfacimento del sistema scolastico e all’avvicendarsi di riforme che non andavano a scalfire minimamente la sostanza dei problemi, che hanno anzi definitivamente liquidato ogni parvenza di autorità e autorevolezza del corpo insegnante, con ogni mezzo, a partire dai sistemi di reclutamento sino ad arrivare alla sudditanza totale nei confronti di alunni e genitori. So che da una scuola del genere non possono uscire che individui totalmente fuori controllo, ignari di vincoli e di doveri nei confronti degli altri, abituati ad essere difesi e tollerati ad oltranza, a dispetto di ogni loro idiozia o carognata. Una scuola che impone l’educazione civica come materia obbligatoria, confessando così apertamente di non essere in grado di trasmetterla, come sarebbe ovvio e doveroso, attraverso tutti i suoi contenuti e il suo modo stesso complessivo di operare, rende vana ogni speranza di poter agire non solo sugli individui ma su tutte le istituzioni successive con le quali gli individui si troveranno a confrontarsi.

Credo che la scuola sia proprio lo scenario più significativo al quale guardare per avere una immagine del presente. E che sia diventata addirittura, nelle condizioni presenti, il laboratorio nel quale la prevaricazione nei confronti di compagni e insegnanti e il senso di totale impunità vengono coltivati in provetta. Sarò catastrofista, ma una scuola nella quale una insegnante che ha sgridato gli alunni perché avevano lordato tutti i bagni con i loro escrementi viene licenziata in tronco, lascia sperare poco. Spero almeno che li abbia anche presi a ceffoni, e auspico che le nostre povere vittime ripetano a casa le loro imprese.

Finale alla Feltri, me ne rendo conto: ma queste considerazioni vanno prese per ciò che sono: uno sfogo, che consenta almeno di rappresentare con parole (spero) chiare lo stato d’animo di chi si ostina credere nella possibilità di una convivenza civile, e si accorge che sono sempre meno quelli che condividono la sua ostinazione.

Rifiuti 05a

Forum

di Paolo Repetto, aprile 2010

Leadership

Credo che il collega Lucidi abbia centrato perfettamente il problema, o meglio, la definizione di leadership, che nel nostro caso diventa appunto un problema. Su quali parametri può infatti essere valutata una “buona” leadership? Su quella dei risultati? Ma quali? Quelli “misurabili” oggettivamente, numericamente quantificabili (efficacia, economicità, efficienza)?

Su questa base, stante il mandato ricevuto, Himmler sarebbe da considerarsi un ottimo leader. Credo che avremo bisogno di qualche altro valore. La stima reciproca tra i componenti del gruppo (3d), ad esempio, mi sembra già un buon valore. O il livello alto della motivazione, o più ancora, la proposta di motivazioni di alto livello, non guastano. Ma, come giustamente dice Lucidi, queste dimensioni stentano a trovare spazio in una misurabilità “scientifica”.

Penso di aver agito da leader in pochissime occasioni nella mia vita (anche se gli altri sostengono il contrario), all’interno di gruppi sportivi e di gruppi “letterari”. Non ho aperto alcuna nuova via di salita all’Eiger, e le riviste che ho fondato hanno tirato avanti per pochi numeri: ma le amicizie che ho contratto e che si sono intrecciate all’interno di questi gruppi durano tutt’oggi, così come il comune ricordo di momenti vissuti con intensità e passione. Ha qualcosa a che vedere, tutto questo, con lo stile della leadership?

Burnout

Per affrontare il problema del burnout occorre anzitutto identificare i reali fattori stressogeni. E provo anch’io a suggerirne qualcuno. Ma credo che il problema vero nasca dopo, quando ci rendiamo conto che rispetto a quei fattori, o almeno alla gran parte di essi, non possiamo fare granché.

Comunque, ecco alcune considerazioni:

  • esiste in primo luogo una distanza anagrafica tra allievi e docenti sempre più marcata, per la diminuzione del turn over conseguente le restrizioni nelle assunzioni e lo slittamento dell’età pensionabile. Ma è soprattutto distanza nelle idealità, dovuta alla “velocizzazione della storia”, all’accelerazione delle trasformazioni economiche, politiche, sociali e culturali. Crea enormi difficoltà di comprensione e di comunicazione La cosa risulta demotivante per gli allievi, che non riescono ad entrare in sintonia, a partecipare delle idealità e della visione del mondo che ogni insegnamento comunque veicola. Ma lo è tanto più per i docenti, che frustrati dalla mancanza di risultati e di riscontri gratificanti entrano in crisi di identità, sentono venir meno il loro ruolo;

  • pesa una eccessiva differenza nei linguaggi e nelle modalità di comunicazione. La consuetudine con la dimensione mediatica, che mette in gioco modalità di coinvolgimento totalmente diverse, ha abbassato drasticamente la capacità di attenzione dei giovani rispetto ad una didattica tradizionale, basata principalmente sulla lezione frontale. Gli allievi non reggono oltre una certa soglia, gli insegnanti incontrano grosse difficoltà: soggettive, ad adeguarsi ad un insegnamento fondato su modalità comunicative, e quindi anche su strategie, diverse e complesse; e oggettive. a competere con i modelli raffinati di proposta “formativa” che con le stesse tecniche sono offerti dalle agenzie esterne alla scuola;

  • si aggiunge la dispersione: l’ansia di offrire tutto e di tutto. In un mondo che si globalizza e si complica, la tentazione è quella di offrire, per tutte le discipline, tutto il nuovo, senza tuttavia tagliare niente del vecchio. Con risultati troppo spesso superficiali, poco comprensibili e poco appetibili per gli allievi, frustranti per i docenti;

  • persiste l’ambiguità: cosa deve offrire la scuola? una preparazione al lavoro o una formazione alla vita? Possono starci entrambe le cose, ma andrebbero dosate con un equilibrio condiviso da tutti gli ordini e i livelli dell’istituzione, e correttamente dichiarato all’utenza. Nella realtà non avviene così, col risultato che la scuola scontenta tutti, e per primi coloro che operano al suo interno.

L’elenco potrebbe naturalmente continuare all’infinito, basterebbe addentrarci nel campo delle relazioni tra colleghi, o dell’assenza di occasioni per valorizzare competenze “altre”; ma mi fermo qui, e lascio spazio alle riflessioni altrui.

Rischio

Mi riferisco a quanto affermato da una collega. “Parlare, leggere … serve a poco”. Concordo. E tuttavia, non sono neppure tanto convinto che dia migliori risultati “l’esperire”, almeno nell’accezione negativa del termine da lei usata. Credo che quasi tutti siamo stati testimoni, soprattutto in questi ultimi anni, di tragedie che hanno coinvolto qualche nostro allievo, che hanno sconvolto per qualche settimana, forse per qualche mese, i suoi compagni: E dopo? Non è cambiato nulla, la ferita si è cicatrizzata subito, si ricomincia daccapo. A questo credo dovremmo rassegnarci. Sono invece persuaso che la strada non sia quella di esorcizzare la tentazione del rischio, dal momento che è così connaturata alla psicologia adolescenziale, quanto piuttosto quella di indirizzarla verso il rischio calcolato, governabile. Mi viene in mente l’alpinismo, per personale esperienza, ma potrebbero essere cento altri gli sbocchi alla ricerca di “emozioni forti”. Posso garantire che mezza giornata appeso ad una roccia, pur con tutte le protezioni e le sicurezze possibili, ti fa vedere il rischio sotto una prospettiva assolutamente diversa, ti fa amare la vita di un trasporto assoluto. Non sto parlando di creare palestre di roccia in ogni scuola, naturalmente: Semplicemente, penso che per cominciare potremmo aiutarli a distinguere tra il rischio corso sconsideratamente e quello assunto con razionalità e consapevolezza, calcolabile e governabile. E per far questo, magari non bastano, ma anche le parole (e magari qualche lettura) servono.

Bullismo

Un paio di esperienze maturate diversi anni fa, quando il bullismo esisteva come oggi ma si chiamava teppismo, e ancora non aveva conosciuto l’effetto volano della medializzazione , mi portano a pensare che la scuola stia trascurando, tra le tante ipotesi piuttosto fumose e scontate di prevenzione e di contenimento, l’unica praticabile: quella di responsabilizzare concretamente gli allievi, i compagni sia delle vittime che dei persecutori. Per spiegare il senso di una responsabilizzazione concreta devo fare due premesse: una riguarda i dati statistici del fenomeno, l’altra concerne il campo delle priorità alle quali l’azione deve essere ispirata. Le statistiche ci dicono che il fenomeno è diffuso particolarmente, o quasi esclusivamente, tra gli allievi delle classi del secondario inferiore o dei primi due anni del secondario superiore. È facile capire il perché: vittime più fragili e indifese, persecutori più immaturi. Per quanto concerne invece le finalità alle quali ogni tipo di intervento deve essere mirato, credo occorra fare un po’ di chiarezza: per come la vedo io, l’ordine di priorità dovrebbe essere il seguente:

  • salvaguardia delle vittime;

  • contenimento dei prevaricatori;

  • eventuale loro “recupero”.

So benissimo che i tre intenti non possono essere perseguiti separatamente, che devono marciare di conserva. Ma in situazioni di conclamata emergenza, come è in effetti quella attuale, si mira a salvare dapprima ciò che è più prezioso. L’impressione è invece che nel tentativo di portare a riva capra e cavoli, si finisca per non garantire affatto la parte più indifesa.

A questo punto, passiamo alla proposta operativa. Lo definirei un sistema di “tutoraggio”, gestito dagli allievi stessi e controllato dal corpo docente. Una volta identificati i soggetti a rischio, e intendo a rischio di essere perseguitati, li si “affida” a compagni scelti tra gli allievi frequentanti le ultime classi, capaci per motivi anagrafici e per conoscenza delle dinamiche di istituto di esprimere autorevolezza o, non guasta neanche questo, di incutere timore. La scelta naturalmente deve essere oculata, concordata sulla base di un patto preciso tra il docente o il gruppo di docenti che la opera e il “tutor”. Per quanto mi concerne, ho sempre optato per un tutoraggio doppio, cercando di equilibrare la coppia dei “responsabili” con la scelta di uno tra i più svegli e di uno tra i più “tosti”. Ha funzionato al di là di ogni aspettativa, e non solo in termini di salvaguardia della vittima, ma anche di ulteriore maturazione civica dei difensori., e in alcuni casi di nascita di amicizie che perdurano al di fuori dell’ambiente scolastico.

Prevengo le obiezioni. C’è un vago sapore di sistema “mafioso”, in tutto questo? Non direi proprio: in primo luogo perché occorre considerare che la vittima, prima o poi, cercherà per conto proprio una “protezione”, e magari, viste le incertezze e le debolezze istituzionali, potrebbe risolversi a demandarla proprio ai persecutori, cedendo loro completamente; in secondo luogo perché è evidentemente molto più facile, attivando un sistema di questo tipo, far venire allo scoperto le situazioni di bullismo, che spesso rimangono coperte per i timori della vittima o per la disattenzione dei docenti (e i primi sono correlati alla seconda); in terzo luogo perché il tutto deve funzionare attraverso un sistema di controllo costante da parte del personale scolastico. Ripeto: il sistema ha funzionato sempre bene: non so quanto possa essere “istituzionalizzato”, ho un po’ paura di questo termine. Ma si potrebbe sempre provare.

POF

Mi occupo del coordinamento e della stesura del POF del mio Istituto dai tempi eroici, da quando nessuno capiva cosa cavolo dovesse essere e le indicazioni provenienti dall’alto si contraddicevano puntualmente. In questi anni ho combattuto una lunga battaglia per far intendere ai colleghi che il POF è un documento collettivo, che deve esprimere finalità e politiche condivise, che il classico “fallo tu, che scrivi bene” è l’esatto opposto dello spirito che dovrebbe essergli sotteso. Con risultati, temo, desolanti. L’idea di autonomia che è passata è infatti quella di uno spazio libero, del quale i più pronti e i più attivi possono coltivare porzioni, talvolta in forma cooperativa, più spesso difendendone gelosamente i confini. La visione di una progettualità multiforme, ma confluente in un’unica strategia, si arresta al momento dell’enunciazione teorica: poi entrano in scena le consuetudini (questo lo abbiamo sempre fatto, là li abbiamo sempre portati,…), le ambizioni (è un concorso di prestigio, possiamo vincere un viaggio in Australia, è sponsorizzato direttamente dal tale, ecc…), le buone intenzioni prive di raccordo con tutto il resto (non si può ignorare il problema dei cani randagi, dobbiamo mobilitarci contro il buco nell’ozono), e tutte le altre motivazioni più o meno pertinenti che euforizzano la fase della programmazione.

In sostanza, a dispetto della precoce stesura di un pentalogo approvato dal collegio docenti, nel quale si precisa quali debbano essere i requisiti dei progetti, e a quali macroaree gli stessi debbano afferire, mi ritrovo tutti gli anni con una media di quaranta-cinquanta progetti, che paiono a volte partoriti da una fantasia disneyana, e che viaggiano ciascuno per conto proprio, sgomitando per la conquista delle ore e dei fondi. Col risultato che, in un modo o nell’altro, ogni anno si ripete la cerimonia dei tagli, dei ridimensionamenti, della contrattazione degli spazi, dei colleghi delusi che vivono tutto questo come un affronto personale.

Debbo confessare, per non sembrare troppo pessimista, che a furia di taglia e cuci ogni volta riusciamo a trovare bene o male la quadratura. Ma è lo spirito del POF che non sembra avere ancora trovata la strada per scendere sul capo dei colleghi. La Pentecoste, per come la vedo io, è lontana: e stento a credere che la mia sia solo un’esperienza particolarmente sfortunata.