di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997
Il vecchio procedeva con passo lento e fermo lungo il sentiero. I suoi scarponi mordevano il terreno riarso sollevando piccole nuvole di polvere mentre il sole, allo zenit, batteva inesorabile.
Non finisce mai questa salita porca! Pensava il vecchio, e poi riandava con la memoria a tutte le volte che aveva fatto la stessa strada e a quanto fosse più facile l’ascesa anni e anni prima. Aveva finito col sedersi, sotto quel grande faggio che conosceva bene, da sempre.
Correre, correre, puoi fare solo questo, il mitra al fianco e l’anima cento chilometri più avanti; alle spalle i kruki e i fascisti, i pochi compagni persi nel rastrellamento; raffiche con pallottole vaganti che cercano la tua carne, occhi con sguardi assetati che aspettano solo di vedere il tuo sangue. Corri, dietro la sagoma del grande faggio; che l’immenso, immobile compagno ti copra le spalle, che protegga con il suo legno il tuo corpo dalle pallottole, che ti faccia guadagnare quei dieci metri che servono per arrivare al ruscello e buttarsi precipitosamente a valle, volando sull’acqua e sulle rocce.
Il vecchio guardava verso il ruscello, e ricordava l’eco degli spari alle sue spalle, e la paura. Con un gesto lento, si era rialzato, e aveva ripreso la marcia. In cima all’erta stava una spianata, al centro della quale si intravedevano ancora i muri perimetrali di una cascina, in rovina e quasi completamente sommersa dalla vegetazione. Ora ricordava l’inverno rigido, la fame, l’attesa della primavera con la sola incombenza di fare attenzione alle spie e trovare qualche cosa da mangiare.
Ricordava le facce tronfie dei fascisti del paese, la violenza usata per imporre le loro rozze, stolide idee; e poi ricordava la guerra, gli uomini mai tornati dalla Russia, i tedeschi. Ancora ragazzo, aveva fatto una rapida scelta di campo e si era ritrovato, forse accidentalmente, dalla parte giusta. Ricordava parole, parole che inneggiavano alla guerra urlate da camicie e anime nere, parole dure e secche pronunciate in una lingua incomprensibile da soldati metallici con il mito della razza e l’inclinazione all’omicidio. E ad un certo punto nella sua testa, queste antiche parole si mescolavano ad altre sentite di recente, parole che chiedevano pacificazione, perdono, oblio. Era passato qualche mese dal 25 aprile, ma lui le ricordava tutte, una ad una, e la rabbia gli divorava la mente. Secondo queste parole il 25 aprile doveva essere la festa di tutti gli italiani, qualunque fosse stato il loro credo politico. A lui però rimaneva il ricordo, almeno quello non avrebbero potuto cancellarlo se non cancellando la sua stessa vita; ricordava le colpe, gli orrori di quegli anni, gli efferati delitti. No, non era possibile pacificare, non era possibile dimenticare, fare finta che non ci fosse stata una netta distinzione tra chi aveva solo torti e chi ragioni da vendere. Il 25 aprile doveva in eterno ricordare quello; per non dimenticare, per non sbagliare più, per non ripetere. Il Natale, quella era la festa di tutti, e il lunedì di Pasqua, e tutte le feste fatte per ponti vacanzieri e smanie consumistiche. Chi voleva ricordare quei giorni, chi voleva ricordare quegli anni, doveva farlo con rispetto; rispetto per i morti di un’assurda guerra criminale, rispetto per i deportati, gli assassinati, le vittime civili.
Il ricordo deve sorreggere steccati, steccati che dividano le bestie dagli uomini, il torto dalla ragione, il nero dal rosso; e allora buon Natale, signori, buon Natale.