Ancora su “Biografie e bibliografie”

Copertina per incontri tematici2di Carlo Prosperi, 27 gennaio 2023

La mostra “sentieri in utopia“ è tutt’altro che conclusa: prosegue semmai virtualmente. Continuiamo infatti a proporre le trascrizioni o le rielaborazioni degli interventi effettuati dagli amici in occasione dei tre “incontri” di conversazione.

È la volta ora di Carlo Prosperi, che con la consueta puntualità e acutezza allarga il campo d’indagine al rapporto vita-opere negli intellettuali di ogni epoca. Il tema in effetti è sempre “caldo”, ed è decisamente insidioso. Come scriveva in un precedente intervento Maurizio Castellaro, a proposito dei nostri eroi letterari: “[…] la loro vita reale aveva un qualche rapporto con quello che scrivevano? Davvero, da queste domande non ne esco vivo, e allora provo a semplificare”. Bene, ci provo anch’io, limitandomi però per il momento a rilanciare, anzi, a riformulare la domanda. Ovvero: dando per scontato che un rapporto tra come si vive e cosa si scrive esiste sempre, la linearità o la contraddittorietà di questo rapporto hanno una qualche rilevanza “oggettiva” come strumenti di interpretazione (e diciamolo pure, di valutazione) dell’opera? Detto più brutalmente: visto che l’autore scompare e l’opera rimane, devo leggere quest’ultima senza lasciarmi influenzare da eventuali incoerenze biografiche e dalle insofferenze che queste mi ingenerano? Personalmente ho dei dubbi in proposito, ma mi riservo di argomentarli in altra occasione: e lascio spazio a Carlo, che molti di quei dubbi me li ha già sciolti.
P.S. Non tutte le immagini che abbiamo inserite sono associabili a questo testo. Ma al tema, indubbiamente, si. (Paolo Repetto)

Sono convinto che la biografia sia importante per comprendere l’opera di un autore o, meglio, le motivazioni che l’hanno indotto a scrivere e magari a scegliere certe tematiche invece di altre. Ma nella biografia vanno comprese le influenze che cultura e letteratura, cioè le letture fatte, la bibliografia esperita, hanno esercitato su di lui. Il compianto Giorgio Barberi Squarotti soleva dire che, sì, la realtà storica, le milieu et le moment, e la stessa vita, la psicologia dell’autore valgono a spiegarne gli orientamenti ideali e ideologici, le idiosincrasie, a volte anche la mentalità, la preferenza per taluni argomenti, ma non sono decisivi. Al limite, i soggetti trattati sono indifferenti: quello che conta è come vengono trattati, la forma che assumono, i generi in cui si inseriscono (dialogicamente), lo stile. Senza contare che spesso lo scrittore si misura e fa i conti con l’immaginario collettivo, con il patrimonio di storie, di idee, di miti, di topoi e di suggestioni (anche figurative, musicali e cinematografiche) che lo alimentano. Tra questo – che costituisce il mondo delle forme – e la realtà c’è un continuo rimpallo, un assiduo rimbalzo, una contaminazione perenne: in altre parole, un rapporto dialettico permanente. Fondamentale, insomma, è l’intertestualità, perché la letteratura è un inesauribile gioco di specchi.

Di Omero, ma anche degli autori della Bibbia, de Le mille e una notte, di tante altre opere mitografiche, epiche o narrative, come, ad esempio, il Kalevala, La storia di Gilgamesh, i Veda, poco o nulla sappiamo, ma la contestualizzazione storica e geografica ci aiuta a comprenderne lo spirito: segno che lo Zeitgeist lascia sempre un’impronta notevole sulla produzione estetica. Nessuno sfugge al proprio tempo, alla realtà materiale e culturale che lo informa. Negli stessi classici è possibile cogliere la temperie dell’epoca, tracce di colore locale e temporale; se sono classici, però, è perché il loro respiro li trascende, perché più di altre opere sanno scavare a fondo nel cuore e nell’anima dell’uomo, cogliere e testimoniare quanto c’è in essi di perenne, oserei dire di eterno. Chi non crede nella “natura umana”, chi la nega, chi ritiene che l’uomo sia un animale come gli altri, vale a dire un prodotto della storia e dell’evoluzione, la penserà diversamente.

Ciò considerato, possiamo affrontare il problema della coerenza tra vita e opera. Che è anche il problema dell’identità. Ora, solo Dio – se esiste e se è fuori del tempo – può vantare un’identità perfetta, stabile e assoluta, non soggetta agli inconvenienti dell’esistenza. Ma per chi vive nel mondo sublunare l’identità deve scendere a patti col divenire, declinarsi come processo: è quindi un punto che si fa linea. E la coerenza coincide sostanzialmente con la rettitudine: concetto che potremmo spiegare come un accordo tra il prima e il poi, come un adeguamento non conflittuale o comunque in grado di riassorbire senza traumi ogni contrasto in una sintesi di vecchio e nuovo che si configuri come un arricchimento progressivo. Come una crescita della persona. Senza degenerare, senza tralignare, senza tradire. Ovviamente, dal momento che lo spirito è forte, ma la carne è debole, dinanzi agli infiniti bivi o trivi che la vita ci presenta sono sempre possibili dubbi, esitazioni, errori, smarrimenti. Tale evenienza era dagli antichi raffigurata nell’immagine di Ercole al bivio. L’importante è ravvedersi per tempo. Errare è umano, diabolico perseverare. La coerenza esige tempestivi aggiustamenti di rotta, al di là, appunto, dei possibili traviamenti. Solo all’intransigenza dei moralisti sfugge che l’uomo è un “legno storto”. Nel loro astratto rigore, essi non perdonano all’uomo le sue contraddizioni, ma il mondo in bianco e nero che essi vedono non è quello, ricco di infinite nuances (e di colori), che ci sta davanti agli occhi: è un mondo daltonico. O manicheo. La coerenza che essi pretendono alberga solamente nell’iperuranio. Questo per dire che, quando si parla di coerenza, non si deve esagerare. Noi ci accontentiamo di un’onesta rettitudine.

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Poi, anche qui, si può discettare di evoluzione e di involuzione. Ma non è detto che a distinguere la prima dalla seconda non concorra l’orientamento ideologico di chi giudica, guardando da fuori. Mettiamo che il punto di partenza, anzi il presupposto, alla luce dell’esperienza via via maturata si riveli sbagliato: sarà più onesto, allora, proseguire sulla via intrapresa in nome di una presunta coerenza o invertire marcia? O imboccare un’altra strada, anche a costo di rinnegare le scelte fatte in precedenza, in buona fede ma senza averne adeguata contezza? La coerenza nel perseguire la verità in questo caso fa aggio sull’ostinazione, che è coerenza ingiustificata e quindi solo apparente. Per spiegarmi meglio, voglio portare qualche esempio. Prendiamo Dante, passato dall’aristotelismo radicale del Convivio, incentrato su una fede assoluta nelle potenzialità della ragione, vista come unica bussola per chi voglia «seguir virtute e canoscenza», alla fede nella teologia incarnata da Beatrice, disdegnata invece dall’amico Guido Cavalcanti. La Divina commedia, sotto tale aspetto, si presenta come una palinodia del trattato, rimasto non a caso incompiuto. Nel Purgatorio il poeta taccia di follia la presunzione della ragione: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone»; e pertanto ammonisce i lettori: «State contenti, umana gente, al quia, / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria, // e desiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto» (ed accenna ad Aristotele, a Platone e a “molti altri”). Invece di imitare Ulisse nel «folle volo»[1] che lo porta a perdersi senza risultato, ingannando con la sua splendida retorica[2] i pochi compagni superstiti, Dante si ravvede e alla hybris della ragione preferisce l’umiltà (ne è simbolo il giunco di cui lo cinge Catone sul lido del Purgatorio), la pietas di Enea che tanto contrasta con l’empietà di Ulisse (esemplificata non solo dall’aver trascurato i suoi doveri di padre, di marito e di figlio, sì anche dall’aver violato i limiti posti da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta»).

La fraudolenza che condanna il Laertiade all’inferno è nelle parole, anzi nell’«orazion picciola», con cui egli convince la «compagna / picciola» a seguirlo nell’impresa dissennata: le nobili motivazioni da lui addotte sono mistificanti. Quale “virtù” può infatti animare chi trasgredisce consapevolmente le leggi divine e umane? Non certo quella che deriva, a suo dire, dal «divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore», giacché sa bene di avventudi di avventurarsi in un «mondo sanza gente». Ed anche la sua profana curiositas rimarrà delusa: egli non avrà contezza alcuna né della montagna «bruna / per la distanza» che riuscirà solo a intravedere né della vera ragione del suo naufragio. Si renderà nondimeno conto – per dirla in termini zanzottiani – dell’“oltraggio” rappresentato dalla sua “oltranza”, ma non dell’identità del suo punitore, che resterà per lui un’oscura forza del destino: «come altrui piacque». La via scelta da Dante, all’insegna della humilitas, è per contro destinata al successo. E il poeta ne ha (e ne dà) un segno nel giunco che miracolosamente, proprio «come altrui piacque», spunta al posto di quello strappato da Catone per munirne Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Il viaggio ultraterreno del poeta – che sa benissimo di non essere né Enea né San Paolo – si realizza nel segno della grazia, non della sfida.

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Ancora su Biografie e bibliografie (5)Un altro esempio, piuttosto clamoroso, di apparente incoerenza o, se vogliamo, di involuzione è quello di Giosue Carducci: giacobino sfrenato (basti pensare ai sonetti del Ça ira) e anticlericale (fino a rasentare la blasfemia nell’Inno a Satana) in gioventù, nell’ultima fase della sua vita giungerà a riconoscere i meriti sia della monarchia sia del cristianesimo (cfr. La chiesa di Polenta) e in ogni caso i bollori rivoluzionari della giovinezza si stempereranno in una visione più pacata e pacificata della realtà. Vi contribuiranno pure le sventure familiari, come la morte del fratello e del figlioletto, ma anche l’incontro con la regina Margherita, dal cui fascino femminile resterà ammaliato. Parafrasando un detto famoso, mi verrebbe da dire: chi non è stato “rivoluzionario” a vent’anni non è mai stato giovane, chi continua ad esserlo in seguito non ha mai raggiunto la maturità. Ma a questo punto si può ancora parlare d’incoerenza o, peggio, di involuzione? Troppo facile per “gli storici del dopo” rinvenire nella storia una razionalità e un rapporto causa-effetto che a chi l’ha vissuta da dentro, nell’hic et nunc, di rado appare come tale: speranze, illusioni, cecità e fraintendimenti ne fanno parte e la visione d’insieme che ne ha il singolo individuo è spesso “falsa” (nel senso spinoziano del termine, cioè parziale e incompleta), quando non anche viziata da egoismi o da ideologismi. Non voglio credere che quegli intellettuali e quegli scrittori che, dopo avere militato, alcuni per anni, nelle file del fascismo, all’indomani della sua caduta passarono armi e bagagli alla corte di Togliatti, fossero tutti opportunisti e in malafede, ma nel novero molti furono tali. E non esitarono a saltare sul carro del vincitore.

Ancora su Biografie e bibliografie (6)Ma il discorso non riguarda solo gli italiani. Se prendiamo in considerazione Wystan Hugh Auden, è facile accorgersi di come suoni a vuoto (per non dire falsa) la campana dell’”impegno” di cui negli anni Trenta fu il portabandiera.

Auden fu infatti l’incarnazione di quella Auden Generation, di cui il rosso ideologico fu il colore politico dominante. Fu lui nella poesia Spain a parlare di poeti «rombanti come bombe» e della «consapevole accettazione della colpa di fronte al delitto necessario». Una frase simile – ebbe a notare George Orwell – avrebbe potuto scriverla «solo una persona per la quale l’assassinio è al massimo una parola. Il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d’uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto». Parole profetiche: non a caso, nel settembre 1938, mentre era in corso la Conferenza di Monaco, il poeta inglese si affrettò a preparare i bagagli per emigrare negli USA. Molti intellettuali del suo calibro, in effetti, al di là delle prese di posizione a favore dei più nobili ideali, trovano difficile aderire ad altro che a se stessi. Ma qui andiamo ben oltre l’umana incoerenza: qui c’è anche del cinismo e della malafede. Cose che invece non ravvisiamo, ad esempio, nella “conversione” del Manzoni, che pure lo portò a un profondo cambiamento di poetica, oltre che di vita. E tanto meno nel progressivo accentuarsi e affinarsi del pessimismo di Leopardi nel passare dalla fase “storica” a quella “cosmica”, a quella “agonistica” della Ginestra.

Ancora su Biografie e bibliografie (7)Un certo opportunismo è stato denunciato da taluni critici anche nel Segretario fiorentino, che, da tecnico della politica, dopo essersi speso al servizio della Repubblica, mise le sue indubbie competenze a disposizione dei Medici. In questo c’è indubbiamente qualcosa di vero, ma, a ben guardare, si può rilevare una profonda e sotterranea coerenza tra il Machiavelli dei Discorsi e quello del Principe, dal momento che per lui lo Stato è comunque il bene primario, anzi l’unico fine che davvero giustifichi i mezzi [«Faccia dunque uno principe di mantenere lo Stato, e i mezzi saranno ritenuti laudevoli e da ciascuno laudati»]. E questo perché egli ha una visione antropologica negativa: l’uomo è malvagio di natura, egoista, smanioso di potere e di piacere, avido di ricchezze, tanto che «sdimentica più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio». Senza la maestà dello Stato che tiene a freno la violenza, regnerebbe l’anarchia e con essa la legge del più forte. Come i pesci di cui parlava Sant’Ireneo di Lione, il più grande mangerebbe il più piccolo. Per questo la preservazione dello Stato può richiedere pure il ricorso a mezzi estremi: non si tratterebbe di immoralità, ma di sacrifici necessari. Come quello del giocatore di scacchi che per vincere la partita deve all’uopo saper rinunciare a qualche pezzo. Come quello del chirurgo, che per salvare una vita deve essere pronto, all’occorrenza, ad amputare qualche membro. La moralità della politica, se così si può dire, è garantita dall’augusto suo compito.

Qualcuno fa notare che, nello scrivere il Principe, Machiavelli abiura la sua fede repubblicana: in realtà così non è. Egli rimane pur sempre dell’idea che la forma repubblicana di governo sia migliore del principato, in quanto, dove a governare è un Consiglio, la morte di uno degli amministratori non comporta la crisi dello Stato, mentre, se muore un principe, può crearsi una vacanza di potere e non è detto che il successore sia all’altezza del ruolo. E resta comunque il fatto che i fondatori degli Stati sono, in genere, persone singole, dotate di carisma: una qualità che non è tuttavia trasmissibile ereditariamente.

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Ma, a proposito di malafede, credo che la palma di primo della categoria, vada assegnata a Jean-Jacques Rousseau, il quale negli scritti si distinse sempre per il suo umanitarismo buonista e sempre inneggiò alla sacra triade liberté, égalité, fraternité, non esitando però ad abbandonare nei brefotrofi dell’epoca i figli nati dalle sue liaisons sentimentali. Ciò non significa che le sue opere non meritino di essere lette e tenute in considerazione; è tuttavia il caso di ricordare che molti predicano bene ma razzolano male. Per cui bisogna guardarsi da una identificazione troppo stretta tra biografia e bibliografia. Se l’arte – come abbiamo detto – è sempre un gioco di specchi, è fatale che la realtà ne riesca talora travisata. A volte redenta, a volte dannata, raramente qual essa è. Erano il Latini a dire: lasciva nobis pagina, sed vita proba. Né si può sempre presumere che un autore sia costantemente all’altezza della sua opera. Di conseguenza è lecito non provare alcuna simpatia per lui, senza per questo cessare di apprezzarne genio e talento. Almeno quando non manchino. E basterebbe, allora, fare un nome: Céline.

[1] La metafora del “folle volo”, con i remi della barca divenuti “ali”, rimanda chiaramente alla vicenda di Icaro, da tempo assunta come immagine o simbolo di hybris, d’intemperanza se non proprio di tracotanza, contro ogni classico ammonimento alla metriotes, all’est modus in rebus. La metafora s’inserisce perfettamente nell’atmosfera del canto, connotata appunto da tutta una serie di voli: da quello della trista nomea di Firenze che si spande nell’inferno a quelli delle lucciole che subentrano, a sera, alle zanzare, dal volo di Elia sul carro di fuoco alle fiammelle volitanti per la bolgia in cui ardono i fraudolenti.

[2] Si noti come Ulisse tenda artatamente ad attenuare la portata del suo discorso (quattro parole parenetiche ovvero – dice lui – una «orazion picciola») enfatizzandone però gli effetti (a fatica avrebbe potuto trattenere i suoi compagni – quattro gatti ormai, una «compagna / picciola») – dopo averli istigati). Poco resta loro da vivere (una «picciola vigilia» dei sensi e niente più): perché dunque non togliersi lo sfizio di andare ad  esperire il «mondo sanza gente»? Le motivazioni sono all’apparenza nobilissime, se l’impresa non fosse temeraria e non comportasse una sfida per certi versi prometeica e quindi sacrilega (Ercole era stato assunto fra gli Dèi). Senza contare che dove non ci sono uomini difficilmente sarà dato rinvenire «vizi umani» e umano «valore»: nel discorso c’è dunque un fondo di malafede. D’altra parte l’«orazion picciola» si apre con una captatio benevolentiae: Ulisse, il capo, apostrofa i compagni chiamandoli “fratelli” e prosegue con una iperbole («per cento miglia / perigli») ed una anfibologia («siete giunti all’occidente»: l’occidente qui non è solo un’indicazione geografica, ma sta pure a indicare il tramonto, la fase declinante della vita), con una perifrasi metaforica (appunto la «così picciola vigilia / de nostri sensi, ch’è del rimanente») e una litote («non vogliate negar»); tutto è infine suggellato dalla gnomica considerazione finale, che tanti critici hanno preso per oro colato, dimenticando che di nobili intenzioni è lastricata la strada dell’inferno. Sono i guasti della retorica. Ulisse riesce a guadagnarsi la solidarietà o, meglio, la complicità dei compagni ammannendo loro un piccolo capolavoro di mistificazione.

​Ariette 3.0

di Maurizio Castellaro, 30 maggio 2021

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso».

​L’unico vizio

Ariette 3bAnche nel post-cristianesimo può essere utile riflettere sui vizi capitali, perché i Padri della Chiesa che li codificarono sapevano bene cosa era l’uomo. Rivediamoli al volo, si sono quasi tutti trasformati in virtù. La gola è il presupposto della cultura dominante del buon cibo, la lussuria virtuale governa la maggior parte del traffico in rete, la superbia è il pregio degli infiniti capetti in circolazione, l’avarizia è nobilitata a sano individualismo, l’accidia è convertita in uno sguardo realistico su un mondo senza più futuro, l’ira è derubricata a semplice mancanza di cultura. Da questa trasvalutazione di valori resta fuori l’invidia, e non é un caso che non sia stato possibile disinnescarla. Perché l’invidia è il rimosso di cui non si parla, ed è sempre con noi come l’aria che respiriamo. L’invidia è uno dei principali carburanti che alimenta il motore della gran macchina del capitalismo globale. Il vizio capitale, la gran madre dei peccati del mondo.

​Inferni e Oltre

L’Inferno non è tema da Ariette, ma azzardo salendo sulle spalle di qualche gigante, perché il bello dell’Arte è che ci rende un poco geniali consentendoci di ripensare i pensieri dei Geni. L’Inferno di Dante lo ritrovo ad esempio nel Lager nazista, grazie al “Canto di Ulisse” che Primo Levi traduce al compagno polacco in francese, mentre insieme portano la marmitta della zuppa ai compagni del Kommando, zuppa di cavoli e rape, “Infin che il mar fu sopra noi rinchiuso”. E a farmi sentire più vicino l’Inferno di Virgilio mi aiuta Ceronetti sulla riva del Mincio (“Albergo Italia”). Narcotizzato dal verso virgiliano il visionario Guido trasfigura il fiume mantovano nel Flegetonte, e il petrolchimico che si scorge all’orizzonte nella città di Dite: “Già al tempo in cui Virgilio contemplava queste acque e niente di emerso dal sottosuolo che sempre brucia dilaniava la pace dell’occhio, Montedison e Total erano là … però non visibili, non udibili …”. Va bene, la Storia è l’inferno, la Tecnica è l’Inferno. Prendo atto, è il lascito del Novecento, ma sento che tanta polvere si è già posata su queste rispettabili idee. Per fortuna mi soccorre Calasso, che nelle “Nozze di Cadmo e Armonia” ricorda l’incontro nell’Ade tra Ulisse e l’ombra di Achille. Ulisse prova a indorargli la pillola, ma Achille lo inchioda: «Non truccarmi la morte, nobile Odisseo. Preferirei vivere come guardiano di buoi, al servizio di un povero contadino, dalla tavola neppure abbondante, piuttosto che regnare su tutti questi morti consunti”. Achille ha scelto una vita breve e splendida, proprio perché irrecuperabile e irripetibile, e conosce bene la differenza che c’è tra Oltretomba e Vita. Più o meno negli anni di Omero gli etruschi a Tarquinia preparavano il viaggio nell’Aldilà dei loro cari con le immagini di ciò che di meglio la Vita ci offre: amore, amicizia, convivi, danze, musica, gioco. Incapacità di pensare il Trascendente o intuizione che il meglio dell’Aldilà coincide con il meglio dell’Aldiquà? Lascio la domanda aperta, e per me scelgo la tomba del Tuffatore, un’immagine un po’ greca e un po’ etrusca dipinta per l’ultimo eterno sguardo di un giovane morto circa 2500 anni fa dalle parti di Paestum. Un tuffo in un mare di mistero, da fare ad occhi aperti, col sorriso sulle labbra.

Ariette 3c

Del viaggiare in largo e del viaggiare in profondo

di Paolo Repetto, 2002

Quando si parla di una via alla conoscenza, o del cammino verso il sapere, non si ricorre soltanto ad una metafora. Si esplicita visivamente un convincimento radicato, quello che associa il percorso mentale al movimento nello spazio. Prendiamo ad esempio il racconto dantesco dell’ultimo viaggio di Ulisse: vi è riassunta tutta la condizione di ambiguità congenita al cammino del pensiero, la miscela di grandezza e dannazione che lo caratterizza, e questa condizione viene esemplificata attraverso uno spostamento concreto, materiale. Di norma è proprio così che ci rappresentiamo il conoscere: dal momento che solo dello spazio abbiamo una percezione sensoriale, iscriviamo visivamente in esso le geografie delle possibilità e dei limiti umani. Consideriamo lo spazio come il mezzo da attraversare per approssimarci alla verità, e al tempo stesso come la distanza che ce la nega. Per muovere verso la conoscenza riteniamo dunque necessario sradicarci, svincolarci dai legami prossimi o remoti, incontrare genti e luoghi e idee e costumi sempre nuovi: e lo facciamo fingendo di ignorare che da questi incontri trarremo per lo più la coscienza di quanto poco ci è stato dato rispetto al molto che non abbiamo avuto e non avremo. La parabola marinara di Ulisse, quella aviatoria di Icaro, la corsa disperata per montagne e per valli del vecchierello leopardiano, raccontano la stessa cosa: conoscere equivale per noi a viaggiare, il viaggio è assieme anelito e costrizione, ma la meta è il fondo dell’abisso, il Maelstrom orrido e immenso ove precipitando si oblia il tutto. Oppure, se siamo di costituzione più ottimista, il mare nel quale è dolce naufragare.

Posso capire i lettori/viaggiatori che a questo punto hanno cominciato a toccarsi o mi hanno già mandato a stendere, ma voglio rassicurarli: non è mia intenzione rovinare loro il piacere genuino, l’emozione pura e immediata che il viaggio procura, né sindacare sulle loro scelte esistenziali (che sono poi anche le mie). Semplicemente, fermo restando che sull’approdo finale non ci piove, quello è e rimane, credo valga la pena riflettere su quanto dicevo sopra, di cui più o meno siamo convinti tutti: ovvero sull’identificazione della conoscenza con il movimento nello spazio.

È evidente che tra il viaggio e la conoscenza, al di là di ogni metafora, il rapporto c’è, ed è profondo: ma mi sembra opportuno ricordare che quella che scaturisce dal viaggio è una forma di conoscenza particolare, non solo per le esperienze che ne sono oggetto, ma per le modalità e la disposizione con le quali la si acquisisce. Il che può sembrare ovvio ma, almeno a giudicare dalla letteratura di viaggio di cui mi occupo da una vita e dai resoconti che leggo o ascolto quotidianamente, non lo è affatto.

Vediamo perché. Lo faccio partendo da una considerazione d’ordine più generale, molto terra terra, ma imprescindibile: noi cerchiamo la conoscenza per sottrarci alla consapevolezza della nostra finitudine. Da quando come sapiens, o forse prima ancora, non ci riconosciamo più nella ciclicità naturale, siamo impegnati a distrarre in ogni modo una coscienza che non è più in sintonia con la ripetitività del consueto. In una prospettiva del genere, evidentemente, nulla vale meglio del viaggio. Questo spiega perché lo spostamento fisico (ma anche mentale: ci sta anche il viaggiare sulle carte), sia considerato condizione necessaria e spesso sufficiente del conoscere, e come ciò abbia ha finito per “orientare” e determinare da sempre i modelli conoscitivi. Dovremmo quindi chiederci quali sono in sostanza questi modelli, e magari domandarci anche se dalla realtà attuale del viaggio possano ancora scaturire elementi di conoscenza con essi compatibili.

Per farlo torniamo alla metafora dell’itinerario spaziale alla conoscenza, che è poi tout court la metafora della condizione umana dopo l’incresciosa faccenda della mela e della conseguente cacciata dall’Eden. (la prendo un po’ larga, ma questo dovrebbe alla fine facilitare la comprensione di ciò che vorrei dire). Parlo della mela perché la vicenda sta in pratica all’origine di tutte le mitologie, ed è raccontata in termini pressoché simili in ogni angolo del globo. Cosa perfettamente naturale, perché l’aspirazione ad un “ ritorno” alla conoscenza nasce ovunque dalla consapevolezza di un distacco. Insomma, dal momento in cui l’uomo si accorge che qualcosa non quadra, che il suo tempo è determinato mentre quello del mondo non lo è, quel rapporto che in origine era immediato, in quanto il mondo era partecipato dall’interno, diventa necessariamente mediato: e la mediazione si traduce immediatamente in un giudizio. Per attingere quella che Platone chiama l’epistéme, una conoscenza certa delle cause e degli effetti, ci si pone di fronte al mondo e lo si legge attraverso il ragionamento (la diànoia platonica) o attraverso una intuizione intellettuale (la nòesis): l’una e l’altra modalità appartengono comunque ad un soggetto conoscente separato, che non partecipa, ma valuta. Dopo il distacco (l’uscita, la cacciata, quel che volete) il mondo è diventato per l’uomo un “altro da sé”, e non gli detta più in automatico le risposte, i modi e i ritmi dell’agire. In buona sostanza, gli uomini non agiscono più per istinto, ma sono chiamati a decidere del loro comportamento: e per farlo devono necessariamente “calcolare”, semplificare e scegliere. A questo mi riferivo parlando di modalità “valutativa” del conoscere: al fatto che, messo nella condizione di dover scegliere, l’uomo adotta un meccanismo binario di opposizioni: terra-cielo, caldo-freddo, destra-sinistra, uomo-donna, dentro-fuori, ecc., e si muove tra queste.

Il sapere, come ogni altro aspetto della vita, evolve per sintesi di opposti, di diversità che si incontrano e si fecondano. Oppure che si escludono, perché anche questa è una scelta. Maggiore comunque è la diversità, la distanza, più numerose sono le possibilità messe in gioco. In questo senso il viaggio, lo spostamento, funge indubbiamente da moltiplicatore di quelle occasioni di incontro e di ibridazione, o di scontro, dalle quali si generano idee nuove; ma esso implica anche l’adozione di un habitus mentale particolare. Un habitus da viaggio, appunto.

Sto parlando di quel tipo di viaggio che ti immerge completamente nella realtà diversa cui vai incontro, ti costringe a confrontarti con essa, a rifiutarla o a venire in qualche modo a patti. Non è quindi questione di durata, o di modalità più o meno spartane dello spostamento: non è detto, ad esempio, che una realtà la si conosca sempre meglio “dal basso”, in situazione di bisogno (era la consolazione cui mi aggrappavo cinquant’anni fa, quando giravo l’Europa senza una lira in tasca): una condizione di dipendenza distorce l’immagine né più né meno che una di privilegio. Allo stesso modo, a volte un incontro fuggevole e occasionale può fornire più elementi di conoscenza che non una permanenza prolungata. Mi riferisco invece al viaggio affrontato, quali che siano le modalità, gli scopi e i tempi, con una attitudine non superficiale. Il che significa portare nello zaino non la macchina fotografica, o non solo quella, ma un’idea del mondo da mettere alla prova. Questo aspetto mi sembra importante: troppo spesso si confonde il viaggiare con bagaglio leggero con un totale disimpegno critico, col lasciare aperto l’otturatore del cervello per uno shopping compulsivo di immagini e di emozioni. Il viaggio di cui parlo non è una corsa all’acquisto, dalla quale si porta a casa in genere solo paccottiglia. È un esercizio di scambio. In questo senso è probabilmente un’esperienza negata al nostro tempo, o comunque addomesticata dalla globalizzazione; ma non è stata frequente neppure in quelli che ci hanno preceduto. Insomma, il primo esempio che mi viene in mente è quello di Gulliver: è quindi chiaro che sto parlando di un idealtipo del viaggio.

L’import-export di idee non è però un’attività semplice. Portare a spasso delle idee significa comunque svellerle dal terreno culturale nel quale sono maturate, potarne le radici, disincrostarle dell’humus originario, alleggerirle insomma sino a renderle trasportabili: e poi adattarle bene o male al gusto e alle misure di coloro coi quali ci si confronta. Il che finisce per non attenere più soltanto al peso, ma incide sulla sostanza. Ogni bagaglio culturale che si esporta o si importa è necessariamente sottoposto ad un processo di standardizzazione, così come accade ad esempio per i cibi, la cui diffusione al di fuori dei luoghi tradizionali di consumo impone l’adeguamento a palati diversamente educati, a situazioni ambientali e a tradizioni alimentari differenti, e comporta quindi l’attenuazione o la perdita dei sapori forti, di tutte le caratteristiche legate alla disponibilità di particolari ingredienti o alla rispondenza a specifici fabbisogni. Si tratta di un processo del tutto normale, che investe ogni forma di interazione e di comunicazione già a partire dai livelli più elementari, anzi, è l’essenza stessa del comunicare: ma ciò non deve farci dimenticare che quando la diluizione di una cultura viene ripetuta infinite volte i suoi valori, le sue proprietà e la sua originalità si riducono a dosi omeopatiche.

Il problema – e che un problema esista basta a dimostrarlo lo stato attuale dell’interscambio culturale, il livello di qualità di quanto viene messo in circolo dalla globalizzazione – non concerne tuttavia solo il bagaglio. Assieme alle idee si trasforma anche il loro portatore: non solo, ma questi trasforma a sua volta lo spazio nel quale si muove. Una volta lontano dai condizionamenti del luogo originario, da una sudditanza parentale o sociale che gli impone riti e limiti di comportamento, accetti o meno che siano, il viaggiatore è libero di riconoscersi in altre identità, ha modo di cogliere la sua singolarità nell’evidenza del contrasto, incontra e sperimenta nuove forme di approccio all’esistente. O almeno, così dovrebbe essere se le differenze ancora esistessero. Cosa che oggi non c’è più: e purtroppo, ad annullarle hanno contribuito anche i viaggiatori.

Sradicarsi non significa infatti solo guadagnare delle opportunità: significa anche perdere in profondità, condannarsi alla superficie: e la forma di conoscenza che ne consegue non può che essere superficiale. Per quanto aperti e motivati, e magari preparati, ci si rapporta comunque agli spazi altri con uno sguardo laico, che ne coglie solo gli aspetti presenti, concreti e manifesti, avulsi da quella profondità storica che conferisce ad ogni luogo una sua sacralità: e quindi li si dissacra e li si apre agli innesti, alle novità e alle trasformazioni. Ogni viaggio, di esplorazione, di colonizzazione, di commercio, ma anche turistico o di studio, è di per sé una profanazione, in quanto introduce un elemento estraneo. Il viaggiatore può anche spogliarsi dei modi e delle convenzioni cui è soggetto nella propria cultura, riconoscersi come diverso, ma non si assimila mai completamente al mondo che incontra, perché non può e perché in realtà non vuole.

In più, dal momento che nessuno può saltare oltre la propria ombra, l’estraneo coglie della diversità solo ciò che è commisurabile con quanto già sa e conosce. Anche quando si trova di fronte a cose completamente nuove, che non hanno riscontro nella sua cultura di provenienza, le legge forzatamente con gli strumenti di cui la sua educazione lo ha attrezzato. Voglio dire che l’ambito nel quale si è in grado di comunicare nella situazione del viaggio è circoscritto: non può essere che quello degli elementi comparabili, delle grandezze e delle quantità, di ciò che è riconducibile a metri unificati e unificanti, siano essi culturali, economici o sociali: tutto il resto, ciò che si nutre attraverso radici che affondano nel tempo, che è radicato dunque, e non trasportabile, resta fuori. (Con questo mi sarò inimicato tutti i fans di Terzani, e non solo loro, ma non posso farci nulla: ho grossi limiti caratteriali, stento a convivere con la mia di cultura, figuriamoci se ho la presunzione di comprendere quella altrui. Di rispettarla, invece, si.)

Il fatto che solo ciò che sta in superficie possa essere messo in circolo, diventi oggetto e tramite della comunicazione, modifica necessariamente anche le scale di valori dell’interlocutore indigeno, il rapporto di quest’ultimo col suo stesso mondo. In sostanza il riconoscimento reciproco tra il viaggiatore e l’ambiente nel quale questi si muove presuppone una semplificazione: l’uno e l’altro adottano un codice che rende possibile l’incontro, ma a prezzo di un impoverimento stravolgente rispetto alla profondità e complessità di entrambe le culture in gioco. È un dato di fatto abbastanza ovvio, perché senza la riduzione ad un denominatore comune l’incontro non ci sarebbe, ma non posiamo ignorarne le conseguenze rispetto al tipo di conoscenza che induce. In una situazione del genere, nella quale la disposizione conoscitiva del viaggiatore, e per induzione quella di chi lo incontra, è per forza di cose comparativa, la percezione delle differenze avviene in forma classificatoria, valutativa, a dispetto o forse proprio in ragione di ogni buon proposito di obiettività, ed è già intesa alla sintesi e alla composizione, o al rifiuto, quindi al loro annullamento. Il che significa che questo atteggiamento contempla il dubbio, la presenza di diverse possibilità e soluzioni, ma solo come sfida, e lo tollera solo in funzione del suo superamento, di una superiore ricomposizione nella certezza.

Questo atteggiamento noi lo chiamiamo razionalità.

Ora, la razionalità è una forma della comunicazione, che si traduce in una modalità di conoscenza (o viceversa: è come per l’uovo e la gallina): ma è per l’appunto un modo, una forma. Il problema è che ha finito per essere confusa con la sostanza, per cui ormai si identifica il sapere con una delle sue possibili vie. Indagare il come e il perché ciò sia avvenuto va ben oltre gli intenti di queste righe (e le capacità del loro estensore), quindi non preoccupatevi. È tuttavia legato al nostro discorso. Mi limito a constatare che in origine l’opzione razionalistica è connessa all’affermarsi di una economia agricola stanziale, in contrapposizione a quella nomade-pastorale, e che questo non è un paradosso (anche se parrebbe più logico il contrario) perché il modo di produzione agricolo comporta alla lunga il prevalere della necessità dello scambio rispetto a quella del confronto, e quindi il ricorso alla mediazione. Ma mediare non significa accettare la differenza: implica anzi il superarla, quindi annullarla. Di conseguenza questa scelta, comunque la voglia considerare, cioè come propria della cultura occidentale e da questa imposta al resto dell’umanità, oppure intrinseca ad un necessario processo di civilizzazione, ha uniformato progressivamente, se non le capacità di risposta, almeno le aspettative e i bisogni, cioè i presupposti di ogni cultura: e proprio qui, saltando parecchi ulteriori passaggi, volevo arrivare.

Volevo arrivare a costatare come la “razionalizzazione” del mondo (della quale la globalizzazione è figlia, ma solo una delle tante) ha in buona misura reso nulla la portata conoscitiva dello spostamento, del viaggio. Lo sperimentiamo tutti. In un mondo equalizzato si finisce per incontrare dovunque lo stesso brodino culturale del quale oggi siamo nutriti, insaporito magari dagli aromi del folclore locale, ma identico negli ingredienti e nella sostanza. E il meticciato che consegue da questi incontri non risulta ormai più fecondo di alternative, di direzioni e di scelte, ma solo di mode effimere e false vie di fuga. Di fatto dunque, prescindendo da ogni giudizio di valore sul mondo razionalizzato e sulla conoscenza che ne abbiamo, possiamo constatarne una deriva suicida: sono state azzerate anche le possibilità di un confronto su schemi semplificati, è stato azzerato cioè il confronto tout court.

Probabilmente sarei stato molto più chiaro e vi avrei risparmiato tutto questo mappazzone ricorrendo ad un paio di esempi: ma forse non è troppo tardi (spero), anzi, giocati adesso possono risultare più illuminanti. Ho ascoltato proprio recentemente due versioni dello stesso viaggio in un paese dell’Estremo Oriente. Nel primo caso l’amica è tornata entusiasta dello stile di vita sobrio e dignitoso della popolazione, della sua resistenza al consumismo. Nel secondo l’amico, che aveva viaggiato al suo fianco per quasi tre settimane, raccontava di sperequazioni economiche e sociali intollerabili, di una povertà dalla quale tutti aspirano a fuggire, magari emigrando verso la Cina, il che è tutto dire, e del loro sogno ultimo che rimane l’Occidente. Ora, questo mi pare un esempio evidente che anche nel viaggio, come in montagna o in un rapporto sentimentale, ciascuno trova in definitiva solo quello che ci porta, ma soprattutto mi sembra testimoniare che la realtà con la quale ci si confronta è ormai talmente contaminata da non consentire un vero scambio, ma solo la ricerca di conferme a ciò di cui si era già intimamente convinti.

Dopodiché, il valore intrinseco di un viaggio, se si ha l’accortezza di non caricarlo di troppe aspettative “sapienziali”, naturalmente rimane: solo, è sempre più relativo ad un altro tipo di confronto, quello con se stessi: che non è poco, ma è cosa ben diversa da quanto da un viaggio un tempo ci si attendeva.

Vorrei ora considerare se esistano altre opzioni conoscitive, altri modi di “viaggiare”, capaci di offrirci una percezione diversa dell’esistente. Beninteso, non mi sto riferendo al ciarpame esoterico messo sul mercato dalla new age, ai misticismi da salotto, alle esperienze sciamaniche o allucinatorie, alle versioni patinate della saggezza orientale. Il discorso vuole essere un po’ più serio, e concerne la direzione del movimento a conoscere e il tipo di conoscenza che questa direzione consente. Se, ad esempio, invece di muoverci orizzontalmente, nello spazio, proviamo a rapportarci all’altra dimensione, quella verticale lungo la quale scorre il tempo, le prospettive di conoscenza cambiano radicalmente. In questo caso non siamo noi a tracciare le linee. Noi possiamo percorrere gli spazi, chiuderli o dilatarli, tendiamo oggi persino ad annullarli: ma rispetto al tempo non ci è consentita alcuna domesticazione. Dobbiamo subirne il movimento, e rinunciare a qualsivoglia certezza. Nel tempo, e del tempo, non è data conoscenza razionale, a dispetto di tutto lo strumentario tecnologico col quale ci illudiamo di imbrigliarlo: perché in esso le possibilità non si ricompongono, ma si aprono e si moltiplicano incessantemente, e non è consentito enumerarle, confrontarle, annullarle nella sintesi. Questo non significa che non sia data conoscenza alcuna: significa solo che per conoscere nel tempo è necessario piegarsi alla sua direzione, scendere cioè in profondità, e accettare di convivere con l’infinito ventaglio di opzioni che ogni attimo ha rappresentato e rappresenta: in altre parole col dubbio come condizione esistenziale e conoscitiva.

Provo a tradurre questa formulazione generica in percorsi concreti. Muoversi nel tempo può significare, ad esempio, ricostruire al di fuori degli schemi obbligati del dato di fatto, gli itinerari che ci hanno portati ad essere quelli che siamo; e quindi scendere all’indietro nella memoria, personale o collettiva, per indagare quali strade si siano presentate, quali sono state scartate e perché, e se non sia ancora possibile recuperarne alcune, e se questo recupero non possa essere la risposta a domande che, nella condizione attuale, rimangono sempre inevase. Non dunque un’operazione di antiquariato culturale, snobistico e fine a se stesso, e neppure un pasticcio di contaminazione postmoderna, che implica comunque la neutralizzazione dei valori di ciò che viene recuperato, o il suo uso solo ornamentale. L’indagine deve muovere da un approccio ben diversamente motivato, dalla disponibilità a rimettersi in gioco e a cercare in un confronto col tempo quelle potenzialità alternative che lo spazio ormai ha esaurite.

Vale a dire? Beh, ad esempio, l’espressione artistica è in grado di offrirci delle metafore adeguate di questa modalità di conoscenza: ci sono casi in cui riesce a sottrarsi all’orizzontalità del confronto spaziale e fissa in istantanee le terga del tempo, magari raccogliendo gli scarti che questi lascia lungo il cammino. I risultati non di rado sono discutibili (mi riferisco ad esempio all’arte povera), ma è apprezzabile l’intento di esplorare una dimensione che al contrario di quella spaziale vede permanere e anzi allargarsi le macchie bianche. E comunque, l’arte coglie lo spirito di questa immersione allorché si ferma a riflettere perplessa sulla propria capacità di “comprendere” letteralmente il mondo, sul “questo, e perché non quello?”.

Oppure, si possono fare viaggi bellissimi riprendendo in mano testi di duemilacinquecento anni fa: si scoprirà, tanto per fare un altro esempio, che il reddito di cittadinanza non lo hanno inventato i nostri politici d’assalto, ma il buon Pericle, e che anziché garantire la democrazia (quella ateniese, per carità, tutt’altro che perfetta) l’ha mandata a picco. La storia non si ripete, ma spesso fa rima, e varrebbe la pena ricominciare a imparare a memoria un po’ di poesie.

Insomma, forse è il caso di rivedere un po’ il convincimento da cui si erano prese le mosse, che cioè il correre, il muoversi per il mondo, sia sempre meglio dello stare, e il discorrere, il mettersi a confronto, sia preferibile al tacere e al meditare. Può essere vero, in tanti casi, ma non lo è certamente in assoluto. È discutibile infatti che veder crescere un albero conferisca un sapere meno profondo dell’aver visto molti alberi diversi. Conferisce senz’altro un sapere diverso, meno spendibile sul piano dell’autoaffermazione, ma assai più pregiato sulla via dell’autocoscienza.

Se si considera questa possibilità, di tramutare il desiderio per le cose dello spazio in desiderio per le cose del tempo, le prospettive di conoscenza cambiano radicalmente. Intanto ci si può rendere conto del fatto che di norma per metà del cammino non facciamo che tornare sui nostri passi e che in verità conosciamo bene solo ciò da cui fuggiamo e non ciò che cerchiamo (non lo dico io, lo diceva Montaigne), e quindi più che annullare distanze le creiamo, le inframmettiamo tra noi e ciò di cui davvero ci importa, e che costituisce il metro, positivo o negativo, al quale commisuriamo ogni conoscenza. Si può scoprire che se pure è lo spazio il mezzo di cui abbiamo percezione, possiamo attraversarlo solo nel tempo, ed è il tempo il nostro orizzonte.

In un romanzo di Chesterton un tizio parte dall’Inghilterra per i Mari del sud, sbaglia rotta e dopo aver circumnavigato il globo finisce nuovamente sulle coste inglesi. È convinto di aver scoperto una nuova isola, tra l’altro commette adulterio con sua moglie, e solo alla fine si rende conto di essere andato alla ricerca di ciò che già aveva. Forse è questo il vero senso del viaggio.

Come scrive un contemporaneo e quasi connazionale di Chesterton, T.S. Eliot:

Noi non cesseremo di esplorare,
e fine di ogni nostra esplorazione
sarà arrivare là donde partimmo,
e conoscere il luogo per la prima volta.

 

Beato chi lasciò presto il festino

Variazioni intorno alla figura del viandante

di Marcello Furiani da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

1.

Il viaggio, luogo privilegiato dell’immaginario mitico e romanzesco, si manifesta essenzialmente in due forme classiche: il viaggio come prova, percorso doveroso per l’eroe alla conquista di una meta, e il viaggio come educazione, come conoscenza e crescita che preventiva il ritorno in qualità di momento finale.

Via, via dagli uomini e dalle città
verso il bosco selvatico e le dune
alla silenziosa selvatichezza
dove l’anima non deve reprimere la sua musica
per timore che non ne trovi
un’eco nella mente degli altri.
PERCY B. SHELLEY

Ci imbattiamo poi in un terzo modello di viaggio, nel quale gli obiettivi si allentano, i profitti restano più impliciti, racchiusi nel momento e nel gesto stesso del viaggiare: mi riferisco al vagabondaggio in tutte le sue forme, dal ramigare all’errare, ad un movimento erratico in cui la linea che unisce due punti non è quella retta (cioè la più economica e la meno speculativa), ad uno spostamento che non ha necessariamente nemmeno il fine di unire due punti. Il viaggio come erranza, divagazione, deriva.

Questa idea del viaggio è la più “moderna” e quindi ha una storia più recente delle precedenti. Ma prima di ripercorrere, senza presunzione di esaustività, la figura del viandante attraverso personaggi letterari, vediamo di definirla più precisamente.

Il viandante non possiede una casa: si sposta di città in città, di villaggio in villaggio, dorme dove accade, talora viene ospitato. Pur essendo una figura che si situa ai margini, non è un antisociale. Spesso è un giovane, piacevole e attraente, non di rado sa suonare o cantare, intreccia nei suoi brevi soggiorni piccole storie d’amore, è capace talora di parole profonde e illuminate. Ma tutto ciò dura poco, perché il viandante riparte mimando col suo continuo allontanarsi la parvenza delle cose, il doppio effimero di qualcos’altro che si sottrae e si dilegua, l’inespugnabilità di ciò che egli stesso vagheggia. Ogni luogo lo soffoca, ogni luogo è un luogo sbagliato che tradisce e consuma: il viandante è alla ricerca infinita del luogo che non c’è, cioè dell’utopia.

Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due? 
BRUCE CHATWIN

Nel Lieder einer fahrenden gesellen (I canti di un giramondo) di Gustaf Mahler il protagonista procede al passo di una marcia funebre nel viaggio verso “l’estrema provincia della memoria”: l’assenza di una patria, di una heimat è quindi anche la morte, il luogo definitivo.

Il viandante sa che ogni cosa finisce e se decidesse di fermarsi non sarebbe per sempre: per ciò riparte. Nel finale del Eugenio Oneghin di Puskin l’autore prende congedo dal proprio personaggio esprimendo il desiderio di tutti i viandanti: “Beato chi lasciò presto il festino / della vita e il boccale pien di vino / non vuotò fino in fondo, chi ha saputo / staccarsi dal romanzo suo più caro / come da Oneghin ora io mi separo”.

Nella letteratura ci si inbatte spesso nella figura del viandante, o flaneur o wanderer; soprattutto la letteratura romantica è abitata da questo personaggio, confermando che l’anima romantica è un’anima nostalgica, inqueta, notturna, inappagata, che iterativamente vagheggia qualcosa che sta al di là dell’immediatamente sensibile. Il viandante ha in se l’inesausta smania e l’inestinguibile struggimento per l’altrove, la romantica sehnsucht, quella che Rousseau chiama una fitta del cuore verso un’altra forma di godimento e di possesso. Tutto ciò cambia il movimento in un errare senza sosta, privato di un risolutivo nostos: come osserva Nietzsche in Umano, troppo umano il ritorno si addice al viaggiatore diretto ad una destinazione, non al viandante che non conosce meta e configura il compimento del proprio destino nella provvisorietà e nell’instabilità.

2.

La Storia di un fannullone di Joseph Von Eichendorff è un’alternativa alla realtà, non un’evasione dalla storia, è la nostalgia di una dimensione umana integra e libera, non un superamento del passato.

La poesia è nella vita feriale e diretta; non c’è l’inquietudine per un ‘oltre’ inconseguibile: solo l’appagamento di ogni battito del fluire della vita in un’identificazione dello spirito con il respiro cosmico, altrettanto umano quanto i tormenti e gli affanni delle anime del Romanticismo. Tutto è epifania, eppure il dolore si comprende presente, per nulla soffocato da un ottuso ottimismo o da una furia trionfalistica; lo si indovina come l’altra faccia della gioia e ciò dà credito, più di ogni altro pensiero, alla possibilità di sentirsi in corrispondenza con il vivere in tutta la sua apparente semplicità. Ciò accade a differenza, per esempio, delle pagine di Hans Christian Andersen, delicate ed idilliche, nelle quali – si veda la novella “Compagno di viaggio” – la figura del viandante puro di cuore e nomade nell’anima si muove in una natura stilizzata e priva di profondità, senza altezze e senza ombre, colorata ma inodore. Il viandante di Andersen rimuove il dolore e la tragedia, avvolto e annebbiato in una visione cristiana dell’esistenza diluita da un ottimismo filisteo e semplicistico.

Intorno non si vedeva anima viva e non si sentiva rumore. Per altro, vagabondare a quel modo era bellissimo.
JOSEPH VON EICHENDORFF

In Eichendorff il fascino del vagabondo in continua fuga, inesausto nella capacità di cantare e di essere felice, è nel ritrovare passo dopo passo lo stereotipo previsto e puntualmente mai disatteso: ciò che realisticamente è l’imprevedibile corrisponde con l’estremo prevedibile della fantasia; ogni elemento del proprio immaginario d’avventura trova spazio nella sue pagine.

I personaggi di Robert Walser sono viandanti che si aggirano per il mondo, osservano la vita, si mimetizzano svestendosi della coscienza, volgono la propria attenzione a fuggevoli dettagli apparentemente trascurabili, non si concedono a nulla in fedeltà ad una condizione d’assenza. Vivono in un eterno presente, sognano una vita come attesa, vigilia di promesse senza modello né costrutto. Nel loro ritirarsi perpetuano infinitamente il congedo, annullati in una nozione del tempo estremamente incerta e indeterminata, quasi per una volontà di perdersi in qualcosa che trascende.

La condizione del viandante disposto ad ogni esperienza non entra in contraddizione con questa modalità, in quanto la libertà per i personaggi walseriani è predisposizione a non legarsi, a non entrare in contatto con alcunché abbia una forma definita: è un’immobilità che si nega al gesto che spartisce il mondo.

Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io mi imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto. 
ROBERT WALSER

Eppure di quale leggerezza e di quale profondità sono capaci le figure di Walser. Il loro sguardo è lieve e acuto, come quello di chi, non mettendo in gioco se stesso, coglie la bellezza gratuita del mondo e contemporaneamente lo osserva con ironia per quello che è nel suo orrore, nei suoi rapporti di forza, nella morte che è propria delle strutture e dei rapporti sociali irrigiditi.

Ma i suoi viandanti, lievi, trasparenti e fatalisti non sono dei rivoluzionari: non cambiano e non vogliono cambiare nulla, non hanno altra aspirazione che condurre una vita vagabonda, alla periferia di cose e persone con le quali si trastullano senza farsi toccare, quasi che non vi sia nulla oltre la loro superficie, che il loro statuto ontologico sia la loro stessa inconsistenza.

Il vagabondare senza meta fissa è un topos della poesia lirica dal pre al post romanticismo, al punto che ancora nel 1885 Gustav Mahler intendeva il viandante come personaggio del suo ciclo di Lieder Lieder eines fahrenden gesellen, in termini che si adattono altrettanto bene alla Winterreise schubertiana e ad altre centinaia di composizioni poetico-musicali. Nella maggioranza dei casi il Viandante – che diventa il Solitario – esercita il proprio sentimento della natura su fioriti paesaggi primaverili e boschi lussureggianti, donde il contrasto tra la solitudine interiore dell’io e il circostante trionfo della vita e della bellezza. Ma nei Lieder di Mahler e di Schubert la meditazione sul senso dell’esistenza, sulla immutabile presenza della morte, si svolge sullo sfondo di una natura livida e cupa e per ciò stesso partecipe: l’osservazione della natura è il parallelo dell’indagine sullo spirito. Si respira uno stato di vita sospesa, congelata, immobile – assai simile a certi dipinti di Caspar David Friedrich – dove il pensiero del viandante si riduce a rimuginazione ossessiva di ferite narcisistiche e grandiose fantasie compensatorie.

Il viandante diventa straniero al mondo ed erra sospinto da una condanna senza colpa, portatore di un’immedicabile ferita al cuore, che lo trascina verso la distruzione, simbolo ingigantito dell’uomo romantico in preda ai suoi sentimenti, dello straniero senza casa sulla terra gelata, del fuggitivo dal mondo, escluso dalla compagnia degli uomini con cui non ha più sentimenti in comune, dalla forza sovverchiante e autodistruttiva delle sue emozioni. Non c’è scampo all’inesorabilità del lungo cammino verso la morte – dalla quale per altro il viandante si sente attratto – espresso sia con doloroso realismo, sia con un espressionismo visionario.

Walter Benjamin ricorda anche Knut Hamsun come un altro autore capace di creare la figura del fannullone perdigiorno, randagio e sbandato. Versione moderna e tragica, il viandante di Hamsun incarna vitalità, durezza, pietà, nichilismo e protesta: è un distruttore e contemporaneamente un lacerato capace di rilevare l’irrazionalità dell’esistere, con il gesto altero del personaggio epico, frugando impietosamente nella miseria materiale e spirituale dell’uomo moderno. Ma finisce per esserne accecato e cerca nella fuga dai legami sociali l’immediatezza della vita non contaminata dalle idee; si muove spinto da una sprezzante ribellione che ne fa, paradossalmente e inconsapevolmente, un intellettuale modernissimo e anticipatore, nell’alienazione e nella perdita, del nuovo.

Il percorso del viandante di Hamsun conduce alla nevrastenia: fugge davanti alle patologie della società moderna fraintendendo la modernità come patologia, rimanendone vittima e tanto più irreversibilmente condizionato dai legami sociali quanto più si illude di affrancarsene. Ondeggiando tra la brama di un inattuabile assoluto sovratemporale e un compiaciuto sguardo alla caducità di ogni cosa, tentando di avversare il senso univoco delle ideologie con l’informe indefinitezza delle cose e della natura, che pur resta sempre irreparabilmente lontana, approda all’anti-ideologia. La sua ribellione s’irrigidisce in un nichilismo che non ha altri approdi se non quelli di una tendenza regressiva e di un atteggiamento reazionario.

Il viandante dei romanzi di Hamsun, crudele e tenero, sprezzante e fragile, compiaciuto del disordine del mondo, è un inconscio alla deriva che si tutela dalla realtà esterna con vomiti di parole e sequele di gesti provocatori e stonati, è l’io psicologico borghese disgregato, riluttante nel prendere coscienza che il suo destino è solo la vana forma di una vita errabonda, segnata dalla sconfitta e avvilita dall’ostinazione al disprezzo.

Nelle pagine scritte da Walter Benjamin il flaneur si muove come figura di passaggio, che attraversa una sorta di altrove, di sconosciuta città in un orizzonte all’imbrunire, immagine incerta e dubbia, sostanzialmente tragica. Sospeso nel tempo e nello spazio, è sicuramente straniero alla folla, talmente estreneo ai suoi ritmi da apparire in netto contrasto con il processo produttivo.

La città è uno sterminato panorama, quasi il luogo di una rappresentazione teatrale, che desta nel viandante una primitiva curiosità che i suoi occhi alieni e pacificanti cercano di soddisfare. Fondamentalmente è un ozioso, di un’inoperosità che è soprattutto irresolutezza: predominando in lui il dubbio, tutto diventa possibile anche se irrealizzabile.

Può essere permesso ad un vagabondo di disporre degli ultimi istanti come più gli piace?
KNUT HAMSUN

Eppure quanta nostalgia percorre ogni suo passo: ma il flaneur non possiede un passato né una memoria personale: la sua è nostalgia di una vita anteriore, del tempo dell’infanzia. Il viandante è in Benjamin una figura senza tempo e senza storia, il cui motivo di desistere consiste nel “dare un’anima” alla città altrimenti amorfa. In effetti nella Parigi fantastica disegnata da Benjamin pesa come un sasso il vuoto di un’assenza, al di là dell’alacrità delle occupazioni dei suoi abitanti, dominati in sostanza dalla ripetitività del culto che celebrano, quello che l’autore chiamerà culto della merce. Il flaneur benjaminiano è in una comunità immobile e inaccessibile alle novità l’esule che incarna inconsapevolmente la totalità dell’esperienza originaria, l’unico l’uomo a cui sia stata data in sorte l’inattività, in virtù della sua capacità di sognare.

L’utopia di Benjamin, uomo senza patria, è di tornare a ciò che è spezzato, di ridare vita alle cose morte, ma ciò dissimula il desiderio di tornare nelle tenebre, nell’abbandono del non essere, di riavvolgersi verso la propria origine.

La purezza del viandante lo rende impotente di fronte al mondo, da cui per altro nemmeno viene riconosciuto nella sua condizione di estraneità. Ma la sua stessa speranza di non avere una meta, di non arrivare, è la vana illusione di restare nell’infanzia dell’uomo e di non approdare a quello che Benjamin chiama l’“uomo-sandwich”, diventando egli stesso merce venduta al mercato, identificato con il valore di scambio, a proprio agio ormai nell’essere ritenuto vendibile.

Il flaneur oscilla tra queste due inconsistenze: l’estraneità più radicale e la contestualizzazione più omologante che lo prosciuga da ogni parvenza di identità. Può solo, nel suo continuo movimento che simula l’immobilità, mostrarci quanto sfolgorante, fantastico, eccessivo e fragile sia il fiore dell’utopia.

Il tempo presente è il tempo della disperazione, il tempo dell’Ebreo Errante.
SOREN KIERKEGAARD

L’erranza, la tragica volubilità nello spazio, nell’esperienza e nel tempo è specificità che descrive non di meno la figura dell’Ebreo Errante, è la sostanza dell’espiazione per chi non ha compreso e riconosciuto il Messia, con la contraddittoria valenza di seduzione e di maledizione che il rapporto con il sacro implica.

Il mito dell’Ebreo Errante è come pochi altri un mito incompiuto, variamente rappresentato e interpretato nel corso dei secoli, attraverso diversi generi (dalla prosa alla poesia, dalla pittura al folclore) e difformi registri (dal comico al tragico, dal dolente al farsesco). Se il mito popolare fa dell’Ebreo Errante un personaggio per racconti popolari, ballate di menestrelli, melodrammi, balletti, opere liriche e romanzi d’appendice (basti ricordare L’Ebreo errante di Eugéne Sue, in cui l’eroe diventa una metafora del popolo sfruttato e l’errare un’allegoria della fatica del lavoro), sono i poeti, i prosatori, i filosofi e i pittori a costruire su questa figura il mito letterario.

Ripercorrere le tappe della rappresentazione di un mito significa anche attraversare la storia delle idee: così si passa dal viator medioevale che testimonia la verità, investito di una maledizione inemendabile, alla riabilitazione del philosophe illuminista, in cui l’erranza diviene memoria del tempo del mondo, diventa una condizione privilegiata da cui distinguere e tradurre i mali che angustiano la società contemporanea dell’autore. Parallelamente alla figura del viaggiatore ed esploratore, nel ‘700 prese forma anche un Ebreo Errante avventuriero, imbroglione, impostore e baro da cui discende il personaggio inquieto e malinconico che appare fugacemente ne Il monaco di Matthew G. Lewis, in cui, tra l’altro, assistiamo ad una delle prime commistioni del mito dell’Ebreo Errante con quello del Faust. Questa contaminazione, figlia dell’epoca dell’occultismo e dell’esorcismo, fu determinante nella metamorfosi dell’Errante da testimone delle verità cristiane a personaggio dedito alla stregoneria.

L’Errante diventa in seguito l’incarnazione dell’inquietudine e della disperazione romantica: il gusto per il primitivo, per i miti popolari e cristiani, la predilezione per il trascendente e le problematiche religiose tipici della spiritualità romantica si accordano ad un personaggio il cui destino è eccezionalmente unico e tragico, il cui passato è oscuro e ambiguo, la cui colpa suscita orrore e perplessità, il cui desiderio è eternamente inappagato e la cui attrazione verso la morte è il riscatto dal dolore e dalla afflizione.

Mitigando la figura dell’Ebreo Errante della sua singolarità ebraica i romantici acuiscono positivamente le facoltà del mito: la loro sensibilità avverte dolorosamente i caratteri di esilio, di solitudine, di scacco e di disperazione dell’errante e li traduce in veggenza e saggezza, accentuandone l’anima di déraciné e maturandone gli aspetti di ribelle che predilige la libertà dell’inferno alla schiavitù del cielo, figura debitrice del Satana di John Milton.

Il mito continua, trascinando le proprie ambiguità e le proprie contraddizioni, ma ricavando vitalità dalla propria leggenda, come gli Ebrei Erranti di Marc Chagall che volano sopra Vitéck, poiché il viaggio è eterno come l’inferno cristiano.

Nel dipinto di Caspar David Friedrich Viandante sul mare di nebbia del 1818 l’immagine transita dalla più diretta vicinanza alla più radicale lontananza: questa distonia dello sguardo traduce la frattura fra l’uomo e l’assoluto. Ma questa misura tragica si dissimula in una contemplazione idillica, pur trasparendo come in filigrana un irreparabile struggimento per distanze impenetrabili, per lontananze inconseguibili. Il viandante di Friedrich esprime il proprio scacco attraverso l’opposizione di una dimensione interna e di uno spazio esterno che si toccano senza penetrarsi, dando forma ad una sensazione di vertigine e di smarrimento.

Vuoi avermi con te, ma quell’io che ti piace non desidera stare con te. Devo essere solo e sapere che sono solo per poter veder e sentire pienamente la natura. 
CASPAR DAVID FRIEDRICH

Esso è evidentemente una figura di passaggio, colta nell’attimo in cui si è temporaneamente fermata e, fermandosi, misura la propria condizione di estraneità al paesaggio nella sola possibilità di contemplazione, nella propria impotenza a divenire una cosa con esso. Raffigurato di spalle – come moltissime figure di Friedrich – il solitario déraciné trasmette, oltre al mistero del proprio sguardo negato, la vulnerabilità di chi è visto a sua insaputa. Il viandante guarda in avanti, pur escluso dallo spazio sconfinato cui non appartiene, in un cupo desiderio di qualcosa che non accade: per altro il tempo del viandante è un tempo sospeso, immobile, raggelato nell’“hic et nunc” d’un eterno presente, che pur suggerisce l’inarrestabilità della dissoluzione, cioè la morte. Ma la sua anima non si appaga né si placa in una compiaciuta contemplazione della natura.

Il personaggio non ci narra una storia o una vicenda ma, attraverso la propria agghiacciata solitudine e il confine che impietosamente la racchiude, esprime con asciutto dolore l’impossibilità della mente di comprendere (in senso etimologico) l’infinito e la coscienza dell’inafferrabilità del mondo nella sua essenza, tragicamente percorsa da un disperato anelito ad un’osmosi con l’assoluto e la totalità.

Non c’è quiete né casa nel destino di Holden Caulfield, protagonista di The Catcher in the rye (Il giovane Holden) di J. D. Salinger, e di Dean Moriarty, personaggio di On the road (Sulla strada) di J. Kerouac; soggetti la cui condizione si definisce con il loro vagare incessante, sono tra i più famosi prototipi di erranti della letteratura americana.

Ciò che li muove sembra essere una sorta di esigenza esterna alla propria volontà e alla propria consapevolezza, nonostante il rifiuto dei valori della società a loro contemporanea, la profonda frattura con l’America borghese e benpensante e l’innocenza, la superiorità morale, l’esaltazione dell’individuo che non si uniforma ai preconcetti di una società sempre più corrotta e decadente.

Essi vagano senza trovare la loro patria, quasi dovessero scontare una colpa commessa dall’America nei confronti di se stessa e che consiste nel tradimento di quelle promesse e di quella fede nell’uomo e nelle sue possibilità che avevano fatto sognare scrittori come Ralph W. Emerson e Walt Whitman.

Per i personaggi di Salinger e Kerouac spostarsi continuamente significa, oltre il rifiuto d’ogni forma di tirannia e di prevaricazione, entrare in contatto con elementi essenziali della vita. La loro crescita avviene al di fuori, o più precisamente in polemica con la società: dal linguaggio che utilizzano – estraneo al consorzio perbenista, fasullo e convenzionale – al più volte dichiarato rispetto della verità, al punto di non omettere nulla nel racconto, dai lati più seducenti ai più miserevoli e sordidi, tutto denuncia il tentativo di muoversi al di fuori dei canoni narrativi tradizionali.

Queste narrazioni, quasi diari di viaggio in cui si scruta nel proprio animo alla ricerca della propria identità – una sorta di percorso iniziatico sostanzialmente individuale – sono l’espressione di un disperato desiderio di totalità e di appagamento.

Solo affidando alla scrittura le ragioni profonde del proprio errare spirituale e metafisico i personaggi di Salinger e Kerouac diventano i simboli del tormento interiore, dell’alienazione e dell’inquietudine esistenziale di chi si sente destinato alla precarietà, senza poter trovare qualcosa cui aggrapparsi, senza pace né patria, senza una figura cui affidare i propri turbamenti e i propri dubbi.

La sorte umana è il distacco da ogni luogo e casa ove sostammo.
ERNST JUNGER

Il viandante è, in ogni sua sembianza, il custode dell’utopia, è un soggetto mitico che non utilizza le proprie potenzialità a fini costruttivi: Per questo incarna lo spirito di ribellione, la libertà dell’individuo, la sua dignità elementare e la trasgressione antiproduttivistica.

Ciò avviene in un continuo movimento, che vuol dire anche impossibilità di fermarsi, e soprattutto, rifiuto di raccogliere i frutti. C’è qualcosa per cui la drammatica leggerezza del viandante, la sua fuga dal mondo, la sua vulnerabilità e la sua protervia hanno un che di sacrificale: ciò sta nella sua mancanza. Egli si muove eternamente per cercare qualcosa che non troverà e che forse in fondo non gli preme trovare. In ogni modo, nel momento in cui trovasse ciò che cerca, abbandonerebbe la sua condizione di errante.

Il suo fascino consiste nell’impulso spirituale che lo porta sempre oltre, sempre altrove, ma l’eterno vagare, in qualche misura, corrisponde ad una sostanziale immobilità, ad un andare sempre verso lo stesso luogo o verso nessun luogo, che è il luogo dell’esilio. Così se il viandante addita ciò che potrebbe essere, in contraddizione con ciò che invece è, in realtà non assume mai una forma stabile e compiuta, abbozza ma non conclude, considerando anzi le forme irrigidite e compiute come un irrevocabile indizio di morte.

Il viandante è “l’uomo senza religio”, ossia si nega ai legami familiari e sociali, non possiede casa né patria e, sempre errando, si sottrae ad ogni inalterabile codice morale. Prototipo della protesta romantica contro la pianificazione borghese del mondo, che confina il soggetto nella misura della sua funzione sociale, egli vuole solo vivere, respingendo ogni limite alle potenzialità della vita, per quanto ipotetiche, e rifugge da ruoli, legami, impegni predefiniti che ne imprigionano l’esistenza.

Nell’anima del viandante s’agita una profonda inquietudine, mascherata da uno struggente sogno d’armonia: egli è il figliol prodigo che si nega al perdono paterno, è Caino che si fregia del marchio d’inavvicinabilità impresso sulla fronte, è il nomade guerriero che mitizza l’ethos maschile della lotta e della fraternità d’armi in spregio alla tentazione del sesso e della pietà incarnati dalla donna, è l’antitesi della risolta e responsabile certezza dell’Ulisse omerico. Appartiene ad un’odissea senza Itaca, ben più moderno del viandante dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, in cui il viaggio prevede il ritorno come momento finale dopo che tutte le esperienze, i dolori affrontati e vinti nel cammino sono integrati ed elaborati dalla sua individualità, in cui tutto si ricompone e si riconcilia nell’armonia di un’identità ritrovata.

Oggi questa totalità umana e poetica ci ferisce di nostalgia, ma non ci compete né ci appartiene: da Musil in avanti – in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi – il viandante procede in un’odissea senza fine né ritorno, ben lontana dal rassicurante movimento circolare che preserva ed itera l’ordine immutabile delle cose, come nell’Ulisse di Joyce, nelle cui pagine questa legge garantisce senso e assetto nella salvaguardia del soggetto individuale.

Il viandante moderno – come un Don Chisciotte errante in un mondo abbandonato dai significati e dai valori, come un Achab maledetto ed escluso dalla Natura che rimpiange – non ritorna a casa confortato nella sua identità, ma si dispende straniero a se stesso, senza più libertà di riconoscersi, in una realtà spezzata e precaria dove solo la nostalgia (nel senso etimologico del doloroso desiderio di tornare), similmente ad una lingua segreta, può conferire la piena comprensione del sentimento di un’odissea senza ritorno, di un esilio dell’anima tra sforzi d’identità e sofferenze senza riscatto.

 

Perché i viaggi?

di Paolo Repetto, 1977, estratto da “In capo al mondo, vol. 1, L’età delle scoperte

Siamo nomadi per natura o per cultura? Si potrebbe semplicemente rispondere: per l’una e l’altra cosa. A voler essere precisi occorre però distinguere: siamo nomadi per natura, ma viaggiamo per cultura.

La storia naturale è un crocevia costante di spostamenti, migrazioni, colonizzazioni e ritirate che coinvolgono in misura e in modi diversi, con tempi e ritmi i più disparati, tutte le specie animali (ed anche quelle vegetali): è il frutto di una disposizione (per gli animali parliamo di istinto) che permea il vivente e che risponde alle leggi della sopravvivenza e della riproduzione.

Questo istinto appartiene naturalmente anche alla nostra specie: anzi, rispetto ai gruppi parentali a noi più prossimi, ad esempio quello delle antropomorfe, la connota in modo particolare. Sarà per via della postura eretta, della locomozione bipede, dell’alimentazione onnivora, tutti fattori che combinati assieme e in reciproca interazione indirizzano a modalità di esistenza non stanziali: sta di fatto che negli umani si è sviluppato ad un punto e in una direzione tali da produrre un comportamento anomalo ed esclusivo. Il nostro nomadismo ha infatti senz’altro come fondo originario quello animale ed è determinato da una serie di pressioni naturali (la necessità di ampliare i territori di caccia o di raccolta, le mutazioni climatiche, l’avvento di nuovi competitori, ecc…): ma ha indotto nel tempo delle risposte adattive “culturali”, che non vengono tramandate per via genetica (anche se l’attitudine a queste risposte viene geneticamente selezionata), bensì attraverso un processo “educativo”.

Quando superano una certa soglia la dominanza e lo sviluppo quantitativo di taluni caratteri determinano in tutta la scala degli esseri una differenza qualitativa. Nel caso unico e specifico della nostra specie l’effetto è addirittura reversivo: non arriviamo a controllare l’evoluzione, ma ne modifichiamo, sia pure in misura minima e temporalmente quasi irrilevante, il naturale meccanismo. Non ci spostiamo quindi solo perché questa è la nostra natura, ma anche perché questa è diventata la nostra cultura. O viceversa, se vogliamo, perché abbiamo elaborato questa cultura come conseguenza di una spiccata attitudine “naturale” alla mobilità. Alla domanda: “Perché gli uomini viaggiano?” la risposta più esaustiva sarebbe pertanto: “Proprio perché sono uomini”. Perché tutte le altre specie si muovono, si spostano, mentre gli uomini, appunto, viaggiano.

L’irrequietezza umana si è manifestata precocemente, anche in rapporto ai tempi lunghi dell’evoluzione. Da quando sono scesi dagli alberi e si sono inoltrati nelle savane originarie dell’Africa centro-orientale i nostri progenitori non hanno più avuto terraferma. Hanno cominciato ad espandersi verso oriente, dopo aver traversato l’istmo di Suez, già allo stadio dell’homo erectus, attorno a due milioni di anni fa. È probabile che più rami della nuova specie, destinati poi all’estinzione, abbiano fatto in tempi successivi un percorso analogo. Il nostro avo diretto, l’homo sapiens, si è invece diffuso nel volgere di cinquantamila anni, a partire da un centinaio di migliaia di anni fa, prima in tutta l’Asia, poi, di ritorno, in Europa. Per farlo, l’uno e gli altri hanno dovuto adattarsi a condizioni ambientali via via radicalmente diverse, combattere o convivere con altre specie, assumere comportamenti alimentari e di sopravvivenza sempre nuovi. Tutto questo, per quanto ne sappiamo, ed è veramente molto poco, è accaduto ancora sotto la spinta dominante dell’istintualità e della pressione ambientale determinata dai mutamenti climatici: ma al tempo stesso ha imposta la diversificazione e rallentato l’automatismo delle risposte, sino al punto da svincolarle, almeno in parte, dalla correlazione con lo stimolo immediato e di assoggettarle alla mediazione della volontà.

La trasformazione definitiva della mobilità perenne da comportamento istintuale in pratica intenzionale, ovvero nel “viaggio” quale noi oggi comunemente lo intendiamo, è avvenuta proprio nel momento in cui la spinta “naturale” si è esaurita, ovvero quando gran parte dell’umanità, con la comparsa dell’agricoltura, è diventata stanziale. Quando la mobilità non è più stata necessitata dalla pura sopravvivenza è subentrata come motore la curiosità. Le spinte “materiali” non sono venute meno, ma si sono tradotte in “motivazioni economiche”, sono state cioè incanalate in forme complesse di attività, di raccolta, di lavorazione e di scambio, o sono state “addomesticate” e riorganizzate in comportamenti religiosi o politici. L’istinto ha lasciato gradualmente spazio alla consapevolezza, la determinazione genetica alla scelta autonoma, ovvero alla cultura.

In questo senso siamo diversi da tutti i nostri parenti: dai più prossimi, gli altri primati, che sono in realtà piuttosto sedentari e legati al loro territorio; da quelli un po’ più lontani, come i lupi o i topi, o lontanissimi, come gli insetti o i batteri, che hanno colonizzato un habitat altrettanto vasto di quello umano, ma non viaggiano, si diffondono; o da quegli altri parenti con le piume, con il guscio o con le squame che compiono tutti gli anni percorsi di migliaia di chilometri, sempre sulle stesse rotte. Anche questi non viaggiano: semplicemente migrano.

Il viaggio inteso come uno spostamento frutto di scelte consapevoli appartiene dunque solo a noi. Consapevoli non significa necessariamente pacifiche e non condizionate: significa che negli umani persino la fuga non è più un gesto dettato direttamente dall’istinto, ma implica almeno in una certa misura la valutazione di più possibilità, alla ricerca non solo di una via immediata di salvezza, ma anche di garanzie e di prospettive future.

Quella della fuga rimane tuttavia la risposta ad una situazione eccezionale, nella quale l’ignoto che si ha di fronte appare meno spaventoso del noto che preme alle spalle. A caratterizzare l’uomo è invece la scelta di sfidare l’ignoto anche quando non è in gioco la sopravvivenza, di muoversi anche quando la necessità non è così impellente.

La scelta è resa possibile e consapevole dal fatto che l’uomo quando “viaggia” non ha paura di ciò che non conosce; anzi, lo cerca, e vince la paura proprio per il desiderio di incontrarlo e di confrontarsi con esso[1]. Lo fa perché la complessità del suo apparato neuro-sensoriale (ovvero, la “distanza” creatasi tra gli organi che percepiscono lo stimolo e quelli che formulano la reazione dagli innumerevoli “snodi” intermedi) consente di dosare le risposte, di vagliare e scegliere tra diversi possibili comportamenti, di prendere ogni volta coscienza di nuove potenzialità, di conservarne la memoria e quindi di moltiplicarle. Detto in termini più spicci, a differenza degli altri animali l’uomo “sa di non sapere”, ed è preparato, anche se non sempre è egualmente disposto, a incontrare qualcosa che non conosce: può pertanto prefigurarsi l’incognito con l’immaginazione, e in qualche misura già ne esorcizza la pericolosità. Questo gli consente di desiderare “altro”, di proiettarsi oltre i confini dettati dalla sua naturalità e confermati dalle sue appartenenze culturali.

Il desiderio e la scelta sono dunque le discriminanti tra il viaggio e il semplice spostamento. Il desiderio perché è volontà di sottrarsi al determinismo naturale (de-siderare, significa proprio sfuggire al condizionamento degli astri); la scelta perché è affermazione di libertà dalla paura, o quanto meno della consapevolezza di essere in grado di vincerla, e disponibilità a mettersi in gioco.

 

Quando l’Ulisse dantesco apostrofa i suoi compagni con “fatti non foste a viver come bruti”, quelli già capiscono dove si va a parare. Non possono permettersi di avere paura. Non sono animali. Devono andare oltre, “seguir vertute e cagnoscenza”, correre l’azzardo di “vedere”, fosse anche nella quasi certezza di giocarsi la pelle. Molti di loro magari preferirebbero vivere davvero come bruti, e a lungo, ma il destino dell’uomo è quello di dar mano ai remi, drizzare la prua all’orizzonte e spingersi fino all’estremo: in questo caso, fino in fondo al mare.

Perché lo fanno? Perché ritengono valga comunque la pena di mettere a repentaglio la vita e le sicurezze già acquisite pur di “conoscere”. Sono pronipoti di Eva, e questa storia del prezzo da pagare per la conoscenza se la portano nel DNA.

Naturalmente non si può generalizzare. Non è così per tutti, e questa attitudine non è stata presente e diffusa allo stesso modo nell’intero arco dei tempi storici. In realtà si dice “l’uomo”, o “gli uomini”, ma si intendono sempre “alcuni uomini”: quelli paradossalmente disposti a rischiare la vita proprio perché vogliono darle sostanza e significato, e convinti che l’una e l’altro possano venirle solo dall’ignoto (evidentemente del noto non sono granché soddisfatti). Gli altri – e parlo della maggioranza – non sono attratti allo stesso modo dal fascino dell’avventura. I compagni di Ulisse non sono affatto diversi da quelli di Colombo o di Cortès: devono essere trascinati avanti con le minacce e col ricatto, non pensano di aver scelto il rischio, ma di esservi costretti dal destino, e appena possono cercano di ribellarsi e di tornare indietro. Subiscono il viaggio come fatalità e costrizione (e in effetti molti di essi sono stati reclutati a forza), anche se alla fine danno mano ai remi.

Nell’antichità non sono tuttavia solo i poveracci attaccati agli scalmi a lamentarsi. Lo fanno costantemente anche gli eroi delle epopee marinare, persino quelli che a onor del vero non sembrano aver fatto molto per sottrarsi a una sorte errabonda. Ogni esperienza di viaggio è vissuta come fato e necessità, o peggio ancora, come punizione. Nei miti di fondazione, da quelli ebraici (la parte “storica” del racconto biblico inizia con la cacciata dall’Eden, prosegue con la condanna di Caino all’erranza e si dipana poi in vari esodi e peregrinazioni) e del vicino oriente (il ciclo di Ghilgamesh) fino a quelli greci (i viaggi di Ercole e di Giasone e quelli degli eroi omerici) o latini (Enea), il viaggio costituisce il tema di fondo costante, ma il distacco dalla terra nativa è sempre vissuto con dolore e subìto come ineluttabile, imposto dalla malignità divina o da quella umana. Ad ogni nuovo ostacolo gli eroi accusano il Fato di sbatacchiarli da una terra all’altra, anche se poi, appena si offre l’occasione, sono persino disposti a scendere agli Inferi pur di dare un’occhiata. La verità è che avvertono la portata trasgressiva del viaggio e delle motivazioni reali che lo promuovono, e deprecandolo cercano di assolversi agli occhi propri e a quelli altrui.

L’attitudine negativa rispetto alla partenza, al distacco, spiega perché lo schema ricorrente del racconto di viaggio nella letteratura antica sia quello circolare, dell’andata e ritorno: il felice scioglimento della vicenda è il rientro in patria, sia negli archetipi della narrazione mitologica (i ὐὂστοι) sia in quello del racconto storico (l’Anabasi). A connotare la percezione antica del viaggio è dunque la costrizione (ma questo vale in linea molto generale: perché poi, in verità, troviamo un sacco di eccezioni che confermano la regola, da Eudosso ad Alessandro, da Erodoto a Pausania). Assistiamo per il viaggio alla stessa evoluzione e trasformazione di significato che si verifica per quanto concerne il lavoro: ciò che dagli antichi era considerato una punizione o una maledizione verrà interpretato dai moderni come uno strumento di emancipazione. L’uno e l’altro in effetti costituiscono fattori di rottura rispetto alla staticità, alla necessità naturale o sociale; con la differenza che il lavoro sarà sempre più finalizzato ad uno scopo, fino a diventare esso stesso lo scopo, mentre il viaggio si definirà col tempo come scelta volontaristica, non soggetta a scopi utilitari.

La connessione tra viaggio e libertà che diverrà tipica del mondo moderno ha una lunga gestazione nel periodo medioevale. Nel Medio Evo i “liberi” sono liberi innanzitutto di muoversi, mentre i servi sono legati alla terra o ad una residenza fissa. Lo stesso vincolo esisteva nel rapporto di schiavitù antica, ma in un contesto diverso, perché allo schiavo non era riconosciuta la piena dignità umana. Almeno in teoria il cristianesimo la garantisce invece a tutti, e lascia aperta la possibilità di conquistarla. Staccarsi, anche fisicamente, dalla propria condizione, è la strada: e il distacco passa attraverso la partenza.

Il viaggio medioevale è vissuto dunque innanzitutto come processo di purificazione, che si realizza attraverso la sofferenza; ma è una sofferenza cercata, e soprattutto è una espiazione non fine a se stessa, o legata all’arbitrio dei numi, ma finalizzata ad un riscatto. Le penitenze itineranti, che in un primo momento erano imposte dalle autorità religiose per allontanare dalla comunità l’esempio negativo del peccatore, diventano col passar del tempo sempre più espiazioni autoinflitte: il pellegrinaggio passa dal marchio di infamia a quello di santità. Allo stesso modo, mentre nell’epica antica i protagonisti dei viaggi subiscono i rischi, in quella medioevale li cercano (i cavalieri della Tavola Rotonda), inseguono l’ignoto e l’avventura.

 

Per poter leggere il viaggio nei termini di una scelta totalmente autonoma e almeno in apparenza non finalizzata dobbiamo comunque risalire a tempi molto più recenti: questo tipo di percezione appartiene alla modernità. Solo nell’età moderna, o meglio ancora, nell’occidente moderno, in teoria chiunque può scegliere di spostarsi a suo piacimento. All’atto pratico poi la scelta continua ad essere un privilegio di pochi, ed è indubbio che le più recenti forme di nomadismo, quelle economicamente e politicamente indotte dalla globalizzazione, ripetono su una scala ingigantita le vicende degli esodi e delle migrazioni tradizionali, così che la massa dei viaggiatori per costrizione, nella quale andrebbero compresi anche i forzati del turismo, rimane numericamente ben più consistente di quella dei viaggiatori per scelta. Tuttavia è innegabile che una differenza sostanziale rispetto al passato si pone: nel mondo antico, e ancora in quello medioevale, il viaggio rappresentava per tutti, eroi, esuli, migranti o pellegrini, una via di fuga dalla precarietà (spirituale o materiale), mentre in quello moderno è per molti fuga dalla sicurezza.

In occidente l’accezione più comune (o almeno, la più suffragata dalla letteratura) dell’esperienza del viaggio negli ultimi tre o quattro secoli è quella di un rifiuto delle garanzie e delle comodità offerte dalla “civiltà” per tornare in ad assaporare il gusto di “misurarsi” con la vita. Il viaggio diventa una sorta di fuga dalla rispettabilità, dalla pulizia, dalla legge, dai comportamenti appropriati – soprattutto in campo sessuale. Quanto più va consolidandosi un ordine stanziale, e trionfano l’urbanizzazione, il modo di produzione industriale e il modello di vita che ne consegue, tanto più la partenza diventa concretizzazione di una scelta, anziché risposta ad una necessità: scelta di sottrarsi, per periodi più o meno lunghi, a volte per sempre, alla routine sociale e familiare, alla consuetudine culturale e lavorativa. E questo vale per il Grand Tour iniziatico dei giovani rampolli inglesi come per le spedizioni esplorative, da Cook a Humboldt, per le intraprese militari e commerciali come per le missioni religiose: quale che sia la motivazione ufficiale, dietro c’è sempre un “disagio”, le cui componenti sono tanto naturali (l’istinto nomade) quanto culturali (la sensibilità ad una pressione, ad una omologazione che cresce con il consolidarsi dell’identità del gruppo, e di conseguenza la curiosità per esperienze “esterne”, meno “avvolgenti” e più coinvolgenti).

Nella concezione moderna l’intreccio tra viaggio e libertà riflette dunque l’anelito ad una generica libertà attiva di “intrapresa”, ma anche quello al disimpegno individuale, alla rottura dei legami sociali. La società “organica” che caratterizzava il mondo classico e medioevale, nella quale ciascuno aveva senso solo in funzione del “tutto” di cui faceva parte, si è dissolta tra il XV e il XVI secolo con il crollo dell’istituto imperiale e con la lacerazione dell’identità religiosa cristiana; il civis e il credente hanno lasciato il posto all’individuo, i vincoli di appartenenza alla cultura del diritto: e questo cambia radicalmente l’accezione dell’idea di libertà. Mentre per gli antichi la libertà, proprio perché condizione riservata a pochi, comportava il diritto-dovere a partecipare, nel mondo moderno, che l’ha estesa idealmente a tutti, diventa invece un guscio protettivo, il terreno di salvaguardia dell’individualità nei confronti dell’organizzazione. E mentre l’organicità, considerata come vincolo naturale o divino, non contemplava la possibilità di esistenze autonome, separate, l’organizzazione, che ha una origine umana e convenzionale, può anche essere rifiutata, o cambiata.

Il viaggio è in ogni caso, per gli antichi come per i moderni, introduzione o conoscenza della novità: ma se per questi ultimi la ricerca del nuovo appare quasi un imperativo, e oltre un certo livello diviene fine a se stessa, in fondo gli antichi cercavano nel nuovo soprattutto la continuità col conosciuto, o quanto meno la rispondenza con l’immaginato.

La novità e la diversità determinano sempre una reazione identitaria, ma sono percepite, e di conseguenza agiscono, in maniera differente a seconda della condizione dalla quale le si coglie: inducono all’arroccamento difensivo su una appartenenza quando vengono subite da una posizione di debolezza, oppure all’assunzione critica, nel senso di una messa in discussione della propria identità, di spoliazione dal pregiudizio, quando possono essere vagliate da una posizione di forza. Per mezzo del viaggio, attraverso il confronto con la differenza, matura in genere una coscienza inedita dell’identità del gruppo: ma al tempo stesso, soprattutto quando il confronto è impostato su una presunzione di superiorità, si creano anche le condizioni per “riformare” questa identità, rendendola duttile e provvisoria. Lo spostamento e l’interazione sono quindi motori tanto dell’evoluzione biologica (si mescolano geni di gruppi diversi) quanto di quella culturale. Anche questo vale per tutte le epoche, ma è decisamente più evidente per l’Europa degli albori della modernità, all’epoca dei viaggi di scoperta: conoscere i costumi altrui costringe a meditare sui propri, a scegliere ciò che di fondamentale si intende proporre agli altri o si ritiene necessario salvaguardare di contro agli altri; si definiscono i colori della bandiera sotto la quale si combatte, anzi, si adotta la bandiera unica della civiltà “occidentale”, a dispetto dei tanti stendardi dinastici o nazionali che sopravvivono. Ma la selezione di questi valori si attua attraverso il vaglio profano della critica, reso possibile proprio dalla conoscenza e dal confronto con nuovi modelli: la scelta implica pertanto già di per sé una dissacrazione.

 

La nuova concezione del viaggio è infine strettamente legata alla diversa coscienza del tempo che caratterizza appunto la modernità, alla percezione di una velocizzazione degli eventi, della caduta di quelli che erano i cardini strutturali sui quali si reggeva la concezione del mondo, scientifici, politici, religiosi, ecc, e quindi alla necessità di riempire il tempo il più possibile di incontri, di esperienze multiple e diverse, che possono avvenire solo dilatando gli spazi. È come se la contrazione del tempo nel movimento spaziale (che a sua volta è invece una dilatazione), la velocità con cui si percorre lo spazio, potesse idealmente annullare il tempo stesso. Il viaggio è in fondo un modo per non invecchiare. Idealmente, viaggiando ad una certa velocità si potrebbe fermare il tempo. In realtà, l’esito combinato della dilatazione degli spazi e della contrazione dei tempi risulta del tutto opposto: mentre il percorso della civiltà sembra andare in una direzione entropica, che dovrebbe eliminare non solo la necessità, ma anche ogni stimolo culturale al viaggio (se tutto è disponibile allo stesso modo dovunque, non c’è più alcun bisogno di spostarsi, e non ha senso) il paradosso è invece che ci si sposta moltissimo, ma la globalizzazione ha unificato gli spazi, quindi si è sempre fermi.

Naturalmente rimangono, anzi, a questo punto prevalgono quelle motivazioni economiche, religiose e politico cui accennavo sopra come esito della trasformazione di un impulso in una scelta cosciente. Ma questa è la materia di cui trattano le pagine a seguire.

Devo precisare infatti che l’oggetto del presente saggio non è una storia dei viaggi, anche se questi ultimi vi hanno una parte considerevole e costituiscono il tema di partenza. È piuttosto uno studio sulle conseguenze che alcuni viaggi, quelli di scoperta che si moltiplicano tra il XV e il XIX secolo e che portano al riconoscimento di tutto il globo terrestre, hanno avuto per i popoli che li hanno promossi e compiuti e per quelli che li hanno subiti. Per i soggetti e per gli oggetti della scoperta. È la cronaca di un incontro con la diversità, del suo rifiuto, della sua negazione e da ultimo della sua apparente riscossa: e vorrebbe anche essere un modesto contributo alla comprensione del perché, a più di cinque secoli dal suo verificarsi, questo incontro continui ad essere piuttosto uno scontro, una contrapposizione, che neppure l’anestetico della globalizzazione riesce a rendere meno acuto e doloroso.

[1] Va interpretato in questo senso quanto scrive Camus, che sembrerebbe andare invece in direzione opposta: “Ciò che dà valore al viaggio è la paura. È il fatto che ad un certo momento … Siamo colti da una paura vaga e dal desiderio di tornare indietro”. Il viaggio consente il confronto e insegna appunto a vincere questa paura, anche quando siamo privati dello scudo di ciò che ci è familiare e conosciuto. (Camus, Carnets, Gallimard 1962)