di Paolo Repetto, 2002
Quando si parla di una via alla conoscenza, o del cammino verso il sapere, non si ricorre soltanto ad una metafora. Si esplicita visivamente un convincimento radicato, quello che associa il percorso mentale al movimento nello spazio. Prendiamo ad esempio il racconto dantesco dell’ultimo viaggio di Ulisse: vi è riassunta tutta la condizione di ambiguità congenita al cammino del pensiero, la miscela di grandezza e dannazione che lo caratterizza, e questa condizione viene esemplificata attraverso uno spostamento concreto, materiale. Di norma è proprio così che ci rappresentiamo il conoscere: dal momento che solo dello spazio abbiamo una percezione sensoriale, iscriviamo visivamente in esso le geografie delle possibilità e dei limiti umani. Consideriamo lo spazio come il mezzo da attraversare per approssimarci alla verità, e al tempo stesso come la distanza che ce la nega. Per muovere verso la conoscenza riteniamo dunque necessario sradicarci, svincolarci dai legami prossimi o remoti, incontrare genti e luoghi e idee e costumi sempre nuovi: e lo facciamo fingendo di ignorare che da questi incontri trarremo per lo più la coscienza di quanto poco ci è stato dato rispetto al molto che non abbiamo avuto e non avremo. La parabola marinara di Ulisse, quella aviatoria di Icaro, la corsa disperata per montagne e per valli del vecchierello leopardiano, raccontano la stessa cosa: conoscere equivale per noi a viaggiare, il viaggio è assieme anelito e costrizione, ma la meta è il fondo dell’abisso, il Maelstrom orrido e immenso ove precipitando si oblia il tutto. Oppure, se siamo di costituzione più ottimista, il mare nel quale è dolce naufragare.
Posso capire i lettori/viaggiatori che a questo punto hanno cominciato a toccarsi o mi hanno già mandato a stendere, ma voglio rassicurarli: non è mia intenzione rovinare loro il piacere genuino, l’emozione pura e immediata che il viaggio procura, né sindacare sulle loro scelte esistenziali (che sono poi anche le mie). Semplicemente, fermo restando che sull’approdo finale non ci piove, quello è e rimane, credo valga la pena riflettere su quanto dicevo sopra, di cui più o meno siamo convinti tutti: ovvero sull’identificazione della conoscenza con il movimento nello spazio.
È evidente che tra il viaggio e la conoscenza, al di là di ogni metafora, il rapporto c’è, ed è profondo: ma mi sembra opportuno ricordare che quella che scaturisce dal viaggio è una forma di conoscenza particolare, non solo per le esperienze che ne sono oggetto, ma per le modalità e la disposizione con le quali la si acquisisce. Il che può sembrare ovvio ma, almeno a giudicare dalla letteratura di viaggio di cui mi occupo da una vita e dai resoconti che leggo o ascolto quotidianamente, non lo è affatto.
Vediamo perché. Lo faccio partendo da una considerazione d’ordine più generale, molto terra terra, ma imprescindibile: noi cerchiamo la conoscenza per sottrarci alla consapevolezza della nostra finitudine. Da quando come sapiens, o forse prima ancora, non ci riconosciamo più nella ciclicità naturale, siamo impegnati a distrarre in ogni modo una coscienza che non è più in sintonia con la ripetitività del consueto. In una prospettiva del genere, evidentemente, nulla vale meglio del viaggio. Questo spiega perché lo spostamento fisico (ma anche mentale: ci sta anche il viaggiare sulle carte), sia considerato condizione necessaria e spesso sufficiente del conoscere, e come ciò abbia ha finito per “orientare” e determinare da sempre i modelli conoscitivi. Dovremmo quindi chiederci quali sono in sostanza questi modelli, e magari domandarci anche se dalla realtà attuale del viaggio possano ancora scaturire elementi di conoscenza con essi compatibili.
Per farlo torniamo alla metafora dell’itinerario spaziale alla conoscenza, che è poi tout court la metafora della condizione umana dopo l’incresciosa faccenda della mela e della conseguente cacciata dall’Eden. (la prendo un po’ larga, ma questo dovrebbe alla fine facilitare la comprensione di ciò che vorrei dire). Parlo della mela perché la vicenda sta in pratica all’origine di tutte le mitologie, ed è raccontata in termini pressoché simili in ogni angolo del globo. Cosa perfettamente naturale, perché l’aspirazione ad un “ ritorno” alla conoscenza nasce ovunque dalla consapevolezza di un distacco. Insomma, dal momento in cui l’uomo si accorge che qualcosa non quadra, che il suo tempo è determinato mentre quello del mondo non lo è, quel rapporto che in origine era immediato, in quanto il mondo era partecipato dall’interno, diventa necessariamente mediato: e la mediazione si traduce immediatamente in un giudizio. Per attingere quella che Platone chiama l’epistéme, una conoscenza certa delle cause e degli effetti, ci si pone di fronte al mondo e lo si legge attraverso il ragionamento (la diànoia platonica) o attraverso una intuizione intellettuale (la nòesis): l’una e l’altra modalità appartengono comunque ad un soggetto conoscente separato, che non partecipa, ma valuta. Dopo il distacco (l’uscita, la cacciata, quel che volete) il mondo è diventato per l’uomo un “altro da sé”, e non gli detta più in automatico le risposte, i modi e i ritmi dell’agire. In buona sostanza, gli uomini non agiscono più per istinto, ma sono chiamati a decidere del loro comportamento: e per farlo devono necessariamente “calcolare”, semplificare e scegliere. A questo mi riferivo parlando di modalità “valutativa” del conoscere: al fatto che, messo nella condizione di dover scegliere, l’uomo adotta un meccanismo binario di opposizioni: terra-cielo, caldo-freddo, destra-sinistra, uomo-donna, dentro-fuori, ecc., e si muove tra queste.
Il sapere, come ogni altro aspetto della vita, evolve per sintesi di opposti, di diversità che si incontrano e si fecondano. Oppure che si escludono, perché anche questa è una scelta. Maggiore comunque è la diversità, la distanza, più numerose sono le possibilità messe in gioco. In questo senso il viaggio, lo spostamento, funge indubbiamente da moltiplicatore di quelle occasioni di incontro e di ibridazione, o di scontro, dalle quali si generano idee nuove; ma esso implica anche l’adozione di un habitus mentale particolare. Un habitus da viaggio, appunto.
Sto parlando di quel tipo di viaggio che ti immerge completamente nella realtà diversa cui vai incontro, ti costringe a confrontarti con essa, a rifiutarla o a venire in qualche modo a patti. Non è quindi questione di durata, o di modalità più o meno spartane dello spostamento: non è detto, ad esempio, che una realtà la si conosca sempre meglio “dal basso”, in situazione di bisogno (era la consolazione cui mi aggrappavo cinquant’anni fa, quando giravo l’Europa senza una lira in tasca): una condizione di dipendenza distorce l’immagine né più né meno che una di privilegio. Allo stesso modo, a volte un incontro fuggevole e occasionale può fornire più elementi di conoscenza che non una permanenza prolungata. Mi riferisco invece al viaggio affrontato, quali che siano le modalità, gli scopi e i tempi, con una attitudine non superficiale. Il che significa portare nello zaino non la macchina fotografica, o non solo quella, ma un’idea del mondo da mettere alla prova. Questo aspetto mi sembra importante: troppo spesso si confonde il viaggiare con bagaglio leggero con un totale disimpegno critico, col lasciare aperto l’otturatore del cervello per uno shopping compulsivo di immagini e di emozioni. Il viaggio di cui parlo non è una corsa all’acquisto, dalla quale si porta a casa in genere solo paccottiglia. È un esercizio di scambio. In questo senso è probabilmente un’esperienza negata al nostro tempo, o comunque addomesticata dalla globalizzazione; ma non è stata frequente neppure in quelli che ci hanno preceduto. Insomma, il primo esempio che mi viene in mente è quello di Gulliver: è quindi chiaro che sto parlando di un idealtipo del viaggio.
L’import-export di idee non è però un’attività semplice. Portare a spasso delle idee significa comunque svellerle dal terreno culturale nel quale sono maturate, potarne le radici, disincrostarle dell’humus originario, alleggerirle insomma sino a renderle trasportabili: e poi adattarle bene o male al gusto e alle misure di coloro coi quali ci si confronta. Il che finisce per non attenere più soltanto al peso, ma incide sulla sostanza. Ogni bagaglio culturale che si esporta o si importa è necessariamente sottoposto ad un processo di standardizzazione, così come accade ad esempio per i cibi, la cui diffusione al di fuori dei luoghi tradizionali di consumo impone l’adeguamento a palati diversamente educati, a situazioni ambientali e a tradizioni alimentari differenti, e comporta quindi l’attenuazione o la perdita dei sapori forti, di tutte le caratteristiche legate alla disponibilità di particolari ingredienti o alla rispondenza a specifici fabbisogni. Si tratta di un processo del tutto normale, che investe ogni forma di interazione e di comunicazione già a partire dai livelli più elementari, anzi, è l’essenza stessa del comunicare: ma ciò non deve farci dimenticare che quando la diluizione di una cultura viene ripetuta infinite volte i suoi valori, le sue proprietà e la sua originalità si riducono a dosi omeopatiche.
Il problema – e che un problema esista basta a dimostrarlo lo stato attuale dell’interscambio culturale, il livello di qualità di quanto viene messo in circolo dalla globalizzazione – non concerne tuttavia solo il bagaglio. Assieme alle idee si trasforma anche il loro portatore: non solo, ma questi trasforma a sua volta lo spazio nel quale si muove. Una volta lontano dai condizionamenti del luogo originario, da una sudditanza parentale o sociale che gli impone riti e limiti di comportamento, accetti o meno che siano, il viaggiatore è libero di riconoscersi in altre identità, ha modo di cogliere la sua singolarità nell’evidenza del contrasto, incontra e sperimenta nuove forme di approccio all’esistente. O almeno, così dovrebbe essere se le differenze ancora esistessero. Cosa che oggi non c’è più: e purtroppo, ad annullarle hanno contribuito anche i viaggiatori.
Sradicarsi non significa infatti solo guadagnare delle opportunità: significa anche perdere in profondità, condannarsi alla superficie: e la forma di conoscenza che ne consegue non può che essere superficiale. Per quanto aperti e motivati, e magari preparati, ci si rapporta comunque agli spazi altri con uno sguardo laico, che ne coglie solo gli aspetti presenti, concreti e manifesti, avulsi da quella profondità storica che conferisce ad ogni luogo una sua sacralità: e quindi li si dissacra e li si apre agli innesti, alle novità e alle trasformazioni. Ogni viaggio, di esplorazione, di colonizzazione, di commercio, ma anche turistico o di studio, è di per sé una profanazione, in quanto introduce un elemento estraneo. Il viaggiatore può anche spogliarsi dei modi e delle convenzioni cui è soggetto nella propria cultura, riconoscersi come diverso, ma non si assimila mai completamente al mondo che incontra, perché non può e perché in realtà non vuole.
In più, dal momento che nessuno può saltare oltre la propria ombra, l’estraneo coglie della diversità solo ciò che è commisurabile con quanto già sa e conosce. Anche quando si trova di fronte a cose completamente nuove, che non hanno riscontro nella sua cultura di provenienza, le legge forzatamente con gli strumenti di cui la sua educazione lo ha attrezzato. Voglio dire che l’ambito nel quale si è in grado di comunicare nella situazione del viaggio è circoscritto: non può essere che quello degli elementi comparabili, delle grandezze e delle quantità, di ciò che è riconducibile a metri unificati e unificanti, siano essi culturali, economici o sociali: tutto il resto, ciò che si nutre attraverso radici che affondano nel tempo, che è radicato dunque, e non trasportabile, resta fuori. (Con questo mi sarò inimicato tutti i fans di Terzani, e non solo loro, ma non posso farci nulla: ho grossi limiti caratteriali, stento a convivere con la mia di cultura, figuriamoci se ho la presunzione di comprendere quella altrui. Di rispettarla, invece, si.)
Il fatto che solo ciò che sta in superficie possa essere messo in circolo, diventi oggetto e tramite della comunicazione, modifica necessariamente anche le scale di valori dell’interlocutore indigeno, il rapporto di quest’ultimo col suo stesso mondo. In sostanza il riconoscimento reciproco tra il viaggiatore e l’ambiente nel quale questi si muove presuppone una semplificazione: l’uno e l’altro adottano un codice che rende possibile l’incontro, ma a prezzo di un impoverimento stravolgente rispetto alla profondità e complessità di entrambe le culture in gioco. È un dato di fatto abbastanza ovvio, perché senza la riduzione ad un denominatore comune l’incontro non ci sarebbe, ma non posiamo ignorarne le conseguenze rispetto al tipo di conoscenza che induce. In una situazione del genere, nella quale la disposizione conoscitiva del viaggiatore, e per induzione quella di chi lo incontra, è per forza di cose comparativa, la percezione delle differenze avviene in forma classificatoria, valutativa, a dispetto o forse proprio in ragione di ogni buon proposito di obiettività, ed è già intesa alla sintesi e alla composizione, o al rifiuto, quindi al loro annullamento. Il che significa che questo atteggiamento contempla il dubbio, la presenza di diverse possibilità e soluzioni, ma solo come sfida, e lo tollera solo in funzione del suo superamento, di una superiore ricomposizione nella certezza.
Questo atteggiamento noi lo chiamiamo razionalità.
Ora, la razionalità è una forma della comunicazione, che si traduce in una modalità di conoscenza (o viceversa: è come per l’uovo e la gallina): ma è per l’appunto un modo, una forma. Il problema è che ha finito per essere confusa con la sostanza, per cui ormai si identifica il sapere con una delle sue possibili vie. Indagare il come e il perché ciò sia avvenuto va ben oltre gli intenti di queste righe (e le capacità del loro estensore), quindi non preoccupatevi. È tuttavia legato al nostro discorso. Mi limito a constatare che in origine l’opzione razionalistica è connessa all’affermarsi di una economia agricola stanziale, in contrapposizione a quella nomade-pastorale, e che questo non è un paradosso (anche se parrebbe più logico il contrario) perché il modo di produzione agricolo comporta alla lunga il prevalere della necessità dello scambio rispetto a quella del confronto, e quindi il ricorso alla mediazione. Ma mediare non significa accettare la differenza: implica anzi il superarla, quindi annullarla. Di conseguenza questa scelta, comunque la voglia considerare, cioè come propria della cultura occidentale e da questa imposta al resto dell’umanità, oppure intrinseca ad un necessario processo di civilizzazione, ha uniformato progressivamente, se non le capacità di risposta, almeno le aspettative e i bisogni, cioè i presupposti di ogni cultura: e proprio qui, saltando parecchi ulteriori passaggi, volevo arrivare.
Volevo arrivare a costatare come la “razionalizzazione” del mondo (della quale la globalizzazione è figlia, ma solo una delle tante) ha in buona misura reso nulla la portata conoscitiva dello spostamento, del viaggio. Lo sperimentiamo tutti. In un mondo equalizzato si finisce per incontrare dovunque lo stesso brodino culturale del quale oggi siamo nutriti, insaporito magari dagli aromi del folclore locale, ma identico negli ingredienti e nella sostanza. E il meticciato che consegue da questi incontri non risulta ormai più fecondo di alternative, di direzioni e di scelte, ma solo di mode effimere e false vie di fuga. Di fatto dunque, prescindendo da ogni giudizio di valore sul mondo razionalizzato e sulla conoscenza che ne abbiamo, possiamo constatarne una deriva suicida: sono state azzerate anche le possibilità di un confronto su schemi semplificati, è stato azzerato cioè il confronto tout court.
Probabilmente sarei stato molto più chiaro e vi avrei risparmiato tutto questo mappazzone ricorrendo ad un paio di esempi: ma forse non è troppo tardi (spero), anzi, giocati adesso possono risultare più illuminanti. Ho ascoltato proprio recentemente due versioni dello stesso viaggio in un paese dell’Estremo Oriente. Nel primo caso l’amica è tornata entusiasta dello stile di vita sobrio e dignitoso della popolazione, della sua resistenza al consumismo. Nel secondo l’amico, che aveva viaggiato al suo fianco per quasi tre settimane, raccontava di sperequazioni economiche e sociali intollerabili, di una povertà dalla quale tutti aspirano a fuggire, magari emigrando verso la Cina, il che è tutto dire, e del loro sogno ultimo che rimane l’Occidente. Ora, questo mi pare un esempio evidente che anche nel viaggio, come in montagna o in un rapporto sentimentale, ciascuno trova in definitiva solo quello che ci porta, ma soprattutto mi sembra testimoniare che la realtà con la quale ci si confronta è ormai talmente contaminata da non consentire un vero scambio, ma solo la ricerca di conferme a ciò di cui si era già intimamente convinti.
Dopodiché, il valore intrinseco di un viaggio, se si ha l’accortezza di non caricarlo di troppe aspettative “sapienziali”, naturalmente rimane: solo, è sempre più relativo ad un altro tipo di confronto, quello con se stessi: che non è poco, ma è cosa ben diversa da quanto da un viaggio un tempo ci si attendeva.
Vorrei ora considerare se esistano altre opzioni conoscitive, altri modi di “viaggiare”, capaci di offrirci una percezione diversa dell’esistente. Beninteso, non mi sto riferendo al ciarpame esoterico messo sul mercato dalla new age, ai misticismi da salotto, alle esperienze sciamaniche o allucinatorie, alle versioni patinate della saggezza orientale. Il discorso vuole essere un po’ più serio, e concerne la direzione del movimento a conoscere e il tipo di conoscenza che questa direzione consente. Se, ad esempio, invece di muoverci orizzontalmente, nello spazio, proviamo a rapportarci all’altra dimensione, quella verticale lungo la quale scorre il tempo, le prospettive di conoscenza cambiano radicalmente. In questo caso non siamo noi a tracciare le linee. Noi possiamo percorrere gli spazi, chiuderli o dilatarli, tendiamo oggi persino ad annullarli: ma rispetto al tempo non ci è consentita alcuna domesticazione. Dobbiamo subirne il movimento, e rinunciare a qualsivoglia certezza. Nel tempo, e del tempo, non è data conoscenza razionale, a dispetto di tutto lo strumentario tecnologico col quale ci illudiamo di imbrigliarlo: perché in esso le possibilità non si ricompongono, ma si aprono e si moltiplicano incessantemente, e non è consentito enumerarle, confrontarle, annullarle nella sintesi. Questo non significa che non sia data conoscenza alcuna: significa solo che per conoscere nel tempo è necessario piegarsi alla sua direzione, scendere cioè in profondità, e accettare di convivere con l’infinito ventaglio di opzioni che ogni attimo ha rappresentato e rappresenta: in altre parole col dubbio come condizione esistenziale e conoscitiva.
Provo a tradurre questa formulazione generica in percorsi concreti. Muoversi nel tempo può significare, ad esempio, ricostruire al di fuori degli schemi obbligati del dato di fatto, gli itinerari che ci hanno portati ad essere quelli che siamo; e quindi scendere all’indietro nella memoria, personale o collettiva, per indagare quali strade si siano presentate, quali sono state scartate e perché, e se non sia ancora possibile recuperarne alcune, e se questo recupero non possa essere la risposta a domande che, nella condizione attuale, rimangono sempre inevase. Non dunque un’operazione di antiquariato culturale, snobistico e fine a se stesso, e neppure un pasticcio di contaminazione postmoderna, che implica comunque la neutralizzazione dei valori di ciò che viene recuperato, o il suo uso solo ornamentale. L’indagine deve muovere da un approccio ben diversamente motivato, dalla disponibilità a rimettersi in gioco e a cercare in un confronto col tempo quelle potenzialità alternative che lo spazio ormai ha esaurite.
Vale a dire? Beh, ad esempio, l’espressione artistica è in grado di offrirci delle metafore adeguate di questa modalità di conoscenza: ci sono casi in cui riesce a sottrarsi all’orizzontalità del confronto spaziale e fissa in istantanee le terga del tempo, magari raccogliendo gli scarti che questi lascia lungo il cammino. I risultati non di rado sono discutibili (mi riferisco ad esempio all’arte povera), ma è apprezzabile l’intento di esplorare una dimensione che al contrario di quella spaziale vede permanere e anzi allargarsi le macchie bianche. E comunque, l’arte coglie lo spirito di questa immersione allorché si ferma a riflettere perplessa sulla propria capacità di “comprendere” letteralmente il mondo, sul “questo, e perché non quello?”.
Oppure, si possono fare viaggi bellissimi riprendendo in mano testi di duemilacinquecento anni fa: si scoprirà, tanto per fare un altro esempio, che il reddito di cittadinanza non lo hanno inventato i nostri politici d’assalto, ma il buon Pericle, e che anziché garantire la democrazia (quella ateniese, per carità, tutt’altro che perfetta) l’ha mandata a picco. La storia non si ripete, ma spesso fa rima, e varrebbe la pena ricominciare a imparare a memoria un po’ di poesie.
Insomma, forse è il caso di rivedere un po’ il convincimento da cui si erano prese le mosse, che cioè il correre, il muoversi per il mondo, sia sempre meglio dello stare, e il discorrere, il mettersi a confronto, sia preferibile al tacere e al meditare. Può essere vero, in tanti casi, ma non lo è certamente in assoluto. È discutibile infatti che veder crescere un albero conferisca un sapere meno profondo dell’aver visto molti alberi diversi. Conferisce senz’altro un sapere diverso, meno spendibile sul piano dell’autoaffermazione, ma assai più pregiato sulla via dell’autocoscienza.
Se si considera questa possibilità, di tramutare il desiderio per le cose dello spazio in desiderio per le cose del tempo, le prospettive di conoscenza cambiano radicalmente. Intanto ci si può rendere conto del fatto che di norma per metà del cammino non facciamo che tornare sui nostri passi e che in verità conosciamo bene solo ciò da cui fuggiamo e non ciò che cerchiamo (non lo dico io, lo diceva Montaigne), e quindi più che annullare distanze le creiamo, le inframmettiamo tra noi e ciò di cui davvero ci importa, e che costituisce il metro, positivo o negativo, al quale commisuriamo ogni conoscenza. Si può scoprire che se pure è lo spazio il mezzo di cui abbiamo percezione, possiamo attraversarlo solo nel tempo, ed è il tempo il nostro orizzonte.
In un romanzo di Chesterton un tizio parte dall’Inghilterra per i Mari del sud, sbaglia rotta e dopo aver circumnavigato il globo finisce nuovamente sulle coste inglesi. È convinto di aver scoperto una nuova isola, tra l’altro commette adulterio con sua moglie, e solo alla fine si rende conto di essere andato alla ricerca di ciò che già aveva. Forse è questo il vero senso del viaggio.
Come scrive un contemporaneo e quasi connazionale di Chesterton, T.S. Eliot:
Noi non cesseremo di esplorare,
e fine di ogni nostra esplorazione
sarà arrivare là donde partimmo,
e conoscere il luogo per la prima volta.