Sterminate i nativi digitali!

di Paolo Repetto, gennaio 2018, da sguardistorti n. 01 – gennaio 2018

Mentre assaporo la prima tazza di caffè bollente, quella che permette di affrontare la giornata e darle un senso, arriva dal teleschermo uno di quegli squarci che ti fanno andare di traverso tutto, il caffè e la giornata. “Non si deve aver paura dei giovani. Non sono un problema. I giovani sono una risorsa.”

Avevo dimenticato di spegnere il televisore dopo il meteo di Paolo Sottocorona (non che mi interessino le previsioni, faccio prima a uscire sul terrazzo e guardare per aria, ma mi è simpatico lui), che ho seguito mentre la caffettiera gorgogliava, e ora mi becco a tradimento il primo dibattito quotidiano con i soliti cinque o sei esperti che cianciano del nulla. Il fatto che non me ne sia accorto la dice lunga sul mio stato di semi-incoscienza e sul livello d’interesse della trasmissione: ma certe frasi fanno scattare una reazione istintiva, un sensore, come sembra accadere per termini sospetti nei sistemi sofisticati di intercettazione. “Sono una risorsa”. Che cavolo vuol dire? Si può sparare in pubblico un’idiozia di questo genere alle sette del mattino, ed essersi quindi alzati presumibilmente alle sei, o anche prima, per farlo?

Eppure è un ritornello che torna ossessivo, cantato da destra e da sinistra, di qualsiasi argomento si stia trattando. Per quanta attenzione uno metta nello schivare gli imbecilli ci si imbatte comunque. È un concentrato micidiale di banalità: fosse energia, saremmo a rischio di un nuovo Big Bang. Non si può neppure parlare di ipocrisia, perché l’ipocrisia è un esercizio che richiede un minimo di base concreta. Qui invece in una proposizione semplicissima costituita da tre termini (di cui uno è la copula, e potrebbe essere benissimo sostituito dal simbolo dell’uguale) sono insensati sia il soggetto che il predicato. Il risultato è il nulla all’ennesima potenza.

Non varrebbe nemmeno la pena parlarne, va a fare mucchio con le vagonate di frasi fatte di cui si nutre la società del dibattito: ma col caffè di traverso non riesco ad affrontare serenamente la giornata, devo liberarmene. Faccio dunque un po’ di esercizio sul nulla.

Per cominciare, i giovani non esistono. Metternich direbbe che sono solo una convenzione anagrafica, neppure una condizione, perché l’età nella quale si è giovani varia a seconda delle culture e delle epoche. Nella generazione di mio nonno i sedicenni si guadagnavano la zuppa da un pezzo: oggi, se a criterio per l’inclusione nella categoria ulteriore assumiamo quello della indipendenza economica, un sacco di quarantenni sarebbero da considerare giovanissimi. La gioventù poi non è nemmeno un’età mentale, né in negativo, perché l’irresponsabilità non è una prerogativa dei minorenni, né in positivo, perché coloro che smettono di sognare o mandano in pensione il cervello a quindici anni sono una fetta più che significativa. Insomma, inutile giraci attorno: i giovani non costituiscono una categoria antropologica separata, non sono identificabili per qualche particolare caratteristica se non per l’aspettativa statistica di vita (droghe e balconing permettendo). E anche biologicamente non fanno specie a sé, sono interfecondi. Per cui, se qualcuno vi tira in ballo “i giovani” chiedetegli immediatamente chi fa rientrare in quella definizione: lo spiazzerete ed eviterete di perdere altro tempo.

I giovani esistono solo se intesi (molto vagamente) come classe sociale. Anche questa però è un’invenzione recente, che non risale oltre Rousseau. Anzi, a dispetto di tutte le anticipazioni romantiche (c’è ad esempio tra i romantici un vero e proprio culto di Thomas Chatterton, morto suicida a diciott’anni e riscoperto da Shelley, da Wordsworth, da Kests e da Coleridge) fino ai primi del Novecento l’idea che la giovinezza potesse essere considerata come una età a sé stante della vita, con problemi ed esigenze specifiche che chiedevano specifiche risposte, aveva ancora una circolazione clandestina. Poi qualcosa si muove. Libri come Peter Pan, Il mago di Oz e I ragazzi della via Pàl, pubblicati tutti nel primo decennio del ventesimo secolo, che parlano di ragazzi che escono dal guscio familiare o si organizzano autonomamente, sono sintomatici. Ma nello stesso periodo scatta anche immediata e subdola la reazione: le energie espresse da questa nuova autocoscienza adolescenziale vanno disciplinate, incanalandole in movimenti che possano essere tenuti sotto controllo e all’occorrenza strumentalizzati. I Rimbaud sono pericolosi. Allo scoppio della prima guerra mondiale boyscout e wandervogel tedeschi, ma anche i futuristi nostrani, corrono invece ad arruolarsi entusiasti.

Nel periodo tra le due guerre il concetto di una “condizione giovanile” che accomuna tutta una fascia d’età e alla quale spetta il compito di costruire un mondo nuovo viene enfatizzata e istituzionalizzata soprattutto dai regimi totalitari. È il periodo di “Giovinezza, giovinezza”, dei balilla e della gioventù hitleriana, del Komsomol sovietico, ed è in questi contesti che la gioventù acquisisce per la prima volta lo status di “valore in sé”. Ma si tratta di un “valore” definito e attribuito dall’alto.

Solo nel secondo dopoguerra questo riconoscimento si traduce in una “cultura giovanile” apparentemente autonoma (capace cioè di esprimere dall’interno i suoi codici, la sue finalità e le sue regole). Nella realtà, però, dietro il ribellismo e la presunta autocoscienza giovanile si compie la fase finale della domesticazione.

Mi spiego. Nel Novecento in sostanza arriva a compimento un processo avviato cento anni prima: la rivoluzione industriale ha cambiato completamente gli assetti e i rapporti economici interni alla famiglia. Dalla totale dipendenza nella quale vivevano entro la cultura patriarcale contadina i ragazzi sono passati ad una relativa emancipazione, o perché il lavoro esterno consente loro l’indipendenza economica, o perché lo studio ne fa dei potenziali strumenti di riscatto sociale per la famiglia, e quindi non forza lavoro da sfruttare ma investimenti da tutelare. Ciò spiega la maggiore attenzione che i giovani possono riservare ai loro sogni, e la voglia di rivendicarli. Ma sia in un caso che nell’altro essi diventano anche e soprattutto soggetti economici: non sono solo produttori, ma potenziali consumatori. L’emancipazione arriva dunque dall’esterno, ed è tutt’altro che disinteressata. Come scrive Jon Savage ne “L’invenzione dei giovani” (Feltrinelli 2009): “Nel 1944 gli americani cominciarono a utilizzare il termine “teenager” per designare la categoria di giovani che andava dai quattordici ai diciotto anni. Fin da subito si trattò di un termine specifico del marketing, usato da pubblicitari e produttori, che rispecchiava la nuova tangibile capacità di spesa degli adolescenti. Il fatto che per la prima volta i giovani fossero diventati un target significava anche che erano diventati un gruppo anagrafico distinto, con rituali, diritti ed esigenze propri”.

Si chiude così quel cerchio aperto proprio da Rousseau, che nell’Emilio predicava un’educazione “capace di favorire lo sviluppo spontaneo e libero del giovane”, ma giungeva poi a questa conclusione: “… non deve voler fare altro che quel che vogliamo che faccia: non deve muovere un passo senza che noi l’abbiamo previsto: né aprir bocca senza che noi sappiamo quel che egli sarà per dire”.

Ecco cos’è accaduto: i giovani sono diventati un target. Un target innanzitutto economico, ma in seconda battuta, e in correlazione, anche politico. Industrializzazione e riarmo ne hanno fatto nei primi del Novecento dei soggetti privilegiati di interesse sociale. Ora vanno a costituire la fascia alla quale faranno sempre più appello non solo i pubblicitari ma anche gli aspiranti dittatori, i populisti, i nuovi redentori del mondo.

E allora, “Non bisogna averne paura”? Certo non più di quanta bisogna averne di tantissime altre categorie, in pratica della stragrande maggioranza degli umani, di ogni genere, razza o età. Perché è degli idioti che bisogna avere paura, e la percentuale degli idioti tra i giovani è uguale a quella tra gli anziani: anche se magari non sembra, perché i primi fanno più casino, hanno meno malizia e si notano di più. Quindi, si, bisogna averne paura se sono stupidi, mentre non è il caso se sono solo giovani. Un po’ di margine all’inesperienza bisogna concederlo, anche se dubito che l’esperienza possa trasformare un idiota in una persona saggia. Di norma è quel che facciamo: infatti di un giovane idiota diciamo è un giovane, mentre di un vecchio idiota diciamo che è un idiota.

Si capisce allora perché “I giovani non sono un problema”. E vorrei vedere che lo fossero. Come lo affronteremmo? Abolendoli, o aspettando che crescano? Come si può essere un problema per il fatto di essere giovani? Si diventa un problema quando si hanno comportamenti stupidi o si dicono cose stupide, come chi ha pronunciato questa fesseria alle sette del mattino (era tra l’altro una tizia piuttosto giovane). Ma questo evidentemente non ha a che fare con l’età. Anzi, a dire stupidaggini del genere sono piuttosto gli anziani, e comunque tutti coloro che associano i predicati alle categorie, anziché alle persone.

Il che ci porta direttamente alle risorse. Cosa significa dire che “i giovani sono una risorsa”? Forse si vuol intendere che potrebbero fornire organi sani per i trapianti? O che pagheranno le nostre pensioni? Anche se a volte non sembra, i giovani sono degli esseri umani. Tanti esseri umani, diversi l’uno dall’altro. Considerarli risorse, quindi un qualcosa che può rivelarsi utile per qualcos’altro, mi sembra un po’ riduttivo e degradante. Magari questi esseri umani hanno anche qualche sogno in proprio, immaginano una destinazione diversa della propria esistenza e di essere utili non ce l’hanno neanche per l’anima. Ma ormai, nella visione economicistica che abbiamo abbracciato, tutto è misurato e ricondotto a “risorsa” – per quelli politicamente più corretti, a “opportunità”: i migranti, gli handicappati, gli zingari, i rifiuti, gli anziani (non per l’espianto di organi, ma per le pensioni che ci siamo pagate e che giriamo ai giovani). L’unica risorsa che scarseggia è l’intelligenza, ma con tutte le altre che abbiamo in casa dovremmo cavarcela comunque.

L’ho fatta un po’ lunga, ma me lo dovete concedere. Anche perché, essendo ancora mezzo addormentato quando la botta è arrivata, la mano non è corsa veloce come avrei voluto al telecomando. Ho dovuto accusare quindi anche un accenno ai “nativi digitali”, che non so dove volesse parare ma so per certo che non preludeva a nulla di intelligente. E mi è andata a bene, perché se si fosse arrivati alle fake news, che poi significa balle, sarei finito al pronto soccorso di primo mattino.

Ecco, mi sono sfogato. Ho spento la televisione, ho verificato dalla finestra il cielo e la temperatura esterna e ho caricato una nuova caffettiera. A scanso di sorprese mi rifugio in salotto con la rivista culturale che ho comprato ieri e ancora non ho sfogliato. Apro a caso. “Il cervello diffuso dell’insalata. Il filosofo Coccia: le piante sono a pieno titolo esseri razionali”. Spengo al caffè e cerco la bottiglia della grappa.

Sottocorona, aiutami tu.


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