​ Introduzione a “Collezione di licheni”

di Fabrizio Rinaldi, 9 dicembre 2020

Attribuire un titolo alla mia raccolta di “articoli” (le virgolette sono dovute poiché il termine è – per me – ridondante) è complicato. Il motivo è semplice: gli argomenti trattati sono disomogenei. Mi sono concesso di dire la mia sulla polvere e sui libri, sul vagare per boschi e per monti, sulle nuvole d’acqua e di bit, sul leggere e sullo scrivere, e su altri temi ancora, senza una competenza specifica che non ho e non millanto.
Alla fine il materiale è quindi classificabile come una “collezione” di opinioni personali, a volte in contraddizione fra loro, altre volte unite da un esile filo.
Ma, una “collezione” di cosa? Di “licheni” direi, quelli che attecchiscono sulla nuda roccia, in ambienti inospitali ai quali i più non pongono attenzione perché distratti da altre più evidenti bellezze del creato. Ecco, sento di avere una predilezione per gli sguardi rivolti a “esistenze in sordina”, direbbe Camillo Sbarbaro.
Il tutto forse non sarebbe mai nato se i Viandanti delle Nebbie non esistessero. La nebbia è la condizione climatica costante per chi è in cerca di un po’ di conoscenza, ma penetrarvi con lo spirito del viandante, attento ai segnali minimi che arrivano da ciò che lo circonda, aiuta ad orientarsi e a dare un senso e una direzione al cammino.

Collezione di licheni bottone

In “Un inverno lunghissimo”

di Marcello Furiani, marzo 2018, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Ogni sguardo non ne contiene interamente un altro, ogni dimora non è rifugio per ogni viandante sorpreso dalla tempesta, ogni oggetto si sottrae davanti alla parola che lo nomina. Su questo scarto misuriamo il vivere, la distanza non percorribile che ci separa dalle persone, dai luoghi, dagli oggetti. Noi non siamo nel mondo come enti naturali, ma lo abitiamo, e viviamo drammaticamente lo iato tra ciò che è e ciò che potrebbe essere e ciò che non è stato, lacerati tra il desiderio di ricondurre le cose a una comprensibilità e la coscienza dell’indifferenza innocente delle cose. È l’inverno senza rinascita dell’esilio, dove possiamo trovare, con una fatica priva di pietà, solo la nostra unicità, senza la quale non abbiamo voce né nome, senza la quale la profondità del simbolo è solo la miseria del segno.

L’autentico viandante, nel suo errare spoglio di alcun interesse concreto, dimentica se stesso, il proprio passato, non compiace la nostalgia né asseconda il rimpianto. Abbandona i ricordi in una vena esangue del proprio sanguinare, li custodisce, ma non se ne alimenta; per il suo cuore l’ieri non diventa la gruccia che sostiene il presente.

Non è viandante chi parte per tornare, né chi viaggia per fuggire, lasciando la propria anima nel ricordo di un viso o tra le mura di una casa natale, incapace di spartire il desiderio dalla nostalgia, di relegare il ricordo ai giorni trascorsi. Il tempo del viandante è un presente che basta a se stesso, dove – se il passato vi gettasse le ombre dei suoi colori e i fantasmi dei suoi odori – ieri e oggi si fonderebbero in un unico, struggente, mitico istante che annullerebbe le distanze del suo camminare.

Per ciò nessuno sguardo di donna, disabituando il suo cuore – così come nessun bagaglio pesandogli sulle spalle – lo attende né domani, né mai.

Che nostalgia per la solitudine del viandante!

di Marcello Furiani, da Sottotiro review n. 9, novembre 2002

Non si tratta di glorificare o di stigmatizzare le innumerevoli potenzialità dei mezzi di comunicazione, ma di comprendere il più appieno possibile la trasformazione profonda e verosimilmente irreversibile dell’uomo e della sua vita per effetto di questo potenziamento.

Che l’uomo possa usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura –senza nemmeno sospettare che la natura si trasforma in base alle modalità con cui si declina tecnicamente – è un luogo comune per non dire un abbaglio giustificabile solo qualche decennio fa, quando, sedotti dall’entusiasmo per il futuro prossimo dei nostri mezzi di comunicazione, non era forse agevole supporre il conseguente mutamento antropologico.

L’apparato tecnologico ha il fine di un continuo e indefinito incremento della propria potenza, tra le cui conseguenze dobbiamo contare la riduzione della ragione a procedura strumentale, della verità a efficacia, della politica ad ancella dell’economia e dell’economia a gregario della tecnica, dell’etica – sia quella dell’intenzione inaugurata dal cristianesimo e riproposta da Kant nei termini della “pura ragione”, sia quella della responsabilità introdotta da Max Weber – a ramo secco privato della sua capacità di intervenire e di indirizzare scelte e intenzioni.

L’uomo recupera una propria identità soltanto nel quadro dell’apparato e della funzionalità che in esso svolge, ma nella quale è sempre sostituibile poiché omologato.

Si tratta di prendere atto che si è intrapreso un cammino verso la progressiva de-individualizzazione dei singoli soggetti, che sono destinati a identificarsi alla struttura, vista come l’unico scenario possibile di esistenza e alla funzione che svolgono in essa. E si tratta di avere la consapevolezza che, se la tecnica, intesa come apparato scientifico-tecnologico, da semplice strumento o, addirittura, da qualcosa di neutrale è diventata soggetto (e l’uomo da soggetto a suo funzionario), i concetti antropologici di libertà, individuo, identità e, conseguentemente, di storia, religione, etica e politica vanno se non accantonati rifondati dalle radici.

E in questi termini va considerata la citazione di Bernanos.

Il mondo conquistato dalla tecnica è un mondo perduto per la libertà.
GEORGES BERNANOS,
Ultimi scritti politici

Ignorare o sottovalutare la relazione tra l’uomo e il modo in cui manipola il mondo (alla trasformazione dei mass media segue la trasformazione dell’uomo stesso) significa essere ancora convinti che i mezzi di comunicazione sono solo mezzi, cui è importante assegnare buoni scopi. Ma come non intuire che televisione, radio, cd rom, personal computer ci “formano” di là dagli scopi per cui li impieghiamo?

Il mezzo ci istituisce, al di là dello scopo, come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o attori di un evento. Questa condizione, evidentissima nell’uso della televisione ha valore anche per l’Internet, dove il consumo in comune non vale una reale esperienza comune. La realtà che ci si scambia – al di là dello spropositato ammontare di banalità e di volgarità – non è una realtà condivisa, ma è e rimane una realtà personale.

Gli eremiti si isolano dal mondo per un gesto di rinuncia, gli operatori in questione, eremiti di massa, si isolano per non perdere nemmeno un frammento del mondo in immagine, attraverso un presunto scambio dall’andamento solipsistico.

Come non sospettare una degradazione dell’individualità, una massificazione della razionalità attraverso la produzione dell’uomo massa, per generare il quale non necessitano maree oceaniche, ma oceaniche solitudini, che, come lavoratori a domicilio, producono beni di massa e, come fruitori a domicilio, consumano gli identici beni di massa che altre solitudini hanno prodotto.

Da tutto ciò ne consegue un ribaltamento tra interno ed esterno e, più specificamente, tra interiorità ed esteriorità.

Oggi la famiglia è il luogo in cui è di casa il mondo esterno, reale o fittizio che sia: la casa reale è ridotta a un contenitore per la ricezione del mondo esterno via etere, via cavo, via telefono e quanto più il lontano si avvicina, tanto più il vicino, la realtà di casa, quella famigliare, con i suoi tratti affettivi, si allontana e si scolora. E anche quando sembra ci sia una condivisione questa è fittizia. A differenza della tavola attorno cui ci sedeva facendo scorrere in un movimento continuo sentimenti e interessi, sguardi e parole di cui si nutriva la trama della famiglia, davanti allo schermo la famiglia è raccolta non più in direzione centripeta, ma centrifuga, dove ciascuno, che non è più con l’altro, ma solo accanto all’altro, si isola verso una fuga solitaria e incondivisa se non apparentemente con un milione di solitari del consumo di massa che, contemporaneamente a lui, ma non insieme a lui, guardano lo schermo.

E ciò non dipende dall’uso che facciamo dei mezzi, ma dal fatto che ne facciamo semplicemente uso, per cui non gli scopi per cui sono preposti i mezzi, ma i mezzi come tali trasformano l’immagine in realtà e la realtà in simulacro.

Come non sospettare che se mi porto il mondo a domicilio non faccio esperienza del mondo?

L’universo si riflette per ognuno di noi e si offre a portata di mano quando ciascuno di noi, ridotto a una monade senza porte né finestre che si aprono al mondo, vi accede senza andarvi incontro, senza attraversare lo spazio – anche simbolico – che lo distanzia, essendone dispensato in partenza. Non più il viandante che esplora il mondo, ma il mondo che si offre al sedentario che è al mondo perché non lo percorre e, forse, nemmeno lo abita.

Si ribaltano i termini con cui l’uomo ha sempre fatto esperienza: non è più il mondo a stare e l’uomo a percorrerlo, ma l’uomo sta e il mondo gli gira attorno. Le conseguenze di questa trasformazione copernicana non sono certo trascurabili: se il mondo viene a noi, noi non siamo nel mondo –  come vuole la famosa espressione di Heidegger – ma semplici consumatori del mondo.

Se poi viene a noi solo in forma di immagine, ciò che consumiamo è solo il fantasma, che possiamo, è vero, evocare in qualsiasi momento e tutte le volte che vogliamo, ma questa onnipotenza è fittizia, poiché, se possiamo vedere il mondo senza potergli parlare, siamo dei voyeur condannati all’afasia.

Tutto ciò senza mettere in conto che, se un evento che accade in un luogo determinato può essere trasmesso in qualsiasi luogo del pianeta, quell’evento smarrisce la sua individuazione, che è sempre stato il tratto caratteristico degli eventi.

Se poi per vederlo occorre pagarlo, allora quell’evento – insieme a tutti gli eventi, cioè il mondo- diventa merce.

Se inoltre la sua importanza è subordinata alla sua diffusione attraverso i media, allora l’essere si misurerà sull’apparire.

Senza mettere in conto che se una realtà, reale o fittizia, è, anche solo apparentemente, a portata di mano nella sua totalità e fin troppo trasparente e illusoriamente agevole nella sua presunta comprensibilità, appartiene a una visione della realtà priva di simbolizzazione, che non lascia spazio all’immaginazione e all’intuizione. Tutto ciò quando sappiamo che invece recuperare una dimensione simbolica dell’immagine significa recuperare la propria capacità di intervenire e di misurarsi sui dolori della vita.

 

Un viandante parte in sordina

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998

Gianmaria se n’è andato l’estate scorsa. Come un autentico viandante, schivo di compianti e di commiati, ha raccolto il suo zainetto e in punta di piedi si è incamminato per l’ultimo viaggio. Ha salutato solo i famigliari, preferendo serbare intatta per gli amici l’immagine di un arguto commensale, di un interlocutore tanto intelligente quanto modesto e disponibile. Ha voluto andarsene con la stessa discrezione e dignità con le quali aveva camminato lungo la vita: e, conoscendolo, anche queste poche parole in suo ricordo gli parrebbero di troppo. Ma siamo convinti che in fondo non gli dispiaceranno, perché dettate da un’amicizia e da una stima sincere.

Proprio nello scrivere queste righe ci siamo resi conto che in fondo Gianmaria ha realizzato quello cui ciascuno di noi, più o meno consciamente, aspira: vivere (e quindi anche morire) con stile. Il suo stile era semplice: viveva ogni situazione con ragionevolezza, coerenza, autoironia e positività, nel pensare come nell’agire, e adottava questo atteggiamento come un valore in sé, indipendente da ogni assunto ideologico, politico o confessionale. Si rapportava agli altri per quel che erano, e non per quel che avrebbe voluto che fossero: ma senza per ciò rinunciare a credere che una società di esseri umani può e deve essere migliore di un branco di lupi.

Una scelta di questo tipo prescinde da ogni grande sogno di redenzione, dall’alto o dal basso, terrena o celeste che si voglia: esige il coraggio di prendere atto della realtà e di assumersi nei confronti di quest’ultima una piena responsabilità personale. Significa non ritrarsi di fronte all’idea che la propria vita non sarà riscattata da un premio ultraterreno o iscritta in un superiore disegno storico, e che sta a noi, e solo a noi, riempirla di senso, qui e subito.

Lo “stile” potrebbe anche sembrare un ripiego, un surrogato consolatorio del senso perduto dell’esistere, giustificato dal crollo, attorno a noi, di tutte le impalcature di significato che hanno aiutato l’umanità, bene o male, a crescere. Morto il sacro, tramontate le ideologie, finiti in liquidazione anche i miti del benessere e del successo, lo stile parrebbe essere tutto ciò che ci rimane. In realtà è di più, è ciò cui siamo finalmente liberi di aspirare. Finalmente, perché a dispetto di tutte le apparenze oggi più che in ogni altra epoca è possibile vivere con dignità, senza scendere a continui compromessi con gli altri e con noi stessi, e senza imporre a noi stessi e agli altri alcuna gabbia etica. È possibile soprattutto vivere una dignità spontanea e serena come quella di Gianmaria, del tutto aliena da astio e frustrazioni o da una sdegnosa sufficienza, ma al tempo stesso civilmente e apertamente intollerante verso la stupidità conclamata.

È possibile, certo, ma non è facile. E non è sufficiente volerlo: perché “questo” stile uno non può costruirselo, e nemmeno lo può ereditare dai maestri che si è scelto. Non è un abito che ci possiamo adattare addosso. È l’atteggiamento naturale che nasce da una sensazione: quella di essere nella direzione giusta, ma di avere ancora un sacco di strada da percorrere. Di essere un eterno viandante. Come Gianmaria.

 

Beato chi lasciò presto il festino

Variazioni intorno alla figura del viandante

di Marcello Furiani da Sottotiro review n. 5, novembre 1996

1.

Il viaggio, luogo privilegiato dell’immaginario mitico e romanzesco, si manifesta essenzialmente in due forme classiche: il viaggio come prova, percorso doveroso per l’eroe alla conquista di una meta, e il viaggio come educazione, come conoscenza e crescita che preventiva il ritorno in qualità di momento finale.

Via, via dagli uomini e dalle città
verso il bosco selvatico e le dune
alla silenziosa selvatichezza
dove l’anima non deve reprimere la sua musica
per timore che non ne trovi
un’eco nella mente degli altri.
PERCY B. SHELLEY

Ci imbattiamo poi in un terzo modello di viaggio, nel quale gli obiettivi si allentano, i profitti restano più impliciti, racchiusi nel momento e nel gesto stesso del viaggiare: mi riferisco al vagabondaggio in tutte le sue forme, dal ramigare all’errare, ad un movimento erratico in cui la linea che unisce due punti non è quella retta (cioè la più economica e la meno speculativa), ad uno spostamento che non ha necessariamente nemmeno il fine di unire due punti. Il viaggio come erranza, divagazione, deriva.

Questa idea del viaggio è la più “moderna” e quindi ha una storia più recente delle precedenti. Ma prima di ripercorrere, senza presunzione di esaustività, la figura del viandante attraverso personaggi letterari, vediamo di definirla più precisamente.

Il viandante non possiede una casa: si sposta di città in città, di villaggio in villaggio, dorme dove accade, talora viene ospitato. Pur essendo una figura che si situa ai margini, non è un antisociale. Spesso è un giovane, piacevole e attraente, non di rado sa suonare o cantare, intreccia nei suoi brevi soggiorni piccole storie d’amore, è capace talora di parole profonde e illuminate. Ma tutto ciò dura poco, perché il viandante riparte mimando col suo continuo allontanarsi la parvenza delle cose, il doppio effimero di qualcos’altro che si sottrae e si dilegua, l’inespugnabilità di ciò che egli stesso vagheggia. Ogni luogo lo soffoca, ogni luogo è un luogo sbagliato che tradisce e consuma: il viandante è alla ricerca infinita del luogo che non c’è, cioè dell’utopia.

Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due? 
BRUCE CHATWIN

Nel Lieder einer fahrenden gesellen (I canti di un giramondo) di Gustaf Mahler il protagonista procede al passo di una marcia funebre nel viaggio verso “l’estrema provincia della memoria”: l’assenza di una patria, di una heimat è quindi anche la morte, il luogo definitivo.

Il viandante sa che ogni cosa finisce e se decidesse di fermarsi non sarebbe per sempre: per ciò riparte. Nel finale del Eugenio Oneghin di Puskin l’autore prende congedo dal proprio personaggio esprimendo il desiderio di tutti i viandanti: “Beato chi lasciò presto il festino / della vita e il boccale pien di vino / non vuotò fino in fondo, chi ha saputo / staccarsi dal romanzo suo più caro / come da Oneghin ora io mi separo”.

Nella letteratura ci si inbatte spesso nella figura del viandante, o flaneur o wanderer; soprattutto la letteratura romantica è abitata da questo personaggio, confermando che l’anima romantica è un’anima nostalgica, inqueta, notturna, inappagata, che iterativamente vagheggia qualcosa che sta al di là dell’immediatamente sensibile. Il viandante ha in se l’inesausta smania e l’inestinguibile struggimento per l’altrove, la romantica sehnsucht, quella che Rousseau chiama una fitta del cuore verso un’altra forma di godimento e di possesso. Tutto ciò cambia il movimento in un errare senza sosta, privato di un risolutivo nostos: come osserva Nietzsche in Umano, troppo umano il ritorno si addice al viaggiatore diretto ad una destinazione, non al viandante che non conosce meta e configura il compimento del proprio destino nella provvisorietà e nell’instabilità.

2.

La Storia di un fannullone di Joseph Von Eichendorff è un’alternativa alla realtà, non un’evasione dalla storia, è la nostalgia di una dimensione umana integra e libera, non un superamento del passato.

La poesia è nella vita feriale e diretta; non c’è l’inquietudine per un ‘oltre’ inconseguibile: solo l’appagamento di ogni battito del fluire della vita in un’identificazione dello spirito con il respiro cosmico, altrettanto umano quanto i tormenti e gli affanni delle anime del Romanticismo. Tutto è epifania, eppure il dolore si comprende presente, per nulla soffocato da un ottuso ottimismo o da una furia trionfalistica; lo si indovina come l’altra faccia della gioia e ciò dà credito, più di ogni altro pensiero, alla possibilità di sentirsi in corrispondenza con il vivere in tutta la sua apparente semplicità. Ciò accade a differenza, per esempio, delle pagine di Hans Christian Andersen, delicate ed idilliche, nelle quali – si veda la novella “Compagno di viaggio” – la figura del viandante puro di cuore e nomade nell’anima si muove in una natura stilizzata e priva di profondità, senza altezze e senza ombre, colorata ma inodore. Il viandante di Andersen rimuove il dolore e la tragedia, avvolto e annebbiato in una visione cristiana dell’esistenza diluita da un ottimismo filisteo e semplicistico.

Intorno non si vedeva anima viva e non si sentiva rumore. Per altro, vagabondare a quel modo era bellissimo.
JOSEPH VON EICHENDORFF

In Eichendorff il fascino del vagabondo in continua fuga, inesausto nella capacità di cantare e di essere felice, è nel ritrovare passo dopo passo lo stereotipo previsto e puntualmente mai disatteso: ciò che realisticamente è l’imprevedibile corrisponde con l’estremo prevedibile della fantasia; ogni elemento del proprio immaginario d’avventura trova spazio nella sue pagine.

I personaggi di Robert Walser sono viandanti che si aggirano per il mondo, osservano la vita, si mimetizzano svestendosi della coscienza, volgono la propria attenzione a fuggevoli dettagli apparentemente trascurabili, non si concedono a nulla in fedeltà ad una condizione d’assenza. Vivono in un eterno presente, sognano una vita come attesa, vigilia di promesse senza modello né costrutto. Nel loro ritirarsi perpetuano infinitamente il congedo, annullati in una nozione del tempo estremamente incerta e indeterminata, quasi per una volontà di perdersi in qualcosa che trascende.

La condizione del viandante disposto ad ogni esperienza non entra in contraddizione con questa modalità, in quanto la libertà per i personaggi walseriani è predisposizione a non legarsi, a non entrare in contatto con alcunché abbia una forma definita: è un’immobilità che si nega al gesto che spartisce il mondo.

Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io mi imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto. 
ROBERT WALSER

Eppure di quale leggerezza e di quale profondità sono capaci le figure di Walser. Il loro sguardo è lieve e acuto, come quello di chi, non mettendo in gioco se stesso, coglie la bellezza gratuita del mondo e contemporaneamente lo osserva con ironia per quello che è nel suo orrore, nei suoi rapporti di forza, nella morte che è propria delle strutture e dei rapporti sociali irrigiditi.

Ma i suoi viandanti, lievi, trasparenti e fatalisti non sono dei rivoluzionari: non cambiano e non vogliono cambiare nulla, non hanno altra aspirazione che condurre una vita vagabonda, alla periferia di cose e persone con le quali si trastullano senza farsi toccare, quasi che non vi sia nulla oltre la loro superficie, che il loro statuto ontologico sia la loro stessa inconsistenza.

Il vagabondare senza meta fissa è un topos della poesia lirica dal pre al post romanticismo, al punto che ancora nel 1885 Gustav Mahler intendeva il viandante come personaggio del suo ciclo di Lieder Lieder eines fahrenden gesellen, in termini che si adattono altrettanto bene alla Winterreise schubertiana e ad altre centinaia di composizioni poetico-musicali. Nella maggioranza dei casi il Viandante – che diventa il Solitario – esercita il proprio sentimento della natura su fioriti paesaggi primaverili e boschi lussureggianti, donde il contrasto tra la solitudine interiore dell’io e il circostante trionfo della vita e della bellezza. Ma nei Lieder di Mahler e di Schubert la meditazione sul senso dell’esistenza, sulla immutabile presenza della morte, si svolge sullo sfondo di una natura livida e cupa e per ciò stesso partecipe: l’osservazione della natura è il parallelo dell’indagine sullo spirito. Si respira uno stato di vita sospesa, congelata, immobile – assai simile a certi dipinti di Caspar David Friedrich – dove il pensiero del viandante si riduce a rimuginazione ossessiva di ferite narcisistiche e grandiose fantasie compensatorie.

Il viandante diventa straniero al mondo ed erra sospinto da una condanna senza colpa, portatore di un’immedicabile ferita al cuore, che lo trascina verso la distruzione, simbolo ingigantito dell’uomo romantico in preda ai suoi sentimenti, dello straniero senza casa sulla terra gelata, del fuggitivo dal mondo, escluso dalla compagnia degli uomini con cui non ha più sentimenti in comune, dalla forza sovverchiante e autodistruttiva delle sue emozioni. Non c’è scampo all’inesorabilità del lungo cammino verso la morte – dalla quale per altro il viandante si sente attratto – espresso sia con doloroso realismo, sia con un espressionismo visionario.

Walter Benjamin ricorda anche Knut Hamsun come un altro autore capace di creare la figura del fannullone perdigiorno, randagio e sbandato. Versione moderna e tragica, il viandante di Hamsun incarna vitalità, durezza, pietà, nichilismo e protesta: è un distruttore e contemporaneamente un lacerato capace di rilevare l’irrazionalità dell’esistere, con il gesto altero del personaggio epico, frugando impietosamente nella miseria materiale e spirituale dell’uomo moderno. Ma finisce per esserne accecato e cerca nella fuga dai legami sociali l’immediatezza della vita non contaminata dalle idee; si muove spinto da una sprezzante ribellione che ne fa, paradossalmente e inconsapevolmente, un intellettuale modernissimo e anticipatore, nell’alienazione e nella perdita, del nuovo.

Il percorso del viandante di Hamsun conduce alla nevrastenia: fugge davanti alle patologie della società moderna fraintendendo la modernità come patologia, rimanendone vittima e tanto più irreversibilmente condizionato dai legami sociali quanto più si illude di affrancarsene. Ondeggiando tra la brama di un inattuabile assoluto sovratemporale e un compiaciuto sguardo alla caducità di ogni cosa, tentando di avversare il senso univoco delle ideologie con l’informe indefinitezza delle cose e della natura, che pur resta sempre irreparabilmente lontana, approda all’anti-ideologia. La sua ribellione s’irrigidisce in un nichilismo che non ha altri approdi se non quelli di una tendenza regressiva e di un atteggiamento reazionario.

Il viandante dei romanzi di Hamsun, crudele e tenero, sprezzante e fragile, compiaciuto del disordine del mondo, è un inconscio alla deriva che si tutela dalla realtà esterna con vomiti di parole e sequele di gesti provocatori e stonati, è l’io psicologico borghese disgregato, riluttante nel prendere coscienza che il suo destino è solo la vana forma di una vita errabonda, segnata dalla sconfitta e avvilita dall’ostinazione al disprezzo.

Nelle pagine scritte da Walter Benjamin il flaneur si muove come figura di passaggio, che attraversa una sorta di altrove, di sconosciuta città in un orizzonte all’imbrunire, immagine incerta e dubbia, sostanzialmente tragica. Sospeso nel tempo e nello spazio, è sicuramente straniero alla folla, talmente estreneo ai suoi ritmi da apparire in netto contrasto con il processo produttivo.

La città è uno sterminato panorama, quasi il luogo di una rappresentazione teatrale, che desta nel viandante una primitiva curiosità che i suoi occhi alieni e pacificanti cercano di soddisfare. Fondamentalmente è un ozioso, di un’inoperosità che è soprattutto irresolutezza: predominando in lui il dubbio, tutto diventa possibile anche se irrealizzabile.

Può essere permesso ad un vagabondo di disporre degli ultimi istanti come più gli piace?
KNUT HAMSUN

Eppure quanta nostalgia percorre ogni suo passo: ma il flaneur non possiede un passato né una memoria personale: la sua è nostalgia di una vita anteriore, del tempo dell’infanzia. Il viandante è in Benjamin una figura senza tempo e senza storia, il cui motivo di desistere consiste nel “dare un’anima” alla città altrimenti amorfa. In effetti nella Parigi fantastica disegnata da Benjamin pesa come un sasso il vuoto di un’assenza, al di là dell’alacrità delle occupazioni dei suoi abitanti, dominati in sostanza dalla ripetitività del culto che celebrano, quello che l’autore chiamerà culto della merce. Il flaneur benjaminiano è in una comunità immobile e inaccessibile alle novità l’esule che incarna inconsapevolmente la totalità dell’esperienza originaria, l’unico l’uomo a cui sia stata data in sorte l’inattività, in virtù della sua capacità di sognare.

L’utopia di Benjamin, uomo senza patria, è di tornare a ciò che è spezzato, di ridare vita alle cose morte, ma ciò dissimula il desiderio di tornare nelle tenebre, nell’abbandono del non essere, di riavvolgersi verso la propria origine.

La purezza del viandante lo rende impotente di fronte al mondo, da cui per altro nemmeno viene riconosciuto nella sua condizione di estraneità. Ma la sua stessa speranza di non avere una meta, di non arrivare, è la vana illusione di restare nell’infanzia dell’uomo e di non approdare a quello che Benjamin chiama l’“uomo-sandwich”, diventando egli stesso merce venduta al mercato, identificato con il valore di scambio, a proprio agio ormai nell’essere ritenuto vendibile.

Il flaneur oscilla tra queste due inconsistenze: l’estraneità più radicale e la contestualizzazione più omologante che lo prosciuga da ogni parvenza di identità. Può solo, nel suo continuo movimento che simula l’immobilità, mostrarci quanto sfolgorante, fantastico, eccessivo e fragile sia il fiore dell’utopia.

Il tempo presente è il tempo della disperazione, il tempo dell’Ebreo Errante.
SOREN KIERKEGAARD

L’erranza, la tragica volubilità nello spazio, nell’esperienza e nel tempo è specificità che descrive non di meno la figura dell’Ebreo Errante, è la sostanza dell’espiazione per chi non ha compreso e riconosciuto il Messia, con la contraddittoria valenza di seduzione e di maledizione che il rapporto con il sacro implica.

Il mito dell’Ebreo Errante è come pochi altri un mito incompiuto, variamente rappresentato e interpretato nel corso dei secoli, attraverso diversi generi (dalla prosa alla poesia, dalla pittura al folclore) e difformi registri (dal comico al tragico, dal dolente al farsesco). Se il mito popolare fa dell’Ebreo Errante un personaggio per racconti popolari, ballate di menestrelli, melodrammi, balletti, opere liriche e romanzi d’appendice (basti ricordare L’Ebreo errante di Eugéne Sue, in cui l’eroe diventa una metafora del popolo sfruttato e l’errare un’allegoria della fatica del lavoro), sono i poeti, i prosatori, i filosofi e i pittori a costruire su questa figura il mito letterario.

Ripercorrere le tappe della rappresentazione di un mito significa anche attraversare la storia delle idee: così si passa dal viator medioevale che testimonia la verità, investito di una maledizione inemendabile, alla riabilitazione del philosophe illuminista, in cui l’erranza diviene memoria del tempo del mondo, diventa una condizione privilegiata da cui distinguere e tradurre i mali che angustiano la società contemporanea dell’autore. Parallelamente alla figura del viaggiatore ed esploratore, nel ‘700 prese forma anche un Ebreo Errante avventuriero, imbroglione, impostore e baro da cui discende il personaggio inquieto e malinconico che appare fugacemente ne Il monaco di Matthew G. Lewis, in cui, tra l’altro, assistiamo ad una delle prime commistioni del mito dell’Ebreo Errante con quello del Faust. Questa contaminazione, figlia dell’epoca dell’occultismo e dell’esorcismo, fu determinante nella metamorfosi dell’Errante da testimone delle verità cristiane a personaggio dedito alla stregoneria.

L’Errante diventa in seguito l’incarnazione dell’inquietudine e della disperazione romantica: il gusto per il primitivo, per i miti popolari e cristiani, la predilezione per il trascendente e le problematiche religiose tipici della spiritualità romantica si accordano ad un personaggio il cui destino è eccezionalmente unico e tragico, il cui passato è oscuro e ambiguo, la cui colpa suscita orrore e perplessità, il cui desiderio è eternamente inappagato e la cui attrazione verso la morte è il riscatto dal dolore e dalla afflizione.

Mitigando la figura dell’Ebreo Errante della sua singolarità ebraica i romantici acuiscono positivamente le facoltà del mito: la loro sensibilità avverte dolorosamente i caratteri di esilio, di solitudine, di scacco e di disperazione dell’errante e li traduce in veggenza e saggezza, accentuandone l’anima di déraciné e maturandone gli aspetti di ribelle che predilige la libertà dell’inferno alla schiavitù del cielo, figura debitrice del Satana di John Milton.

Il mito continua, trascinando le proprie ambiguità e le proprie contraddizioni, ma ricavando vitalità dalla propria leggenda, come gli Ebrei Erranti di Marc Chagall che volano sopra Vitéck, poiché il viaggio è eterno come l’inferno cristiano.

Nel dipinto di Caspar David Friedrich Viandante sul mare di nebbia del 1818 l’immagine transita dalla più diretta vicinanza alla più radicale lontananza: questa distonia dello sguardo traduce la frattura fra l’uomo e l’assoluto. Ma questa misura tragica si dissimula in una contemplazione idillica, pur trasparendo come in filigrana un irreparabile struggimento per distanze impenetrabili, per lontananze inconseguibili. Il viandante di Friedrich esprime il proprio scacco attraverso l’opposizione di una dimensione interna e di uno spazio esterno che si toccano senza penetrarsi, dando forma ad una sensazione di vertigine e di smarrimento.

Vuoi avermi con te, ma quell’io che ti piace non desidera stare con te. Devo essere solo e sapere che sono solo per poter veder e sentire pienamente la natura. 
CASPAR DAVID FRIEDRICH

Esso è evidentemente una figura di passaggio, colta nell’attimo in cui si è temporaneamente fermata e, fermandosi, misura la propria condizione di estraneità al paesaggio nella sola possibilità di contemplazione, nella propria impotenza a divenire una cosa con esso. Raffigurato di spalle – come moltissime figure di Friedrich – il solitario déraciné trasmette, oltre al mistero del proprio sguardo negato, la vulnerabilità di chi è visto a sua insaputa. Il viandante guarda in avanti, pur escluso dallo spazio sconfinato cui non appartiene, in un cupo desiderio di qualcosa che non accade: per altro il tempo del viandante è un tempo sospeso, immobile, raggelato nell’“hic et nunc” d’un eterno presente, che pur suggerisce l’inarrestabilità della dissoluzione, cioè la morte. Ma la sua anima non si appaga né si placa in una compiaciuta contemplazione della natura.

Il personaggio non ci narra una storia o una vicenda ma, attraverso la propria agghiacciata solitudine e il confine che impietosamente la racchiude, esprime con asciutto dolore l’impossibilità della mente di comprendere (in senso etimologico) l’infinito e la coscienza dell’inafferrabilità del mondo nella sua essenza, tragicamente percorsa da un disperato anelito ad un’osmosi con l’assoluto e la totalità.

Non c’è quiete né casa nel destino di Holden Caulfield, protagonista di The Catcher in the rye (Il giovane Holden) di J. D. Salinger, e di Dean Moriarty, personaggio di On the road (Sulla strada) di J. Kerouac; soggetti la cui condizione si definisce con il loro vagare incessante, sono tra i più famosi prototipi di erranti della letteratura americana.

Ciò che li muove sembra essere una sorta di esigenza esterna alla propria volontà e alla propria consapevolezza, nonostante il rifiuto dei valori della società a loro contemporanea, la profonda frattura con l’America borghese e benpensante e l’innocenza, la superiorità morale, l’esaltazione dell’individuo che non si uniforma ai preconcetti di una società sempre più corrotta e decadente.

Essi vagano senza trovare la loro patria, quasi dovessero scontare una colpa commessa dall’America nei confronti di se stessa e che consiste nel tradimento di quelle promesse e di quella fede nell’uomo e nelle sue possibilità che avevano fatto sognare scrittori come Ralph W. Emerson e Walt Whitman.

Per i personaggi di Salinger e Kerouac spostarsi continuamente significa, oltre il rifiuto d’ogni forma di tirannia e di prevaricazione, entrare in contatto con elementi essenziali della vita. La loro crescita avviene al di fuori, o più precisamente in polemica con la società: dal linguaggio che utilizzano – estraneo al consorzio perbenista, fasullo e convenzionale – al più volte dichiarato rispetto della verità, al punto di non omettere nulla nel racconto, dai lati più seducenti ai più miserevoli e sordidi, tutto denuncia il tentativo di muoversi al di fuori dei canoni narrativi tradizionali.

Queste narrazioni, quasi diari di viaggio in cui si scruta nel proprio animo alla ricerca della propria identità – una sorta di percorso iniziatico sostanzialmente individuale – sono l’espressione di un disperato desiderio di totalità e di appagamento.

Solo affidando alla scrittura le ragioni profonde del proprio errare spirituale e metafisico i personaggi di Salinger e Kerouac diventano i simboli del tormento interiore, dell’alienazione e dell’inquietudine esistenziale di chi si sente destinato alla precarietà, senza poter trovare qualcosa cui aggrapparsi, senza pace né patria, senza una figura cui affidare i propri turbamenti e i propri dubbi.

La sorte umana è il distacco da ogni luogo e casa ove sostammo.
ERNST JUNGER

Il viandante è, in ogni sua sembianza, il custode dell’utopia, è un soggetto mitico che non utilizza le proprie potenzialità a fini costruttivi: Per questo incarna lo spirito di ribellione, la libertà dell’individuo, la sua dignità elementare e la trasgressione antiproduttivistica.

Ciò avviene in un continuo movimento, che vuol dire anche impossibilità di fermarsi, e soprattutto, rifiuto di raccogliere i frutti. C’è qualcosa per cui la drammatica leggerezza del viandante, la sua fuga dal mondo, la sua vulnerabilità e la sua protervia hanno un che di sacrificale: ciò sta nella sua mancanza. Egli si muove eternamente per cercare qualcosa che non troverà e che forse in fondo non gli preme trovare. In ogni modo, nel momento in cui trovasse ciò che cerca, abbandonerebbe la sua condizione di errante.

Il suo fascino consiste nell’impulso spirituale che lo porta sempre oltre, sempre altrove, ma l’eterno vagare, in qualche misura, corrisponde ad una sostanziale immobilità, ad un andare sempre verso lo stesso luogo o verso nessun luogo, che è il luogo dell’esilio. Così se il viandante addita ciò che potrebbe essere, in contraddizione con ciò che invece è, in realtà non assume mai una forma stabile e compiuta, abbozza ma non conclude, considerando anzi le forme irrigidite e compiute come un irrevocabile indizio di morte.

Il viandante è “l’uomo senza religio”, ossia si nega ai legami familiari e sociali, non possiede casa né patria e, sempre errando, si sottrae ad ogni inalterabile codice morale. Prototipo della protesta romantica contro la pianificazione borghese del mondo, che confina il soggetto nella misura della sua funzione sociale, egli vuole solo vivere, respingendo ogni limite alle potenzialità della vita, per quanto ipotetiche, e rifugge da ruoli, legami, impegni predefiniti che ne imprigionano l’esistenza.

Nell’anima del viandante s’agita una profonda inquietudine, mascherata da uno struggente sogno d’armonia: egli è il figliol prodigo che si nega al perdono paterno, è Caino che si fregia del marchio d’inavvicinabilità impresso sulla fronte, è il nomade guerriero che mitizza l’ethos maschile della lotta e della fraternità d’armi in spregio alla tentazione del sesso e della pietà incarnati dalla donna, è l’antitesi della risolta e responsabile certezza dell’Ulisse omerico. Appartiene ad un’odissea senza Itaca, ben più moderno del viandante dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, in cui il viaggio prevede il ritorno come momento finale dopo che tutte le esperienze, i dolori affrontati e vinti nel cammino sono integrati ed elaborati dalla sua individualità, in cui tutto si ricompone e si riconcilia nell’armonia di un’identità ritrovata.

Oggi questa totalità umana e poetica ci ferisce di nostalgia, ma non ci compete né ci appartiene: da Musil in avanti – in cui l’uomo è un insieme di qualità senza un centro che le unifichi – il viandante procede in un’odissea senza fine né ritorno, ben lontana dal rassicurante movimento circolare che preserva ed itera l’ordine immutabile delle cose, come nell’Ulisse di Joyce, nelle cui pagine questa legge garantisce senso e assetto nella salvaguardia del soggetto individuale.

Il viandante moderno – come un Don Chisciotte errante in un mondo abbandonato dai significati e dai valori, come un Achab maledetto ed escluso dalla Natura che rimpiange – non ritorna a casa confortato nella sua identità, ma si dispende straniero a se stesso, senza più libertà di riconoscersi, in una realtà spezzata e precaria dove solo la nostalgia (nel senso etimologico del doloroso desiderio di tornare), similmente ad una lingua segreta, può conferire la piena comprensione del sentimento di un’odissea senza ritorno, di un esilio dell’anima tra sforzi d’identità e sofferenze senza riscatto.