di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 9, novembre 2002
La storia «ufficiale» dell’Italia inizia con un viaggio, quello di Enea; o meglio, con la sua narrazione. Un popolo con simili origini e con tremila chilometri di coste non può che essere un popolo di viaggiatori. E in effetti lo è stato; ma non è stato un popolo di narratori di viaggi. In verità sino a tutto il medioevo una consuetudine letteraria col viaggio ha resistito, tanto da esprimere narratori di viaggi reali del calibro di Marco Polo e narratori di viaggi immaginari del livello di Dante: ma è venuta meno nell’età moderna, e questa assenza perdura anche in quella contemporanea.
Lo spartiacque potrebbe essere individuato nel Rinascimento, proprio nel momento in cui esplodono altrove le spinte al viaggio di esplorazione e la necessità di darne conto, ed esemplificato in uno dei massimi letterati del periodo, forse il più grande: Ludovico Ariosto. Ariosto fa rimbalzare i suoi cavalieri da un continente all’altro, da una sponda all’altra del Mediterraneo, e arriva a spedirli addirittura sulla luna: ma non fa alcun cenno alla scoperta di un mondo nuovo, che pure è un dato ormai acquisito al momento della stesura dell’Orlando. I suoi eroi si muovono a piedi, a cavallo, magari in coppia, su nave o su ippogrifo: ma non viaggiano, semplicemente si spostano da uno scenario all’altro, cambiano teatro. Non c’è curiosità, non c’è stupore, non c’è gioia nei loro spostamenti: sono sempre troppo impegnati nella fuga, nell’inseguimento, nella caccia a qualcuno o a qualcosa per potersi guardare attorno. D’altronde, il loro burattinaio è esplicito: E più mi piace di posar le poltre / membra, che di vantarle che alli Sciti / sien state, agli Indi, a li Etiopi, et oltre. / […] /Chi vuole andare a torno, a torno vada / vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; / a me pia ce abitar la mia contrada. / […] / .. il resto de la terra / senza mai pagar l’oste andrò cercando / con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra; / e tutto il mar, senza far voti quando / lampeggi il ciel, sicuro in su le carte / verrò, più che sui legni, volteggiando. Le carte, la carta, sulla carta: sembra il manifesto d’intenti di tutta le letteratura italiana moderna, compreso il più prolifico narratore di viaggi degli ultimi due secoli, Emilio Salgari. Il mondo, piuttosto che girarlo, è meglio inventarlo.
Non è che dal Rinascimento in poi gli italiani rinuncino a viaggiare. Nel Seicento li troviamo ancora dappertutto, un po’ meno nel secolo successivo, in qualità di mercanti, di missionari, di ambasciatori o di avventurieri: E lasciano anche testimonianza scritta del loro viaggiare, soprattutto i Gesuiti. Ma non aspirano a fare della letteratura di viaggio, o meglio, non considerano il racconto di viaggio un genere letterario. Proprio questa mi sembra una delle ragioni principali dell’assenza che lamentavo prima. Nessun’altra letteratura rimane vincolata a lungo ai canoni, alle tipologie, alle appartenenze di genere, come quella italiana. E in questi schemi, in questa élite di modelli contenutistici e formali il racconto di viaggio non rientra.
Un altro fattore frenante è costituito dallo spirito controriformistico. La diffidenza nei confronti di ogni diversità, il timore per gli effetti destabilizzanti dell’incontro con altre culture, la fobia per il disordine e l’impossibilità di controllo rendono sospetto il viaggiatore e pericolosa a priori la narrazione del viaggio. Non a caso, fuori d’Italia la letteratura di viaggio, realistica o fantastica che sia, è quasi sempre appannaggio della cultura libertina.
Contribuiscono poi in modo determinante a mortificare l’attitudine al viaggio e a svalutarne la trasposizione letteraria la debolezza politica della penisola, per l’assenza di uno stato moderno e per la soggezione a potenze straniere, e conseguentemente la recessione economica, la perdita dell’egemonia mercantile nel Mediterraneo e la mancanza di ogni intrapresa coloniale. Non ci sono poteri capaci di trarre vantaggio dalle relazioni dei viaggiatori, istituzioni che li stimolino e li finanzino, e che quindi ne valorizzino anche il ruolo e lo status letterario. Continuano a viaggiare, e a raccontare i propri viaggi, solo gli avventurieri e i missionari, mentre i letterati si rinchiudono nelle loro Arcadie. Poco alla volta diverranno essi stessi, mummificati dalla cieca supponenza di chi non può guardare che al passato, meta dei viaggi altrui; e il paese con loro. È in fondo una diversità quella che gli inglesi, i francesi, i tedeschi vengono a cercare nella penisola; ai loro occhi riescono esotici tanto l’arretratezza civile, il ritardo nei costumi e nelle tecniche, quanto la natura non domesticata e il contrasto con le vestigia della classicità e degli splendori medioevali e rinascimentali. Da maestri di civiltà gli italiani sono declassati a barbari, magari pittoreschi e affascinanti, ma oggetto di distaccato stupore anziché di ammirata emulazione. E dal momento che il viaggio per eccellenza è quello in Italia, gli italiani, e nella fattispecie i letterati, sentono giustificata la loro immobilità. Così, mentre da Montaigne in poi, passando per Montesquieu, per Chateaubriand, per Stendhal, per Tocqueville, fino a Loti ed oltre, filosofi e romanzieri francesi, i primi soprattutto, vanno in cerca dello stato o dell’uomo ideale: mentre da Ruskin a Stevenson, da Dickens a Kipling, fino a Vita Sackville West e ad Auden, gli inglesi girano a cercare o a perdere un’identità; mentre i tedeschi, da Goethe a Hesse, sono in traccia dell’Idea o della spiritualità, e gli americani cominciano da Mark Twain a invertire la direzione degli approdi; mentre tutti si muovono per confrontarsi con qualcosa, non fosse altro per ricondurre snobisticamente il poco noto al banale, gli italiani snobbano direttamente il viaggio. Quando accade loro di muoversi non lo fanno per scelta, ma per necessità, per fuggire o perché sono stati sbattuti fuori. Viaggiano col timbro dell’esule, e tendono costantemente le palme ai tetti natii. Mentre Byron sceglie di andare a morire a Missolungi, Santorre di Santarosa avrebbe preferito invecchiare a Torino. Di conseguenza la nostra letteratura non contempla il viaggio come tema, mentre è tutta intrisa di lacrime da distacco e di nostalgia da lontananza.
Un esempio per tutti. Nel 1827 vengono editate due opere fondamentali per la cultura europea, una in Germania, l’altra in Italia: libri destinati a formare intere generazioni del ceto culturale dei due paesi, dal momento che vengono adottati molto presto come testi obbligatori di studio. Il primo è il Reisebilder di Heine, inno al viaggio, allo sradicamento, al cosmopolitismo del viandante. L’altro è I promessi sposi: vale a dire la poesia del focolare domestico, del paesello, dell’addio monti. Ogni spostamento dei protagonisti è forzato, inevitabilmente destinato ad aggravarne la situazione. Tenendo conto del manzonianesimo imperante nella nostra scuola sino a due decenni fa, non può destare meraviglia la scarsa propensione della classe intellettuale italiana al viaggio, e al resoconto o al racconto di viaggio (che viene per l’appunto lasciato ai manovali, ai Salgari, mentre altrove passa per le penne più prestigiose).
Di questa sindrome la letteratura italiana non si è liberata neppure nel ventesimo secolo. Nove milioni di poveracci hanno attraversato l’Atlantico tra fine Ottocento e il primo quarto del Novecento, e non c’è una sola opera narrativa o descrittiva di un qualche rilievo che racconti questo esodo. Si è dovuto attendere l’ultimo decennio per assistere ad una vera e propria esplosione del genere: ma il fenomeno non è affatto genuino, è un frutto di importazione, una moda di risulta veicolata dai successi di alcuni viaggiatori-scrittori anglosassoni, primo tra tutti Chatwin. Gli scrittori italiani si scoprono oggi viaggiatori, e millantano addirittura una vocazione e una tradizione autoctona, andando a riesumare onesti quanto modesti compilatori sepolti da decenni nell’oblio. Ma non c’è storia. La verità è che il viaggio è entrato nella letteratura italiana solo dopo che la letteratura italiana ha cessato di esistere, e ha lasciato il posto ad una letteratura in lingua italiana, semplice traduzione alla fonte dei nuovi standard letterari della globalizzazione.