di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 9, novembre 2002
Raccontare un viaggio è impossibile. O almeno, è impossibile raccontare «questo» viaggio, il «nostro» viaggio. Chi ascolta, chi legge, chi guarda le immagini che abbiamo rubate e portate a casa, nel migliore dei casi, quando cioè sia motivato per qualche sua ragione a cercare di condividere la nostra esperienza, deve accontentarsi della nostra capacità di evocare certe situazioni, particolari atmosfere e sensazioni. E per quanto possiamo essere bravi a comunicare, noi gli trasmettiamo solo quello che abbiamo scelto. Persino una ininterrotta documentazione audiovisiva dei nostri spostamenti lascerebbe fuori tutto ciò che in ogni istante è sfuggito alla telecamera, ma soprattutto i profumi, gli odori, la morbidezza o la durezza del suolo, il frizzo o il gelo dell’aria sulla pelle e nei polmoni, o l’afa sudaticcia. E ancora, ben poco potrebbe comunicare della stanchezza, del refrigerio di un bagno o di una sosta, dei malumori, degli stupori, dei disagi e delle paure. Quindi non solo non siamo in grado di raccontare oggettivamente il viaggio, ma nemmeno riusciamo a riprodurre la nostra soggettivissima esperienza del viaggio.
È legittimo chiedersi allora perché si scrivano i libri di viaggio – la risposta potrebbe essere: perché una delle debolezze umane fondamentali è il desiderio di comunicare comunque le nostre esperienze, e il viaggio è per antonomasia un concentrato di esperienze nuove, e quasi si viaggia apposta per poterle raccontare –, ma soprattutto chi li legge, e a che scopo, e se sia quella letteraria la migliore forma di racconto rispetto a questo tema; e, infine, se abbia ancora senso oggi, in un’epoca che ha paradossalmente moltiplicato gli spostamenti e azzerato le differenze, e quindi le motivazioni al viaggio, una letteratura di viaggio. Qui la risposta si fa più complessa. I libri di viaggio sono letti da chi ama viaggiare, per confrontare le proprie esperienze con quelle altrui, o per trovare giustificazioni e nuovi stimoli alla propria passione: ma anche da chi non può viaggiare concretamente, per poterlo fare almeno con la fantasia. O ancora, da chi non ha la voglia di viaggiare, ma ha comunque quella di conoscere, ed è intrigato dai luoghi e dagli uomini che li abitano o li percorrono. Ebbene, tutti costoro, tanto quelli che scrivono come coloro che leggono, accettano una tacita convenzione: sanno che i viaggi non possono essere raccontati. E il fatto che entrambi lo sappiano rende tutto più facile e più pulito: perché ciascuno dei due, a suo modo, ha a questo punto la libertà di inventarli. In questo senso quella letteraria risulta essere la forma di narrazione più adeguata: perché è quella che concede più spazio all’immaginazione, e permette a ciascuno, attore o lettore, di costruire sopra o sotto o ai margini della labile mappa tracciata dall’inchiostro la propria avventura.
E questo vale oggi più che mai. Un tempo si viaggiava per scoprire la diversità, per conoscere ciò che stava al di là dei normali orizzonti della conoscenza, e per riconoscersi nel confronto con l’alterità. Oggi, in tempi di televisione, di Internet e di fotografia, possiamo conoscere tutto ciò che sta fuori rimanendo tranquillamente accoccolati sul divano: non è più questo che andiamo cercando nei nostri viaggi, non certo quel confine tra il noto e l’ignoto che è stato cancellato proprio da generazioni di esploratori, di mercanti, di viaggiatori, di emigranti e di turisti. Cerchiamo piuttosto una differenza interiore, quella modificazione dell’Io che è inevitabilmente indotta dalla situazione del viaggio. Cerchiamo quella condizione di spaesamento, non più nei confronti di una differenza che è ormai solo di facciata, ma, al contrario, rispetto ad una standardizzazione globale dei costumi, dei gusti e dei consumi, che nel mentre vanifica ogni nostro connotato di identità ci spinge a cercarne dei nuovi, magari con un ritorno alle origini, con l’assunzione di una mutata prospettiva rispetto al luogo di partenza. E allora il racconto del viaggio diventa narrazione di questo mutamento, del quale lo spazio esterno è solo la cornice e rispetto al quale gli incontri fungono da reagenti. Non valgono le immagini a raccontarlo. Sono necessarie, anche se non sempre sufficienti, le parole.