Chissà cosa sognano i cani

di Paolo Repetto, febbraio 2018, da sguardistorti n. 02 – aprile 2018

Me lo ha chiesto mio nipote, mentre guardavamo Olaf correre in giardino, annusare, fermarsi  di botto, tornare indietro per una seconda sniffata. Dice che di notte russa come un cinghiale e ha degli strani scatti, muove le zampe come stesse fuggendo o rincorrendo qualcosa.

Non ho saputo rispondergli; o meglio, gli ho risposto con le solite banalità. Gli ho detto che sogna un mondo dove attorno agli ossi rimanga molta più polpa, dove i gatti non trovino sempre un albero su cui rifugiarsi e dove dentro la cuccia ci siano una bella coperta calda e poche pulci.

Mi è parso poco convinto, e mi sono reso conto che in effetti non stavo parlando di Olaf o degli altri cani suoi contemporanei. Stavo parlando dei miei cani, che non ho mai sentito russare perché di dormire in casa potevano appunto sognarselo, e per i quali un osso non era un giocattolo di plastica puzzolente, ma un evento da salutare con entusiasmo.

Ne ho avuti tre, tutti bastardini e tutti dotati di una personalità spiccatissima. Dolce, devota a mia madre e un po’ zoccola Cilla (ha sfornato sedici cuccioli, tutti di padre ignoto), spavaldo e dispettoso Ciccio, sul quale pendeva una taglia messa dai cacciatori, feroce e incazzosissimo l’incredibile Hulk, che per fortuna era grande poco più di un topo, ma aveva una buona percentuale di geni del foxterrier (entro il suo territorio aveva rispetto solo per me e per Chiara, all’epoca piccolissima, che poteva seviziarlo in ogni modo senza scatenare la minima reazione: per gli altri, se non facevano attenzione, scattava l’attacco a tradimento al polpaccio). Un quarto, Neal, l’ho condiviso con mio figlio: questo era di razza, un terranova di ottanta chili, e non permetterò a nessuno di affermare che i terranova sono cani intelligenti.

Ciascuno a modo suo si sono fatti amare, persino Hulk, che avrebbe invece preferito essere solo temuto. E credo che liberi di scorrazzare per il cortile e il giardino, a dare la caccia ai gatti e ai topi, o nel vigneto, dove stanavano donnole e faine, oltre che la selvaggina, abbiano tutto sommato vissuta bene la loro vita da cani.

Mi rivolgevo loro in dialetto per impartire ordini, e in italiano per i complimenti. Capivano al volo in entrambe le lingue e non chiedevano coccole, solo di potermi seguire quando andavo in campagna o al fiume. Ho usato qualche volta il guinzaglio soltanto per Neal, che essendo grosso come un orso poteva diventare pericoloso anche nelle manifestazioni d’affetto: ma in campagna lo lasciavo libero, e malgrado fosse un pacioccone seminava il terrore con la sua sola presenza. Per il resto piena fiducia. Ciccio spariva a volte per intere giornate, e tornava poi ammaccato per aver attaccato briga con tutti gli altri vagabondi come lui: ma non mi ha mai creato grane, e le sue se le sbrigava da solo.

La casa ha visto transitare anche tre o quattro generazioni di gatti, con le stesse regole dello ius soli. Ospiti abituali alle ore dei pasti (Nina, la gatta della mia infanzia, apriva da sola le porte attaccandosi alle maniglie), ma pigionanti esterni, nel magazzino o nella stalla, durante la notte, in cortile o nel giardino di giorno. Fino a quando sul territorio ha regnato Vito, che incuteva rispetto persino ad Hulk, tutta la zona attorno a casa è stata un paradiso. Al tramonto calava il coprifuoco e le rarissime volte in cui arrivavano gli echi di brevi scontri sapevi che qualche incauto aveva tentato di fare il furbo, ma non ci avrebbe riprovato. Dopo la sua scomparsa hanno cominciato a farsi avanti gli eredi (aveva sparso i geni in tutto il paese, creando una nuova razza rossiccia e semiselvatica) ed è scoppiata una snervante guerra civile, nella quale sono stato costretto più volte, nel cuore della notte, a intervenire.

In realtà dubito persino che i miei cani e miei gatti sognassero. A spasso tutto il giorno, all’aria aperta estate e inverno, quando arrivava la sera crollavano come sassi. Persino Ciccio, che durante il giorno sembrava morso da una tarantola, piombava nel sonno del giusto: una volta per curiosità l’ho caricato su una carriola e gli ho fatto fare più giri del cortile senza che muovesse una palpebra.

Questo è il rapporto che ho sempre tenuto con i miei amici animali. Non ho mai preteso da un cane o da un gatto comportamenti che non fossero nella loro natura, e se qualche volta parlavo loro come con un umano non avevo la pretesa che capissero, mi bastava che ascoltassero (cosa che a differenza degli umani facevano sempre). Ho potuto rapportarmi così senz’altro per la situazione materiale in cui vivevo, la casa col terreno attorno, la campagna, ecc …, al centro di un paese dove non c’era modo di farsi investire da un’auto nemmeno a sdraiarsi sullo stradone (mio figlio a sei anni giocava a nascondino nei viottoli sino alle undici di sera): ma anche perché ho conosciuto un mondo nel quale i confini e i ruoli erano ben definiti, quello tra genitori e figli, ad esempio, tra insegnanti e allievi, tra giovani e anziani e, appunto, tra umani e animali (anche se a volte distinguere era davvero difficile).

Quei ruoli non li ho inventati io, sono quelli che detta la storia naturale. All’origine c’è una catena alimentare che funziona in un certo modo da centinaia di milioni di anni, e dalla quale discendono tutti gli altri rapporti e comportamenti. Ad un certo punto in questa catena si è inserito l’uomo, che ne ha modificato i meccanismi e l’ha adattata allo sue esigenze. In questo nuovo modello, chiamiamolo “culturale”, è evidente che i ruoli non li scelgono gli animali, sono gli umani a sceglierli per loro: ma anche prima della “domesticazione” i polli non avevano scelto di essere prede per le volpi e predatori per i lombrichi. Mettere in discussione queste evidenze mi sembra insensato: significa mettere in discussione tutta la storia evolutiva, e nella fattispecie quella dell’uomo, a partire dalla conquista del fuoco fino ad arrivare alla coltivazione della terra. Tutto ciò che caratterizza la “storia culturale” è una correzione di quella naturale, e allora o deprechiamo la comparsa della specie umana, e ci auguriamo che il suo passaggio su questa terra sia breve, oppure cerchiamo di valutare con un po’ di buon senso il suo rapporto con le altre specie. Certo, i nuovi ruoli sono dettati dalle esigenze umane, ma nella sostanza introducono solo una variabile nella scala gerarchica. Anziché esserci solo predatori o prede è entrata nel quadro anche una categoria intermedia, quella degli animali al servizio o al fianco dell’uomo.

A partire da questi dati di fatto, e senza dimenticare il buon senso, si può poi discutere di come questo rapporto sia stato interpretato, storicamente e individualmente. Ma c’è il rischio che ne esca un sermone. Quindi mi limito a un paio di riflessioni su ciò che vedo accadere attorno a me. Dove andrò a parare immagino lo si sia già capito.

 

Quello che vedo è un atteggiamento insensato e ipocrita.

È insensato perché pretende di attribuire agli animali un comportamento etico che è invece prerogativa degli umani (e neppure di tutti). Non che gli animali non abbiano i loro codici comportamentali, ma questi non si fondano sulla libertà di scelta, che è la base di ciò che noi appunto chiamiamo etica. Credo non lo pensi nessun etologo serio. I comportamenti degli animali sono determinati dall’istinto, anche quando sembrano sforare: siamo noi a leggere nelle loro manifestazioni di intelligenza e di affetto, che ci sono e che giustamente ci commuovono o ci sorprendono, una intenzionalità che sembra rimandare ad una autonomia morale. Confondiamo cioè una capacità intellettiva ed una “sensibilità” affettiva con l’esercizio di un libero arbitrio.

È difficile in questo rapporto mantenere le giuste misure. L’interazione con gli animali, soprattutto con alcune specie e soprattutto dopo la domesticazione, è sempre stata carica di ambiguità, e comunque improntata all’antropomorfizzazione, all’attribuzione ad essi di caratteri, qualità e sentimenti tipicamente umani. Già a partire da Aristotele la fisiognomica ha utilizzato tratti morfologici e comportamentali degli animali per creare parallelismi con quelli umani, che sono stati tradotti poi in letteratura spicciola e popolare dalle  favole di Fedro, di La Fontaine, di Perrault e dei Grimm. Addirittura fino alla metà dell’Ottocento si sono celebrati processi, sia ecclesiastici che penali, contro gli animali. Insomma, la tentazione di considerarli esseri pienamente senzienti e responsabili è sempre esistita.

Il problema è che nella nostra epoca questa tentazione ha imboccato una deriva inquietante. Quando tutti i valori e tutte le conoscenze sono considerati relativi, le linee di confine tra la realtà e la favola saltano, in ogni direzione. Sarà difficile ora ripristinarle per chi è cresciuto in un universo disneyano, circondato da pelouche di cani, gatti e orsetti e nutrito di fumetti, di cartoni animati, di film e di documentari che “umanizzano” gli animali. Non mi riferisco naturalmente solo al mondo di Topolinia, ma anche e soprattutto a film di animazione, da Bambi a L’Era Glaciale, e a quelli pseudo-naturalistici come Perri. E a letture adolescenziali come La collina dei conigli.

 

La novità è che questo mondo si configura come autonomo. È pensato a immagine e somiglianza di quello umano, ma popolato da animali. Mentre la letteratura precedente, ad esempio gli universi paralleli immaginati da La Fontaine, da Leopardi nei Paralipomeni o da Swift nel paese dei cavalli sapienti, raccontava gli uomini, e gli animali erano solo un travestimento satirico, nel mondo di Disney questa sorta di filtro che mantiene visibili le distanze non c’è. La caratterizzazione dei personaggi rispetta una certa convenzione fisiognomica e letteraria classica (i malviventi hanno volti di faina, i topolini, specie quelli di campagna, sono saggi, ecc …), ma gli sviluppi narrativi e l’ambientazione sono né più né meno quelli delle normali (insomma) vicende umane. E soprattutto, queste cose sono narrate per immagini in movimento, che coinvolgono più sensi e calamitano un’attenzione totale, disattivando ogni difesa critica. La sovrapposizione uomo-animale diventa così scontata e naturale che ad un certo punto non sappiamo (o non vogliamo) più distinguere tra i due mondi. (Va detto che i cartoons rivali, quelli della Warner ad esempio, presentano una situazione almeno in parte diversa. Lì i protagonisti mantengono intatte alcune delle loro peculiari caratteristiche animali: la caccia testarda di Silvestro a Titti e del Vilcoyote al Bip Bip, al di là di tutte le complicazioni e contaminazioni che vivacizzano la storia, rientra perfettamente nell’ordine naturale delle cose, nel rapporto predatore-preda).

 

Allo stesso modo, e più ancora, i film che vedono protagonisti gli animali (non solo quelli che ho citato prima, ma anche i vari Lassie e Rin tin tin e Flipper, o un classico come Il cucciolo, per rimanere a quelli della mia infanzia) hanno contribuito ad accreditarli di una complessità emozionale e di una attitudine razionale che, letteralmente, li “snaturano”. Non ho nulla contro Rin tin tin o contro Francis, il mulo parlante, che mi era anche particolarmente simpatico: ma mi sembra ineluttabile che una generazione già educata dal magnetismo dello schermo, grande o piccolo, a confondere e intersecare la dimensione reale con quella virtuale, vedendo in azione questi fenomeni e avendo nel contempo sempre minori occasioni di rapportarsi ad animali reali secondo le modalità naturali, finisca poi col perdere ogni senso della differenza.

E infatti. L’antropomorfizzazione mediatica ha persino trovato un supporto teorico nel pensiero “animalista” e “antispecista”. Qui la deriva diventa addirittura paranoide. Non è più questione di un rispetto che dovrebbe scaturire dal buon senso comune, e che oggettivamente è andato maturando nel tempo (Un ripensamento sul nostro rapporto col resto del regno animale era in corso da secoli: senza risalire sino a san Francesco, mi fermo alla Introduzione ai principi morali di Jeremy Bentham, nella quale già si parla di “diritti degli animali” – e siamo nella prima metà dell’Ottocento). Sulla scorta anche dell’interesse che si è diffuso in Occidente per il buddismo, sia pure in versione molto new age, è nata una vera e propria filosofia animalista che tende a rovesciare le posizioni nel rapporto. Non vale la pena spendere nemmeno una riga per personaggi come Peter Singer, il guru del movimento (quello di Liberazione animale), che arriva ad affermare che tra un bambino malformato e un vitello sano sia da salvaguardare quest’ultimo: ma temo che posizioni di questo tipo siano ormai più diffuse di quanto vorremmo credere. Anni fa una mia collega, affiliata alla LIPU (la Lega per la Protezione degli Uccelli) e disposta ad incatenarsi ad un albero per difendere un rifugio naturale, rifiutò sdegnosamente di sottoscrivere una petizione di Amnesty International per sottrarre alla pena di morte un condannato per reati politici: non voleva avere “implicazioni politiche”. Non è un caso singolo e raro di paranoia. La scelta di un animalismo integralista coincide frequentemente col rifiuto di assumere nei confronti degli umani qualsiasi responsabilità o di provare la minima compassione. D’altro canto, per intenderci, non è casuale che tra gli animalisti più convinti del secolo scorso ci fossero Hitler e Himmler.

 

 

Mi interessa molto di più però ragionare sull’ipocrita presunzione che sta sotto tutto questo, perché è un aspetto che tocca da vicino anche coloro che non professano un animalismo dottrinale. Coloro che semplicemente si rapportano ad un animale domestico negando i ruoli naturali. La presunzione è quella di una possibilità di conoscenza empatica che ci consente di entrare in sintonia profonda con specie diverse dalla nostra, e stravolge tutto l’ordine dei valori. Ora, è indubbio che un cane, un gatto, per qualcuno persino un boa, possano fare più compagnia di molti esseri umani: ma questo dipende dalla natura e dalla condizione di chi di questa compagnia ha bisogno. Gli animali sono solo un nostro specchio, non possono essere forzati a diventare degli interlocutori. Se ci appaiono a volte più intelligenti e più comprensivi degli umani è solo perché non ci contraddicono. E questo può anche gratificarci, ma non ci aiuta certo a crescere. Ci induce anzi a rifiutare le relazioni complesse, a scegliere la strada più comoda. Tanto è razionale dunque il rispetto loro dovuto, quanto è irrazionale la pretesa di stabilire con essi un rapporto alla pari (che spesso si sposa appunto con il rifiuto di rapportarsi ai propri simili, e di rispettarli), umanizzandoli e attribuendo loro una dignità etica di cui credo non sentano affatto il bisogno. L’esigenza di una compagnia è legittima, ma forse andrebbe prima cercata e coltivata con i conspecifici.

L’ipocrisia consiste nel volerci autoconvincere che l’attenzione esasperata nei confronti degli animali sia mossa da un altruistico amore. In realtà come ho detto sopra quello che si manifesta nel rapporto falsato è un atteggiamento molto egoistico: da un lato perché pretende appunto che gli animali rispondano alle nostre esigenze con un comportamento che è per loro innaturale, dall’altro perché il rapporto con gli animali è, almeno superficialmente, molto meno rischioso. L’animale non è mai in competizione con noi: la sua rimane comunque una completa dipendenza. E noi inneggiamo magari alla libera vita nei boschi, e poi costringiamo loro alla reclusione tra le quattro mura di un appartamento, li castriamo o li sterilizziamo, inibiamo ogni loro istinto di caccia e ogni capacità di sopravvivenza autonoma rimpinzandoli di porcherie addizionate con vitamine.

Non solo: questo amore è anche molto condizionato dalle mode. Basta considerare ad esempio quanti collie ci sono in giro oggi, mentre negli anni cinquanta, all’epoca del successo di Lassie, non si vedeva altro. In buona parte dei casi che conosco direttamente la compagnia di un animale è un ornamento, spesso un capriccio, talvolta persino uno status symbol. Non si spiega altrimenti il proliferare di levrieri afgani, di mastini tibetani, di ridgeback rodhesiani o di pitt-bull. Questo non c’entra con l’integralismo animalista, ma non ha nulla a che vedere nemmeno con l’amore.

Il fatto che gli animali non abbiano un comportamento etico non significa naturalmente che non dobbiamo assumerlo noi nei loro confronti. Ma questo dovrebbe andare da sé, conseguire da una corretta conoscenza di quale è il posto dell’uomo nella natura e dei doveri che ha nei confronti della stessa. Non sarà certo una carta dei diritti riconosciuta dall’ONU a far cambiare la mentalità e gli atteggiamenti. Anzi, aggiunge ipocrisia ad ipocrisia, nel momento in cui vengono sempre meno applicati e riconosciuti quelli degli esseri umani. Ancora una volta una parola di buon senso arriva da Kant che, pur non riconoscendo agli animali diritti derivanti dalla loro condizione di esseri viventi e senzienti, riteneva che l’uomo dovesse rispettarli perché la crudeltà nei loro confronti predisponeva ad un uguale comportamento verso i nostri simili. Io sarei ancora più esplicito: bisogna rispettarli perché ogni crudeltà, ogni mancanza di rispetto nei loro confronti è un segno di viltà e di assenza di dignità.

 

Ecco, il sermone alla fine è venuto fuori lo stesso. Ma voglio chiuderlo con un aneddoto. Una volta, ero ancora un ragazzino, ho organizzato una spedizione di commando per liberare un povero cane che stava alla catena da quando era nato, in un cascinale dall’altra parte della valle. Lo sentivo uggiolare tutto il santo giorno mentre lavoravo nel vigneto, e mi strappava il cuore. Con due amici ho allora studiato un piano: ci siamo attrezzati di tenaglioni per tranciare la catena e di lardo per rabbonirlo, e abbiamo atteso che il padrone, un uomo torvo e ferocissimo, si allontanasse per recarsi nei campi. La cosa si risolse in un disastro, perché quell’idiota alla nostra vista si mise ad abbaiare furiosamente, richiamando la figlia del contadino, e dovemmo battercela di corsa prima di essere riconosciuti. Di lontano, dall’albero sotto il quale ci eravamo nascosti, vedevamo il cane camminare ringhiando avanti e indietro per l’aia, trascinandosi dietro la catena, ma fiero del suo successo. Fu in quell’occasione che cominciai a dubitare che gli schiavi vogliano davvero essere liberati, o quantomeno a rendermi conto che ad un certo punto si immedesimano totalmente nel loro ruolo. Non so se stavo umanizzando il cane o animalizzando gli uomini: comunque, una lezione da quell’avventura l’ho tratta. Non ho mai più creduto nelle avanguardie rivoluzionarie.

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