di Paolo Repetto, 30 ottobre 2019
“… stormi d’uccelli neri
com’esuli pensieri
nel vespero migrar”
Quando ancora c’erano le stagioni (e addirittura le mezze stagioni, con tanto di nebbia in val Padana) e i commessi dei negozi di scarpe non si rivolgevano a clienti dell’età dei loro nonni usando la seconda persona, si ripeteva ogni anno un fenomeno conosciuto dalle nostre parti come “estate di san Martino”. Con questa dizione si indicava quell’intervallo meteorologico caratteristico dell’ autunno già avanzato (san Martino cade l’undici di novembre), nel quale, dopo i primi freddi e le prime piogge, si riaffacciavano per un brevissimo periodo (“l’estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino”, recita il proverbio) condizioni climatiche migliori, con tempo sereno e aria relativamente tiepida. È un fenomeno scientificamente certificato, nel senso che durante la prima metà del mese esiste in effetti la tendenza al verificarsi di condizioni anticicloniche miti, ed era comunque universalmente riconosciuto, sia pure sotto etichette diverse: nei paesi anglosassoni, poco teneri con i santi e più inclini all’esotico, si parlava ad esempio di estate indiana (Indian Summer), in quelli di lingua tedesca di Nachsommer, tarda estate, e in quelli slavi di Bab’e Leto, estate delle nonne (o anche, per sineddoche, “delle donne”). Ma le varianti sono infinite. In Bulgaria, ad esempio, è conosciuto come “estate zingara”. A ben considerare, lo troviamo sempre associato a categorie “deboli”, ritenute inferiori: quasi un piccolo, tardivo risarcimento, briciole di sole lasciate anche a loro; o forse, più probabilmente, un’allusione alla falsità e all’inconsistenza del fenomeno.
Nell’altro emisfero, naturalmente, queste condizioni si verificano in un diverso periodo dell’anno (in genere ai primi di maggio) ma la sostanza, e la diffusione dell’immagine, non cambiano. Forse in Australia la chiamano “estate aborigena”.
Nel libro di lettura delle elementari il nobile Martino era uno dei primi personaggi a comparire (all’epoca le scuole iniziavano a ottobre inoltrato) e la sua storia ci forniva ad un tempo edificazione morale e informazione etimologica: nel corso degli anni era poi quest’ultima a prevalere, quando dalla vicenda del mantello si passava alle poesie di Carducci (San Martino) e di Pascoli (Novembre). Dalla connotazione meteorologica e consuetudinaria si approdava quindi alla trasfigurazione simbolica, a sottolineare l’illusorietà di un incanto improvviso recato dal bel tempo, che si cancella però altrettanto rapidamente. La metafora era esplicita soprattutto in Pascoli:
Gèmmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore ….
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore …
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
Ecco, ogni volta che ci si chiede cos’è la poesia, basterebbe rileggere questi versi, e qualunque analisi critica o testuale diverrebbe superflua. Li ho letti (e mandati a memoria) attorno ai dieci anni, eppure ho capito perfettamente di cosa si stava parlando. Per il resto della mia vita un altrimenti inesprimibile stato d’animo sarebbe rimasto fissato in quelle immagini, nel suono di quelle parole.
I passaggi di significato della locuzione li ho vissuti tutti. Li ho visti nelle trasformazioni della società e li ho vissuti nei cambiamenti miei. Un fugace sprazzo di sole nel troppo breve autunno di mio nonno avrebbe dovuto essere rappresentato dalla pensione di vecchiaia: una miseria in termini di potere d’acquisto, ma una minima garanzia di sicurezza, mai conosciuta in precedenza. In realtà rispetto alle sue prospettive non cambiò nulla. Per lui san Martino rimase sempre la scadenza per il rinnovo degli affitti, delle mezzadrie. “Fare san Martino” era il modo di dire che indicava il cambio di lavoro, la perdita di un’affittanza, la necessità di traslocare: e nel corso della sua esistenza ebbe modo di inverarlo più di una volta. All’ultimo dei suoi traslochi ho personalmente assistito e partecipato.
Per mio padre, che già viveva nel suo e del suo, e da ragazzino si era giurato che nessuno lo avrebbe mai più obbligato a far su gli stracci, forse uno scorcio d’estate venne dal poter tirare il fiato vedendo i figli in qualche modo sistemati. Da uomo pratico qual era non dava molto credito ai proverbi, ma in alcuni casi li adattava ai propri bisogni e ai propri piani. La torchiatura, ad esempio, doveva essere chiusa entro la prima decade di novembre, perché le prevedibili belle giornate successive andavano sfruttate per dare inizio alla potatura. Per il resto, gli era stato giocoforza, se aveva voluto sopravvivere, abolire le stagioni lavorative tradizionali, unificandole in un continuum che veniva brevemente interrotto (o meglio, diversificato) solo dalla neve.
Quanto a me, la falsa estate metereologica ha rappresentato per qualche anno, appena superata l’adolescenza, l’appuntamento per l’ultimo bagno in mare, uno scampolo di quella vita totalmente libera dalle costrizioni dei vestiti, dello studio o del lavoro che avevo conosciuto fino a qualche anno prima. Poi è scomparsa per decenni, cancellata dai nuovi ritmi che scandivano la mia esistenza, dal succedersi di giorni e mesi e anni inesorabilmente sempre più uguali. Ma per tornare oggi più attuale che mai, questa volta nella sua valenza simbolica.
Quella che sto vivendo è a tutti gli effetti una estate indiana: un periodo di eccezionale tranquillità, un’apertura mai sperimentata prima e forse mai nemmeno sperata a tutto il possibile. Ho trascorso una vita a procurarmi gli strumenti, a raccogliere i materiali: ora ho tutti i libri che mi occorrono, forse qualcuno in più, la salute per il momento mi sorregge egregiamente, i sensi sono pacificati, ho dalla mia anche la disponibilità immediata del tempo, la possibilità di gestirlo come voglio, e con la ricomparsa dell’anticiclone potrei cominciare ad edificare qualcosa di nuovo. Ma sul tutto grava l’ombra della precarietà. È un tempo determinato. Sento il rumore delle foglie che cadono, vedo il pruno spoglio e rinsecchito. Questo tepore arriva troppo tardi, mi sorprendo come chi si accorge di aver cumulato un tesoro in valuta fuori corso. Ho il mondo a disposizione, ma non so che farmene, perché sono cosciente che qualunque cosa faccia non avrà futuro e non farà bagaglio. E ciononostante, vedo chiudersi ogni giornata col rimorso di non averla sfruttata come meritava e chiedeva.
***
Non credo sia una sensazione solo mia. (Temo a questo punto che il pezzo sarà ben più lungo di un’estate indiana, perché l’argomento mi forza ad alcune considerazioni – non dite poi che non vi avevo avvertito). L’attualità simbolica dell’estate di san Martino non riguarda solo me, ma tutta la mia generazione. In apparenza siamo di fronte a un’entusiastica riscoperta della terza età, ispirata da dati di fatto incontestabili: la vita si allunga, ci sono maggiori probabilità di viverla sino in fondo in discreta salute e confortati da una certa tranquillità economica. Nella realtà l’enfasi sul “vecchio è bello” (badando bene però a non usare “vecchio”, che è politicamente scorretto, e a spendere con parsimonia anche “anziano” e “attempato”) ha una motivazione puramente commerciale, così come accadeva mezzo secolo fa per quella posta sul protagonismo della gioventù. In fondo gli anziani sono gli unici a godere, ancora per il momento, di una disponibilità di spesa costante e prevedibile, e al tempo stesso sembrano ansiosi, avendo soddisfatti i bisogni essenziali, di farsene dettare di nuovi o di riscoprire quelli sopiti (viaggi, sesso, moda, eventi “culturali”, ecc). Sono insomma i consumatori ideali. Va da sé che all’interno di questa rivalorizzazione non è riconosciuta alcuna delle virtù tradizionalmente associate, nel mondo preindustriale e ancora fino a qualche decennio fa in quello rurale, alla terza età: esperienza, saggezza, pacatezza, ecc… Si gioca anzi sugli opposti: totale deresponsabilizzazione, infantilismo, giovanilismo. I referenti non sono Cicerone, Seneca, Petrarca o Norberto Bobbio, ma il personal trainer, l’estetista, il dietologo, il sessuologo.
È andata così. La mia generazione a vent’anni gridava “Vogliamo tutto”, e una volta rientrati gli eroici furori rivoluzionari ha ripetuto quel grido in ogni altra direzione che garantisse in qualche modo una visibilità, una qualsivoglia impronta da lasciare sulla sabbia del tempo. È passata dal superomismo terroristico al misticismo esotizzante, e poi all’edonismo più o meno reaganiano e alle fulminanti carriere finanziarie. Non si è negata nulla. Le sue ex-avanguardie “proletarie” hanno dato la caccia ai ruoli di potere a qualsiasi livello o ambito, politico, finanziario, accademico, adeguandosi via via ai sempre nuovi e incalzanti dettami della società dello spettacolo, non dando ma diventando spettacolo esse stesse. E chi non ha potuto essere protagonista ha partecipato allo show almeno nel ruolo di spettatore connivente. Le eccezioni, quelli che hanno cercato di tenersi fuori dal teatro, proprio perché non visibili risultavano irrilevanti.
Le stagioni però passano, anche quelle teatrali, e le repliche in un sistema votato al consumo rapido si esauriscono velocemente. I miei coetanei vivono oggi (me compreso) in un limbo pensionistico più o meno dorato le cui rette sono pagate dalle generazioni future. Quelli normalmente senzienti (che sono sempre più una minoranza: per averne la prova basta sostare per cinque minuti al tavolino di un qualsiasi bar o partecipare ad una qualsiasi “rimpatriata”) assistono inermi al progressivo smottare di ghiacciai, banchise, principi etici e regole elementari di comportamento: e lo sgomento nasce, prima ancora che dalla consapevolezza che il fenomeno è inarrestabile, dalla coscienza di essersene resi in qualche misura complici. Il che, a sua volta, fornisce l’alibi per chiamarsi fuori, con tutte le varianti del caso, che spaziano da chi ritiene di avere già dato a chi considera più opportuno, visti i risultati, non fare altri danni. Anziché ad una coda d’estate sembriamo essere approdati in un banco di nebbia che non consente di guardare avanti, ma permette di rendersi comodamente invisibili.
Anche i più responsabili appaiono confusi e rassegnati. Eppure avrebbero in mano le carte, le competenze per ridare un minimo di dignità alla politica, sottrarla ai cialtroni analfabeti che la stanno riducendo a gazzarra e indirizzarla su terreni e scelte più sensati: qualcosa dagli errori commessi e dalle scottature rimediate hanno pur appreso. Il fatto è che anche loro si considerano fuori gioco. L’idea che il futuro debbano disegnarlo i giovani, che ad essi solo appartenga, hanno in fondo cominciato a predicarla proprio loro, dimenticando che siamo sapiens appunto perché capaci di trasmettere le esperienze. E questa idea oggi torna comoda per giustificare la propria assenza. Un modo elegante e ipocrita per lavarsene le mani.
Non tutti, certamente: ma quelli che invece ancora partecipano lo fanno o guardando al passato, alla loro vera o presunta lunga estate, o accodandosi a una visione di futuro con la quale hanno in realtà poco da spartire. Presenziano stancamente agli appuntamenti rituali, alle liturgie commemorative di resistenze, eccidi, anniversari, ai cortei del primo maggio, là dove ancora si fanno. Si barricano dietro la memoria perché si sentono già esclusi dalla storia: e provano questa sensazione proprio perché la storia non l’hanno mai coltivata correttamente, ne hanno data una lettura superficiale e faziosa. Oppure affiancano i nipoti nelle manifestazioni, nei cortei, nei flash mob, e ne scimmiottano modi e linguaggi: ma in realtà si sforzano vanamente di costringere entro gli schemi rigidi del passato delle idealità sfuggenti, più confuse, se possibile, di quelle professate in proprio mezzo secolo fa. Gli uni e gli altri si aggrappano ad ogni causa d’attualità, dall’europeismo all’animalismo, dal femminismo all’ambientalismo, come a un salvagente che li tenga a galla in mezzo ai marosi della “liquidità” postmoderna: ma senza più vedere all’orizzonte nessuna spiaggia, nessuna riva verso la quale dirigersi.
Insomma: in una società, quella occidentale tutta ma segnatamente quella italiana, nella quale gli ultrasessantenni si avviano a diventare la maggioranza della popolazione, la loro rappresentatività sembra certificata solo dagli istituti pensionistici, sempre più in sofferenza, o dal carrozzone degli “eventi”, sempre più affollati.
E allora? Discorso chiuso? Con questo atteggiamento, senza dubbio. Io credo però che un margine pur minimo di scelta, e quindi il dovere di assumere delle responsabilità, rimanga anche a noi. Abbiamo due opzioni: possiamo andare alla ricerca degli albicocchi in fiore di cui parla Pascoli, magari dall’altra parte dell’oceano, profittando dei prezzi di bassa stagione delle crociere, oppure possiamo dedicarci a tenere in ordine il nostro piccolo orto, come suggeriva Voltaire. Mio nonno e mio padre non avrebbero avuto dubbi, anche perché di crociere non avevano mai sentito parlare. Ragionavano in termini di semine, reimpianti, innesti. Hanno ragionato così sino agli ultimi giorni della loro vita. E sapevano ad esempio che una buona potatura è imprescindibile, prima ancora che per raccogliere qualcosa, per tenere in vita le piante. Potremmo provarci anche noi, senza chiederci se la cosa frutterà, e quando. Anche solo per impegnare utilmente questi brandelli d’estate, prima che il gelo imminente ci paralizzi.
Ci sono un sacco di cose che in concreto potremmo fare, al di là delle attività di volontariato alle quali molti già si dedicano. Non ho nulla contro il volontariato, ritengo sia una scelta meritoria, quando è motivata da un altruismo genuino (e sui moventi possibili ci sarebbe da discutere a lungo e fare parecchie distinzioni): ma qui mi riferisco ad una partecipazione di altro tipo, non alternativa o conflittuale con le attività eventualmente già praticate, ma capace anzi di sostanziarle, di inserirle in un disegno di lungo termine. Parlo non di una attività, ma di un’attitudine da assumere nei confronti di tutto ciò che si fa, che si vede, che si subisce. Di qualcosa che non offre né un servizio suppletivo alle carenze della politica né una gratificazione immediata per chi lo opera, ma appunto non si esaurisce né in questa né in quella, non rappezza le crepe della società ma ne verifica e ne consolida la tenuta strutturale: e nel contempo ci rimette individualmente in discussione, ci obbliga a rifiutare l’anestetico dell’irresponsabilità. Mi rendo conto che è una enunciazione molto vaga, e in effetti non è facile da tradurre poi in qualcosa di visibile, monitorabile, valutabile. Ma qui il criterio non è quello produttivistico dell’efficienza e dell’efficacia. È più semplicemente quello dell’imperativo etico kantiano: rispettare se stessi per poter avere rispetto degli altri, e pretendere da essi reciprocità.
Per non gingillarmi oltre provo a buttare giù un’agenda minima, le prime cose che mi vengono in mente. Non è un manifesto programmatico per il riscatto della terza età, che suonerebbe patetico (e non solo per l’irrilevanza del pulpito e per la genericità dei contenuti): è un promemoria ad uso personale, per ricordarmi che né l’anagrafe né le delusioni o le sconfitte giustificano mai la resa.
Allora. Si potrebbe cominciare riparando i guasti prodotti dalla nostra generazione nell’ultimo mezzo secolo. Intendiamoci: ogni generazione, a partire da Adamo, ha prodotto i suoi guasti, e quasi sempre in buona fede, cercando di riparare ai danni veri o presunti creati da quella precedente, magari cogliendo di preferenza gli aspetti collaterali negativi piuttosto che i dati di effettivo progresso sociale ed economico: noi non rappresentiamo una eccezione, ma siamo resi più sensibili dalla velocità, dall’ampiezza e dalla difficoltà di tenere sotto controllo le trasformazioni cui abbiamo assistito, o anche semplicemente di comprenderle. Proprio per questo, se abbiamo l’impressione che qualcosa ci sia sfuggito di mano, dobbiamo assumercene la responsabilità. Non è il caso comunque di mettere mano a grandi idee, di predicare una totale palingenesi. Ai nipoti non rimarrebbe il tempo per aspettare che le prime attecchiscano e che la seconda si compia. Devono poter sopravvivere subito, per coltivare poi, auspicabilmente, scelte nuove di rapporto col mondo. A noi compete recuperare ciò che può dare frutti più immediati.
La prima necessaria manutenzione riguarda naturalmente gli strumenti, ovvero il linguaggio. Bisogna ripulire le parole delle incrostazioni che sono state create da un loro uso improprio o volutamente distorto, o da una “decostruzione” che si è risolta in puro massacro. Con le ambiguità del linguaggio ha giocato in pratica tutta la cultura del secondo novecento, ma il gioco è stato portato talmente avanti da far scordare le regole basilari e originarie. Si è creata una notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere. Invece la possibilità di costruire una memoria comune, di relazionarsi senza equivoci nel presente, di pensare un futuro che contempli anche gli altri, può basarsi solo su un linguaggio chiaro, sulla condivisione universale del significato di ciascun termine, pur con tutte le sfumature o gli adeguamenti ai diversi contesti. La correttezza filologica, e non quella politica, deve diventare condizione preliminare di qualsivoglia discorso: dobbiamo praticarla, dobbiamo esigerla dagli altri, dobbiamo insegnarla.
Come? Prendiamo ad esempio l’uso assolutamente improprio del termine “eroe” da parte del giornalismo gridato, ma anche la sua dissacrazione da parte del “pensiero debole”. Si va dal “tutti eroi” a “nessun eroe”. Eppure esiste una definizione chiara, che consente di attribuire correttamente quella particolare proprietà. La si trova persino su Wikipedia: L’eroe è colui che compie uno straordinario e generoso atto di coraggio, che comporti o possa comportare il consapevole sacrificio di se stesso, allo scopo di proteggere il bene altrui o comune. Ora, per ristabilire le giuste proporzioni è sufficiente chiarire ai giovani che lo straordinario e generoso atto di coraggio non è necessariamente un’impresa bellica, può essere l’assistenza prestata per tutta la vita a un familiare affetto da una menomazione fisica o psichica (quindi gli eroi esistono, eccome), e non ha comunque a che vedere con una rete realizzata all’ultimo minuto o con l’attraversamento di un canyon su una corda d’acciaio. E lo stesso vale per lo stiracchiamento di parole come “povertà”, “popolo”, “gente”, “indignazione”, ecc …
Operazioni del genere spetterebbero innanzitutto alla scuola, anche se non solo ad essa. Ma nelle condizioni disastrose in cui la scuola versa, e stante il ruolo sempre più marginale che si trova a ricoprire, ecco che si crea la necessità di un’entrata in scena dei nonni (ovvero nostra). È l’occasione per la categoria di riscattarsi: il rapporto con i figli è stato un mezzo fallimento, non perché si fosse impegnati in troppe altre cose (i genitori, i padri soprattutto, almeno dalle mie parti lo sono sempre stati) ma perché ci si è lasciati inculcare dalla psicologia “progressista” degli assurdi sensi di colpa, tacitati poi con un eccesso di assiduità o condiscendenza. Per questo credo occorra saltare una intera generazione e rivolgersi direttamente ai nipoti, facendo tesoro dell’esperienza e giocando sul fatto che siamo investiti sempre di più di un ruolo di supplenza “logistica” nei loro confronti. Bene, facciamola diventare una supplenza educativa, tappando le falle create dal permissivismo. E soprattutto operando attraverso l’esemplarità.
Se le parole tornano ad avere “un” senso, si può allora riparlare di verità. Non mi riferisco naturalmente alle verità rivelate, dogmatiche, ma a quelle intuitive, quotidiane, o anche a quelle provvisorie ma funzionanti della scienza e a quelle certificate dalla storia. Se un tizio strangola o accoltella la fidanzata che vuole lasciarlo, quali che siano le diagnosi psichiatriche o le interpretazioni sociologiche, quello è il male. Lui è il carnefice, lei la vittima. Sembra ovvio, ma per la mentalità ipergarantista trionfante negli ultimi cinquant’anni non lo era affatto. L’altra sera il conduttore di un telegiornale, a proposito di un marito che si era presento in caserma con l’arma ancora fumante a confessare di aver ucciso la moglie, ha parlato di “presunto omicida”. Dietro la cortina fumogena del “politicamente corretto” anche le più sacrosante rivendicazioni di verità e di dignità si disperdono in un bizantinismo assurdo.
Un criterio analogo vale naturalmente, e tanto più, per i grandi crimini storici. Là dove ci sono stati stermini, massacri, persecuzioni e vessazioni di ogni tipo, da una parte c’erano dei criminali e dall’altra delle vittime, e i distinguo, per queste ultime, sono solo un ulteriore oltraggio. Facciamo dunque conoscere ai nipoti gli orrori delle guerre e dei totalitarismi, ma non demandando la cosa agli “eventi” e alle commemorazioni ufficiali, ai quali partecipano d’ufficio, e spesso anche di malavoglia, precettati dalle scuole, e dei quali non potrebbe importare loro di meno. Dobbiamo trasmettere loro le testimonianze vive che noi stessi abbiamo raccolto, ad esempio attraverso il racconto diretto di conoscenti reduci dai campi o di sopravvissuti alla ritirata di Russia, o attingendo ai libri di Levi, di Revelli, di Solgenitzin. Ma bisogna sottrarre queste letture e queste testimonianze alla canonizzazione scolastica che le sterilizza, a dispetto di tutte le buone intenzioni, e offrirle ai ragazzi come un dono individuale, condividerle per suscitare in loro un’indignazione genuina, una speciale complicità.
Dovremmo anche vaccinarli contro la campagna di delegittimazione dello studio della storia che è stata condotta dal pensiero post-moderno, e oggi è cavalcata da qualsiasi idiota, ministri dell’istruzione compresi, a giustificazione della propria ignoranza. La narrazione storica (che nella mia accezione comprende anche la geografia, la storia naturale, la storia delle idee, delle mentalità, dell’arte, ecc…) si presta senz’altro a falsificazioni, a manipolazioni, a usi distorti: ma sappiamo benissimo che una lettura non preconcetta dei documenti e l’esame critico delle testimonianze consentono comunque di ricostruire il più possibile la “verità” dei fatti accaduti. Non è dunque vero che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”: per tornare a quanto sopra, milioni di morti ammazzati sono un fatto, e non c’è santo o ideale o astuzia della ragione che tenga. E allora diventa tassativo difendere la verità della storia da ogni negazionismo e relativismo e “decostruttivismo” e riconoscere al suo studio il giusto primato.
Così scrive René Girard, ne “L’antica via degli empi”: Oggi la volontà di “rispettare le differenze” arriva al punto di mettere tutte le “verità” sullo stesso piano. Abbandona, in fondo, l’idea stessa di verità, poiché in essa non vede altro che una fonte di conflitto. Ma se noi mettiamo la “verità dei persecutori” e la “verità della vittima” allo stesso livello, presto non ci saranno più né verità né differenze per nessuno.
In sostanza: occorre chiarire ai ragazzi che un conto è affrontare un testo da diversi punti vista, per esplorarne tutte le possibili implicazioni, un altro è accettare il principio che le interpretazioni possano essere molteplici, ciò che significa considerare ugualmente validi tutti i punti di vista: in questo caso si fa solo il gioco dei persecutori, perché si rende inaccessibile la verità storica e si oscura comunque quella della vittima. Le interpretazioni di un documento o di una vicenda non sono infinite: di fatto in genere si riducono a due, la versione dei persecutori e quella delle vittime. E solo una di esse è vera, ed è quella che corrisponde al punto di vista della vittima. Ora, si tratta in fondo di preservare quell’istintiva sensibilità alla giustizia che i giovani di norma già possiedono, proprio per la loro tendenza a semplificare: quella sensibilità va semmai sostanziata aiutandoli a procurarsi una informazione ampia e seria, e a leggerla con gli occhiali giusti.
Lo stesso vale per l’ambito scientifico. Anche là dove ha senso solo ciò che è falsificabile, come dice Popper, alcune verità sono comunque inoppugnabili: il fatto che la penicillina abbia salvato milioni di vite, ad esempio, o che l’universo si espande, oppure che due molecole che si uniscono per formarne una terza agiscono secondo particolari meccanismi. Così come per la storia, non possiamo lasciar passere l’idea che le nostre conoscenze siano tutte viziate da una strumentalità originaria, che siano intercambiabili o addirittura inutili: possono essere state strumentalizzate ai fini peggiori, ma questo non ne inficia comunque la validità e non ne preclude il possibile uso positivo. L’alternativa è il trionfo dei ciarlatani, dei terrapiattisti, delle terapie ayurvediche, di tutto il ciarpame diffuso attraverso il web: è quello cui stiamo passivamente assistendo.
Non si può pretendere naturalmente che siamo noi a trasmettere le conoscenze, né quelle di base né quelle avanzate: per questo c’è ancora la scuola, pur con tutte le sue carenze. A noi spetta semmai il compito di vigilare affinché non passino attraverso essa informazioni errate e un modello di cultura in disarmo. Ma per poterlo fare occorre aiutarla a recuperare una dignità d’immagine e di ruolo, partendo dalle cose più spicciole, come il mettere i nostri nipoti di fronte alle proprie responsabilità per ogni piccolo fallimento, anziché riversare queste ultime sugli insegnanti e sull’istituzione nel suo complesso. Il richiamare la scuola alle sue, di responsabilità, è solo un passo successivo, che comporta scelte politiche di più vasto raggio. Ed è legittimo solo quando si è fatto il primo. Il che suppone un comportamento esattamente contrario a quello tenuto dalle ultime due generazioni nei confronti dei figli.
Finalmente, una volta scelti e ripuliti e oliati gli strumenti conoscitivi che i nostri ragazzi hanno a disposizione (e ci sta naturalmente anche internet, e ci stanno anche gli altri media, persino il cinema, la televisione, i fumetti, ecc.., ma opportunamente guidati e controllati), potremmo indurre questi ultimi a riflettere su concetti che danno per scontati, ma dei quali hanno in realtà una percezione distorta (quello di diritto, ad esempio, o di uguaglianza, o di cultura) e su sentimenti la cui accezione nella “società liquida” e nell’impero del rapido consumo è stata completamente stravolta (come l’amicizia, o l’amore). Potremo dire loro chiaro e tondo che i diritti non nascono come i porcini sotto le querce, non esistono in natura, nemmeno quelli più elementari: sono un prodotto artificiale, che va seminato negli animi e poi curato e difeso dagli infestanti e dai devastatori. Non competono per trasmissione genetica o ereditaria, ma vanno riconquistati e meritati giorno per giorno.
Potremmo anche aggiungere che i diritti, così come il concetto di uguaglianza, sono un prodotto di quella cultura delle élites che nell’ultimo secolo è stata messa sul banco degli imputati proprio dal suo cascame, l’arroganza intellettualistica. E che la cultura “illuministica”, “borghese”, elitaria appunto, nei confronti della quale oggi si manifesta tanto disprezzo, non sta dietro Auschwitz, che ne è anzi la totale negazione, ma piuttosto dietro la riflessione e l’orrore e il senso di colpa che Auschwitz ha prodotto. Oltre naturalmente a spiegare loro la differenza tra cultura e “prodotto culturale”. Ovverossia a chiarire che la cultura, nel momento stesso in cui viene svalorizzata come valore etico, quindi come frutto di un processo interiore di miglioramento, diventa una merce come le altre e si crea un mercato, le cui bancarelle sono le mostre alla Sgarbi e i festival-sagra del sapere.
E ancora: potremmo chiarire la differenza esistente tra massa, moltitudine e popolo, e il vero significato di uguaglianza. Infine, spiegare loro che in futuro non potranno vivere al livello attuale di benessere materiale, ma che questa situazione non è inedita. L’umanità l’ha già vissuta in precedenza, e se in altre epoche era più tollerabile perché non si era mai conosciuto nulla di meglio, nella nostra può essere affrontata comunque con un livello molto più alto di conoscenze. Sarà la parte più difficile, perché la nostra responsabilità diretta in questa situazione è grande. Ma non possiamo permettere che crescano nella cultura dilagante del risentimento e del vittimismo. Soprattutto, non potranno permetterselo loro.
Non aggiungo altro, anche se le piccole riparazioni possibili sarebbero moltissime, perché l’ho già tirata sin troppo in lungo. E vi è andata bene così. Altro che estate indiana. Questo è un programma a tempo indeterminato. Non si pone scadenze, perché non si risolve in azioni specifiche, ma punta ad un cambiamento radicale di mentalità. E va applicato prima di tutto a noi stessi.
Mal che vada, avremo ridato un senso almeno alla nostra estate di san Martino.