Tutto finì con un autunno mite

di Paolo Repetto, 30 ottobre 2019

“… stormi d’uccelli neri
com’esuli pensieri
nel vespero migrar”

Quando ancora c’erano le stagioni (e addirittura le mezze stagioni, con tanto di nebbia in val Padana) e i commessi dei negozi di scarpe non si rivolgevano a clienti dell’età dei loro nonni usando la seconda persona, si ripeteva ogni anno un fenomeno conosciuto dalle nostre parti come “estate di san Martino”. Con questa dizione si indicava quell’intervallo meteorologico caratteristico dell’ autunno già avanzato (san Martino cade l’undici di novembre), nel quale, dopo i primi freddi e le prime piogge, si riaffacciavano per un brevissimo periodo (“l’estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino”, recita il proverbio) condizioni climatiche migliori, con tempo sereno e aria relativamente tiepida. È un fenomeno scientificamente certificato, nel senso che durante la prima metà del mese esiste in effetti la tendenza al verificarsi di condizioni anticicloniche miti, ed era comunque universalmente riconosciuto, sia pure sotto etichette diverse: nei paesi anglosassoni, poco teneri con i santi e più inclini all’esotico, si parlava ad esempio di estate indiana (Indian Summer), in quelli di lingua tedesca di Nachsommer, tarda estate, e in quelli slavi di Bab’e Leto, estate delle nonne (o anche, per sineddoche, “delle donne”). Ma le varianti sono infinite. In Bulgaria, ad esempio, è conosciuto come “estate zingara”. A ben considerare, lo troviamo sempre associato a categorie “deboli”, ritenute inferiori: quasi un piccolo, tardivo risarcimento, briciole di sole lasciate anche a loro; o forse, più probabilmente, un’allusione alla falsità e all’inconsistenza del fenomeno.

Nell’altro emisfero, naturalmente, queste condizioni si verificano in un diverso periodo dell’anno (in genere ai primi di maggio) ma la sostanza, e la diffusione dell’immagine, non cambiano. Forse in Australia la chiamano “estate aborigena”.

Nel libro di lettura delle elementari il nobile Martino era uno dei primi personaggi a comparire (all’epoca le scuole iniziavano a ottobre inoltrato) e la sua storia ci forniva ad un tempo edificazione morale e informazione etimologica: nel corso degli anni era poi quest’ultima a prevalere, quando dalla vicenda del mantello si passava alle poesie di Carducci (San Martino) e di Pascoli (Novembre). Dalla connotazione meteorologica e consuetudinaria si approdava quindi alla trasfigurazione simbolica, a sottolineare l’illusorietà di un incanto improvviso recato dal bel tempo, che si cancella però altrettanto rapidamente. La metafora era esplicita soprattutto in Pascoli:

Gèmmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore ….
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore …
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

Ecco, ogni volta che ci si chiede cos’è la poesia, basterebbe rileggere questi versi, e qualunque analisi critica o testuale diverrebbe superflua. Li ho letti (e mandati a memoria) attorno ai dieci anni, eppure ho capito perfettamente di cosa si stava parlando. Per il resto della mia vita un altrimenti inesprimibile stato d’animo sarebbe rimasto fissato in quelle immagini, nel suono di quelle parole.

I passaggi di significato della locuzione li ho vissuti tutti. Li ho visti nelle trasformazioni della società e li ho vissuti nei cambiamenti miei. Un fugace sprazzo di sole nel troppo breve autunno di mio nonno avrebbe dovuto essere rappresentato dalla pensione di vecchiaia: una miseria in termini di potere d’acquisto, ma una minima garanzia di sicurezza, mai conosciuta in precedenza. In realtà rispetto alle sue prospettive non cambiò nulla. Per lui san Martino rimase sempre la scadenza per il rinnovo degli affitti, delle mezzadrie. “Fare san Martino” era il modo di dire che indicava il cambio di lavoro, la perdita di un’affittanza, la necessità di traslocare: e nel corso della sua esistenza ebbe modo di inverarlo più di una volta. All’ultimo dei suoi traslochi ho personalmente assistito e partecipato.

Per mio padre, che già viveva nel suo e del suo, e da ragazzino si era giurato che nessuno lo avrebbe mai più obbligato a far su gli stracci, forse uno scorcio d’estate venne dal poter tirare il fiato vedendo i figli in qualche modo sistemati. Da uomo pratico qual era non dava molto credito ai proverbi, ma in alcuni casi li adattava ai propri bisogni e ai propri piani. La torchiatura, ad esempio, doveva essere chiusa entro la prima decade di novembre, perché le prevedibili belle giornate successive andavano sfruttate per dare inizio alla potatura. Per il resto, gli era stato giocoforza, se aveva voluto sopravvivere, abolire le stagioni lavorative tradizionali, unificandole in un continuum che veniva brevemente interrotto (o meglio, diversificato) solo dalla neve.

Quanto a me, la falsa estate metereologica ha rappresentato per qualche anno, appena superata l’adolescenza, l’appuntamento per l’ultimo bagno in mare, uno scampolo di quella vita totalmente libera dalle costrizioni dei vestiti, dello studio o del lavoro che avevo conosciuto fino a qualche anno prima. Poi è scomparsa per decenni, cancellata dai nuovi ritmi che scandivano la mia esistenza, dal succedersi di giorni e mesi e anni inesorabilmente sempre più uguali. Ma per tornare oggi più attuale che mai, questa volta nella sua valenza simbolica.

Quella che sto vivendo è a tutti gli effetti una estate indiana: un periodo di eccezionale tranquillità, un’apertura mai sperimentata prima e forse mai nemmeno sperata a tutto il possibile. Ho trascorso una vita a procurarmi gli strumenti, a raccogliere i materiali: ora ho tutti i libri che mi occorrono, forse qualcuno in più, la salute per il momento mi sorregge egregiamente, i sensi sono pacificati, ho dalla mia anche la disponibilità immediata del tempo, la possibilità di gestirlo come voglio, e con la ricomparsa dell’anticiclone potrei cominciare ad edificare qualcosa di nuovo. Ma sul tutto grava l’ombra della precarietà. È un tempo determinato. Sento il rumore delle foglie che cadono, vedo il pruno spoglio e rinsecchito. Questo tepore arriva troppo tardi, mi sorprendo come chi si accorge di aver cumulato un tesoro in valuta fuori corso. Ho il mondo a disposizione, ma non so che farmene, perché sono cosciente che qualunque cosa faccia non avrà futuro e non farà bagaglio. E ciononostante, vedo chiudersi ogni giornata col rimorso di non averla sfruttata come meritava e chiedeva.

***

Non credo sia una sensazione solo mia. (Temo a questo punto che il pezzo sarà ben più lungo di un’estate indiana, perché l’argomento mi forza ad alcune considerazioni – non dite poi che non vi avevo avvertito). L’attualità simbolica dell’estate di san Martino non riguarda solo me, ma tutta la mia generazione. In apparenza siamo di fronte a un’entusiastica riscoperta della terza età, ispirata da dati di fatto incontestabili: la vita si allunga, ci sono maggiori probabilità di viverla sino in fondo in discreta salute e confortati da una certa tranquillità economica. Nella realtà l’enfasi sul “vecchio è bello” (badando bene però a non usare “vecchio”, che è politicamente scorretto, e a spendere con parsimonia anche “anziano” e “attempato”) ha una motivazione puramente commerciale, così come accadeva mezzo secolo fa per quella posta sul protagonismo della gioventù. In fondo gli anziani sono gli unici a godere, ancora per il momento, di una disponibilità di spesa costante e prevedibile, e al tempo stesso sembrano ansiosi, avendo soddisfatti i bisogni essenziali, di farsene dettare di nuovi o di riscoprire quelli sopiti (viaggi, sesso, moda, eventi “culturali”, ecc). Sono insomma i consumatori ideali. Va da sé che all’interno di questa rivalorizzazione non è riconosciuta alcuna delle virtù tradizionalmente associate, nel mondo preindustriale e ancora fino a qualche decennio fa in quello rurale, alla terza età: esperienza, saggezza, pacatezza, ecc… Si gioca anzi sugli opposti: totale deresponsabilizzazione, infantilismo, giovanilismo. I referenti non sono Cicerone, Seneca, Petrarca o Norberto Bobbio, ma il personal trainer, l’estetista, il dietologo, il sessuologo.

È andata così. La mia generazione a vent’anni gridava “Vogliamo tutto”, e una volta rientrati gli eroici furori rivoluzionari ha ripetuto quel grido in ogni altra direzione che garantisse in qualche modo una visibilità, una qualsivoglia impronta da lasciare sulla sabbia del tempo. È passata dal superomismo terroristico al misticismo esotizzante, e poi all’edonismo più o meno reaganiano e alle fulminanti carriere finanziarie. Non si è negata nulla. Le sue ex-avanguardie “proletarie” hanno dato la caccia ai ruoli di potere a qualsiasi livello o ambito, politico, finanziario, accademico, adeguandosi via via ai sempre nuovi e incalzanti dettami della società dello spettacolo, non dando ma diventando spettacolo esse stesse. E chi non ha potuto essere protagonista ha partecipato allo show almeno nel ruolo di spettatore connivente. Le eccezioni, quelli che hanno cercato di tenersi fuori dal teatro, proprio perché non visibili risultavano irrilevanti.

Le stagioni però passano, anche quelle teatrali, e le repliche in un sistema votato al consumo rapido si esauriscono velocemente. I miei coetanei vivono oggi (me compreso) in un limbo pensionistico più o meno dorato le cui rette sono pagate dalle generazioni future. Quelli normalmente senzienti (che sono sempre più una minoranza: per averne la prova basta sostare per cinque minuti al tavolino di un qualsiasi bar o partecipare ad una qualsiasi “rimpatriata”) assistono inermi al progressivo smottare di ghiacciai, banchise, principi etici e regole elementari di comportamento: e lo sgomento nasce, prima ancora che dalla consapevolezza che il fenomeno è inarrestabile, dalla coscienza di essersene resi in qualche misura complici. Il che, a sua volta, fornisce l’alibi per chiamarsi fuori, con tutte le varianti del caso, che spaziano da chi ritiene di avere già dato a chi considera più opportuno, visti i risultati, non fare altri danni. Anziché ad una coda d’estate sembriamo essere approdati in un banco di nebbia che non consente di guardare avanti, ma permette di rendersi comodamente invisibili.

Anche i più responsabili appaiono confusi e rassegnati. Eppure avrebbero in mano le carte, le competenze per ridare un minimo di dignità alla politica, sottrarla ai cialtroni analfabeti che la stanno riducendo a gazzarra e indirizzarla su terreni e scelte più sensati: qualcosa dagli errori commessi e dalle scottature rimediate hanno pur appreso. Il fatto è che anche loro si considerano fuori gioco. L’idea che il futuro debbano disegnarlo i giovani, che ad essi solo appartenga, hanno in fondo cominciato a predicarla proprio loro, dimenticando che siamo sapiens appunto perché capaci di trasmettere le esperienze. E questa idea oggi torna comoda per giustificare la propria assenza. Un modo elegante e ipocrita per lavarsene le mani.

Non tutti, certamente: ma quelli che invece ancora partecipano lo fanno o guardando al passato, alla loro vera o presunta lunga estate, o accodandosi a una visione di futuro con la quale hanno in realtà poco da spartire. Presenziano stancamente agli appuntamenti rituali, alle liturgie commemorative di resistenze, eccidi, anniversari, ai cortei del primo maggio, là dove ancora si fanno. Si barricano dietro la memoria perché si sentono già esclusi dalla storia: e provano questa sensazione proprio perché la storia non l’hanno mai coltivata correttamente, ne hanno data una lettura superficiale e faziosa. Oppure affiancano i nipoti nelle manifestazioni, nei cortei, nei flash mob, e ne scimmiottano modi e linguaggi: ma in realtà si sforzano vanamente di costringere entro gli schemi rigidi del passato delle idealità sfuggenti, più confuse, se possibile, di quelle professate in proprio mezzo secolo fa. Gli uni e gli altri si aggrappano ad ogni causa d’attualità, dall’europeismo all’animalismo, dal femminismo all’ambientalismo, come a un salvagente che li tenga a galla in mezzo ai marosi della “liquidità” postmoderna: ma senza più vedere all’orizzonte nessuna spiaggia, nessuna riva verso la quale dirigersi.

Insomma: in una società, quella occidentale tutta ma segnatamente quella italiana, nella quale gli ultrasessantenni si avviano a diventare la maggioranza della popolazione, la loro rappresentatività sembra certificata solo dagli istituti pensionistici, sempre più in sofferenza, o dal carrozzone degli “eventi”, sempre più affollati.

E allora? Discorso chiuso? Con questo atteggiamento, senza dubbio. Io credo però che un margine pur minimo di scelta, e quindi il dovere di assumere delle responsabilità, rimanga anche a noi. Abbiamo due opzioni: possiamo andare alla ricerca degli albicocchi in fiore di cui parla Pascoli, magari dall’altra parte dell’oceano, profittando dei prezzi di bassa stagione delle crociere, oppure possiamo dedicarci a tenere in ordine il nostro piccolo orto, come suggeriva Voltaire. Mio nonno e mio padre non avrebbero avuto dubbi, anche perché di crociere non avevano mai sentito parlare. Ragionavano in termini di semine, reimpianti, innesti. Hanno ragionato così sino agli ultimi giorni della loro vita. E sapevano ad esempio che una buona potatura è imprescindibile, prima ancora che per raccogliere qualcosa, per tenere in vita le piante. Potremmo provarci anche noi, senza chiederci se la cosa frutterà, e quando. Anche solo per impegnare utilmente questi brandelli d’estate, prima che il gelo imminente ci paralizzi.

Ci sono un sacco di cose che in concreto potremmo fare, al di là delle attività di volontariato alle quali molti già si dedicano. Non ho nulla contro il volontariato, ritengo sia una scelta meritoria, quando è motivata da un altruismo genuino (e sui moventi possibili ci sarebbe da discutere a lungo e fare parecchie distinzioni): ma qui mi riferisco ad una partecipazione di altro tipo, non alternativa o conflittuale con le attività eventualmente già praticate, ma capace anzi di sostanziarle, di inserirle in un disegno di lungo termine. Parlo non di una attività, ma di un’attitudine da assumere nei confronti di tutto ciò che si fa, che si vede, che si subisce. Di qualcosa che non offre né un servizio suppletivo alle carenze della politica né una gratificazione immediata per chi lo opera, ma appunto non si esaurisce né in questa né in quella, non rappezza le crepe della società ma ne verifica e ne consolida la tenuta strutturale: e nel contempo ci rimette individualmente in discussione, ci obbliga a rifiutare l’anestetico dell’irresponsabilità. Mi rendo conto che è una enunciazione molto vaga, e in effetti non è facile da tradurre poi in qualcosa di visibile, monitorabile, valutabile. Ma qui il criterio non è quello produttivistico dell’efficienza e dell’efficacia. È più semplicemente quello dell’imperativo etico kantiano: rispettare se stessi per poter avere rispetto degli altri, e pretendere da essi reciprocità.

Per non gingillarmi oltre provo a buttare giù un’agenda minima, le prime cose che mi vengono in mente. Non è un manifesto programmatico per il riscatto della terza età, che suonerebbe patetico (e non solo per l’irrilevanza del pulpito e per la genericità dei contenuti): è un promemoria ad uso personale, per ricordarmi che né l’anagrafe né le delusioni o le sconfitte giustificano mai la resa.

Allora. Si potrebbe cominciare riparando i guasti prodotti dalla nostra generazione nell’ultimo mezzo secolo. Intendiamoci: ogni generazione, a partire da Adamo, ha prodotto i suoi guasti, e quasi sempre in buona fede, cercando di riparare ai danni veri o presunti creati da quella precedente, magari cogliendo di preferenza gli aspetti collaterali negativi piuttosto che i dati di effettivo progresso sociale ed economico: noi non rappresentiamo una eccezione, ma siamo resi più sensibili dalla velocità, dall’ampiezza e dalla difficoltà di tenere sotto controllo le trasformazioni cui abbiamo assistito, o anche semplicemente di comprenderle. Proprio per questo, se abbiamo l’impressione che qualcosa ci sia sfuggito di mano, dobbiamo assumercene la responsabilità. Non è il caso comunque di mettere mano a grandi idee, di predicare una totale palingenesi. Ai nipoti non rimarrebbe il tempo per aspettare che le prime attecchiscano e che la seconda si compia. Devono poter sopravvivere subito, per coltivare poi, auspicabilmente, scelte nuove di rapporto col mondo. A noi compete recuperare ciò che può dare frutti più immediati.

La prima necessaria manutenzione riguarda naturalmente gli strumenti, ovvero il linguaggio. Bisogna ripulire le parole delle incrostazioni che sono state create da un loro uso improprio o volutamente distorto, o da una “decostruzione” che si è risolta in puro massacro. Con le ambiguità del linguaggio ha giocato in pratica tutta la cultura del secondo novecento, ma il gioco è stato portato talmente avanti da far scordare le regole basilari e originarie. Si è creata una notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere. Invece la possibilità di costruire una memoria comune, di relazionarsi senza equivoci nel presente, di pensare un futuro che contempli anche gli altri, può basarsi solo su un linguaggio chiaro, sulla condivisione universale del significato di ciascun termine, pur con tutte le sfumature o gli adeguamenti ai diversi contesti. La correttezza filologica, e non quella politica, deve diventare condizione preliminare di qualsivoglia discorso: dobbiamo praticarla, dobbiamo esigerla dagli altri, dobbiamo insegnarla.

Come? Prendiamo ad esempio l’uso assolutamente improprio del termine “eroe” da parte del giornalismo gridato, ma anche la sua dissacrazione da parte del “pensiero debole”. Si va dal “tutti eroi” a “nessun eroe”. Eppure esiste una definizione chiara, che consente di attribuire correttamente quella particolare proprietà. La si trova persino su Wikipedia: L’eroe è colui che compie uno straordinario e generoso atto di coraggio, che comporti o possa comportare il consapevole sacrificio di se stesso, allo scopo di proteggere il bene altrui o comune. Ora, per ristabilire le giuste proporzioni è sufficiente chiarire ai giovani che lo straordinario e generoso atto di coraggio non è necessariamente un’impresa bellica, può essere l’assistenza prestata per tutta la vita a un familiare affetto da una menomazione fisica o psichica (quindi gli eroi esistono, eccome), e non ha comunque a che vedere con una rete realizzata all’ultimo minuto o con l’attraversamento di un canyon su una corda d’acciaio. E lo stesso vale per lo stiracchiamento di parole come “povertà”, “popolo”, “gente”, “indignazione”, ecc …

Operazioni del genere spetterebbero innanzitutto alla scuola, anche se non solo ad essa. Ma nelle condizioni disastrose in cui la scuola versa, e stante il ruolo sempre più marginale che si trova a ricoprire, ecco che si crea la necessità di un’entrata in scena dei nonni (ovvero nostra). È l’occasione per la categoria di riscattarsi: il rapporto con i figli è stato un mezzo fallimento, non perché si fosse impegnati in troppe altre cose (i genitori, i padri soprattutto, almeno dalle mie parti lo sono sempre stati) ma perché ci si è lasciati inculcare dalla psicologia “progressista” degli assurdi sensi di colpa, tacitati poi con un eccesso di assiduità o condiscendenza. Per questo credo occorra saltare una intera generazione e rivolgersi direttamente ai nipoti, facendo tesoro dell’esperienza e giocando sul fatto che siamo investiti sempre di più di un ruolo di supplenza “logistica” nei loro confronti. Bene, facciamola diventare una supplenza educativa, tappando le falle create dal permissivismo. E soprattutto operando attraverso l’esemplarità.

Se le parole tornano ad avere “un” senso, si può allora riparlare di verità. Non mi riferisco naturalmente alle verità rivelate, dogmatiche, ma a quelle intuitive, quotidiane, o anche a quelle provvisorie ma funzionanti della scienza e a quelle certificate dalla storia. Se un tizio strangola o accoltella la fidanzata che vuole lasciarlo, quali che siano le diagnosi psichiatriche o le interpretazioni sociologiche, quello è il male. Lui è il carnefice, lei la vittima. Sembra ovvio, ma per la mentalità ipergarantista trionfante negli ultimi cinquant’anni non lo era affatto. L’altra sera il conduttore di un telegiornale, a proposito di un marito che si era presento in caserma con l’arma ancora fumante a confessare di aver ucciso la moglie, ha parlato di “presunto omicida”. Dietro la cortina fumogena del “politicamente corretto” anche le più sacrosante rivendicazioni di verità e di dignità si disperdono in un bizantinismo assurdo.

Un criterio analogo vale naturalmente, e tanto più, per i grandi crimini storici. Là dove ci sono stati stermini, massacri, persecuzioni e vessazioni di ogni tipo, da una parte c’erano dei criminali e dall’altra delle vittime, e i distinguo, per queste ultime, sono solo un ulteriore oltraggio. Facciamo dunque conoscere ai nipoti gli orrori delle guerre e dei totalitarismi, ma non demandando la cosa agli “eventi” e alle commemorazioni ufficiali, ai quali partecipano d’ufficio, e spesso anche di malavoglia, precettati dalle scuole, e dei quali non potrebbe importare loro di meno. Dobbiamo trasmettere loro le testimonianze vive che noi stessi abbiamo raccolto, ad esempio attraverso il racconto diretto di conoscenti reduci dai campi o di sopravvissuti alla ritirata di Russia, o attingendo ai libri di Levi, di Revelli, di Solgenitzin. Ma bisogna sottrarre queste letture e queste testimonianze alla canonizzazione scolastica che le sterilizza, a dispetto di tutte le buone intenzioni, e offrirle ai ragazzi come un dono individuale, condividerle per suscitare in loro un’indignazione genuina, una speciale complicità.

Dovremmo anche vaccinarli contro la campagna di delegittimazione dello studio della storia che è stata condotta dal pensiero post-moderno, e oggi è cavalcata da qualsiasi idiota, ministri dell’istruzione compresi, a giustificazione della propria ignoranza. La narrazione storica (che nella mia accezione comprende anche la geografia, la storia naturale, la storia delle idee, delle mentalità, dell’arte, ecc…) si presta senz’altro a falsificazioni, a manipolazioni, a usi distorti: ma sappiamo benissimo che una lettura non preconcetta dei documenti e l’esame critico delle testimonianze consentono comunque di ricostruire il più possibile la “verità” dei fatti accaduti. Non è dunque vero che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”: per tornare a quanto sopra, milioni di morti ammazzati sono un fatto, e non c’è santo o ideale o astuzia della ragione che tenga. E allora diventa tassativo difendere la verità della storia da ogni negazionismo e relativismo e “decostruttivismo” e riconoscere al suo studio il giusto primato.

Così scrive René Girard, ne “L’antica via degli empi”: Oggi la volontà di “rispettare le differenze” arriva al punto di mettere tutte le “verità” sullo stesso piano. Abbandona, in fondo, l’idea stessa di verità, poiché in essa non vede altro che una fonte di conflitto. Ma se noi mettiamo la “verità dei persecutori” e la “verità della vittima” allo stesso livello, presto non ci saranno più né verità né differenze per nessuno.

In sostanza: occorre chiarire ai ragazzi che un conto è affrontare un testo da diversi punti vista, per esplorarne tutte le possibili implicazioni, un altro è accettare il principio che le interpretazioni possano essere molteplici, ciò che significa considerare ugualmente validi tutti i punti di vista: in questo caso si fa solo il gioco dei persecutori, perché si rende inaccessibile la verità storica e si oscura comunque quella della vittima. Le interpretazioni di un documento o di una vicenda non sono infinite: di fatto in genere si riducono a due, la versione dei persecutori e quella delle vittime. E solo una di esse è vera, ed è quella che corrisponde al punto di vista della vittima. Ora, si tratta in fondo di preservare quell’istintiva sensibilità alla giustizia che i giovani di norma già possiedono, proprio per la loro tendenza a semplificare: quella sensibilità va semmai sostanziata aiutandoli a procurarsi una informazione ampia e seria, e a leggerla con gli occhiali giusti.

Lo stesso vale per l’ambito scientifico. Anche là dove ha senso solo ciò che è falsificabile, come dice Popper, alcune verità sono comunque inoppugnabili: il fatto che la penicillina abbia salvato milioni di vite, ad esempio, o che l’universo si espande, oppure che due molecole che si uniscono per formarne una terza agiscono secondo particolari meccanismi. Così come per la storia, non possiamo lasciar passere l’idea che le nostre conoscenze siano tutte viziate da una strumentalità originaria, che siano intercambiabili o addirittura inutili: possono essere state strumentalizzate ai fini peggiori, ma questo non ne inficia comunque la validità e non ne preclude il possibile uso positivo. L’alternativa è il trionfo dei ciarlatani, dei terrapiattisti, delle terapie ayurvediche, di tutto il ciarpame diffuso attraverso il web: è quello cui stiamo passivamente assistendo.

Non si può pretendere naturalmente che siamo noi a trasmettere le conoscenze, né quelle di base né quelle avanzate: per questo c’è ancora la scuola, pur con tutte le sue carenze. A noi spetta semmai il compito di vigilare affinché non passino attraverso essa informazioni errate e un modello di cultura in disarmo. Ma per poterlo fare occorre aiutarla a recuperare una dignità d’immagine e di ruolo, partendo dalle cose più spicciole, come il mettere i nostri nipoti di fronte alle proprie responsabilità per ogni piccolo fallimento, anziché riversare queste ultime sugli insegnanti e sull’istituzione nel suo complesso. Il richiamare la scuola alle sue, di responsabilità, è solo un passo successivo, che comporta scelte politiche di più vasto raggio. Ed è legittimo solo quando si è fatto il primo. Il che suppone un comportamento esattamente contrario a quello tenuto dalle ultime due generazioni nei confronti dei figli.

Finalmente, una volta scelti e ripuliti e oliati gli strumenti conoscitivi che i nostri ragazzi hanno a disposizione (e ci sta naturalmente anche internet, e ci stanno anche gli altri media, persino il cinema, la televisione, i fumetti, ecc.., ma opportunamente guidati e controllati), potremmo indurre questi ultimi a riflettere su concetti che danno per scontati, ma dei quali hanno in realtà una percezione distorta (quello di diritto, ad esempio, o di uguaglianza, o di cultura) e su sentimenti la cui accezione nella “società liquida” e nell’impero del rapido consumo è stata completamente stravolta (come l’amicizia, o l’amore). Potremo dire loro chiaro e tondo che i diritti non nascono come i porcini sotto le querce, non esistono in natura, nemmeno quelli più elementari: sono un prodotto artificiale, che va seminato negli animi e poi curato e difeso dagli infestanti e dai devastatori. Non competono per trasmissione genetica o ereditaria, ma vanno riconquistati e meritati giorno per giorno.

Potremmo anche aggiungere che i diritti, così come il concetto di uguaglianza, sono un prodotto di quella cultura delle élites che nell’ultimo secolo è stata messa sul banco degli imputati proprio dal suo cascame, l’arroganza intellettualistica. E che la cultura “illuministica”, “borghese”, elitaria appunto, nei confronti della quale oggi si manifesta tanto disprezzo, non sta dietro Auschwitz, che ne è anzi la totale negazione, ma piuttosto dietro la riflessione e l’orrore e il senso di colpa che Auschwitz ha prodotto. Oltre naturalmente a spiegare loro la differenza tra cultura e “prodotto culturale”. Ovverossia a chiarire che la cultura, nel momento stesso in cui viene svalorizzata come valore etico, quindi come frutto di un processo interiore di miglioramento, diventa una merce come le altre e si crea un mercato, le cui bancarelle sono le mostre alla Sgarbi e i festival-sagra del sapere.

E ancora: potremmo chiarire la differenza esistente tra massa, moltitudine e popolo, e il vero significato di uguaglianza. Infine, spiegare loro che in futuro non potranno vivere al livello attuale di benessere materiale, ma che questa situazione non è inedita. L’umanità l’ha già vissuta in precedenza, e se in altre epoche era più tollerabile perché non si era mai conosciuto nulla di meglio, nella nostra può essere affrontata comunque con un livello molto più alto di conoscenze. Sarà la parte più difficile, perché la nostra responsabilità diretta in questa situazione è grande. Ma non possiamo permettere che crescano nella cultura dilagante del risentimento e del vittimismo. Soprattutto, non potranno permetterselo loro.

Non aggiungo altro, anche se le piccole riparazioni possibili sarebbero moltissime, perché l’ho già tirata sin troppo in lungo. E vi è andata bene così. Altro che estate indiana. Questo è un programma a tempo indeterminato. Non si pone scadenze, perché non si risolve in azioni specifiche, ma punta ad un cambiamento radicale di mentalità. E va applicato prima di tutto a noi stessi.

Mal che vada, avremo ridato un senso almeno alla nostra estate di san Martino.

Umanesimo socialista

a cura di Paolo Repetto, 30 ottobre 2018

Umanesimo socialista

Quell’umanesimo socialista

Il senso della lotta

Le due anime

L’associazione

Capitalismo e libertà

Nella foto in copertina, il piedi: Heinrich Blücher, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Gloria Lanier; seduti: Nicola Chiaromonte, Mary McCarthy, Robert Lowell, 1966

Intervista a Pietro Adamo

realizzata da Franco Melandri

Quell’umanesimo socialista…

 

L’esperienza e la riflessione preziosa di quel gruppo di pensatori militanti, antifascisti radicali, come Rosselli, Caffi, Berneri, Chiaromonte, che videro anzitempo la natura dei due totalitarismi e rifiutarono il rivoluzionarismo finalista, in nome di una sperimentazione di società aperte, libere, in cui anche il mercato, liberato dall’orrore capitalistico, diventasse fattore di liberazione e di libertà. Intervista a Pietro Adamo.

Pietro Adamo, storico delle idee, si occupa principalmente della cultura politica del protestantesimo e della tradizione libertaria. Fra i suoi libri: Il dio dei blasfemi. Anarchici e libertini nella rivoluzione inglese (ed. Unicopli, 1993); La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella rivoluzione inglese (ed. Franco Angeli, 1998); La città degli idoli. Politica e religione in Inghilterra 1524-1572 (ed. Unicopli, 1999). Ha recentemente curato la pubblicazione di Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti di Camillo Berneri (ed. M&B Publishing, 2001).

\r

\r Uno dei punti di crisi della sinistra attuale è senza dubbio quello della cultura politica. Tuttavia una recente serie di studi su personaggi come Carlo Rosselli, Andrea Caffi, Francesco Saverio Merlino, Camillo Berneri, Nicola Chiaromonte, per molto tempo tenuti ai margini dalla sinistra stessa perché in vario modo considerati ‘eretici’, fa pensare che siamo all’inizio di una ricerca dopo anni di sostanziale apatia…

\r Il motivo per cui negli anni ‘90 si sono intensificati gli studi sulle correnti ‘eretiche’ della sinistra (cioè del campo socialista, libertario, liberal-socialista) è da far risalire al crollo del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Dopo quegli eventi, infatti, non c’è più alcuna possibilità di pensare il socialismo in termini marxisti o marxisteggianti, per cui, se non ci si vuole appiattire sul capitalismo attualmente trionfante, è necessario cercare nella storia e nella cultura della sinistra dei ‘padri nobili’, dei primogenitori rispettabili che non siano stati coinvolti con il socialismo di stato in versione totalitaria. Questo è il motivo per cui, a proposito e a sproposito, oggi tutti, da D’Alema a Veltroni a Amato, citano Rosselli, Gobetti o Chiaromonte. Detto questo, tuttavia, bisogna anche aggiungere che sia a livello prettamente teorico sia a livello politico il rifarsi a questi ‘padri nobili’ non implica, né può implicare, un’adesione alle loro indicazioni. Se infatti nelle elaborazioni di Caffi, Chiaromonte, Berneri, Rosselli, eccetera, si volessero trovare delle soluzioni bell’e pronte per i problemi dell’oggi si farebbe un errore clamoroso, si andrebbe fuori bersaglio. Sono infatti passati settant’anni dalle riflessioni e dagli scritti di questi autori, la società è cambiata, l’universo mentale della gente è cambiato, per cui, per fare un esempio, un suggerimento come quello rosselliano circa un’economia ‘a due motori’ -pubblico e privato- presa in sé si rivela semplicistica, già superata dai tempi. In Italia, nel dopoguerra, tale suggerimento venne in parte accolto ed i problemi che oggi dobbiamo affrontare derivano proprio dall’intreccio che si è creato fra i due motori di questa economia: sappiamo bene che essi si sono trasformati da un lato nel protezionismo occulto dell’impresa privata, dall’altro nella crescita esponenziale della burocrazia e dell’intervento statale nell’economia…

\r La vera ragione per interessarci di questi autori, perciò, non sta tanto nelle loro indicazioni pratiche, quanto nel fatto che rappresentano il tentativo dell’antifascismo radicale di trovare una risposta ai problemi posti dall’ascesa dei totalitarismi continuando a tenere alta la domanda su come sia pensabile e possibile una società libera. Da questo punto di vista questi autori mettono in luce una cultura estremamente ricca, in cui possiamo trovare tantissime cose che si confanno alle nostre aspettative anche se questi settori dell’antifascismo rappresentano un’esperienza ‘saltata’, nel senso che le loro elaborazioni non sono mai entrate non solo nella coscienza politica della nazione, ma neanche nella progettualità di qualche componente politica della sinistra italiana. Per la sinistra l’averli accantonati è stata una grave perdita, perché su molte questioni furono particolarmente acuti e preveggenti. Oggi si parla molto della questione del totalitarismo, ma l’idea che il comunismo fosse un’altra forma di totalitarismo, che fascismo e comunismo fossero due facce della stessa medaglia, nasce proprio in questo ambito, negli anni ‘30.

Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, Tuluza 1947
Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte

\r È un’idea che non nasce con la Arendt, ma dalla cultura politica di questi militanti. In verità, proprio riguardo al dibattito sul totalitarismo, gli italiani hanno avuto un’importanza non da poco ed è forse possibile vedere proprio in loro una delle radici genealogiche del pensiero della Arendt: negli Stati Uniti la Arendt era collaboratrice di Politics, la rivista di Dwight Macdonald, nella quale sono comparsi scritti di Chiaromonte e Caffi (con Chiaromonte, fra l’altro, la Arendt fu molto amica). Non è del tutto assurdo sostenere che una radice dell’analisi arendtiana del totalitarismo affondi proprio in questo laboratorio. Questi “militanti che pensavano”, secondo me, hanno proposto un nucleo di riflessione intorno alla questione del totalitarismo molto importante e fruttifero, forse più fruttifero del lavoro dei vari scienziati della politica, soprattutto per il tentativo che questi militanti-pensatori compirono di pensare una società libera come frutto di una rivoluzione antifascista. Da questo punto di vista le loro teorizzazioni sono molto interessanti perché sono dei possibili punti di partenza per ripensare i problemi attuali della politica. Il Polo delle Libertà, ad esempio, si è impadronito della parola d’ordine della libertà e presenta, non a torto, il liberismo come una delle principali strategie del vivere libero; dall’altra parte la sinistra si è totalmente amputata la possibilità di discutere delle possibilità di libertà insite in una politica di liberalizzazione e si è arroccata a difesa degli interessi corporativi. Tuttavia, se si va a vedere come pensavano una società libera i vari Berneri, Rosselli, Gobetti, allora ci si accorge che tutti loro valutavano in modo estremamente positivo il liberismo, anche se, naturalmente, lo pensavano in termini eticamente forti, per cui non lo vedevano solo nel liberismo economico in senso stretto, ma come il cemento possibile di una società libera.

\r Il principale difetto del liberismo berlusconiano, invece, sta proprio nell’essere un liberismo che riguarda la sola economia: quando i conservatori italiani parlano di liberismo, infatti, parlano semplicemente e sostanzialmente della libertà degli imprenditori di fare tutto quello che vogliono. Questo, per loro, è il liberismo, mentre quando si parla di altre cose -di diritto di famiglia, di sesso, di droga, eccetera- questo liberismo della destra scompare come neve al sole e viene fuori la faccia vera del conservatorismo autoritario. Lo si vede anche nei presunti portavoce liberali: qualche anno fa Galli della Loggia (cui rispose con sagacia Nadia Urbinati, dalle pagine di Critica liberale) sostenne che lo stato aveva il pieno diritto di controllare il tipo di sostanze che assumevano i suoi cittadini, la qual cosa è quanto di meno liberale, quanto di meno liberista, uno possa mai immaginare.

\r Ma come vedevano in realtà il liberismo questi militanti-pensatori?

\r Va innanzitutto detto che fra i personaggi di cui parliamo c’erano differenze anche profonde, soprattutto dovute alla loro provenienza politica e al pubblico cui si rivolgevano. Così, ad esempio, Berneri rimase per tutta la vita un anarchico e agli anarchici soprattutto si rivolgeva; Rosselli era un socialista, ma anche un liberale, e si rivolgeva agli appartenenti ad entrambe le tradizioni e così via; va anche detto che le loro riflessioni trovarono numerosi punti di contatto e di consonanza. Il caso del liberismo è uno di questi: sostanzialmente lo vedevano tutti in termini etici, cioè come valorizzazione ad oltranza del pluralismo e della differenza, la qual cosa implica la libera sperimentazione come principio integrale che ispira la vita associata; libera sperimentazione che, evidentemente, ha uno dei campi d’applicazione certo nell’economia, ma lo ha anche nella vita sessuale, nella vita associativa, eccetera. L’idea generale era quella di valorizzare le possibilità di sperimentare liberamente ogni tipo di attività umana e all’interno di questo paradigma veniva valorizzata anche l’idea di una libera intrapresa economica. In un periodo in cui i totalitarismi presentavano come ipotesi costruttiva l’idea di uno stato fortissimo, per molti di questi autori la valorizzazione dell’intrapresa economica individuale diventava anche momento di difesa nei confronti dell’invasività dello stato.

\r Una delle cose che colpiscono è il fatto che questo gruppo di persone di origini e appartenenze politiche diverse, trovasse necessaria una discussione in qualche modo comune: Berneri discuteva con Rosselli e aveva collaborato con Gobetti; Caffi e Chiaromonte erano membri di Giustizia e libertà, ma anche vicini a posizioni libertarie…

\r Quando noi pensiamo a questi gruppi, dobbiamo avere presente un fenomeno, cioè l’emigrazione antifascista in Francia, soprattutto a Parigi, dove nella prima metà degli anni ‘30 convergono buona parte degli intellettuali giellisti, buona parte degli anarchici, Berneri in particolare, ma dove finiscono anche dei repubblicani radicali come Schiavetti e Montasini, essi pure vicini alle posizioni di Berneri, e la cosiddetta ‘ala libertaria’ del Partito Socialista, e cioè gente come Alberto Jacometti e, fino a un certo punto, Angelo Tasca. In questo ambiente di fuoriusciti, in cui tutti conoscevano sostanzialmente tutti, al di là delle diverse appartenenze politiche, a mio giudizio si crea una sorta di cultura antifascista radicale, nel senso di una cultura antifascista che mira non solo alla rivoluzione in Italia, ma ad un completo rovesciamento dello stile di vita politico prefascista. Gente come Rosselli, Chiaromonte, Berneri, infatti, non solo si proponeva di abbattere il fascismo in Italia, ma vedeva in questo il passaggio necessario per costruire un’altra Italia. Come dicevo, ad unificare questi militanti-pensatori era la domanda su quale potesse essere una società libera -più o meno socialista, più o meno liberista a seconda delle convinzioni individuali- scartando quelle opzioni che, all’epoca, sembravano condurre necessariamente verso il totalitarismo. Tutto questo implicava non solo scartare il comunismo in senso stretto, ma anche qualsiasi tipo di orizzonte finalistico, cioè l’idea che la società libera sarebbe stata una società perfetta, oltre la quale non sarebbe stato più possibile andare.

\r Per quanto riguarda poi la figura di Berneri, che come accennavo prima si confrontava con gli anarchici e si considerò anarchico per tutta la vita, a tutto questo si aggiungeva anche la necessità di ripensare in toto la politica -che invece gli anarchici rifiutavano e rifiutano- vedendone le possibili estrinsecazioni in chiave libertaria. Il ripensamento della politica, comunque, è un altro tratto unificante di questo variegato gruppo, e le risposte che essi dettero furono altrettanto variegate, andando dagli abbozzi di una democrazia libertaria, fondata sulla libera federazione di comuni, sui sindacati e sui consigli operai, elaborata da Berneri (ma che trovava in linea di massima concorde Rosselli), alle proposte di democrazia liberale conflittuale, mutuate da Gobetti, fatte da alcuni esponenti di Giustizia e libertà.

\r Questi temi rappresentavano un tratto d’unione perché buona parte di questi intellettuali avevano radici comuni, essenzialmente rappresentate da due personaggi: Piero Gobetti e Gaetano Salvemini, per molti di loro punti di riferimento imprescindibili. Berneri, ad esempio, certamente fu molto stimolato da Gobetti -che, non va dimenticato, morì nel ‘26, cioè appena all’inizio della forte emigrazione antifascista-, ma il suo imprescindibile punto di partenza fu sicuramente Salvemini, che fu un riferimento importante per lo stesso Rosselli. Era questo ‘universo culturale’ ad unificarli veramente: Ernesto Rossi, nonostante fosse incarcerato per quasi tutto il periodo fascista, in qualche modo, dal carcere, partecipa a questa temperie culturale proprio in virtù del presupposto salveminiano che lo unisce agli altri. E’ per questo che egli, pur isolato in carcere, finisce per pensare sostanzialmente quello che Berneri, Caffi, Rosselli o Montasini o Jacometti pensano nell’esilio francese.

\r C’era, insomma, una sorta di percorso comune dato dalle circostanze.

\r Ma questi intellettuali militanti come si ponevano i problemi del capitalismo, dell’anticapitalismo, del socialismo?

\r Questi autori sono quasi tutti accomunati da una feroce sensibilità anticapitalistica, anche se bisogna chiedersi che cosa fosse per loro il capitalismo, che cosa intendessero per capitalismo. A ben guardare, la maggior parte di loro intendeva il capitalismo come una perversione di fondo dei valori del mercato. In molti di essi a me pare di cogliere il tentativo di operare una distinzione tra il capitalismo realmente esistente e una società di mercato ideale. Alcuni di essi teorizzarono tale distinzione in modo specifico, cioè sostennero molto semplicemente che è possibile pensare a una società di mercato senza che questa necessariamente finisca nell’orrore capitalistico.

\r Certamente quello che quasi tutti criticano nel capitalismo è la perversione del mercato, cioè la trasformazione dei rapporti umani sulla base di rapporti economici, analisi non lontanissima da quella marxista classica. Ma accanto a questa c’è anche la valorizzazione di un certo tipo di eredità liberale, per cui il mercato viene immaginato essenzialmente come il risultato di una libera contrattazione tra individui che scelgono. Sono concezioni che troviamo in Berneri, in Rosselli e, senza arrivare a teorizzare il socialismo, persino in Gobetti: grande avversione per il capitalismo così come esso si è sviluppato e, di contro, un’ipotesi di lavoro che si muove attorno al problema della società giusta e libera, che per molti di loro voleva appunto dire socialismo.

\r A proposito della concezione che essi avevano del socialismo, però, occorre fare la stessa distinzione fatta a proposito del capitalismo, visto che in quasi tutti, da Berneri a Rosselli, da Caffi a Chiaromonte, quello che viene chiarito a fondo è che l’unico socialismo accettabile è un socialismo chiaramente libertario, che per loro, detto in soldoni, significava la necessità che venisse in qualche modo garantito al produttore il controllo del suo prodotto.

\r In questa ottica Berneri recupererà anche l’esperienza dei consigli operai, emersi sia all’inizio della rivoluzione russa sia nella brevissima esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera del 1919, sia nell’occupazione delle fabbriche italiane, nei primi anni ‘20. In sostanza, comunque, il modo in cui tutti loro pensavano il socialismo era radicalmente diverso dal modo in cui lo pensava il marxismo (per il quale il socialismo, fatto coincidere con la statalizzazione dei mezzi di produzione e scambio, era il punto d’arrivo reso necessario dallo sviluppo della stessa società capitalistica).

\r Essi lo vedevano non tanto come una precisa serie di soluzioni politico-economiche, ma soprattutto come una sorta di sovrastruttura umanistica della società. Certo essi pensavano anche a forme di socializzazione economica, ma quando parlano di socialismo si riferiscono essenzialmente all’idea di una società che si pensa come tale, cioè ad una società fondata su una serie di vincoli umanistici precisi, in particolare il riconoscimento della dignità di ogni persona, del singolo individuo.

\r Questa, comunque, è una riflessione che negli anni ‘30 non appartenne solo agli italiani. Un autore che rifletté su questi problemi fu Emmanuel Mounier, il filosofo francese teorico del personalismo, molto spesso sottovalutato, che arrivò a teorizzare un socialismo umanistico di questo tipo, con grandi sfumature libertarie e antistatalistiche. Non a caso scrisse un saggio, Anarchia e personalismo, in cui c’è una riflessione sulla tradizione anarchica e sull’utilità che questa può avere proprio per un socialismo di questo genere.

\r La visione che del socialismo avevano gli antifascisti radicali, pur nelle diverse versioni, aveva quindi degli elementi di collettivismo, ma di un collettivismo non statalistico; un collettivismo che doveva essere il prodotto della libertà di associazione e, contemporaneamente, un’ipotesi umanistica sulla struttura della società. Considerando tutto questo, perciò, mi pare che, in verità, la contrapposizione fra socialismo e capitalismo operata da questi pensatori sia più che altro una contrapposizione etica, non una contrapposizione specificamente relativa agli strumenti dell’economia.

\r Dicevi prima che un altro elemento che accomuna questi intellettuali è il loro abbandono di ogni prospettiva finalistica e, quindi, dell’idea di rivoluzione intesa come fatto palingenetico…

\r Tutti loro, in verità, non superarono affatto il dilemma della rivoluzione, nel senso che tutti pensavano all’Italia libera dal fascismo come al frutto di una rivoluzione che doveva essere contemporaneamente antifascista e antigiolittiana, cioè una rivoluzione che spazzasse via radicalmente anche il liberalismo conservatore che proprio nel giolittismo si era incarnato. In questo senso, perciò, tutti loro continuarono comunque a pensare ad una frattura decisiva nella storia, una frattura che, in qualche modo, doveva azzerare, in tutto o in parte, quello che c’era stato in precedenza.

\r Nel loro pensiero, quindi, resiste questo mito della rivoluzione come atto fondativo, tant’è che il problema politico immediato che si ponevano era cosa fare per avere una rivoluzione in Italia. Tuttavia è anche vero che il loro modo d’immaginare la fattura rivoluzionaria era assai diverso da quello che si era affermato nell’800.

\r La maggior parte dei pensatori ottocenteschi di area socialista, fossero essi marxisti, anarchici o socialdemocratici, infatti, vedeva la rivoluzione come un evento di tipo decisamente millenaristico, cioè come il fatto che non solo apriva le porte di un mondo nuovo, ma anche di un mondo finale.

\r Per loro, cioè, la rivoluzione era l’atto che doveva porre fine a tutte le altre rivoluzioni e alla necessità della politica come confronto fra diversi interessi e visioni del mondo. Al contrario, soprattutto la riflessione di Berneri, Rosselli e di molti giellisti, tenderà a concepire la rivoluzione certo come evento che apre una nuova era, ma un’era che non viene affatto vista come la società perfetta, la società finale, il paradiso sulla terra, bensì come un’era in cui ci sarà la possibilità di ripensare a fondo i problemi della politica, dello stato e dell’economia, sperimentando le soluzioni più diverse. E’ in questa prospettiva che quasi tutti loro, in un modo o nell’altro, accetteranno quello che io, prendendo a prestito un’espressione cara agli anarchici, chiamo il paradigma della ‘libera sperimentazione’. Questi intellettuali, cioè, penseranno alla società libera come ad una società in cui il conflitto e l’interazione fra le diverse ipotesi di associazione economica, politica, sociale, non sarà affatto risolto, ma sarà un farsi dinamico. Penseranno quindi alla società socialista non come ‘società finale’, ma come una società che si è messa sulla buona strada, in cui però sempre resta ancora molto lavoro da fare; una società che è uno stadio di un più generale movimento di progresso e non lo stato finale di questo stesso progresso.

\r E’ all’interno di questo paradigma che il problema della politica, delle istituzioni e dello stato viene ripensato. C’è in tutti loro, in particolare in Rosselli, Berneri, Caffi, una profonda sfiducia nei confronti dello stato moderno e della democrazia rappresentativa, almeno per come essa si era realizzata prima del fascismo e del nazismo.

\r Lo stato e le istituzioni vengono quindi ripensate come il quadro di riferimento generale che da un lato garantisce una serie di libertà personali e collettive, mentre, dall’altro, è lo spazio all’interno del quale si sviluppa la dialettica fra le associazioni cooperative, i sindacati, i comuni, a loro volta visti come il vero centro della vita e della partecipazione democratica. In tutti questi intellettuali permane poi, pur senza alcuna mitizzazione (proprio Berneri fu autore di L’operaiolatria, un saggio radicalmente critico delle concezioni operaiste), la fiducia nelle capacità popolari e la convinzione che la partecipazione popolare sia non solo utile ma necessaria. E’ per questo che essi sviluppano un’idea della sovranità -cioè dell’elemento ‘sorgivo’ dello stato, che ne determina poi anche la natura specifica- che fa perno sul decentramento, per cui la sovranità non si accentra in un singolo organismo, ma, al contrario, va posta in una rete di relazioni sempre in divenire tra le istituzioni, le associazioni e i cittadini.

\r Berneri, che anche per la sua storia personale è quello che si confronta più radicalmente con la tradizione rivoluzionaria e con questi problemi, sottolinea la necessità, la non eliminabilità, della politica intesa non in senso funzionale, ma proprio in senso forte, cioè appunto come confronto e scontro fra diversi interessi e diverse visioni del mondo. Tutto questo lo porta, per esempio, a sottolineare la diversità costitutiva che esiste fra istituzioni fra loro coordinate e governo, sostenendo che quest’ultimo, in quanto sede centralizzata di decisione, si può abolire, mentre non si può abolire l’elemento istituzionale all’interno del quale, reticolarmente, anche la funzione decisionale del governo può essere diluita. Questa concezione è ovviamente assai diversa da quella dello stato-nazione ottocentesco, nel quale non solo governo e istituzioni finiscono per coincidere, ma il governo è l’elemento di direzione di una società in sé considerata sostanzialmente informe.

\r Dicevamo all’inizio che queste teorizzazioni e riflessioni sono sempre rimaste marginali nella cultura politica della sinistra italiana, eppure personaggi come Chiaromonte e Silone anche nel dopoguerra fondarono riviste, continuarono a partecipare al dibattito politico…

\r Innanzitutto va detto che la sinistra italiana, a parte Giustizia e libertà prima e, almeno parzialmente, il Partito d’Azione poi, osteggiò non poco questo tipo di riflessioni. I comunisti, ovviamente, non erano minimamente interessati, visto che la loro fiducia nel socialismo alla sovietica era, almeno sino alla svolta di Salerno, granitica e comunque, anche dopo la svolta di Salerno, la loro impostazione rimase decisamente marxistica, quindi molto lontana dall’’agnosticismo gnoseologico’, per usare un’espressione di Berneri, dei pensatori di cui stiamo parlando. La maggioranza del Partito Socialista, per quanto non ignorasse queste riflessioni, invece, finì per seguire Nenni e Saragat, per i quali, nonostante i loro dubbi, alla fine ‘socialismo’ voleva dire socialismo di stato.

\r Lungo tutto il corso degli anni ‘30, anzi, Nenni difenderà pervicacemente l’idea del socialismo di stato, addirittura difenderà l’idea di un socialismo che egli stesso chiamò ‘autoritario’ proprio per contrapporlo alle concezioni dei giellisti, dei quali diceva che erano dei libertari anarchici, non dei socialisti. In questo contesto il fallimento, nel dopoguerra, dell’azionismo significò anche il fallimento di queste opzioni etiche, politiche ed economiche, nonostante personaggi come Chiaromonte non si fossero certo ritirati a vita privata.

\r Proprio Chiaromonte, anzi, fu quello che portò alle loro conclusioni logiche alcune delle riflessioni di cui abbiamo parlato.

\r La svolta che Chiaromonte compì fu di rinunciare completamente ad ogni idea di rivoluzione, anche intesa nel senso in cui la intendevano Berneri o Rosselli, e di pensare alla costruzione di una società libera a partire dall’Occidente per come esso si è via via definito.

\r Il suo fu un percorso che lo accomunò ad un altro gruppo importante ed eretico, cui ho accennato anche precedentemente, cioè il gruppo di radicali americani che ruotava attorno alla rivista Politics e al suo direttore Dwight Macdonald e che comprendeva anche Hannah Arendt e Mary McCarty.

\r Una buona parte di questo gruppo negli anni ‘30 aveva fatto militanza nelle file comuniste e trotzkiste, ma negli anni ‘40 si mise alla ricerca di un radicalismo diverso e via via si orientò sempre più verso prospettive di tipo libertario.

\r Durante la guerra fredda questo gruppo, e con esso Chiaromonte, fece la scelta dell’Occidente, cioè dichiarò apertamente che, di contro ai paesi del socialismo reale, una società libera si poteva costruire a partire dalla configurazione democratica che buona parte dell’Occidente aveva progressivamente assunto. E questo senza bisogno di una rottura rivoluzionaria, ma lavorando sulle sementi liberali e democratiche.

\r La scelta certo non fu indolore, -Caffi, ad esempio, si rifiutò di compiere questo passo, anche se rimase in contatto con Chiaromonte per tutta la vita- ma a me pare sia stata importante proprio perché ci rivela uno dei possibili esiti costruttivi di quell’esperienza, cioè l’accettazione dell’Occidente come ambito nel quale condurre la sperimentazione integrale, senza più pensare ad un taglio netto con il passato, a una rivoluzione che ponga su un terreno nuovo. Anche perché, almeno a partire dalle fondamentali riflessioni di Simone Weil (la prima che pare capire, sin dagli anni ‘30, la natura “mitica” della rivoluzione), della rivoluzione si è progressivamente capita la natura d’inganno, cioè il fatto che essa può certo mobilitare le masse, ma troppo spesso, per non dire sempre, predispone anche le condizioni per il prevalere dei totalitarismi. A questo punto, rinunciando all’idea della rivoluzione comunque necessaria, l’umanesimo socialista dei Rosselli, ma anche dei Berneri, si trasforma in un’ipotesi di elaborazione interna all’Occidente. Proprio questo, a mio parere, è lo stimolo più importante che può venire oggi dalle elaborazioni dell’antifascismo radicale degli anni ‘30. Io non credo che oggi, per una sinistra che sia realistica ed abbia abbandonato ogni velleità palingenetica, ci siano altre possibilità. Ogni altra ipotesi mi pare ci porti sul terreno dell’utopia, e pensare l’utopia è una simpatica esperienza personale, una cosa che io auguro a molti, io stesso indulgo in questo stile di pensiero, ma è una questione che ha a che fare con noi stessi, è, come dire, un modo brillante di autogratificarci; insomma, è un’esigenza esistenziale, non una proposta praticabile sul terreno politico.

\r Io allora penso che la sinistra possa ritrovare se stessa all’ombra dell’Occidente, ma anche che l’Occidente debba essere pensato come un modello che permetta costantemente anche rotture violente.

\r E’ un po’ la logica cui si ispirava Thomas Jefferson, uno degli estensori della costituzione americana, che affermava il diritto del popolo di rovesciare il governo quando esso non faccia gli interessi del popolo stesso.

\r L’Occidente a cui penso, quindi, non è certo l’Occidente tranquillo e rilassante del liberalismo conservatore; non è quello in cui tutti si accomodano sotto l’ombrello protettivo di uno stato ‘garantista’, è invece un Occidente che rappresenta una palestra di libera sperimentazione. Per questo ciò che resta da fare -a noi e alla sinistra- è di sforzarci di trasformarlo sempre più in una palestra più ampia e variegata possibile.

Intervista a Gino Bianco

realizzata da Franco Melandri

Intervista a Pietro Polito

realizzata da Enzo Ferrara, Stefania Taranto

Il senso della lotta

 

Come in Piero Gobetti si intrecciarono liberalismo e idea di rivoluzione. Un marxismo valido nel suo materialismo e nell’idea di storia come storia di lotta di classi. Il grande valore democratico del conflitto e della lotta nella società. Intervista a Pietro Polito.

Pietro Polito, curatore dell’archivio Norberto Bobbio, ricercatore per il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, ha lavorato a lungo con Norberto Bobbio e curato diverse sue opere, come la riedizione del De Senectute (2006) . Tra i suoi scritti: Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud (1995) , L’eresia di Aldo Capitini (2001) , La democrazia alla prova (2005) . Nel 2007 ha pubblicato Il liberalismo di Piero Gobetti, edito dal Centro Studi di Torino. Presso il Centro studi coordina il “Laboratorio della democrazia”, che con un gruppo di giovani ha avviato un percorso di ricerca nella crisi delle democrazie contemporanee. L’intera raccolta della “Rivoluzione Liberale”, rivista storica settimanale diretta da Piero Gobetti e uscita dal novembre 1918 al febbraio 1920, è disponibile in rete all’indirizzo internet http: //www. erasmo. it/liberale/. Piero Gobetti fu protagonista giovanissimo di un periodo storico drammatico per il nostro Paese. L’intensità e la lucidità dei suoi scritti sorprendono ancora, soprattutto se accostati alle leggerezze e alle contraddizioni del presente. Pensi che sia utile rileggere Gobetti oggi? E’ difficile rispondere a questa domanda. Posso dire che nel mio ultimo libro questa possibilità rimane sullo sfondo, ma non è esplorata. Mi è sembrato più interessante provare a fare un percorso a partire da Piero Gobetti, uno degli autori studiati nei nostri seminari, non per arrivare a una riflessione sulla democrazia oggi ma per un ragionamento più storico, per arrivare a considerazioni più generali rispetto a quelle che l’attualità suggerirebbe. Il testo, nato da una serie di lezioni all’Università, si confronta sul rapporto fra Gobetti e la tradizione del pensiero liberale, sul suo liberalismo, che Gobetti stesso chiamò “rivoluzionario”, e sul suo illuminismo. Perché il grande tema di Piero Gobetti non è la democrazia, né la politica in generale, ma è il liberalismo: l’eredità e il rinnovamento del liberalismo. Gobetti è un intellettuale sui generis, che si colloca nella grande tradizione del pensiero liberale italiano ed europeo, ma che da questa tradizione si distacca per una elaborazione politica assolutamente nuova. C’è un articolo fondamentale nel suo cammino, “I miei conti con l’idealismo attuale”, del 16 gennaio del 1923. E’ un articolo di svolta, in cui si confronta con la sua formazione idealistica. Non se ne stacca completamente, però si pone oltre, egli stesso ricostruisce la cronaca della sua formazione intellettuale e dice a un certo punto: “Nel 1920 interruppi le Energie Nove perché sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo a una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero, di fatto, nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche”. Poi aggiunge: “Devo la rinnovazione della mia esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte, vivi di un concreto spirito marxista, dall’altra agli studi sul risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo”. Mi interessava rispondere a questa domanda: che cos’è questa elaborazione politica assolutamente nuova e a cosa allude Gobetti quando evoca quest’idea? La questione è importante. Gli anni di Gobetti vanno dal 1918 al 1925, sette anni incandescenti come incandescente fu la sua biografia. Sono gli anni dall’affermazione della rivoluzione russa mentre in Italia si andava dal socialismo possibile al fascismo reale. Cioè, dalla possibilità che l’Italia, dopo l’occupazione delle fabbriche, vivesse una rivoluzione, si arrivò all’avvento del fascismo e al consolidamento del suo potere. Fu un periodo storico e politico arroventato e complesso, i paragoni col presente possono essere fatti solo con grande precauzione. E poi bisogna saper leggere la realtà nel suo complesso. Nel periodo fra il 1918 e 1920 a Torino era attivo anche l’Ordine Nuovo… [continua]

Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

realizzata da Carlo De Maria

Le due anime

 

Per Andrea Caffi il socialismo era uguaglianza, libertà, diritti, ma anche felicità; un uomo vissuto tra due secoli e tra tanti paesi, forgiato dalla cultura dell’illuminismo francese, ma anche dal populismo russo, in cui il razionalismo conviveva con la solidarietà per gli umili. Intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico.

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

\r Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?

\r Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.

\r Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?

\r A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.

\r La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.

\r Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.

\r Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.

\r Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.

\r La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.

\r Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.

\r Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…

\r Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.

\r A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.

\r Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.

\r A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.

\r Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.

\r Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.

\r Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.

\r Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.

\r Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!

\r La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?

\r Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.

\r Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.

\r Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.

\r Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!

\r Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…

\r Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!

\r In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …

\r Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!

\r E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.

\r Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!

\r Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.

\r Del Corno.

\r La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.

\r Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.

\r Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.

\r (a cura di Carlo De Maria)

Intervista a Carlo De Maria

realizzata da Franco Melandri e Gianni Saporetti

L’associazione

La figura luminosa di Andrea Costa, uno dei fondatori del socialismo italiano, che non rinnegò mai le sue origini libertarie e che sognava un partito federale, decentrato, pluralista, alleato a radicali e democratici; l’esperienza di Imola, primo comune italiano governato dai socialisti; il welfare municipale. Intervista a Carlo De Maria.

Carlo De Maria svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna. Si occupa di storia del socialismo, dell’associazionismo popolare e delle autonomie locali. Ha lavorato sulle carte e sulle biografie di Camillo e Giovanna Berneri, Alessandro Schiavi e Andrea Costa. Recentemente ha curato il volume Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, (catalogo della mostra organizzata per il centenario della morte di Andrea Costa) , Diabasis, 2010. Andrea Costa è stato fondamentale nella storia del socialismo italiano, e nella stessa storia d’Italia, ma è oggi un personaggio praticamente dimenticato, quasi considerato di secondo piano…

E’ vero che oggi di Andrea Costa si parla poco e, più in generale, sono le tradizioni del socialismo (intendendo questo termine nel senso più ampio, dall’anarchismo al socialismo riformista) che sembrano non trovare più spazio nel dibattito pubblico, nella vita culturale del paese. La figura di Costa richiama vicende politiche e biografiche che oggi appaiono lontanissime, ma che in realtà non sono slegate dal nostro tempo e sono ancora in grado di parlarci. Sono convinto che, per certi aspetti, Costa si riveli essere nostro contemporaneo. Puoi parlarci della sua biografia? Costa nasce nel 1851 e appartiene alla generazione dei giovani nati troppo tardi per partecipare alle lotte risorgimentali. Le prime reclute, come lui, del socialismo anarchico erano, in qualche modo, dei garibaldini mancati. In molti casi era assai stretto il loro rapporto ideale con Garibaldi. Ad esempio, il legame tra Costa e Garibaldi è un legame intenso: si conserva una lettera del 1872 di Garibaldi a Costa, il quale poi, nel 1907, partecipò al pellegrinaggio a Caprera, in occasione del centenario della nascita dell’”eroe dei due mondi”. Il rapporto e lo scambio tra il primo socialismo italiano e Garibaldi sono da ricondurre a varie ragioni, in particolare al fatto che il patriottismo di Garibaldi non si era mai chiuso in una prospettiva nazionalista, ma si era invece coniugato con una battaglia di libertà e giustizia sociale più ampia: propriamente internazionalista. Questo è solo un esempio di come, attraverso il percorso del giovane Costa, sia possibile cogliere il socialismo al suo stato nascente e seguire la formazione del movimento socialista nel nostro Paese. Proprio in ragione della sua storia personale, Costa ebbe la capacità di rappresentare il socialismo nel senso più ampio del termine (in senso morale, appunto) , al di sopra delle correnti e delle parti. A emergere è la vicenda profonda della sinistra italiana ed europea, i tanti filoni di pensiero e di azione sociale che l’animavano nell’800 e nei decenni a cavallo del 1900, rendendola un universo plurale. La vitalità di quel primo socialismo e la sua ricchezza consistevano nella diversità delle scuole (come tante volte ha rilevato Pino Ferraris) . A partire dagli ultimi decenni dell’800, Costa rappresenta un punto di riferimento per le associazioni popolari di tutta Italia: dalla Sicilia alle regioni settentrionali. Anche per questa via passa il consolidamento della recente unità nazionale. Si è spesso insistito su una estraneità del mondo socialista rispetto alle istituzioni dello Stato liberale, ma di fatto il prezioso patrimonio di solidarietà e di educazione civile sedimentatosi grazie all’opera di sindacati, cooperative e comuni rossi contribuì al consolidamento della giovane comunità nazionale. Mi riferisco ai molti aspetti del personalismo associativo, all’incontro tra spirito d’associazione e iniziativa economica, alle tante forme della così detta “economia sociale” o “economia popolare”: dal mutuo soccorso, alla cooperazione, alle casse rurali (fenomeni che interessavano non solo il versante laico e socialista, ma anche quello cattolico) .

Intervista a Giampiero ‘Nico’ Berti

realizzata da Franco Melandri, Gianni Saporetti

Capitalismo e libertà

 

Libertà e capitalismo sono indissolubili? Ogni idea di cambiamento non può che partire dalle condizioni storiche concrete in cui il massimo di libertà si è realizzata. L’idea di libertà non può che essere negativa, come assenza di coercizione; il pericolo delle libertà positive, sempre prescrittive. La libertà è anche quella di non partecipare. Il grande errore della sinistra di legare libertà a risorse. Conversazione con Nico Berti.

Giampiero ‘Nico’ Berti insegna Storia delle dottrine e dei movimenti politici all’Università di Padova. E’ autore di numerose pubblicazioni storiografiche e analitiche sul movimento e sul pensiero anarchico. La conversazione che pubblichiamo trae spunto da un saggio, I paradossi del relativismo culturale, che Berti, da sempre vicino al movimento anarchico, ha pubblicato sul n. 3/2002 di Mondo Operaio. Alcune delle tesi sostenute da Berti hanno suscitato molte reazioni critiche in ambito libertario, non a caso il n. 2/2003 della rivista Libertaria dedica un ampio dibattito a più voci proprio ad alcuni di questi temi. Con Nico Berti, per Una città, discutono Franco Melandri e Gianni Saporetti. Nico. Intanto ripeto quello che ho detto su Mondo Operaio: noi conosciamo società capitaliste dove non vi è libertà, ad esempio il Cile di Pinochet, però non conosciamo nessuna società liberal-democratica dove non vi sia anche il capitalismo, o, diciamo meglio, un’economia a libero mercato. Indubitabilmente laddove ci sono società liberal-democratiche vi è il capitalismo. Questo significa forse che il capitalismo è la causa delle società liberal democratiche? No, significa però che è una condizione necessaria; non sufficiente perché altrimenti non salterebbero fuori i Pinochet, ma necessaria sì. Questo nessuno può negarlo. Laddove c’è l’una c’è anche l’altro e insieme producono l’unica libertà che finora noi abbiamo conosciuto, che è la libertà liberal-democratica: non la libertà tout court, ma la libertà che storicamente abbiamo conosciuto, che è la forma più compiuta di libertà che la storia abbia prodotto finora. Io non credo che, in tutto questo ragionamento, ci sia alcuna apologia, né che noi dobbiamo accontentarci di questa libertà, c’è semplicemente una constatazione. Ovviamente, lo dico fra parentesi, il ragionamento vale se per libertà intendiamo una serie di cose che rientrano nei parametri della concezione liberale e occidentale della libertà; se partiamo da una concezione diversa, poniamo spirituale, per cui riteniamo che si è liberi quando si è liberi dal peccato, è un altro discorso. Il mio discorso, insomma, vale se riteniamo per libertà quei principi generali, creati a partire dal Rinascimento, che solo la cultura occidentale ha prodotto. Franco. Nella prima metà dell’800, anche Proudhon, uno dei “fondatori” del pensiero anarchico, diceva che senza la proprietà e senza lo scambio libero, cioè senza il libero mercato, non vi può essere libertà. Ma la proprietà, il capitalismo, cui Proudhon pensava, cioè quelli dell’America del 1776, fatti soprattutto di piccoli proprietari, o quello della società rurale francese, in cui la piccola proprietà era assai diffusa, non è il capitalismo dell’America di oggi. Nell’America della fine del ‘700 lo vedo anch’io il legame fra libertà e capitalismo, ma oggi? Non c’è il rischio che le stesse libertà liberal-democratiche siano messe in crisi dallo sviluppo del capitalismo, non dalla proprietà privata o dal mercato, ma dal monopolio che del capitalismo sembra l’ineludibile sviluppo? Nico. Possono essere messe in crisi, certo, ma questo cosa c’entra? Il capitalismo intanto è fatto di capitalisti. Nel 1919-’20-’21 in Italia c’era il capitalismo? Sì, allora com’è che è nato il fascismo? Perché dei capitalisti, impauriti dal bolscevismo, hanno finanziato i fascisti. Ma questo cosa vuol dire? E’ la conferma che il capitalismo è condizione necessaria della libertà, ma non sufficiente. Tutto qui. Rispetto a questo, mettersi a discutere del capitalismo degli Stati Uniti alla fine del ‘700, dei piccoli proprietari teorizzati da Washington, mi sembra un almanaccare. Io dico questo: il capitalismo è una condizione necessaria della libertà che conosciamo; noi conosciamo un certo tipo di libertà che è quella che si è venuta formando tra mille travagli…

Senectudo

di Paolo Repetto, 2016

Ieri mattina ho rimesso in funzione il vecchio Pasquali. Per molti il Pasquali sarà un perfetto sconosciuto, qualcuno magari assocerà il nome all’eccezionale filologo che fu maestro di Timpanaro: per me invece è il trattorino con carrello che per quasi vent’anni ha costituito una sorta di mia appendice, e che da sei o sette giaceva inattivo nel magazzino del capanno. È andato in moto al secondo colpo, roba che solo una Mercedes, senza che nemmeno avessi sostituito la nafta rimasta nel serbatoio. Mi sono congratulato con lui.

L’ho riesumato perché dovevo raccogliere e smaltire la ramaglia di una radicale potatura autunnale del frutteto, prima che l’erba diventasse troppo alta. Arrivato però allo scivolo ripido che immette nel pratone mi sono bloccato. La schiena del frutteto è parecchio in pendenza, e per il lavoro che mi proponevo avrei dovuto viaggiare avanti e indietro trasversalmente, sempre con motore e carrello inclinati ben oltre i trenta gradi. È una cosa che in passato ho fatto più volte, senza mai ribaltarmi: ma dieci anni fa la pendenza non mi sembrava cosi forte. Neppure una ricognizione a piedi, alla ricerca delle linee di percorso meno inclinate, è riuscita a rassicurarmi. Alla fine ho lasciato perdere. Ho raccolto i rami in fascine e le ho faticosamente trascinate fin sulla strada, dove avrei poi potuto caricarle agevolmente. Per un lavoro di un paio d’ore ne sono occorse otto.

Mentre andavo su e giù per il prato carico di ramaglia scorgevo il Pasquali là in alto, sulla strada: sembrava commiserarmi ironico, come il cavallo di Lucky Luke. Cercavo di giustificare la mia esitazione scaricandola un po’ anche su di lui, dicendomi che dopo tanto tempo non potevo essere sicuro delle sue reali condizioni, di quelle dei freni soprattutto. Ma sapevo che non era affatto quello il problema, meno che mai dopo quella fulminea partenza. Mi dicevo anche, e questo ha già più senso, che è questione di confidenza: accade come in montagna, se stai un po’ senza frequentarla le pendenze diventano subito più ripide e le creste più strette ed esposte. Insomma, ho stentato parecchio ad ammettere che semplicemente avevo paura; e anche allora mi sono ripetuto che era giusto così, e che semmai ero un incosciente prima, quando mi buttavo senza riflettere (questo almeno in parte è vero, e a dispetto dell’essere stato un incosciente fortunato ho cicatrici su tutto il corpo a testimoniarlo).

Alla fine, quando tutti i rami e le frasche erano ormai allineati al bordo della stradina, pronti al carico, ho trovato il modo di riconciliarmi temporaneamente con me stesso. Avevo risalito il pratone almeno quaranta volte, fermandomi solo per il tempo di un paio di sigarette, e non ero nemmeno stravolto. Muovendomi al ritmo giusto, ottimizzando i percorsi, allungandoli magari un po’ ma riducendo la pendenza col tagliare sempre in diagonale, il lavoro lo avevo comunque fatto. La soddisfazione era però turbata da una nube: avevo esitato, e mi ero ritirato, di fronte a qualcosa che sino a qualche anno fa non mi sarebbe neppure passato per la mente.

 

In latino la vecchiaia è senectus, da cui il De Senectute di Cicerone, titolo ripreso poi da Norberto Bobbio. La senectus è stata elogiata in tutte le salse e in tutte le epoche, da Petrarca a Perrault a Mantegazza, per citare quelli che ricordo, e al di là del sentore di retorica è anche naturale sia così, perché in quasi tutte le società tradizionali alla vecchiaia era tributato un gran rispetto. A ragion veduta, dal momento che in quelle società, quasi immobili, la trasmissione di esperienze e capacità acquisibili solo con gli anni era fondamentale. Come sia considerata oggi, sinceramente, non mi interessa: non è su questo che la nube mi ha portato a riflettere.

Mi ha indotto invece a delle considerazioni linguistiche (potenza del nome Pasquali!). Ho pensato che nelle lingue neolatine il termine si sdoppia, per articolare meglio il concetto: troviamo ad esempio senilità e senescenza in italiano, sénescence e senilité in francese. In spagnolo c’è in realtà solo senectud, usato tra l’altro molto raramente, ma con un suono bellissimo, che mi ha portato a ipotizzare invano una senectudo latina originaria. Non ne ho trovata testimonianza letteraria, ma mi piace talmente che lo introduco io, a significare, come accade nelle lingue derivate, una distinzione tra vecchiaia e invecchiamento.

La differenza è maggiore di quanto possa sembrare, perché la vecchiaia è una condizione, che si vive e si percepisce dall’interno, sapendo che in un modo o nell’altro va gestita: mentre il secondo è un processo che subiamo nella piena consapevolezza della sua inarrestabilità, ma rimanendo ancora aggrappati a quello che eravamo ieri. Essere vecchi è insomma una questione anagrafica, la cui soglia può variare da una cultura all’altra (per i latini ad esempio era quella dei sessant’anni: “Ogni uomo di sessant’anni, sposato o anche, per tutti i diavoli, celibe, del quale si sappia che corre dietro alle ragazze, sarà perseguito e in virtù della detta legge, sarà giudicato uno scimunito” dice Plauto), ma al di là di questa sei out per la gran parte delle normali attività, che tu lo voglia o meno: diventare vecchi dipende invece solo in parte dall’anagrafe, è una questione fisica e mentale, rispetto alla quale si ha l’illusione di essere noi a decidere la soglia. In sostanza, si accetta di essere vecchi, ma non di diventarlo.

Questo perché la misura vera dell’invecchiamento non è quella fisica: non è data dalla lunghezza e dalla profondità delle rughe che si incidono sempre più fitte sul nostro volto, o dagli indolenzimenti mattutini di tutte le articolazioni. Alle prime ci abituiamo, le rivediamo ogni volta che ci facciamo la barba e in realtà non cogliamo i loro impercettibili movimenti, i secondi entrano a far parte dei nostri risvegli come il caffè. E lo stesso vale per il fiatone quando lungo una salita cerchi di tenere il passo di tua figlia, per l’abbiocco che ti coglie a letto dopo tre pagine di un libro, per la necessità di inforcare gli occhiali per leggere i numeri del contatore. Ce ne lamentiamo, ma in fondo sono cose che diamo per scontate.

La misura vera è data invece da improvvisi scarti psicologici: segnali che arrivano dalla memoria (che una qualche giustificazione ce l’ha, stante il carico cui ormai è sottoposta) ma non solo, anche dall’umore, dalle reazioni alle contrarietà, da crescenti insofferenze, dalla caduta degli stimoli. La natura ci suggerisce sommessamente ciò che dovremmo fare per adeguarci alla transizione. Ci accorgiamo ad esempio di non fare più caso ad una minigonna, se non quando ripugna al nostro senso estetico, di essere ipersensibili alle incongruenze di certi abbigliamenti, o di certi comportamenti, segnatamente di quelli dei nostri coetanei, e diamo ragione a Plauto, dicendoci che si, ciascuno è libero di comportarsi come vuole, ma questo non toglie che riesca patetico.

In realtà, diciamola tutta, abbiamo paura di risultare patetici, o inadeguati, anche noi. Perché, a differenza della vecchiaia, nella quale non solo le aspettative nostre ma anche quelle nei nostri confronti si riducono al minimo, e ci si attende solo che godiamo di discreta salute e autonomia e non creiamo troppi fastidi, l’invecchiamento ci pone costantemente di fronte all’immagine che leggiamo negli occhi altrui, ad attese cui siamo sempre meno in grado di rispondere. O almeno, così siamo portati a pensare che sia. Persino i complimenti, anche quando sono sinceri (però, alla tua età!), arrivano come colpi ai fianchi.

Il segnale più grave tuttavia, almeno per me, è dato dalla sensazione che il tempo acceleri costantemente, di non riuscire più a tenergli dietro, e dalla conseguente ossessione a mettere ordine, a lasciarmi alle spalle “sistemato” per diversi anni a venire tutto ciò che può dipendere da me. È un’ossessione che non nasce solo dal senso di responsabilità di cui parla Jonas, ma dalla sfiducia che chi verrà dopo abbia la voglia e la capacità di farlo. Après moi le déluge!, ma nel significato opposto a quello inteso da Luigi XV. E quindi in questo ultimo periodo ho rifatto tetti, ridipinto infissi, risistemato il giardino e il bosco sottostante, e sto anche cercando di riordinare le cose che ho scritto. La verità è che la mia piccola porzione di mondo lo voglio lasciare come piace a me e come penso debba essere.

Ecco, questa ossessione non è un frutto della vecchiaia, ma dell’invecchiamento. La vecchiaia dovrebbe portare, a quanto dicono tutti, da Cicerone a Bobbio, una sorta di pacificazione, la coscienza di aver già fatto la propria parte e il buon senso di mettersi in un angolo tranquillo, sempre che ne siano, a veder trascorrere senza tanti patemi la vita. Io invece non riuscirei a giocare una mano di briscola senza essere tormentato dall’idea di gettare dei minuti preziosi. Vorrei smettere di invecchiare e diventare finalmente vecchio. Ma temo che non sarà facile.

Perché alla fine, poi, nel pratone, col Pasquali, ci sono sceso. Stamane, quando si è trattato di rimuovere anche i tronchi secchi abbattuti, ho calcolato che avrei dovuto risalire almeno altre trenta volta con un carico sulle spalle, come fare due volte di seguito il Tobbio. Tra il rischio di un probabile colpo apoplettico e quello di un possibile ribaltamento ho chiaramente scelto quest’ultimo. Bilanciando bene i carichi e muovendomi con le marce ridotte me la sono cavata in tre viaggi. Quando sono tornato finalmente sulla strada confesso di aver tirato un sospiro di sollievo. Ho dato una pacca sul cofano del Pasquali che ansimava al minimo e questa volta mi sono congratulato con me stesso. Ero soddisfatto, per il risultato e per come l’avevo ottenuto. E mi disturbava persino meno pensare che questa è stata probabilmente l’ultima volta.