Della mia onestà vado superbo

Francesco Natta, storia di un anarchico sansalvatorese

di Giancarlo Torra, 4 dicembre 2020

Chi è Francesco Natta?
Vita di Francesco Natta
Vita (e sventure) di Agenore Natta
Della mia onestà vado superbo

 Chi è Francesco Natta?

L’anno scorso un amico, Paolo Repetto (professore di storia, storico e molto e molto altro ancora…), mi telefonò per chiedermi se avessi mai sentito parlare di un certo Francesco Natta, nato a San Salvatore nella prima metà dell’ottocento. Paolo si era imbattuto il quel nome nel corso di una sua ricerca riguardante alcuni eventi insurrezionali avvenuti nella seconda metà dell’800 nell’Italia Meridionale, e riferiti ad un gruppo di anarchici passati poi alla storia come “la Banda del Matese”. Il nome non mi disse nulla e non trovai nulla neppure nei vari libri storici su San Salvatore.

Facendo, pieno di perplessità, una ricerca in rete, scoprii invece, sorprendentemente, moltissime pagine che parlavano di Francesco Natta. Anche la Treccani gli aveva dedicato un importante spazio, riportando numerosi eventi storici e politici di cui era stato protagonista.

Francesco Natta era un anarchico, e approfondendo la sua figura sono giunto alla conclusione che nei suoi confronti il paese abbia attuato una sorta di damnatio memoriae. Essere anarchici, a quel tempo, in un paesino come era allora il nostro, doveva per forza essere considerato una vergogna.

Senza arrivare agli estremi di Salvia Lucana (il paese di Giovanni Passanante, attentatore mancato di Umberto I, che per una sorta di desiderio di riconciliazione col re e per un sentimento di vergogna per quanto capitato a causa del proprio compaesano mutò il proprio nome in Savoia Lucana)1 è probabile che a San Salvatore sapere che due suoi cittadini (Francesco aveva un fratello, Agenore, anche lui anarchico) avevano abbracciato quegli ideali ed erano stati più volte arrestati e ricercati dalle forze dell’ordine (e uno di questi – Agenore – anche condannato per un sanguinoso attentato) passasse per qualcosa di enorme e fosse trattato, secondo lo stile degli abitanti delle nostre colline, con discrezione e silenzio, per evitare il riaprirsi di una ferita.

Oltre a Francesco, figura di spicco dell’anarchismo, vi era infatti anche il fratello minore, che ebbe a pagare con oltre vent’anni di carcere la sua adesione al movimento, condannato per un reato che come vedremo in seguito non aveva commesso.

Non è comunque possibile che la storia dei fratelli Natta abbia potuto passare sconosciuta o inosservata in una realtà piccola come la nostra (tra l’altro nel 1875 Natta, nel corso di un processo, affermava di aver ancora una casa a San Salvatore, dove forse ebbe a ritornare per qualche tempo). È molto più probabile che le condanne riportate dai fratelli Natta e la loro posizione all’interno del movimento anarchico fossero per il nostro tranquillo paese un qualche cosa che doveva andare rimosso. In fondo, sansalvatoresi nati in epoche più risalenti e con vite ben meno intensamente vissute di quelle di Francesco e (sia pur in misura minore) di Agenore, hanno trovato spazio nel nostro ricordo.

Mi sembra pertanto un obbligo cercare di far conoscere la figura di questo nostro concittadino (e, sia pur sommi capi, del fratello minore), che si trovò nella seconda metà dell’Ottocento ad essere uno dei personaggi più nobili e di maggior spicco del movimento operaio ed anarchico di quegli anni e la cui vita, ricca di eventi e a tratti anche avventurosa, ebbe ad intrecciarsi con quella dei personaggi più importanti dell’epoca.

La sua difesa appassionata (Della mia onestà vado superbo) nel processo del 1875 avanti la Corte d’Assise di Firenze è celeberrima ed è pubblicata e letta ancor oggi; la sua figura di coraggioso compagno di Bakunin è descritta ampiamente ne “Il diavolo a Pontelungo” di Riccardo Bacchelli; quella di infaticabile motore dell’organizzazione del movimento anarchico a Firenze e nel centro Italia è narrata ne “Un sogno d’amore” di Angelo Toninelli e la sua figura di operaio militante compare anche, sia pur per pochi istanti, nello sceneggiato Rai “Anna Kuliscioff” del 1981, per la regia di Roberto Guicciardini2.

Vediamo la sua storia.

 Vita di Francesco Natta

(San Salvatore Monferrato, 7 settembre 1844 – La Plata, Argentina, 7 marzo 1914)

Tipo romano antico, statura e corporatura regolare, capelli folti, corti e per niente separati d’alcuna divisa.

Due baffettini colle punte rivolte in sù, accrescono favore ad un volto simpatico, di colore naturale, Gli occhi cerulei e il labbro sorridente, sono l’espressione della impassibilità e dell’accortezza.

I suoi modi ed il suo parlare rivelano un carattere dolce per educazione, prudenza e bontà. Meccanico distinto, mostra grandissimo amore e fede per l’avvenire del proletariato, alla cui causa si è consacrato propugnando il principio di associazione fra gli operai in mezzo ai quali si distingue come uno di più intelligenti. Nel 1869 lavorava in politica sotto la immediata direzione di Mazzini, e soffrì carcere preventivo per imputazione di cospirazione contro lo stato.

Presentemente è schierato nelle file della Internazionale che egli solo ha proclamata difesa a viso aperto.

La sua franca professione di principi, la massima indifferenza che mostra sulla sorte che potrebbe incontrare in questo processo, gli hanno acquistato la simpatia universale e conciliato la stima di tutti, nessuno dubitando dell’onestà delle sue intenzione e della convinzione profonda che egli mostra di giovare alla causa dei diseredati.

Fede di apostolo, abnegazione di martire si leggono scolpite su quel volto imperturbabilmente sereno in mezzo alle più terribili burrasche.

Interrogato sulle sue generalità risponde chiamarsi Francesco Natta di Giuseppe di anni 30, nato a San Salvatore provincia di Alessandria, residente a Firenze, meccanico sa leggere e scrivere; è stato processato una volta per disturbo alla quiete pubblica e condannato nelle spese.3

Francesco Natta, nasce a S. Salvatore (AL) il 7 settembre 1844 da Giuseppe e Teresa Milanese. È il primo di tre figli.

Il padre, nato nel 1805 e proveniente da Castelletto, come apprendiamo dall’atto di matrimonio, era fabbro ferraio, mentre la madre, di vent’anni più giovane, di San Salvatore, era cucitrice.

Con ogni probabilità Francesco, che nel registro della popolazione del 1858 è già registrato come fabbro, lavora col padre fino a quando non si trasferisce a Firenze, continuando poi ad esercitare il mestiere di fabbro, meccanico e riparatore specialista di macchine da cucire per tutta la vita. Nella sua attività è estremamente quotato, tanto da far dichiarare al Procuratore generale del Re, nel corso del processo di Firenze del 1879, che è “un abile meccanico, capace di guadagnare 15 lire al giorno – cinque lire più di me4.

La firma del padre in calce all’atto di battesimo è una bella firma, sicura e armonica, segno che il padre di Francesco è persona da ritenersi istruita, almeno per quei tempi. D’altra parte, chiamare il secondogenito Agenore denota una ricercatezza inconsueta nella scelta del nome di un figlio.

Agenore è un nome che poco si concilia con un paese del Monferrato, a maggior ragione alla metà dell’Ottocento: ed in più è un nome adespota, che probabilmente non venne neppure visto di buon occhio dal parroco battezzante, viste le disposizioni di diritto canonico che imponevano di assegnare al battezzato il nome di un santo (ed infatti accanto al nome Agenore, con cui veniva comunemente chiamato, gli fu imposto il nome Pietro).

È ipotizzabile quindi che il germe dell’anarchia sia stato trasmesso ai figli dal padre.

Nel 1840 Pierre – Joseph Proudhon pubblica il suo saggio “Che cos’è la proprietà?”. Da quella data la dottrina anarchica inizia a farsi strada in Europa. È quindi probabile che sei anni dopo (Agenore è nato il 7 gennaio 1846) il padre chiami con un nome così poco diffuso il secondogenito per una sorta di adesione all’ateismo che rientrava tra gli ideali anarchici. Ed è altresì probabile che tanto Francesco quanto Agenore abbiano maturato le loro idee attingendo a quelle paterne.

Con altrettanta probabilità Francesco riceve un’educazione scolastica superiore per quei tempi, tanto da essere in seguito considerato unanimemente come una persona oltremodo istruita e un brillante oratore.

Infatti, così come nel profilo sopra tracciato dall’ Avv. Bottero, anche Angelo Toninelli nel suo romanzo “Un sogno d’amore”, in cui il Nostro è un co-protagonista, così descrive il Natta: “un meccanico armaiolo, […] veniva da Alessandria, si era trasferito a Firenze da pochi anni e oltre che di armi si occupava di macchine da cucire, che aggiustava e vendeva. Era sposato e aveva due figli.

Ma era soprattutto un uomo istruito. Nella sua bottega entravano ed uscivano diversi giornali, il Gazzettino rosa, la Plebe, il Lavoratore, pareva un chiosco in certi momenti, entrava uno, prendeva un giornale, spariva senza pagare, e qualche giorno dopo lo riportava, E via di seguito5.

È giocoforza ritenere che già quando abitava a San Salvatore la sua maturazione politica e culturale fosse in gran parte formata. E infatti risulta che Francesco fosse attirato fin da giovanissimo dalle idee di Mazzini, con il quale, come già riportato dal Bottero, risultò essere in diretto contatto; tanto da essere da questi considerato, “uno dei personaggi più affidabili” e ritenuto inoltre “personaggio assai vivace politicamente6.

Non mi è stato possibile stabilire con esattezza quando i Natta (sono con lui il fratello e forse anche il padre, la madre essendo nel frattempo morta) si siano trasferiti a Firenze. Probabilmente ciò è avvenuto attorno alla seconda metà degli anni sessanta, senz’altro prima della fine del decennio. Nella capitale provvisoria del regno Francesco si sposa, va ad abitare in via Lorenzo il Magnifico e apre una bottega da fabbro, armaiolo e riparatore di macchine da cucire, nella centralissima via della Vigna Nuova. E quasi subito, con Gaetano Grassi (sarto) e Oreste Lovari (calzolaio), partecipa all’esperienza dell’Unione democratica sociale, dove sono confluiti mazziniani, garibaldini, liberi pensatori. Nel 1869 arriva il primo arresto: è accusato di cospirazione contro lo Stato per aver propagandato il principio di associazione tra gli operai.

In breve tempo si rivela un importante referente politico per coloro che simpatizzano per il movimento dei lavoratori; e se un giovane meccanico, giunto da un piccolo paese del Piemonte, è in grado di diventare in pochi anni il perno attorno al quale ruota il fermento politico di una città e l’elemento catalizzatore dei movimenti internazionalisti che spuntano numerosi, è perché evidentemente ha dimostrato di possedere l’intelligenza, le capacità e il carisma per poter assumere la guida e ed essere il riferimento dell’anarchia locale.

Abbandonati alla fine del 1870 gli ideali mazziniani, deluso come tanti altri giovani dal fatto che il Mazzini avesse sconfessato l’esperienza della Comune di Parigi, aderisce nei primi mesi del 1872 alla fondazione del Fascio Operaio (che in pochi mesi arriva a superare i 3.000 iscritti) e della sezione fiorentina dell’Associazione italiana lavoratori (AIL).

Ha da subito forti legami con la Fratellanza Artigiana d’Italia, all’epoca la più importante associazione mutualistica di orientamento repubblicano di tutta Italia. Con ogni probabilità aderisce anche alla Società Democratica Internazionale.

La polizia, che lo mette immediatamente sotto controllo, lo descrive come “di carattere vivace, fermo di propositi, assai educato e di molta intelligenza, abile nel suo lavoro7.

Natta emerge quindi ben presto, come già detto, come una figura centrale dell’internazionalismo. Il 10 gennaio 1872 sottoscrive con il Lovari un manifesto che recita:

Ecco chi siamo e cosa vogliamo.

Chi ci vuol bene sinceramente e chi vuole esserci utile ci segua; chi è ambizioso si allontani da noi, perché il cammino che dovremo percorrere sarà molto aspro e difficile e non offrirà campo a speculazione di sorta.

Operai della città, lavoratori delle campagne!

La nostra causa è la vostra. Siamo fratelli di sventura e dobbiamo pur anche esser fratelli nella lotta per la comune emancipazione.

Unitevi dunque a noi, confidate unicamente nelle vostre forze, abbiate fede nell’avvenire, marciamo avanti, insieme compatti, tenendo alta la nostra bandiera, nella quale sta scritto: verità-giustizia-morale.

Salute e solidarietà

Firenze, lì 10 gennaio 1872

Nel 1873 Natta fa parte della Commissione di corrispondenza della Federazione Italiana dell’AIL, nonché del Comitato per la Rivoluzione sociale, l’organismo clandestino creato da Carlo Cafiero, Andrea Costa ed Errico Malatesta (massimi esponenti dell’anarchismo italiano di quegli anni) e facente riferimento alla Alliance internationale de la democratie socialiste di Bakunin. Nel frattempo organizza in segreto, con i già ricordati Lovari e Grassi, il Comitato rivoluzionario fiorentino.

La Federazione punta infatti ad una vasta insurrezione per l’estate dell’anno successivo. Natta viene nominato il responsabile per la Toscana e rimane in diretto e costante contatto anche con Bakunin. Anzi, nell’estate del 1873 si reca a Locarno, da Bakunin, presso la famosa villa “la Baronata”, centrale dell’anarchia europea, messa a disposizione da Carlo Cafiero.

Il fatto che il Natta si rechi in Svizzera è estremamente significativo dell’importanza del suo ruolo all’interno dell’organizzazione anarchica internazionale. Raggiunto Bakunin alla Baronata, Natta, insieme ad altri compagni, getta le basi dell’insurrezione che si intende organizzare per l’anno successivo.

L’incontro di Natta con Bakunin è narrato da Riccardo Bacchelli ne “Il diavolo a Pontelungo”. Nell’episodio del romanzo, Natta, definito dallo scrittore come “piemontese di nascita ma fiorentinizzato dal lungo soggiorno”, recita uno dei passaggi più toccanti dell’intero libro.

Bakunin gli chiede: «Tu Natta, hai mai avuto paura della miseria?

E come no? Sentimi, sor Michele. Un giorno, io vidi ripescare in Arno sotto il Ponte alla Carraia un disgraziato. Sul morto trovarono una busta dentro il portafogli. Sulla busta c’era l’indirizzo: “a chi mi ripescherà”. E dentro, una parola sola: “Miseria”.

Rivedo sempre il morto in acqua, pareva un fagotto di cenci, un gatto affogato, un oggetto da nulla.

Poi mentre lo issavano colle funi, saliva, saliva, e spaziava sempre più grande. Lo stesero come Cristo in Croce sul ponte, col volto al cielo, sor Michele mio; era una giornata di sole fiorentino. Lo frugarono, lessero forte quella parola sola.

E che t’ho da dire? Il Ponte alla Carraia e mezzo Lungarno stipati di gente se la ridissero a mezza voce. Non si vide e non si udì più altro.

Un morto con quella parola, che non ne aveva altra da dire al mondo: “Miseria”, e faceva paura a tutti»8.

Il racconto ha tutta l’aria di riportare qualcosa che è stato raccolto, ascoltato ed assimilato dal Bacchelli, se non altro perché il commento di Natta a quel fatto di cronaca pare così personale e intimo da poter essere trasmesso in una confidenza sussurrata agli amici.

Che non si tratti di un’invenzione letteraria di Bacchelli ma di un fatto realmente accaduto, di cui il Natta è stato spettatore, lo si può anche desumere da due circostanze. La prima, la più rilevante, è che Natta, allorché si trasferì in Argentina, fece parte della redazione di un giornale che si chiamava appunto “La Miseria”; la seconda riguarda invece la conoscenza che dei fatti anarchici fiorentini Bacchelli aveva avuto di prima mano. Bacchelli era infatti amico di numerosi personaggi che gravitavano o erano simpatizzanti dell’anarchia, dall’Avv. Barbanti Brodano a Giosuè Carducci e al nonno Ermanno Bumiller, e che avevano vissuto in prima persona o avevano avuto notizie di prima mano dei fatti poi narrati nel libro.

Ritornato a Firenze, Natta, viene designato appunto dal rivoluzionario russo come organizzatore dell’insurrezione che dovrebbe infiammare Bologna nell’agosto del 1874, per estendersi poi alle regioni vicine.

La data dell’insurrezione è fissata al congresso straordinario di Bruxelles per il 12 agosto 1874. L’ottimistica previsione dei rivoluzionari indica in 30.000 uomini, 4.000 fucili e 1.000 bombe le forze da mettere in campo. Le armi, infinitamente meno di quanto avevano ipotizzato gli insorti, sono state acquistate con gli ultimi residui del patrimonio di Carlo Cafiero e raccolte dal Costa, da Malatesta e da Natta alla Baronata.

In realtà la mobilitazione finisce per interessare poche centinaia di uomini (è una costante nei moti rivoluzionari italiani di quegli anni…). Nella notte fra il 7 e l’8 agosto, anniversario della cacciata degli Austriaci nel 1848, gli anarchici internazionalisti tentano una prima insurrezione a Bologna, con la speranza di estenderla dapprima alla Romagna e in seguito alle Marche e alla Toscana.

Il piano prevede: la concentrazione di tre colonne di congiurati provenienti da paesi vicini presso le campagne di Caprara, vicino a Bologna, dove sono state nascoste le armi; l’entrata in città all’alba e l’occupazione del palazzo comunale; l’assalto e il saccheggio dell’arsenale militare e la liberazione dal carcere dei prigionieri politici.

Vengono raccolti in vari punti della città materiali per erigere barricate. Un centinaio di uomini armati sono pronti all’azione, ma la Prefettura, informata da spie infiltrate, sventa la rivoluzione sul nascere. Una colonna partita da Imola si impadronisce della stazione di Castel San Pietro, sabotando la linea telegrafica e portando via armi, lucerne e bandiere rosse per le segnalazioni. Viene però poi fermata presso Bologna da un contingente di militari e di carabinieri. Quarantasette uomini sono arrestati sul posto, mentre gli altri, fuggiti in montagna, vengono catturati il giorno seguente.

Bakunin, presente a Bologna, è ricercato dalla polizia, e i suoi compagni di insurrezione organizzano immediatamente la sua fuga.

Si imponeva quindi per gli internazionalisti rimasti liberi o latitanti, la necessità di trovar prontamente un compagno scaltro, serio, fidato ed energico, capace di condurre il Bakunin, oltre il confine italiano. E quest’uomo fu subito trovato nella persona di Francesco Natta, il quale seppe condurre la difficilissima impresa con una veramente rocambolesca accortezza, pari ad un raro coraggio.9

Bakunin, travestito da prete, viene infatti accompagnato in Svizzera, in treno, proprio da Natta. Quest’ultimo, sempre secondo il romanzo del Toninelli, che come già detto attinge alle cronache del tempo, non fa poi ritorno a Firenze, preferendo tornare a San Salvatore dove può ancora contare su amicizie e coperture. Viene però arrestato alla fine di ottobre, alla stazione di Firenze, dove ha fatto ritorno o per ricongiungersi alla famiglia o, forse, perché vuole condividere con i compagni il carcere e affrontare con loro il processo. Fatto sta che appena giunto in città è riconosciuto e arrestato. Ecco il resoconto della cattura comparso su La Nazione del 3 novembre 1874.

L’altro ieri veniva eseguito nella nostra città l’arresto di un tale Francesco Natta, a proposito del quale ci vengono comunicate le seguenti notizie. Da Ginevra ove è uno dei triumviri della Internazionale, il Natta veniva a Firenze per rassettare le file sparse e, più numerosi e dalle fruttuose perquisizioni di documenti, armi e materie incendiarie, in gran copia fatti dalla nostra Questura. Giunto in Firenze, la brava nostra polizia fu informata. Sembra che egli spiegasse la sua venuta colla necessità di vigilare ad una fabbrica di macchine da cucire in via Niccolini. È un giovane d’aspetto distinto, di carattere ardito ed energico. È nativo di Alessandria (Piemonte). Insospettitosi che la polizia si fosse accorta della sua presenza in Firenze, non pose tempo in mezzo e se ne andò alla stazione per fuggire, ma trovò là agenti e delegato, i quali gli intimarono l’arresto.

Sulle prime nascose il suo nome, ma vistosi scoperto, non seppe poi tacere, e confessò con animo affranto che era il Natta, uno dei capi degli internazionali.

Né qui si limitava l’operato della Questura. Si sapeva che quest’individuo, oltre rivestire alte funzioni nella setta, era come si direbbe il conservatore generale di tutte le carte, documenti e corrispondenze dell’Internazionale in Italia. Ora egli doveva averle presso di sé, ma come trovarle?

Tante e tali furono le indagini che si riuscì a scuoprirle.

Dietro una latrina in uno stambugio a guisa di forno, ove bisognava entrare con le mani e coi piedi, si trovò tutto l’archivio dell’Internazionale. Il Natta, prima di andar via da Firenze, certo di tornarvi fra molto tempo, aveva dato la disdetta della bottega, l’aveva sgombrata e aveva pensato in quello stambugio di murare tutto quell’ammasso di carta che potevano compromettere tanti e rivelare appieno i propositi di quella setta.

E murò infatti tutto quell’archivio; ma la polizia, rovistando con l’aiuto di due muratori il luogo e demolendo qua e là, al cadere di vari mattoni scuoprì dietro ad essi un vero arsenale di carta e corrispondenza che somministreranno piena luce in questo gran processo, ove figurano finora 61 accusati, e che si agiterà a Firenze. Le carte reperite saranno anche di non poco lume ai giudici d’istruzione nei processi di simil genere che si stanno adesso istruendo nelle altre parti d’Italia. Il Natta fu, com’è naturale, tradotto alle Murate a disposizione dell’autorità giudiziaria.

Le singolari circostanze che accompagnarono questo arresto e la scoperta delle carte fanno molto onore alla nostra Questura.

L’arresto ha una grande risonanza, tanto da far scrivere a Gregorio, su Bulletin del 15 novembre 1874: “La polizia è finalmente riuscita a mettere la mano sul “capo” dell’Internazionale a Firenze, Francesco Natta, che è stato arrestato a Firenze la sera del 1 novembre e deferito all’autorità giudiziaria sotto l’accusa di cospirazione contro lo Stato!

La determinazione delle forze dell’ordine non deve stupire. Nel quadro politico, in vista delle elezioni dell’autunno 1874, la questione dell’internazionalismo è divenuta molto importante e passibile di strumentazione.

Proprio in quei giorni viene emanata la “circolare Cantelli”, un documento del ministro dell’Interno ai prefetti sulle elezioni, col quale, di fatto, li invita ad intervenire attivamente nella lotta elettorale. Il presidente del Consiglio Marco Minghetti, nel timore di nuove rivolte, ha indicato come priorità il contrastare le “straordinarie e criminose malattie sociali di alcune province”. Vengono quindi diramati ordini perché tutto i capi dell’internazionalismo siano arrestati.

Il processo contro i 72 arrestati con l’accusa di cospirazione si apre il 9 marzo 1875 avanti la Corte d’Assise del Tribunale di Firenze.

All’apertura, la Corte ritiene valida l’accusa solo per 34 imputati, rei di “essersi costituiti in numerosa associazione preordinata allo scopo di eccitare e promuovere una rivoluzione sociale, onde distruggere lo Stato in tutte le sue manifestazioni giuridiche, economiche e politiche, abbattere l’Autorità sotto qualunque forma o rappresentanza, rovesciare il governo, sostituirvi l’anarchia e giungere al comunismo e alla liquidazione sociale mediante ogni sorta di violenza verso le persone e i beni dei cittadini; per avere fra il luglio e l’agosto 1874, con l’intendimento di raggiungere lo scopo su enunciato, stabilito e risoluto un progetto di insurrezione consistente nell’armare delle bande in Firenze e nelle terre circostanti, suscitare incendi e commettere stragi, per distrarre e deviare le forze della truppa quivi stanziata, assaltare gli uffici, uccidere i funzionari della Pubblica Autorità, liberare i detenuti dalle prigioni per unirli alle loro fila e, divenuti quindi padroni del paese, scorrazzare le campagne ed attendere che le altre provincie del Regno seguissero l’esempio, nel modo che si era appunto tentato nelle Romagne; e per avere a tal fine fatti preparativi di esecuzione, dividendosi in varie sezioni di operazione, distribuendosi le parti, apparecchiando armi e munizioni e facendo tutto quello che era necessario per dare immediato incominciamento all’insurrezione”.

Natta, unico fra tutti gli imputati, conferma tutti gli incarichi assunti nell’Associazione, la sua partecipazione ai congressi, la sua assenza da Firenze all’epoca dei fatti di agosto, (sia pur giustificandola con un viaggio di lavoro a Roma…) e afferma di condividere i principi dell’Internazionale Italiana: ateismo, collettivismo, anarchia.

Spiega quindi le finalità dell’Internazionale: “Scopo materiale pratico è l’assistenza dei suoi aggregati, sostenendoli nelle dissensioni che possono insorgere fra gli operai e i capitalisti. L’Internazionale poi ha un complesso di dottrine che costituiscono i suoi principi scientifici, che io accetto; i principii cioé dell’ateismo, del collettivismo e dell’anarchia. Alla parte materiale mi sono dedicato con tutta attività; alla parte scientifica non ho né la forza, né la scienza di cooperare.

Tra teoria e pratica Natta, che pure deve tener conto di un contesto in cui parla da imputato, accetta di illustrare la sua visione politica, e quando gli viene chiesto se condivide quanto definito dalla passata Conferenza di Rimini (conferenza nella quale era stata data piena adesione al programma rivoluzionario di Bakunin) risponde: “sì, come principio dell’avvenire; se mi si dicesse di tradurre immediatamente in atto tutte le dottrine proclamate in quella conferenza mi vi opporrei […]. Nella nostra associazione, l’anarchia è già bell’in attività. Una Federazione spontanea di sezioni […]. Il vocabolo anarchia per se stesso significa non autorità; ciò però per me non significa confusione. E tanto è vero che l’Associazione Internazionale dei Lavoratori cammina benissimo”.

E, alla domanda del Presidente se l’anarchia gli insorti la vorrebbero nella Società loro o in tutta la Società Umana, aggiunge: “per intanto, l’anarchia è nella società internazionale; naturalmente io la voglio estesa al genere umano, se fosse possibile; ma per ora io non ne ho né i mezzi né la volontà; se la volessero imporre con la violenza, io mi opporrei, perché come vi sono entrato io con la persuasione, così spero che c’entreranno tutti”.

Natta quindi riesce a trasformare il processo in un clamoroso fatto di propaganda socialista. Pone ai giurati inquietanti quesiti non sulla propria innocenza o colpevolezza ma sulle condizioni degli operai italiani disoccupati, sfruttati, privi di assistenza, di mezzi di vita e dei più elementari diritti. E tali parole giungono diritte alla sensibilità dei giurati. (Si riporta al termine di queste pagine l’integrale, appassionata e nobilissima autodifesa del Natta, che diverrà nel tempo un opuscolo classico della propaganda anarchica).

La difesa di Natta e la sua strategia processuale sono, a mio avviso, perfette.

Questi, molto intelligentemente, dimostrandosi anche in questo frangente un vero leader, riconosce la propria appartenenza all’Internazionale, confermando tutto quanto è già comunque stato accertato dagli inquirenti e quindi inutilmente negabile; convince gli altri imputati a respingere ogni loro coinvolgimento, confidando nel fatto che la fretta e l’approssimazione delle indagini farà il resto; risponde in modo pacato e preciso (non a caso i compagni, proprio per questo suo atteggiamento, lo chiamano Pacificone o anche Giuggiolone…) ad ogni domanda postagli dalla pubblica accusa e procede egli stesso ad interrogare alcuni testi che lo accusano, facendo emergere alcune contraddizioni.

L’opinione pubblica è apertamente schierata a favore degli imputati ed in particolare parteggia per il Natta, peraltro estremamente conosciuto a Firenze, tanto da fagli dire al processo: “per la mia professione di meccanico tutta Firenze mi conosce, dall’alta aristocrazia al ciabattino”.

In realtà tutta Firenze conosce il Natta non tanto o non solo come meccanico, quanto proprio per il suo carisma e la sua instancabile attività a favore degli ideali anarchici. Emblematico, a questo proposito, è il fatto narrato da “Il Monferrato” nell’edizione del 10 maggio 1878.

L’episodio è successivo di quattro anni ai fatti qui trattati, quando la notorietà di Natta era al culmine; ma è senz’altro vero che già allora il Natta fosse conosciutissimo: “Non voglio chiudere questa mia senza rilevarvi una spiccata pubblicità cui diede luogo la nostra infelice polizia la settimana scorsa. La nostra infelicissima questura, infelicemente inspirata ebbe l’infelice pensiero di far sorvegliare da due questurini: il noto internazionalista Francesco Natta da Alessandria della Paglia […]. Una guardia di P.S. veglia costantemente all’uscio del laboratorio meccanico del giovane comunista […]. Pazienza se le guardie vestissero alla borghese, ma il male si è che vestono in divisa e per di più hanno l’incarico di seguirlo dovunque esso vada…

Ora avvenne che il Natta essendo uscito seguito alla lontana dall’ombra […] del questurino […] incontrò alcuni amici che lo chiamarono per nome e cognome… il nome di Natta fu allora ripetuto da questi lo udirono e per festeggiare il felice incontro entrarono in un caffè.

Quando uscirono videro con loro sorpresa una moltitudine di gente fuori ferma […] Se ne meravigliarono, ma la loro sorpresa avani tosto allorchè si accorsero che la pubblicità e la riunione di quel popolo era causata dalla presenza degli agenti della Questura che facevano la guardia d’onore al caffè che aveva accolto il Natta.

Stizziti il Natta e i suoi amici del contegno poco prudente e punto dignitoso degli agenti di questura invece di dividersi, come era forse loro intento, pensarono di fare una passeggiata in S. Frediano […] e la eseguirono.

Ma fu una passeggiata seguita da un cinquecento curiosi, desiderosi di vedere il volto simpaticissimo e l’aspetto il più ingenuo e modesto che si possa immaginare, del capo degli internazionalisti di Firenze.

Figuratevi che figura han dovuto fare le guardie di P.S. incaricate di tener dietro a quella massa di popolo…

I camaldoli di San Frediano erano tutti fuori a vederli passare. Sul volto degli internazionalisti brillava la soddisfazione, sulle labbra del popolino quello della curiosità […] e sul muso degli agenti il dispetto di un solenne fiasco patito per opera dei poco previdenti loro superiori”.

La lettura della notizia, se vogliamo poco più che un aneddoto (a dimostrazione comunque di una indubbia notorietà del Natta) è però interessante anche per almeno due altri motivi.

Innanzi tutto è un poco mortificante il confronto con i nostri quotidiani attuali, osservando come in quegli anni (o per posta o con il telegrafo) venissero riportate notizie anche lontane, come poteva essere lontana Firenze dal Monferrato allora (pensiamo ai nostri cronisti attuali che pescano e traducono alla meno peggio le notizie trovate in rete); in secondo luogo ci dice che, malgrado una certa retorica che vorrebbe un ferreo controllo della censura applicata un po’ ovunque, all’epoca venivano invece riportate sui giornali notizie nelle quali il Potere non faceva certo una gran bella figura.

A chi scrive, leggere dei due ingenui agenti che in divisa seguono il Natta e, ingenuamente, non adottano nessuna cautela per dissimulare il pedinamento, ha fatto venire in mente le vignette di Alfredo Chiappori con i due agenti con trench e berretto, onnipresenti in ogni episodio della politica degli anni ‘70…

Tornando comunque al processo, il clima favorevole nei confronti degli imputati e le indubbie lacune dell’attività investigativa fecero il resto.

In effetti il pubblico ministero lo ammette: la polizia non è riuscita a forzare la catena di aiuti e di complicità che si sono venute a creare a Firenze. Con grande onestà intellettuale la pubblica accusa riconosce che non per tutti coloro che sono stati rinviati a giudizio si sono raggiunte prove sufficienti di colpevolezza.

Le cronache dell’epoca riportano che il Pubblico Ministero ha aggiunto serenamente come i vuoti dell’indagine vadano considerati come “i limiti della giustizia umana ai quali con serenità bisognava non arrendersi, ma porre rimedio”.

Un riconoscimento però sente di doverlo esprimere all’onestà della polizia, che ha indagato al limite del possibile e non ha corrotto nessuno, né con danaro né con altri mezzi illegali.

Per quattordici imputati il pubblico ministero ritira quindi l’accusa di cospirazione, chiedendo per gli altri pene ridotte.

La parola passa ai difensori, i quali sono confortati, oltre che dall’alleggerimento delle accuse, anche dal fatto che il 4 agosto precedente la corte di Assise delle Puglie in Trani ha assolto dall’accusa di complotto contro lo stato Enrico Malatesta e 24 imputati. È un precedente che fa ben sperare.

Ed infatti, nel giugno dell’anno successivo la giuria popolare, facendosi interprete dell’opinione pubblica, assolve tutti gli imputati, ad eccezione di due internazionalisti, condannati a pochi mesi di carcere.

Pochi giorni dopo l’assoluzione (e precisamente il 23 luglio 1876), Natta organizza il congresso regionale toscano dell’Internazionale. Rinsaldate le fila toscane, in agosto, a nome della Commissione di Corrispondenza dell’AIL Natta convoca a Firenze il Terzo congresso federale.

Il governo però decide di impedire ad ogni costo il congresso. Così il 19 ottobre, due giorni prima dell’inizio dei lavori, Natta viene puntualmente arrestato, così come Costa, Grassi e decine di altri delegati. La città è completamente presidiata e gli scampati agli arresti si riuniscono in modo fortunoso nei boschi della vicina ma isolata località di Tosi10.

Quando in novembre la nuova Commissione si sposta a Napoli, in previsione dell’azione nel Matese (un tentativo di insurrezione organizzato, tra gli altri da Cafiero, Costa, Pezzi e Grassi), Natta, che nel frattempo è stato rilasciato, rimane a Firenze e qui promuove il Primo Congresso operaio toscano (novembre 1876).

Le ventisei associazioni partecipanti danno luogo in questa occasione alla Federazione Operaia toscana, che esprime il proprio sostegno all’Associazione Italiana lavoratori e ne adotta lo statuto.

In seguito all’azione nel Matese (primavera 1877) le autorità si determinano a sciogliere le Federazioni e le associazioni internazionaliste: con quasi tutti gli esponenti di primo piano in carcere o riparati all’estero, ancora una volta è Natta a tenere le fila dell’organizzazione.

A fine gennaio 1878, grazie all’amnistia per l’insediamento del nuovo re, che favorisce l’assoluzione di tutti i partecipanti ai moti del matese, i vari attivisti arrestati possono far ritorno presso le loro abitazioni, e anche a Firenze riprende l’attività dei movimenti anarchici. Natta, infaticabile, insieme ai coniugi Pezzi e a Grassi organizza in continuazione comizi fuori porta e massicce manifestazioni nel centro stesso della città.

L’8 febbraio esplode una bomba agli Uffizi. Natta, con Grassi e Vannini, nega ogni responsabilità degli internazionalisti, affermando che quel tipo di attentati non sono nelle corde del movimento, e che ci si attende invece il verificarsi “di ben altri avvenimenti”. Da un lato il clima politico interno è infatti molto agitato, dall’altro la crisi internazionale sembra dover sfociare in una guerra europea.

In questo quadro gli anarchici pensano di poter agire nuovamente. In tale direzione vanno quindi i lavori del IV Congresso della Federazione italiana, che si tiene clandestinamente a Pisa nell’aprile, e quelli del convegno altrettanto clandestino dei vertici internazionalisti il 1° ottobre a Firenze.

Il 3 ottobre, in una riunione degli internazionalisti fiorentini a casa di Francesco Natta, si discute sull’organizzazione di un nuovo moto rivoluzionario. A questo punto però la polizia, percepito il fermento in atto, reagisce arrestando tutti gli intervenuti e i maggiori esponenti fiorentini. Natta è arrestato il 3 ottobre, e con lui Luisa Minguzzi e Anna Kuliscioff, appena giunta dalla Russia ed ospite a casa sua. Rimarrà in carcere in attesa di giudizio, con gli altri arrestati, per oltre un anno. La circostanza dell’arresto proprio a casa di Natta dei vari militanti provenienti da diverse parti d’Italia è un’ulteriore prova di come questi sia il riferimento per tutti i rivoluzionari di passaggio da Firenze. La sua casa è definita a tal proposito “il Vaticano”.

Nel resoconto del processo apparso su “La Gazzetta Piemontese” del 27 dicembre 1879 il giornalista scrive appunto che il fatto che la Kuliscioff sia andata a casa del Natta è naturale, “perché non conosceva altra persona in quella città”. Se Firenze è quindi una delle più importanti sedi della riorganizzazione dell’anarchismo, la casa di Natta è il centro dell’anarchismo italiano.

Il processo che ne segue ha un grandissimo impatto sull’opinione pubblica11. Natta viene unanimemente riconosciuto dagli inquirenti e dalla stampa come l’elemento di maggior spicco del movimento. Il cronista de “La Gazzetta piemontese”, riportando l’inizio della requisitoria del P.M., così lo descrive: “Incomincia dal Natta. Nota che il Natta non va semplicemente guardato come un segretario, un socio qualunque dell’Internazionale. Egli era uno dei capi più influenti dell’Associazione ed era per certo l’anima della Federazione fiorentina. Egli formulava i quesiti da discutersi faceva circolari, dava le direzioni opportune, insomma era uno dei capi più autorevoli dell’Associazione” (resoconto dell’udienza del 24 dicembre (?!)

E così anche il cronista de “Il Monferrato” annota: “Francesco Natta, come al solito, comparisce come capo”.

Natta, difeso da Francesco Saverio Merlino, che in seguito assumerà l’incarico di difensore di Gaetano Bresci (anche da tale difesa, di così alto livello, si deduce il ruolo importantissimo svolto dal nostro nell’ambito dell’organizzazione), viene assolto e liberato, come tutti gli altri, il 6 gennaio 1880.

Nel frattempo però viene arrestato il fratello Agenore, pittore decoratore, per la bomba esplosa a via Nazionale il 18 novembre 1878, (il giorno successivo all’attentato avvenuto a Napoli al Re Umberto I, ad opera di Giovanni Passanante) nella quale sono rimaste uccise quattro persone. Ma del suo processo, della sua dura condanna e delle vicende successive tratteremo poi brevemente in seguito.

La repressione attuata dal governo mette in grave difficoltà il movimento internazionalista, che vede tra l’altro in quel momento la svolta legalitaria di Andrea Costa e il rifiuto dei metodi violenti di lotta.

Ancora una volta tocca a Natta tirare le fila dell’organizzazione e mediare tra le posizioni più intransigenti del movimento e quelle più istituzionali di Costa. Il piemontese dà subito vita ad un comitato rivoluzionario segreto che ristabilisce i contatti con gli anarchici rifugiati in Svizzera, cercando quindi di rilanciare l’organizzazione.

A questo proposito, ciò che balza agli occhi seguendo l’instancabile attività di Natta nel tessere le file dell’organizzazione anarchica è la sua abilità a lavorare sottotraccia. Praticamente ogni iniziativa di quegli anni passa per il tramite della sua persona ed egli, malgrado abbia gli occhi della polizia puntati su di sé e a dispetto della notorietà, riesce quasi sempre ad evitare gli arresti; quando invece ciò accade, riesce a non riportare condanne.

Dopo essere stato presentato come candidato di protesta, insieme a Cafiero, alle elezioni politiche del 1882, ed aver ricevuto in verità pochi voti, l’anno successivo Natta è tra i fondatori della Federazione socialista fiorentina, che si riconosce nel programma comunista anarchico.

Sempre nel 1883 firma la circolare che annuncia l’uscita de “La Questione Sociale”, il periodico diretto da Malatesta che diverrà il portavoce degli anarchici allineati su posizioni antiparlamentari e rivoluzionarie.

Nello stesso anno si verifica la rottura di Costa con il movimento anarchico. La sua candidatura e la successiva elezione in Parlamento (primo deputato socialista nella storia d’Italia) determina fortissimi (e in alcuni casi anche violentissimi) contrasti in seno al movimento.

Anche in questo caso Natta dà prova di una concretezza e pacatezza che a mio avviso è il criterio guida della sua vita politica. Infatti, a differenza della maggior parte degli altri anarchici, ritiene che si debba evitare la frattura con Costa.

A tal riguardo polemizza con Errico Malatesta, il quale in una lunga lettera al giornale ha censurato piuttosto aspramente l’opera del neo deputato. Pur marcando la distanza dalla posizione di Costa, Natta ritiene che il contrasto e le polemiche intolleranti e offensive nuocerebbero a tutto il movimento. Riconosce la buona fede sia del compagno non più rivoluzionario, sia dei socialisti romagnoli, i quali ritengono che l’emancipazione del proletariato possa venire dal parlamentarismo. Secondo questi ultimi la differenza fra socialisti intransigenti e legalitari sta nel fatto che i primi si affidano ai metodi violenti, mentre i secondi ritengono che la strada da percorrere debba invece avere i requisiti di un cambiamento che prediliga l’organizzazione e la preparazione della rivoluzione sociale. In sostanza, la discussione verte non sui principi, ma sul metodo di lotta.

Natta, e con lui Pezzi, difendono perciò vivacemente Costa, ritenendolo onesto e sincero e ribellandosi, come “anarchici rivoluzionari intransigenti, a qualunque imposizione che dovesse limitare la libertà di condotta nella propaganda, nella iniziativa, nell’azione12.

Nel 1884, quando Malatesta e Merlino vengono condannati dal Tribunale di Roma come “malfattori” (così all’epoca era definita “l’associazione per delinquere”), Natta è tra i firmatari di un manifesto di protesta che gli costa l’ennesima incriminazione e la condanna in contumacia (il 19 settembre 1884) a 30 mesi di carcere e 3900 lire di multa, per i reati di “offesa al rispetto delle leggi fondamentali dello Stato, apologia di fatti qualificati delitti, offesa contro il diritto di inviolabilità della proprietà e di manifestazione di voto di distruzione dell’ordine monarchico costituzionale per mezzo della stampa”.

Resosi latitante, alla fine del 1884 riesce a fuggire dall’Italia, insieme proprio a Malatesta e ai coniugi Pezzi, e ripara, via Marsiglia e imbarcandosi sul piroscafo Savoie, a Buenos Aires (città che già dà asilo a diversi anarchici), dove sbarca l’ultimo giorno dell’anno13. In questa occasione Malatesta viaggia nascosto in una cassa di macchine da cucire (e la spedizione è probabilmente riconducibile, sia pure sotto falso nome, proprio a Natta, che utilizza il nome della moglie, Elisa Innocenti, da cui è separato) spedite in Argentina per l’intrapresa dell’attività che va ad impiantare a Buenos Aires. E nelle sue memorie racconta in proposito un particolare degno di un film di De Funes: un poliziotto che procedeva alle ispezioni ha aiutato a spostare la cassa nella quale l’anarchico era nascosto14.

Nel marzo 1885 la polizia italiana sa che Francesco Natta, unitamente a Malatesta, ha aperto un laboratorio a Buenos Aires, nella centrale via Corrientes 384, sotto il nome di “Malatesta e Natta”. Ciò grazie all’aiuto di un sarto di cognome Lombardi, fratello di un anarchico rifugiato a Londra ed amico del Malatesta. In realtà il nome della ditta è “Malatesta, Natta, Pezzi e Cia” ed è da ritenere che l’unico a svolgere l’attività sia proprio Natta, mentre per gli altri soci è solo una copertura. Il Ministero dell’Interno italiano ritiene peraltro che l’intrapresa di attività produttive indipendenti da parte di anarchici e socialisti sia soltanto uno strumento per accumulare mezzi finanziari, attesa la facilità di credito reperibile in Argentina in quel periodo, per poi tornare in Italia “alla testa di una spedizione”. La realtà è però ben diversa. Il ministro d’Italia in Argentina fa presente che gli anarchici cercano soltanto di “sostentarsi, divertirsi e anche di fare alcuni risparmii, ma non vistosi per ora, né tali probabilmente neppure pel seguito, che nelle loro immaginazioni”.

Una volta stabilitisi a Buenos Aires, Natta e compagni s’integrano subito nel Circolo Comunista Anarchico fondato l’anno precedente da Ettore Mattei, e successivamente danno vita al Circolo di Studi Sociali (chiamato anche Circolo Socialista) che si riunisce nel café Grütli, dove si svolgono le prime conferenze comuniste anarchiche. In seguito tali conferenze si terranno presso la sede del giornale “La Questione Sociale”, creato dal gruppo e rifacentesi all’omonimo foglio pubblicato a Firenze. Questo giornale è il primo periodico anarchico in lingua italiana pubblicato in Sud America, e ad esso collabora attivamente il Natta, che ne è anche generoso finanziatore. Il giornale incontra però scarso successo, e dopo quattordici numeri si decide di sostituirlo con la pubblicazione di opuscoli, ritenuti più efficaci per la propaganda.

Nel novembre del 1885 Natta fa giungere a Buenos Aires il figlio Temistocle, di 19 anni, con la nave La France, partita da Marsiglia, mentre l’altro figlio, Ezio, diciottenne, arriva l’anno dopo, nel mese di febbraio, sul piroscafo Roma, partito da Genova. È possibile che una volta giunti a Buenos Aires i figli subentrino nel condurre l’attività, mentre il padre, assieme a Malatesta e ad altri tre compagni, parte per l’estremo sud argentino (Cabo de las Islas Virgenes, Patagonia), per un’incredibile corsa all’oro. In realtà la partecipazione del Natta all’avventura è riportata soltanto da due o tre fonti (o forse anche da una sola e riproposta dalle altre), ma ne riferisco ugualmente perché mi è sembrata una storia fantastica15. Un sansalvatorese che, affrontando un viaggio incredibile, giunge fino nell’estremo sud della Patagonia per una corsa all’oro e per giunta per finanziare i propri ideali, era una storia che andava comunque narrata. A prescindere. Non fosse altro per sottolineare come poco più di un secolo fa vi fossero personaggi (Malatesta e il Pezzi partecipano alla spedizione sicuramente) che per un’Idea erano pronti a sopportare una vita di stenti, di pericoli e di avventure in terre sconosciute ed anche ostili.

L’idea è quella di andare in Patagonia a cercare fortuna per finanziare l’opera di propaganda anarchica. Sette mesi dopo, però, nel mezzo del terribile inverno patagonico, i compagni di spedizione decidono di abbandonare l’impresa. Muoiono quasi di fame e devono essere messi in salvo su una nave come naufraghi, per poi essere sbarcati in un porto in prossimità di Buenos Aires.

Tornato a Buenos Aires, Natta riprende la propria attività nel negozio, che nell’annuario generale del 1895 risulta essere stato trasferito a La Plata, la nuova ed elegante città sorta pochi anni prima. Ed il fatto che quell’attività risulti nell’annuario generale lascia intendere che, idea anarchica o meno, gli affari non gli vanno affatto male.

Nel frattempo l’attività a sostegno del movimento anarchico continua incessantemente, trasformandosi sempre più in un’opera di proselitismo e di divulgazione dell’idea anarchica per mezzo di giornali e volantini diffusi capillarmente.

Il primo numero de “La Questione Sociale” esce nella capitale argentina il 22 agosto 1885, mentre l’ultimo di cui abbiamo notizia, il decimo, compare il 29 novembre dello stesso anno. È poi la volta de “El Perseguido”, che è il primo giornale anarchico sudamericano. Il periodico raccoglie fondi non solo a Buenos Aires, ma anche a Rosario, La Plata, Córdoba, Mar del Plata, Luján e in innumerevoli altri paesi dell’Argentina, mentre arrivano anche contributi da alcuni compagni dell’Uruguay, del Brasile, del Cile, del Paraguay, del Nordamerica, della Spagna, di Londra, e persino dal periodico parigino “La Révolte”. Nelle sottoscrizioni raccolte dal giornale compaiono un gran numero d’italiani residenti in Argentina, tra i quali appunto Francesco Natta, il quale, raggiunta una certa tranquillità economica, interviene, oltre che come organizzatore e cofondatore, sempre più come finanziatore. Ed in effetti, l’anarchico Cappellini fa sapere in una lettera al Costa che Natta, ancora a La Plata, si dedica completamente agli affari.

In realtà l’attività di Natta quale promotore di iniziative sul territorio non è affatto venuta meno. Assieme ai figli ventenni, secondo i rapporti della polizia, partecipa spesso alle riunioni dei socialisti di La Plata e di Buenos Aires, essendo “uno degli oratori più considerati ed applauditi in tali riunioni”.

Pochi mesi dopo l’apparizione de “El Perseguido”, il 16 novembre 1890, esce a Buenos Aires “La Miseria”, giornale scritto in lingua italiana che ospita alcuni articoli in spagnolo e qualche piccola rubrica in francese. “La Miseria”, che si dichiara un organo comunista anarchico fin dall’inizio, ha una vita piuttosto breve e cessa le pubblicazioni dopo soli quattro numeri – l’ultimo è del 1° gennaio 1891. Dai tre numeri disponibili sappiamo che il gruppo redazionale è in contatto con anarchici di diverse località argentine, tra cui Mar del Plata, e quindi probabilmente con Francesco Natta e con il figlio di questi, Temistocle.

Attento anche alla situazione delle lavoratrici, il Natta risulta essere finanziatore de la “Propaganda anarquista entre las mujeres”, che pubblica all’interno della rivista “La Questione Sociale” almeno quattro opuscoli, a partire dal marzo 1895. Dal canto suo “La Questione Sociale”, scomparsa verso la fine del 1896, trova continuità in una nuova rivista, questa volta interamente redatta in spagnolo dallo stesso gruppo redazionale. Nell’aprile 1897 nasce infatti “Ciencia Social”, rivista mensile che vivrà fino al febbraio 1900. Prima della cessazione di “La Questione Sociale”, però, il gruppo del giornale pubblica nel 1895 il numero unico “XX settembre”, a proposito della commemorazione della festa patriottica italiana: e nella sottoscrizione per il foglio, pubblicata dalla rivista, appare anche in questo caso, tra i finanziatori, il nostro. Lo stesso vale per “La Anarquía” de La Plata; anche in questo caso tra gli autori delle sottoscrizioni raccolte compaiono i nomi di Francesco Natta e dei figli.

Natta risulta poi tra i finanziatori de “La Voz de la Mujer” di Buenos Aires, primo periodico libertario in America – e forse, al mondo – redatto esclusivamente da donne. Di tendenza comunista anarchica, il giornale era schiettamente femminista. Ad esso Natta dà il proprio contributo attraverso il canale de “La Questione Sociale”.

Negli anni che seguire Natta continua a dividersi tra gli affari16 e la propaganda anarchica che, come abbiamo visto, lo vede sempre in prima fila allorché si tratti di finanziare nuove iniziative a sostegno dell’Idea17. L’ultima notizia che si ha di lui riguarda un’informativa della Polizia Italiana della fine del 1903.

Il governo argentino scatena in quel periodo una violenta repressione antianarchica nella capitale, e Natta si prodiga per i molti che si rifugiano a la Plata. La scheda trasmessa a Roma annota: “nonostante la sua età, egli è sempre l’antico settario convinto e propagandista di un tempo”. Da allora non si hanno più notizie circa le attività del nostro concittadino. Sappiamo solo che muore a La Plata nel marzo del 1914.

In Italia la notizia è riportata da “Il Lavoro” di Prato, il 4 aprile.

 Vita (e sventure) di Agenore Natta

Agenore nasce a San Salvatore il 1 gennaio 1847. Si trasferisce a Firenze con il fratello, svolgendo l’attività di pittore decoratore. Di lui non si conosce quasi nulla, se non il fatto che, come il fratello Francesco, è un internazionalista convinto.

Questo fino al 18 novembre 1878, quando a Firenze esplode in via Nazionale una bomba lanciata contro un corteo monarchico, che provoca diverse vittime (almeno 4) L’attentato segue quello avvenuto a Napoli nei confronti del re Umberto I il giorno prima, compiuto dall’anarchico Giovanni Passanante: e scatta probabilmente la volontà da parte delle istituzioni di trovare in tempi rapidi dei colpevoli e la necessità di comminare ad essi una pena esemplare. Questo determina l’arresto di Agenore Natta con altri sette internazionalisti.

Nel processo che segue Agenore è riconosciuto come uno dei principali responsabili e condannato a vent’anni di lavori forzati. Una pena più grave (l’ergastolo) è comminata soltanto a Cesare Batacchi, uno degli elementi più in vista dell’anarchismo più intransigente fiorentino. Ciò a dispetto del fatto che tutti i condannati protestino vigorosamente la loro innocenza ed estraneità al sanguinoso attentato.

In realtà fin da subito appare all’opinione pubblica come gli otto arrestati siano dei capri espiatori per cercare di bloccare sul nascere le reazioni anti monarchiche e mostrare la forza e l’efficienza delle istituzioni. È sufficiente leggere le cronache del processo per comprendere come l’atmosfera garantista che nel Tribunale di Firenze si è respirata fino a qualche mese prima sia ormai svanita18. La responsabilità di Agenore Natta è determinata sulla base di due semplici affermazioni di presunti testimoni, peraltro prive di altri riscontri, e malgrado l’imputato protestati vibratamente la propria innocenza. Tre anni dopo i due accusatori, riparati all’estero, dichiareranno di loro spontanea volontà, davanti a pubblici ufficiali, di aver inventato le loro accuse su istigazione della polizia, e sosterranno l’innocenza dei condannati19.

In diverse parti d’Italia si promuovono iniziative in favore dei condannati, ma anche a causa del progressivo indebolimento del movimento anarchico fiorentino (i cui principali esponenti, tra cui Francesco Natta sono esuli all’estero) la campagna di stampa non riesce a far luce sull’attentato né ad ottenere la revisione del processo.

Anni dopo (ma saranno ormai trascorsi vent’anni dalla condanna) per iniziativa del giornale socialista “La difesa” si costituirà un comitato, in favore principalmente del Batacchi, a cui parteciperanno rappresentati di tutti i partiti. Tutto ciò porterà alla candidatura del Batacchi, tra le fila dei socialisti.

Agenore Natta, finito di scontare da poco la sua condanna a Pianosa, torna a Firenze tra i compagni il 23 dicembre 1898, in tempo per partecipare alla campagna pro Batacchi, ma rimane sempre strettamente vigilato. Batacchi venne eletto e il suo caso è discusso in parlamento il 10 marzo 1900. Quattro giorni dopo viene graziato. Agenore rimane a Firenze fino al 1922 quando, crollate le speranze del primo dopoguerra e preso atto dell’avanzare del fascismo, espatria in America Latina dove fa perdere completamente le sue tracce. Nel 1929 la polizia lo radia dal Casellario Politico Centrale, servizio in cui venivano schedati i sovversivi. Non se ne saprà più nulla.

 Della mia onestà vado superbo20

Signori Giurati, Voi avete sentito gli argomenti dell’accusa, e quelli dell’egregio avvocato Lupi mio difensore, come ché mi corre l’obbligo di pubblicamente e sinceramente ringraziarlo per avere con tanto zelo perorata la mia causa; con pari affetto ringrazio tutti quegli avvocati che con qualche argomento hanno tentato di attenuare la mia responsabilità. Voi, o signori Giurati, vi trovate di fronte un onesto operaio accusato di cospirazione contro lo Stato, per il sol fatto di appartenere all’Internazionale.

Qualunque possa essere il programma di detta Società, io non prenderò a svolgerlo perché superiore assai alle mie forze. Solo mi limiterò a parlarvi di quella parte materiale del programma che più da vicino mi riguarda come operaio, e per il quale ho preso una parte attiva.

Le ingiustizie e le sofferenze di cui l’operaio è continuamente vittima del capitalista e del monopolio, senza trovar altro che vane promesse, o noncuranza ai suoi giusti reclami, giustificano pienamente l’esistenza di quest’Associazione la quale ha per scopo immediato la organizzazione del Lavoro. Molti sarebbero i quesiti che io vi potrei proporre su questo argomento, senza dubitare minimamente di essere smentito; il primo che io intendo presentarvi, o signori Giurati, è questo: l’operaio d’Italia è esso assicurato da un lavoro quotidiano senza interruzione che lo ponga in circostanze di non dovere per mantenere la famiglia diventare disonesto? Son pienamente sicuro che siete convinti della verità di questo quesito, e quindi ammetterete con me la mancanza del lavoro causa principale in Italia, che appoggia il mio assunto.

Secondo quesito: Questi pochi operai che hanno la fortuna di essere al lavoro, sono essi retribuiti secondo l’opera loro, e ai bisogni necessari della vita? A questo quesito, o signori Giurati, non so se mi potrete rispondere coscienziosamente, perché è ben difficile a chi non operaio il considerare e il vederne i bisogni.

Ma basta che io vi metta davanti un quadro statistico di una classe delle più lucrose fra gli operai in genere per convincervi che purtroppo questa seconda causa è una terribile verità; vi parlerò degli operai meccanici. lo vi mostrerò, Signori, che le officine governative sono le prime a dare il cattivo esempio a quelle particolari nel retribuire l’operaio.

La media del salario nelle officine Galileo, Pia Casa di Lavoro, Ferrovie Romane, l’Arsenale d’Artiglieria di Fortezza, la Fonderia del Pignone, e tante altre che non ricordo il nome, è di L. 2,50 al giorno. Le ore del lavoro giornaliero sono 11 con dei regolamenti insoffribili i quali non si trovano alla casa di forza; notate che in queste Officine non vi entrano che operai onestissimi dietro certificato della questura e molte raccomandazioni; la maggioranza di questi operai onesti e specchiati si trovano con moglie e in media tre figli da mantenere e istruire.

Ora, o signori Giurati, vi lascio considerare se quest’operaio dopo avergli richiesto tutti i requisiti d’onestà e d’intelligenza, è retribuito equamente secondo le esigenze che i doveri che la Società moderna gli ha imposto verso la famiglia.

No, o signori, son sicuro che nella vostra coscienza non potrete ammettere che con due o tre franchi al giorno cinque individui possano onestamente menar la vita in una città, tenuto conto del caro dei viveri e le pigioni di casa; senza considerare le malattie che purtroppo nelle famiglie degli operai sono assai frequenti, e che molte volte lo portano alla dura necessità di vendere anche il letto.

E ben per esso se in mezzo a tutte queste calamità che le circondano riesce a mantenersi onesto, perché se questo bravo operaio onesto e laborioso, per causa di malattie o per qualunque altra causa, disgraziatamente arrivasse a macchiarsi il suo nome, sapete, o signori, cosa gli segue? Tutte queste officine si chiudono per lui, e allora è costretto a menare una vita vagabonda da una bottega ad un’altra mendicando lavoro, senza speranza di sfamare la sua famiglia il domani; di qui, o signori, la fonte di ogni vizio, dalla prostituzione al delitto.

Ma vi è una classe di operai più infelice di quelli che vi ho parlato e che pur nonostante le incombe i medesimi doveri e questi sono i cosiddetti braccianti agricoltori. E quando vi avrò detto quale è la media dei suoi guadagni son sicuro che vi sorprenderà il trovare in essi una virtù così grande per mantenersi onesti.

Questi operai infelici, o signori, guadagnano un franco al giorno in media; ora tolto le feste e il cattivo tempo non si arriva a contare 280 giorni lavorativi nel corso dell’anno. Così avremo in circa la media di 70 centesimi al giorno, coi quali, questo povero disgraziato, deve provvedersi gli arnesi di lavoro, mangiare e vestire con la sua famiglia, e pagare la pigione di casa, ed io gli ho visti questi infelici, nel cuore dell’inverno per la miseria, fare un tragitto di quasi due chilometri a prendervi acqua salata alle sorgenti per farsi la polenta.

Ma non più di questo, o signori.

Se la Società presente che si chiama civile adottasse quell’assioma: non vi è causa l’effetto, e che per avere delle conseguenze buone è necessario avere delle cause migliori; in altri termini se invece di perseguitare le conseguenze, cercassero le cause e queste si condannassero, o signori, voi vedreste su questo banco non noi che siamo le conseguenze, ma ben altri che rappresentano le cause!

Sapete voi, signori giurati, a quali conseguenze portino la mancanza di lavoro, la miseria e l’abbandono di un operaio isolato dalla società?

Domandatelo all’onorevole P.M. che a migliaia passano dalle sue mani i passaporti di questi disgraziati, conseguenza di un sistema, a popolare le case di forza, e io stesso, o signori giurati, benché della mia onestà ne vada superbo, non esito a dirvi che il giorno in cui per mancanza di lavoro fossi costretto ad onta della mia buona volontà nel procacciarmene, ad essere spettatore impassibile del digiuno dei miei figli, cosa orribile a pensarlo solamente, non esiterei, lo ripeto, di fronte a un delitto per sfamare i miei cari.

E allora, o signori, non avrete più davanti a voi un cospiratore, ma un assassino o un ladro, e come tale il P.M. sarà ben lieto di poter strappare da voi un verdetto di colpabilità, crescendo così il numero di coloro che già mi avrebbero preceduto alle galere per le medesime conseguenze.

Un terzo quesito, o signori, sottopongo alla vostra coscienza: Di fronte a questi bisogni, a queste necessità sociali, quali provvedimenti hanno preso gli uomini cui incombe questo dovere? Nessuno. Eppure, se non erro, uno dei provvedimenti è stato preso, capace di tutelare la società da questi affamati e vagabondi, almeno lo credono in buona fede.

Sì, o signori, non contenti dei domicili coatti, inflitti a una quantità di operai creduti rei di vagabondaggio, ci hanno regalata la legge eccezionale di P.S. e quanto questa sia giusta ed opportuna l’onorevole Taiani vel dica per me.

PRESIDENTE: Natta, dovete sapere che non è permesso censurare una legge dello stato, dite tutto quello che volete a vostra difesa ma rispettate le leggi esistenti.

NATTA: Non credo di aver mancato di rispetto alle leggi; ho detto soltanto: “Quanto la legge eccezionale sia giusta ed opportuna vel dica per me l’onorevole Taiani”

PRESIDENTE: Queste parole sono una censura.

NATTA (proseguendo): Ma ecco, o signori, che la logica dei fatti porta naturalmente ad una considerazione, e nello stesso tempo ad una domanda.

Come mai al grido degli operai italiani, parlo di quelli onesti che chiedono continuamente lavoro, si risponde con le ammonizioni e deportazioni per vagabondaggio? lo lascio a voi la risposta, e non mi allungherò di più su per questo terreno pieno di angosce. Solo mi limiterò a dirvi che la innumerevole emigrazione di operai italiani, mentre le arti e la terra poltriscono, mi dà pienamente ragione.

Su un ultimo argomento, o signori, vi domando con preghiera la vostra attenzione.

L’onorevole P.M. nella sua requisitoria vi ha parlato dell’Associazione Internazionale inglese confrontandola con quella Italiana, ed ha conchiuso che le operazioni fatte dall’Internazionale inglese sono pienamente nei suoi diritti, e legalmente approvate Britannico, perché se da un lato la Internazionale alle esigenze dei capitalisti [si] oppone spiegando le sue forze con uno sciopero imponente, dall’altro lato, sempre legalmente, e senza l’intervento della polizia, i capitalisti coalizzati alla loro volta oppongono la chiusura delle loro fabbriche finché un accordo non sia venuto, il quale fin qui fu favorevole agli operai.

Ma, o signori, in Italia è ben diversa la situazione economica e sociale degli operai.

Mentre in Inghilterra l’operaio non deve rivendicare dai capitalisti che il frutto intero del proprio lavoro, in Italia invece si presenta per l’operaio la necessità di rivendicare in prima linea il diritto di lavorare, cosicché mentre in Inghilterra il lavoro è un dovere, in Italia invece costituisce un diritto che ancora l’operaio non ha dal governo potuto ottenere. E sapete a questo grido di diritto al lavoro innalzato da- gli operai italiani come si usa rispondere? Vi citerò un fatto, o signori Giurati, che risponderà pienamente a questa mia domanda.

Nel 1872 verso la metà dell’inverno, la sezione dei muratori del Fascio operaio fiorentino contava da 300 di operai, quasi tutti con famiglia, privi di lavoro.

Il Fascio operaio in una sua adunanza per provvedere affinché non avvenissero disordini nella città, e nello stesso tempo dare la sussistenza a queste 300 famiglie, deliberò di fare istanza al municipio di Firenze, affinché volesse patrocinare presso gli accollatari di lavori in arte muraria, di spettanza del municipio questi stesso, a riaprire il corso delle costruzioni, state malignamente e egoisticamente troncate da questi accollatari, per il solo motivo che essendo le giornate d’inverno assai più corre non trovavano il loro tornaconto. Facendoli in ultimo osservare che i lavori decretati dai municipî, devono aver di mira principalmente non l’ingrassare accollatari, ma bensì deve alla sussistenza di tanti operai che fatalmente spesse volte li manca.

Fu nominata un’apposita commissione incaricata di presentare al municipio in nome del Fascio operaio la suddetta istanza.

Il rappresentante del municipio rispose che avrebbe sottoposto la nostra istanza al Consiglio comunale, e che fra qualche giorno si avrebbe saputo il risultato.

Sapete quale fu il risultato? E non si fece molto attendere; il giorno dopo con decreto dell’illustrissimo signor prefetto si scioglieva l’Associazione del Fascio operaio e non si è mai saputo quali fossero i motivi, solo vi posso dire che il Fascio operaio fu sciolto e i lavori municipali non furono aperti.

Dunque o signori Giurati dietro a questi eloquenti fatti, in Italia si deve conchiudere che l’operaio legalmente non può che piangere le sue miserie in seno alla famiglia, soffocando però quei gemiti, affinché non vengano sentiti in pubblico, correndo il pericolo di essere cambiati come voci sediziose, e come tali condannati.

Conchiudo adunque col dire che l’Internazionale in Italia, si presenta sotto un aspetto assai diverso a considerarsi da quello del Pubblico Ministero.

La Internazionale come associazione dei lavoratori in Italia, rappresenta la voce straziante di migliaia di operai onesti che mancanti di lavoro, o mal retribuiti, sorgono a protestare contro chi ne è la causa.

La Internazionale, o signori, non ha mai cospirato contro lo stato e sarebbe un assurdo il crederlo.

Composta come è di operai, la questione principale e immediata per essi è assicurarsi il pane e il lavoro per sé e loro famiglie, lasciando lo svolgimento dei suoi programmi al tempo e alla scienza. Voi non dovete considerare la Internazionale dai suoi congressi o da qualche lettera o documento privato che nulla vi provano, ma che invece letti spassionatamente e spogliandoli di qualche frase che inconsideratamente oppure in un momento di dolore avrà potuto l’autore dei medesimi lasciarsi sfuggire alla penna, vi troverete a ogni passo invece i gemiti dell’angoscia, della miseria, e della disperazione.

Voi vi rammenterete, o signori Giurati, la situazione d’Italia nel luglio e agosto 1874, vi ricorderete le sommosse di piazza per il caro dei viveri, e per la mancanza generale di lavori, e son più che persuaso che nella vostra coscienza sarete convinti, che questa mancanza di lavoro non fosse una scusa, perché allora non si potrebbe conciliare l’assalto alle botteghe dei fornai delle madri, nella città di Pisa in mezzo alla florida Toscana, e in diversi comuni delle Romagne, strappandosi il pane di mano l’una coll’altra, per correre a sfamare i loro cari.

Ebbene, o signori, dietro questi strazianti fatti furono fatti degli arresti, condannati come incitatori a commettere il saccheggio diversi individui, più fu incolpata la Internazionale come causa principale di detti disordini e vollero in questa anche la cospirazione.

Ora, o signori Giurati, se considerando questi fatti e come liberi cittadini, e di una classe agiata della società, di fronte a una moltitudine affamata di operai privi di lavoro, con dei vecchi impotenti, e dei pargoli macilenti fra le braccia delle loro madri squallide e smunte dalla miseria, che sorgono spinti non dai raggirı di un partito, ma da una causa assai chi potendo non prende rimedio, e che invece di provvedervi, e lavoro, potente, cioè la miseria; sorgono dico, a tumultuare contro immaginano una cospirazione impossibile; se credete che questi infelici ma onesti operai, che chiedono siano degni di casa di forza, allora non mi rimane altro che subire con calma la mia sorte, convinto che non ho nulla a rimproverarmi.

Ma se invece, nella vostra coscienza ho potuto penetrare quel grido straziante, che con le mie deboli forze ho cercato richiamarvi alla mente, oh allora non dubito di trovare in voi un atto di giustizia, e per me sarà un giorno di gioia abbracciando i miei figli poter dire: non tutti i borghesi sono insensibili!

NOTE

1 La storia di Giovanni Passanante meriterebbe un doveroso approfondimento; per alcune note al riguardo, cfr., in rete, Treccani Dizionario Biografico degli Italiani.

2 L’episodio dell’arresto di Anna Kuliscioff a casa di Francesco Natta, è visibile al seguente indirizzo: https://youtu.be/o8knfXNRCY a partire da 1h, 08’ 32”

3 Così l’Avv. Alessandro Bottero ne “Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi alle Assise di Firenze” 1875, descrive Francesco Natta, con una presentazione che lo fa entrare nel processo (e nella nostra storia) da protagonista, riservandogli una descrizione pressoché unica rispetto a tutti gli altri coimputati.

4 Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969, pag. 189

5 Angelo Toninelli, “Un sogno d’amore”, Edizioni ETS, pag. 99

6 Giuseppe Dolfi, Il “capopopolo” del 1859, fra sovranità nazionale, democrazia, diritti sociali, A cura di Armando Nicolai, Ed. dell’Assemblea, pag. 54

7 Bibilioteca Serantini, Collezioni digitali

8 Riccardo Bacchelli, Il Diavolo al Pontelungo, Mondadori 1957

9 Giuseppe Scarlatti, “L’Internazionale dei lavoratori e l’agitatore Carlo Cafiero, 1909, pag. 69

10 La vicenda del congresso di Firenze ha dei risvolti addirittura rocamboleschi. Dopo gli arresti degli esponenti più in vista i delegati decisero di spostare l’incontro nella vicina Scandicci: ma anche lì furono intercettati dalle forze dell’ordine, che decimarono ulteriormente il gruppo. Altro spostamento, questa volta in una locanda nei pressi dell’abbazia di Vallombrosa, ma ancora una volta la polizia fece irruzione. I superstiti finirono per riunirsi all’aperto, nei boschi, in due giornate (22-23 novembre) particolarmente fredde e piovose. Quel che non avevano fatto le forze di polizia venne completato probabilmente dalla polmonite.

11 Il processo ebbe grandissima risonanza e l’aula era sempre affollatissima. La stampa del banco degli imputati, posta nella prima pagina di questo lavoro, fu realizzata dal famoso Eduardo Ximenes per “L’Illustrazione Italiana” che così descrive, la Kuliscioff: “Il personaggio più interessante era una donna, Anna Kouliscioff, di 22 anni, nata a Mosca, maestra di lingue, intima amica di Andrea Costa, espulsa dalla Russia e dalla Francia. E una donnina piccola, svelta, simpatica, vestita con eleganza, un cappellino tondo e due trecce bionde le scendevano dalle spalle. Ha parlato con gran fuoco, con ardire, contro la società moderna che è tutta da cambiare”. Anche la rivista il Monferrato nell’edizione del 12 dicembre 1879 – evidentemente riprendente le cronache locali – così descrive la giovane russa: Essa è una vezzosissima donnina gentile di modi e di persona esilissima, pallida in volto, ma di lineamenti con una magnifica capigliatura biondissima. La sua fisionomia è tutto quanto si possa desiderare di delicato e simpatico. Tiene un contegno riservato, ma sciolto, senza impacci. È istruitissima e parla cinque lingue compresa l’italiana che imparò nel tempo della sua carcerazione”. Anche Carlo Lorenzini (Collodi) assistette alle udienze e rimase folgorato dalla giovane rivoluzionaria russa ed in seguito affermò d’aver modellato il personaggio della Fata Turchina sulla sua persona dichiarando appunto che per il personaggio della fatina dai capelli turchini “si era ispirato alla forza magnetica emanata da Anna Kuliscioff nell’aula di tribunale”. “La Repubblica”, 4 maggio 2007, Giuseppe Barbalace, Alle radici del femminismo, Mondoperaio 8-9/2016, p. 107

12 Fondazione Modigliani, Bibliografia del socialismo e del movimento operaio

13 Politica, Istituzioni, Storia. Le valigie dell’anarchia, di JA Canales Urriola, 2016, pag. 200. Nella lista degli sbarcati del Savoie, proveniente da Marsiglia, compare il nome di Francesco Natta, (40 anni, sposato, agricoltore, analfabeta (Vd listado de pasajeros 1882 a 1920 in S. Lamperti e M Risani – Website “Barcos de Agnelli). Il fatto che il Natta si dichiari agricoltore e analfabeta, denota chiaramente l’intento di nascondere la sua reale identità, ndr.

14 Brigate volontarie d’altri tempi, Malamente, 18 giugno 2020

15 Anarchisme en Argentine, Wikipedia; Calabresi sovversivi nel mondo, a cura di Amelia Paparazzo, Rubettino Ed. 2004

16 Gli affari dovettero andare piuttosto bene al Natta posto che la ditta, ormai Natta e hijos, con sede a La Plata è è inserita nell’annuario generale del 1895 sia sotto la voce “armaioli” sia sotto la voce “macchine da cucire”.

17 Tutte le notizie riguardanti i fogli e le pubblicazioni di propaganda cui il Natta partecipò alla stesura e finanziò sono tratte dal già citato Politica, Istituzioni, Storia, Le valigie dell’anarchia di JA Canales Urriola, 2016.

18 Archivio Storico “La Stampa”, maggio 1879

19 Cfr. la voce Batacchi Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, di Luciano Trentin

20 Tratto da Dibattimenti nel processo per cospirazione e internazionalismo innanzi all’Assise di Firenze raccolti dall’Avv. Alessandro Bottero, Roma, pp. 503-506

Anarchismo e politica La revisione critica di Camillo Berneri (di Stefano D’Errico)

Anarchismo e politica La revisione critica di Camillo Berneria cura di Paolo Repetto, 3 marzo 2020

Berneri oggi (Premessa)

Berneri in pillole: alcuni cenni biografici

Una grande curiosità intellettuale

Esilio

Lo scontro con il fascismo e la critica del massimalismo e della demagogia “di sinistra”

La politica delle alleanze e la lezione storica dello scontro con i due totalitarismi

Morte di Berneri  (cinque uomini, un unico destino)

La differenza fra gradualismo e riformismo. il “sovietismo” di Berneri

L’anarchismo fra politica ed antipolitica (nessun sogno romantico)

La questione del programma

Contro “l’anarchismo dagli occhiali rosa”

La scelta anarcosindacalista

Contro l’individualismo

Per l’organizzazione politica degli anarchici

Berneri ed Arcinov

Nessuna paura della revisione: giudizi di fatto e giudizi di valore

Contro la religione della scienza

Per la tolleranza

Umanesimo e anarchismo

Il revisionismo marxista

Dovere del lavoro e diritto all’ozio

Contro l’operaiolatria

Il valore della cultura

Per un programma economico aperto

Astensionismo ed anarchismo

Ubi societas, ibi jus: la differenza fra autorevolezza ed autoritarismo

Berneri e Malatesta

Note

Berneri oggi (Premessa)

 

Contro l’autonomia della politica

Berneri è appena conosciuto come “martire” della guerra civile spagnola, assassinato perché si opponeva ai diktat di Mosca che intendeva soffocare il “cattivo esempio” della rivoluzione libertaria (ufficialmente per accontentare la Società delle Nazioni restaurando la “repubblica di tutte le classi”: in realtà Stalin usava la Spagna come pedina di scambio per concludere il patto di non aggressione con la Germania nazista). Scomoda per tutti (fascisti, comunisti, cattolici e “liberali”), la sua opera – pubblicata parzialmente e con gran ritardo – è passata in secondo piano.

Anche una certa “ortodossia anarchica”, anziché lo sperimentalismo antidogmatico di Berneri, ha valorizzato soprattutto le sue critiche ai ministri dell’anarcosindacalista CNT – maggiore sindacato iberico – nel governo repubblicano del ‘36-’39. In realtà, c’è molto di più: un lascito teorico impressionante ancora di grande attualità.

Di fronte alla “crisi della politica” ed alla débacle della sinistra marxista, anche l’area del “socialismo irregolare” – “prossima”, ma non coincidente con l’anarchismo – stenta a trovare risposte adeguate. In Italia, come segretario dell’Unicobas sono indotto da fatti e comportamenti ad affrontare queste tematiche. Da una parte vedo riproporre la prassi “gruppettara” delle conventio ad escludendum, dei servizi d’ordine che impongono alle piazze sempre più anacronistici “leaders” – l’un contro l’altro armato – che fanno e disfano “cartelli” per la lottizzazione e l’egemonia sulle lotte e sui cortei (spesso mere rappresentazioni): coazione a ripetere le tare della vechia-nuova sinistra che, sotto forma di farsa, rigenerano la malattia del leninismo. Dall’altra, i settori più sinceri paiono succubi di un anti-ideologismo di maniera che rigetta e “parifica” tutte le esperienze storiche, compresa la grande tradizione del socialismo libertario. Il rifiuto di un’indagine senza preconcetti sugli errori del passato non porta risposte per il futuro.

La militanza “antagonista”, eco-sociale e libertaria, si trova così divisa verticalmente fra una maggioranza di gruppi e “cani sciolti” che opera sul territorio ed una (ben divisa e strutturata) minoranza d’apparato che si limita a “capitalizzare” – a proprio uso e consumo – il lavoro di base, trasformandolo in elemento di mera “rappresentanza” per una schiera autoreferenziale di “portavoce” mediatici fermi agli anni ‘70. Ma tutto ciò ha origini ben precise e la ricerca della “pietra filosofale” non ha senso: non calerà dal cielo un nuovo Bakunin, tantomeno un nuovo Marx.

Basterebbe invece esaminare la storia per capire che occorre fare quel che non s’è mai fatto: operare una riconversione etica della politica. Il fine non giustifica i mezzi, sono bensì questi ultimi a determinare automaticamente i risultati. Anche se la cosa emerge con fatica, è sempre più netto ed istintivo il rifiuto della autonomia della politica. E’ un concetto che gli anarchici hanno continuamente ripetuto, e non si tratta di una “religione” dell’etica. Semplicemente, una sinistra piegata al conformismo dell’ipse dixit ed alla delega non può sviluppare i germi  dell’autogestione. Eppure, il resto della sinistra – proprio perché condizionata dal lascito di Marx, il “Machiavelli del socialismo” – ha sempre fatto orecchie da mercante.

Ancora scorgiamo il Sisifo del socialismo autoritario ripercorrere pedissequamente le stesse strade, nonostante la storia dimostri senza appello come la dittatura di partito riproduca matematicamente la servitù economica e morale.

Di più, quella “sinistra” è giunta sino alla mutazione genetica: abbiamo visto i postcomunisti attraversare il guado dal bolscevismo al neo-darwinismo sociale in stile liberista. Nulla di strano: lo strumento-guida di questa transizione è la ragion di stato. Scrisse Berneri: “La formula leninista ‘i marxisti vogliono preparare il proletariato alla rivoluzione mettendo a profitto lo Stato moderno’ è alla base del giacobinismo leninista come del parlamentarismo e del ministerialismo social-riformista”.

Ma non è tutto. Pur esistendo nel mondo una – più o meno consapevole – “domandadi anarchismo, a questa non corrisponde “offerta” adeguata. Quel che resta del movimento libertario non riesce da tempo ad esser presente a se stesso a causa della marginalizzazione indotta da un dottrinarismo ossificato. In poche parole, non si può combattere l’autonomia  del politico con lo scetticismo elevato a sistema e con l’indifferentismo rispetto alla politica. In primis, occorre un programma, perché per vincere bisogna saper convincere. Inoltre, se la politica deve venir subordinata all’etica, è un richiamo etico pur quello relativo alla responsabilità che chi fa politica deve prendere immancabilmente su di sé. Una responsabilità rispetto alle conseguenze del suo agire sugli altri e sul mondo e non solo riguardo alla propria coscienza. Ergo, il parametro etico di riferimento dovrà veramente essere messo alla prova, riattualizzato, con una rielaborazione il più plurale possibile, oltre gli steccati ed ogni fondamentalismo. Se l’anarchismo è uno strumento di emancipazione, per dimostrare di essere valido non può arroccarsi nei suoi valori in una sorta di autocompiacimento nullista e narcisista. Tutt’altro: non solo deve dimostrare di aver ragione in modo concreto hic et nunc, ma essere anche capace di lavorare per creare le condizioni di una vittoria nello scontro sociale. Non bastano quindi la “buona volontà”, la determinazione del singolo o di piccoli gruppi più o meno “coordinati”. Nello specifico anarchico occorrerebbe un vero soggetto organizzativo di livello internazionale, con un forte senso d’appartenenza però aperto ed orizzontale: un sistema complesso votato a studio, discussione e sperimentazione pratica, che sviluppi relazioni con l’eterogeneo mondo dell’associazionismo e valorizzi le differenze, per creare una vera prospettiva generale. Sarebbe l’ora di una nuova, inclusiva, costituente libertaria.

Riassumendo: la politica è l’arte del possibile e se per i libertari il fine non giustifica i mezzi, essi hanno comunque il dovere di sapersi destreggiare in politica, cosa da non delegare a (presunti) “specialisti”. Ed è qui che interviene Berneri: “Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! – o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei”. Ecco perché il movimento d’emancipazione ha un grande bisogno della riflessione berneriana. Essa avversa quel comunismo da caserma trasformatosi poi in capitalismo di stato e quindi di nuovo in liberismo, ma non fa sconti a nessuno, neppure all’ortodossia anarcoide. Berneri rincorre, “stana” e svela le fobie di quel “ritualismo” che ha reso quasi impotente un movimento altrimenti portatore dei più adeguati “anticorpi” prodotti dall’umanità per contrastare il dominio in tutte le sue forme.

L’anarchia non è semplicemente il “non-stato”

Per Berneri, l’anarchia: “non è semplicemente il non-Stato, bensì un sistema politico a-statale, ossia un insieme di autonomie federate”. Egli precisa: “Un organismo qual è lo Stato odierno può essere demolito, ma alla sua ossatura fa riscontro tutto quel sistema di fasci muscolari e nervosi, che sono i servizi pubblici. (…) Le società primitive, le città dell’epoca dei Comuni, il villaggio contadino, la cittadina di provincia della Spagna, possono realizzare delle forme più o meno integrali di quell’anarchismo solidarista, extra-giuridico a-statale caro al Kropotkin, ma la metropoli odierna, ma la nazione che ha un ritmo di vita economica internazionale debbono affrettarsi a saldare le fratture prodotte dalla fase insurrezionale, perché la vita non si arresti; come il chirurgo deve affrettarsi a passare dal bisturi all’ago, quando si accorge che il cuore del paziente rallenta il proprio ritmo”. E già nel 1926, afferma: “i nostri migliori, da Malatesta a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo, offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico. Un anarchismo attualista, consapevole delle proprie forze di combattività e di costruzione e delle forze avverse, romantico col cuore e realista col cervello, pieno di entusiasmo e capace di temporeggiare, generoso e abile nel condizionare il proprio appoggio, capace, insomma, di un’economia delle proprie forze: ecco il mio sogno. E spero di non essere solo”.

Ha scritto Pier Carlo Masini che Berneri: “(…) trasferiva la tematica federalista all’interno del movimento operaio, fino ad allora egemonizzato dal centralismo di marca germanicosocialdemocratica e di marca russo-bolscevica”. Il lodigiano scrisse: “io sono semplicemente autonomista-federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)”. Quello di Berneri, era un sovietismo sociale, molto critico rispetto all’anarchismo “dagli occhiali rosa” di kropotkiniana memoria. I corporativismi locali e la “giustizia popolare” sono rischi che non si possono correre. La libertà non è quindi mai assoluta, perché deve contemperare il rispetto di precisi doveri verso gli altri. A tal fine la collettività esprime una sua autorevolezza che è altra cosa rispetto all’autoritarismo: “All’autorità formale del grado e del titolo anteponiamo l’autorità reale del valore e della preparazione individuali. Questo senza cadere in una dialettica fusione, o confusione, dei contrari. La libertà non è nulla, se non finalizzata, e non è possibile una eguaglianza generale fra gli esseri umani raggiunta per diktat ideologico. Occorre ripartire dall’impegno su valori condivisi e dall’impiego degli stessi come metro comune. Berneri ribadisce: “Qualunque società non può soddisfare interamente i bisogni di libertà dei singoli. La volontà delle maggioranze non è sempre conciliabile con quella delle minoranze. Qualunque forma politica presuppone la subordinazione delle minoranze. Quindi autorità. Sfuggire l’autorità vale fuggire la società. Nella botte di Diogene può stare il singolo, un popolo ha bisogno della città”.

Berneri non crede alla giustizia sommaria delle masse, né alla società “trasparente” impaludata su se stessa senza istituzioni. La società libertaria si deve creare intorno alla responsabilità e quindi anche con l’accettazione di regole, condivise ma cogenti: “(…) un minimo di diritto penale è necessario come un minimo di autorità (…) credo che l’idea di giustizia sia nel

popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle”. La massa non è composta né da libertari nati, né da cherubini. Chi lo afferma è un illuso ed un semplicista: “La negazione a priori dell’autorità si risolve in un angelicarsi degli uomini ed in uno sviluppo irrompente di un genio collettivo, quasi immanente alla rivoluzione, che si chiama iniziativa popolare”.

Il lodigiano non si fermò certo a vaghi proclami “millenaristi” relativi ad automatiche “palingenesi sociali”: indagò sulla diversità strutturale che intercorre fra le istituzioni proprie della società civile e le categorie imposte dallo stato, ipotizzando la leva del contrasto fra le prime e le seconde al fine di una strategia di liberazione e di ricostruzione rivoluzionaria. Questa è una lezione anche per i nostri giorni. Origina una riflessione sulle istituzioni delle quali la società civile dovrà dotarsi, le regole che verranno, la struttura economica che si darà e principalmente i meccanismi decisionali atti a definire il tutto. Ciò comporta necessariamente il riconoscimento di una differenza radicale fra istituzioni e stato, nell’ambito della realizzazione dell’autonomia della società civile federalista rispetto ad ogni entità centralistica. In poche parole, per essere credibile, la lotta contro lo stato deve essere animata da una prospettiva di organizzazione futura capace già di mettere in crisi l’entità statuale oggi per abolirla domani. La scuola, ad esempio, è una istituzione che va diretta e gestita dalla società civile, come “sfera pubblica non statale”, in alternativa al privato, ma anche alla “ragion di stato” (si pensi, ad esempio, alla redazione dei programmi di storia in ordine a libertà d’insegnamento e d’apprendimento). Così le mille altre realtà, secondo un sistema che si organizza dal semplice al complesso, esistendo altresì una naturale differenza, sia di livello che organizzativa e giuridica, fra istituzioni e servizi.

Elemento centrale è il decentramento amministrativo, che ha nei comuni i principali punti di riferimento, così come, tramite l’anarcosindacalismo, lo sono i comitati di gestione della produzione e dei servizi espressi dal mondo del lavoro. In ordine a tali questioni eminentemente pratiche, aventi a che fare con la vita di tutti giorni e con la rifondazione di un senso e di una codifica del diritto atti a gestire la convivenza, gli scambi e la produzione, occorre per Berneri disperdere definitivamente l’ombra dello stato. Ma non sarà impugnando le armi spuntate fornite dalle astrazioni ideologiche  che si abbatterà la centralizzazione, si porrà fine allo sfruttamento e si scongiurerà il capitalismo, “tradizionale” o di stato.

Per la definizione di un progetto politico libertario

Per tutti questi motivi Berneri rifiuta e combatte il diktat ideologico che vieta agli anarchici l’elaborazione di un progetto ed impedisce loro di agire anche sul piano tattico: “Mezzo: l’agitazione su basi realistiche, con l’enunciazione di programmi minimi”. Inoltre, la storia costringe a dare risposte e l’assenza di programma condanna l’anarchismo ad agire di rimessa rispetto alle condizioni determinate dagli avvenimenti e soprattutto “in coda” alle altre entità politiche: senza un progetto, anziché indipendenza, si mostra sudditanza.

L’antipatia per il programma non dovrebbe contraddistinguere i rivoluzionari, è invece tipica di chi non vuole realmente cambiare lo stato delle cose: “Il gradualismo del socialismo legalitario e statolatra è parallelo all’antipatia, evidentissima nel Kautsky, per qualsiasi piano di ricostruzione economica in senso socialista. Che l’ingranaggio sociale sia così complicato che nessun pensatore possa indagarne tutti i mali e prevederne tutte le possibilità, è evidente; ma (…) ciò non toglie che sia necessario al socialista poggiare su di un programma pratico, sì come allo scienziato è necessaria la luce di un’ipotesi”. Non si tratta quindi di mero “progettismo”: “Ma occorre distinguere: vi sono programmi che sembrano voler dare la sintesi del domani storico come deterministico calcolo di quel che sarà quel domani e questi sono i programmi detti realistici mentre non sono che deterministici; mentre vi sono programmi che pur calcolando grosso modo il gioco delle forze statiche e di quelle dinamiche non dimenticano che la probabilità di certe risultanti è tanto più alta quanto più la volontà di rinnovamento ha forzato i limiti progressivi”.

La prima cosa che Berneri fa capire è che non bisogna confondere giudizi di fatto e giudizi di valore. Per questo “osa” mettere in discussione anche la pratica astensionista. Pure Bakunin ammoniva di non confondere tattica e strategia, perciò: “Il non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista”. E ancora: “Il cretinismo astensionista è quella superstizione politica che considera l’atto di votare come una menomazione della dignità umana  o che valuta una situazione politico-sociale dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina l’uno e l’altro infantilismo”.

La strada da seguire è quella del comunalismo: “Ecco, invece, un tema di studio: lo Stato nel suo funzionamento amministrativo. Ecco un tema di propaganda: la critica sistematica allo Stato come organo amministrativo accentrato, quindi incompetente ed irresponsabile. (…) Una sistematica campagna di questo genere potrebbe attirare su di noi l’attenzione di molti che non si scomporrebbero affatto leggendo Dio e lo Stato (di Bakunin)”. Con ciò, il lodigiano mostra la “freschezza” della propria interpretazione della realtà, ancora adeguata rispetto al mondo odierno.

E’ oggi evidente l’assoluta lontananza dei cittadini dagli istituti dello stato, ma ciò non trova adeguata capacità di contrasto nella critica “rivoluzionaria”, di sovente ferma alla propaganda ideologica e poco attenta alle contraddizioni del quotidiano, largamente sperimentate dalla “gente comune”. In differenti occasioni Berneri afferma che una prassi radicata ab origine nel rifiuto della truffa di una democrazia rappresentativa senza controllo e mandato – un palliativo concesso come diritto solo per una piccola parte della popolazione da monarchi che conservavano nomina e gestione del parlamento, – nasce come risposta, non come principio e non può rimanere sempre e comunque inamovibile dettame dottrinario incurante delle situazioni particolari da affrontare nel corso della storia. La propaganda astensionista è “reazione contro la rappresentanza generica”.

l pensiero del lodigiano diviene chiarissimo laddove coniuga la questione del voto con quello che per lui dovrebbe essere il progetto libertario in divenire: “Vi sono, secondo me, quattro sistemi politici possibili: l’amministrazione diretta, la rappresentanza generica o autoritaria, la democrazia propriamente detta e l’anarchia. L’amministrazione diretta è un sistema politico nel quale il popolo in massa delibera volta a volta sulle varie questioni d’interesse generale, e provvede all’esecuzione delle proprie deliberazioni. La rappresentanza generica o autoritaria è un sistema nel quale il popolo delega la propria sovranità ad un certo numero di persone da lui scelte e lascia a quelle il potere deliberativo ed esecutivo. L’astensionismo politico è una reazione contro la rappresentanza generica, reazione salutare, ma non ha più ragione di permanere di fronte alla democrazia propriamente detta, sistema nel quale il popolo delega le varie faccende di interesse generale a dei tecnici, riservandosi di approvarne gli atti, controllando il loro operato, riservandosi di destituirli e destituendoli quando ciò occorra. Gli anarchici hanno ragione di continuare in seno alla democrazia la loro opposizione correttiva e la loro propaganda educativa al fine di permettere il passaggio dalla democrazia all’anarchia, sistema nel quale l’amministrazione diretta e la democrazia si integrano, sopprimendo qualunque residuo della rappresentanza autoritaria”.

La presenza al voto diviene quindi persino uno strumento di “medio termine”, pienamente utilizzabile, se le condizioni del progresso sociale sulla strada della realizzazione pratica della società libertaria sono abbastanza avanzate ed adeguate.

Anarchismo & Anarchia

La polemica contro l’astensionismo, il nostro la affronta peraltro dopo la vittoria elettorale del Fronte Popolare in Spagna nel 1936, alla quale concorsero in modo determinante gli anarcosindacalisti della CNT, che per la prima volta non si abbandonarono ad una posizione intransigente, venendo per questo fatti oggetto di un fuoco di fila di critiche impietose piovute dal di fuori della penisola iberica. Ma senza quella vittoria, sostenne il lodigiano, non vi sarebbero state neanche le successive conquiste rivoluzionarie che la CNT stessa seppe mettere in atto dal basso. La sconfitta avrebbe significato una condizione pratica (ed anche psicologica) ben diversa per il movimento dei lavoratori e per questo sarebbe stata assurda in quella situazione una campagna astensionista: le tattiche della politica vanno giudicate mirando ai risultati e non in modo ideologico-aprioristico.

Così pose la questione Berneri: “Il problema, insomma, è questo: l’astensionismo è un dogma tattico che esclude qualsiasi eccezione strategica?

Per Berneri, il voto è uno strumento utile anche all’interno del mondo libertario e, come già visto, il lodigiano definisce più volte, senza pietà, “cretinismo astensionista” la demonizzazione senza deroghe di tale meccanismo decisionale, a maggior ragione se questo rifiuto è esteso persino

all’interno dell’organizzazione specifica. Un rifiuto invalso spesso nelle strutture anarchiche non perché il voto fosse incongruo alla tradizione, bensì per una sorta di “moda” che ha sclerotizzato la militanza. Berneri discrimina poi chiaramente fra voto e voto. Nel caso di liste locali, ed ancor più di plebisciti e referendum, non vede per gli anarchici alcun motivo di possibile avversione: “Se domani si presentasse il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata, autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie, ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che crederebbero doveroso astenersi”.

Berneri, a proposito della dimensione politica dell’anarchismo, la nobilita senza remore e preferisce certo chi si batte per il successo dell’impostazione libertaria nella storia a quanti, astraendosi dalla politica, riducono il libertarismo ad una mera, sofistica, professione di fede. Il

purismo” mostra tutta la sua inutilità, ed è anzi sinonimo di disimpegno ed autoreferenziale narcisismo: “Chi crede alla possibilità dell’anarchia come sistema politico è anarchico, qualunque siano le sue vedute strategiche, qualunque siano le sue riserve sulle realizzazioni massime della

società futura. Ed è anarchico anche se scomunicato dai dottrinari sofistici, ed è anarchico anche se gli si oppone con il termine generico di principi le vedute di questa o di quella scuola, le opinioni di questo o di quel maestro, le abilità polemiche di questo o di quel giornalista autorevole nonché le scandalizzate proteste dei pensanti con la testa altrui”.

Ma come si fa se gli anarchici per primi, immobilizzati dal fondamentalismo, non credono nell’anarchismo politico? La mancanza di sperimentazione è infatti sinonimo di sfiducia nei propri mezzi ed ancor più nelle possibilità interne alla prospettiva libertaria: “La storia è opposizione e sintesi. L’anarchismo, se vuole agire nella storia e diventare un grande fattore di storia, deve aver fede nell’anarchia, come una possibilità sociale che si realizza nelle sue approssimazioni progressive. L’anarchia come sistema religioso (ogni sistema etico è di sua natura religioso) è una ‘verità’ di fede, quindi per propria natura, evidente soltanto a chi la può vedere. L’anarchismo è più vivo, più vasto, più dinamico. Egli è un compromesso tra l’Idea e il fatto, tra il domani e l’oggi.

L’anarchismo procede in modo polimorfo, perché è nella vita. E le sue deviazioni stesse sono la ricerca di una rotta migliore”. Berneri è quindi “un anarchico che crede all’anarchia e, ancor più, all’anarchismo”. Berneri è un gradualista rivoluzionario perché è ben conscio della futilità del tutto e subito o del “tanto peggio-tanto meglio”, così come dell’irraggiungibilità della perfezione, e tiene distinti l’anarchia (“religione”) e l’anarchismo (l’anarchia nella storia): “l’anarchico comprende che nella storia si agisce sapendo essere popolo per quel tanto che permette di essere compresi e di agire, additando mete immediate, interpretando reali e generali bisogni, rispondendo a sentimenti vivi e comuni”. Berneri non fu mai un massimalista: “A mio parere, il non esercitare un diritto perché è concesso dallo Stato, non creare una situazione migliore dell’attuale perché se ne vorrebbe una migliore di quella conseguibile, vale fossilizzare la nostra azione politica”. Ancora oggi la sinistra “radicale” non sa distinguere fra riformismo e gradualismo.

Nel corso della rivoluzione spagnola, pur essendo intransigentemente schierato per la difesa e lo sviluppo delle conquiste popolari, delle collettivizzazioni agrarie e della socializzazione delle industrie, il lodigiano seppe comprendere i tentativi della dirigenza cenetista di destreggiarsi nella situazione. Naturalmente questa posizione Berneri la tenne solo fino a quando la CNT dell’epoca seppe conservare la propria autonomia e rimase all’offensiva. Alle prime avvisaglie del precipitare della situazione, egli divenne un critico feroce rispetto ai cedimenti determinati  dall’incapacità di fronte alle esigenze della politica.

Berneri era un fautore non già della mediazione, bensì della sperimentazione pragmatica, e ben sapeva che i limiti maggiori dell’anarchismo non stavano in presunte mancanze di serietà o d’onestà dei “leaders”, quanto invece nell’impreparazione assoluta di tutto un corpo militante abituato a pensarsi unico padrone del campo di fronte alla rivoluzione: viceversa, in un panorama necessariamente plurale, il progetto comunista libertario va difeso anche con le armi della politica.

Così com’era convinto che per il tramite dell’organizzazione anarcosindacalista, proprio ovviando a quest’impreparazione (obiettivo per il quale aveva lavorato tutta la vita), si sarebbe invece potuta restituire a chi di dovere quella famosa, proudhoniana, capacità politica delle classi operaie, sviluppare la quale è la prima ragione della tradizione libertaria.

Fu anche contro il sindacato unico, indicando agli anarchici l’intervento e la creazione di strutture anarcosindacaliste come elemento prioritario, diversamente rispetto a Malatesta e Fabbri, che propugnavano un’indifferenziata presenza nelle strutture di massa “unitarie”, alla fine sempre guidate da segreterie nazionali socialriformiste o comuniste.

 

 

La questione sindacale

L’anarcosindacalismo deve avere una propria ben definita autonomia, anche dal movimento specifico. L’anarchismo ha contato di più ove ha assunto una fisionomia anarcosindacalista. L’anarcosindacalismo è una struttura organizzata, prima di tutto composta da lavoratori e ad essi rispondente, con i loro tempi e bisogni. Altrimenti si rischia di rimanere vittime degli stessi mali del movimento, che è il “partito” degli anarchici. Parallelamente, la realtà sindacale libertaria è più “politica” di un movimento che, in assenza di un proprio riferimento di massa, tende fatalmente ad estraniarsi dal mondo reale ed a divenire marginale e rivolto su se stesso. L’anarcosindacalismo, leale interprete dello spirito della Prima Internazionale, deve riportare il sindacato alle sue origini: una struttura indipendente da qualsiasi partito (anche dal movimento libertario in quanto tale), ma non estranea alla politica, dove l’agire politico è fissato nell’alterità della prassi democratica ed orizzontale. In sintesi, il tutto s’incardina nella capacità dei lavoratori in quanto tali, senza “mediazioni” e direttive provenienti da “élites” e guide esterne. Altrimenti non si sarebbe superato il limite naturale del sindacalismo burocratico e “dipendente”: quello della soggezione a forze politiche sedimentate in campo esterno. Il sindacato di partito viene costretto all’inazione e posto a guardia della pace sociale quando la sua forza parlamentare di riferimento ha conquistato il potere e “scatenato” nella “lotta” solo quando questa è all’opposizione. Di contro, la “esternità” delle leve della politica al mondo del lavoro, rappresenta, peraltro, una concezione inaccettabile in campo libertario: l’esistenza di un “limbo” separato ove si maturano le idee-guida, una sorta di piano astratto dove il mondo del lavoro non è vivo e pulsante, ma solo “rappresentato” sul palcoscenico del teatrino della politica (prevalentemente – ma non unicamente – parlamentare). Una deviazione tipica della Seconda Internazionale socialdemocratica e della Terza Internazionale bolscevica, che destina alla forza politica – partito, poi identificato con lo stato – il piano del progetto, lasciando al sindacato al massimo la mera “vertenza” e facendolo succube di strategie maturate esternamente ad esso, così espropriando il mondo del lavoro della propria titolarità politica soprattutto in termini progettuali.

Il primato dell’etica, diviene quindi preminenza della democrazia di base (prassi organizzativa).

Il  mito della mera “emergenza del sociale”

Va sfatata la leggenda che alla politica si possa sostituire la mera emergenza del sociale, il cui inseguimento ha comunque ricadute politiche (anche se ci si muove in nome e per conto del “ribellismo” e della cosiddetta “antipolitica”). Negli ultimi anni ‘70, ad inquinare oltremodo il panorama della militanza libertaria, ha contribuito il mito della cosiddetta “autonomia proletaria”, di provenienza italiana ma invalsa per molti anni in tutta Europa. L’ennesimo “succedaneo” venne, ancora una volta (e contro-natura), ben accolto dagli anarchici massimalisti, con tutti i suoi cascami di estremismo, avventurismo e violentismo. La spessa coltre dell’intransigenza “rivoluzionaria” mascherava l’operazione mimetica. Contrabbandando se stessa come “radicale” (solo perché votata ad uno scontro di piazza autoreferenziale) e “libertaria”, l’area dell’ autonomia, ha invece introdotto un’impostazione del tutto autoritaria. L’apparente assemblearismo nascondeva gruppi di “professionisti”, determinati a decidere sempre e comunque il corso degli avvenimenti senza cura per le dinamiche espresse dai movimenti, la foglia di fico dietro la quale celare la fruizione di una delega in bianco. Fu il trionfo di una prassi del lavoro politico volta a denunciare strumentalmente l’inutilità delle organizzazioni specifiche, al fine di realizzare strutture “unitarie” legate a doppio filo a sovrastrutture più o meno nascoste impegnate ad impostarne la linea. Secondo la prassi più dozzinale, la critica dello ideologismo fuorviante e totalizzante si fece critica delle idee e strozzatura della discussione collettiva. Venne riportata in auge la condanna delle diversità a favore dell’uniformità e dell’appiattimento, perseguendo metodi dettati dall’insofferenza verso ogni particolarità. Nel nome di una malintesa “coscienza proletaria”, pretesa come avulsa dal dibattito sulle metodologie e sull’etica della libertà, s’impose l’ennesima riproposizione della autonomia della politica. L’antitesi autoritarismo-libertarismo veniva quindi ancora una volta derubricata. Un vero e proprio ricatto ideologico in omaggio agli stilemi del controllo e della presa del potere nel micro-sistema “antagonista”, della preminenza dell’economico e del “militare”, nonché di una presunta “linea di condotta comunista”, sul gradualismo, sulla rivendicazione e sul bisogno. Da questo, l’attivismo totalizzante, per lo più finalizzato ad un impegno acritico eterodiretto spinto sino ad estreme conseguenze, estraneo ad ogni forma non velleitaria di ripensamento suscettibile di mettere in forse un dominio da esercitarsi in ogni caso sul sociale per mezzo delle continue forzature operate da un gruppo omogeneo selezionato, dirigente di fatto.

L’ultima nota di colore riguarda, al momento, le frange dell’estremismo anarchico fondamentalista, convinte di cogliere l’occasione della storia nel cercare di prendere il posto dell’autonomia in divisa da black-block, come se la mistica dello scontro rituale di piazza non fosse colto, oggi come ieri, soltanto come un’utile pretesto per rinverdire le politiche repressive degli stati al fine di una criminalizzazione tout court di qualcosa che è molto più complesso, articolato ed assai meno povero di contenuti: l’intero progetto e la prassi del socialismo libertario.

Berneri invece indicava la necessità di un movimento con un’identità precisa, capace anche di battaglie d’opinione, adatto a lasciare il segno nella storia, in una complessità poliedrica che lo veda strumento primario per la riconquista insieme della soggettività politica delle masse sfruttate e dell’umanesimo il più avanzato. Tale è il senso del “sovietismo” di Berneri: non un’arronzata “scopiazzatura” consigliarista di derivazione pannekoekiana o luxemburghiana, bensì la ricollocazione dell’anarchismo in quanto tale nella sua propria dimensione. Preminente è perciò il protagonismo del movimento anarchico con la sua identità, in “prima persona”, senza remore e paure; in totale autonomia e come forza politica: “Se il movimento anarchico non acquisterà il coraggio di considerarsi isolato, spiritualmente, non imparerà ad agire da iniziatore e da propulsore. Se non acquisterà l’intelligenza politica, che nasce da un razionale e sereno pessimismo (ché è, di fatto, senso della realtà) e dall’attento e chiaro esame dei problemi, non saprà moltiplicare le sue forze, trovando consensi e cooperazione nelle masse” .

 

L’identità dell’anarchismo, unica alternativa ai totalitarismi

Però l’identità non ha nulla a che fare con la ricerca autistica di uno “splendido isolamento”. Ancora da Fallimento o crisi?, leggiamo: “Chiuso nell’intransigenza assoluta di fronte alla vita politica, l’anarchismo puro è fuori del tempo e dello spazio, ideologia categorica, religione e setta. Fuori dalla vita parlamentare, fuori da quella delle amministrazioni comunali e provinciali, non ha saputo e voluto condurre delle battaglie di dettaglio, suscitanti, volta a volta, consensi; non ha saputo agitare problemi interessanti grande parte dei cittadini. (…) Da un’infinità di battaglie il movimento anarchico si è avulso, sempre allucinato dalla visione della Città del Sole, sempre perso nella ripetizione dei suoi dogmi, sempre chiuso nella sua propaganda strettamente ideologica”.

Da qui la sua critica all’impostazione “frontista” (a senso unico) che ha reso il movimento libertario succube del bolscevismo. Berneri indicherà all’anarchismo il rifiuto dell’omologazione “frontista” come una delle medicine necessarie a ridare autonomia al movimento: “Fra queste esperienze, vi è quella delle insufficienze tattiche del movimento anarchico, troppo fiducioso nei fronti unici, troppo poco autonomo (…)”.

Tantomeno fu fautore in politica della demagogia del “più uno”: “Per la smania di essere più a sinistra di tutti non dobbiamo assecondare il Partito Comunista nei suoi errori estremisti, oltre che per il nostro principio di non volere imporre il comunismo, anche perché mentre il Partito Comunista farebbe macchina indietro sul terreno economico, si gioverebbe della nostra collaborazione insurrezionale ed espropriatrice per costruire e rinsaldare la propria dittatura

Senza però indulgere mai nell’integralismo e rifuggendo il settarismo. Sarà anzi l’anarchico italiano che più cercherà di favorire e porre in essere un’adeguata politica delle alleanze, rivalutando, a suo tempo, repubblicani di sinistra e liberal-socialisti come Gobetti e gli antifascisti federalisti-autonomisti (anti-sovietici) di Giustizia e Libertà: Salvemini e i fratelli Rosselli.

La scelta di un’alleanza “strategica” con i fautori di un “socialismo federalista liberale” era legata alla contingenza ed alla politica, non rappresentava una deroga rispetto all’opzione del socialismo libertario. In altre parole, l’obiettivo rimaneva lo stesso. Anzi, si affinava, ma veniva delineata da Berneri soprattutto una tattica per la presenza ed il protagonismo dell’anarchismo.

Cionondimeno Berneri riteneva che l’anarchismo avrebbe dovuto stringere patti d’unità d’azione unicamente con entità federaliste ed equitarie, ma per definizione contrarie ad ogni totalitarismo.

 

L’Anarchismo e i “movimenti”

Berneri insegna ad accettare da subito (e veramente) la necessità di una sinistra (e di una società) aperta, come elemento non mediabile e non rinunciabile di arricchimento e revisione rispetto ad un passato (anche recentissimo) di macerie. Viceversa, le realtà “antagoniste” (costruite ancora “contro” più che “per”) non sanno fissare davvero per il futuro, programmaticamente, l’ineliminabilità del pluralismo e del pensiero divergente. Tale elemento, centrale per una vera rivoluzione, è affatto scontato. Porsi questo problema è difficile per quanti identificano nella rivoluzione solo il superamento dell’esistente e rimandano fideisticamente al “dopo” la discussione sui nuovi parametri della democrazia. Del resto, sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella quale sconfitti ed orfani cercano l’ultima spiaggia dell’identità) il veicolo della ripresa di protagonismo: all’alba del Terzo Millennio contano finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto. Soprattutto nei paesi del “primo mondo”, la politica dello scontro per lo scontro è una deviazione involutiva e del tutto simbolica dell’immaginario e della (molto più complessa) realtà del conflitto sociale.

Essere rivoluzionari è elemento d’identità, ma soprattutto nella proposta. Per due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati. Secondariamente perché c’è bisogno di un’inversione della prassi.

L’antipolitica non è una novità: negare l’autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare la politica all’etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento politico. Occorre la

capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario, proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella) società civile. L’anarchismo deve imparare ad “uscire dal guscio” per capire che

l’egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso negativo del termine – ovvero l’imposizione di eterodirezioni che sono solo una variabile del potere – ed occorre saperla praticare.

Allo stesso modo, non è l’egemonia dei fatti da criticare, vanno bensì esclusi quegli atti che tendono solo a stabilire l’egemonia di un qualche gruppo dirigente in quanto tale (prassi leninista).

La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell’auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell’autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. E’ il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. E’ necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l’azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”, ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell’autocompiacimento dell’appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico): radicale, appunto.

Viceversa, nei “movimenti”, spesso l’assenza di un evidente progetto libertario si sposa con l’incapacità di coniugare strutturalmente la libertà con la democrazia economica, e questo spiana la strada al liberismo arrembante, i cui fautori hanno buon gioco nel “parificare” ogni movimento solidarista ed egualitario ai rottami del comunismo dittatoriale statolatra. Il cortocircuito è dato sempre dallo stesso elemento: un progetto sociale chiuso, autoritario ed economicista, che ancora contempla l’uso a tempo indeterminato dello stato (per di più totalitario) e contiene quindi in nuce i germi del fallimento e del recupero in una (già ben sperimentata) spirale dalla quale il determinismo del “programma comunista” impedisce l’uscita, trascinando con sé nel baratro l’intero movimento d’emancipazione.

Natura e funzione dello stato: il marxismo come ideologia dell’intellighènzia tecnoburocratica

La questione dello stato resta centrale. Elementi ormai acclarati, come il fatto che fu lo stato a dare origine alle classi (e non viceversa, come pretendeva Marx), non sono ancora per nulla patrimonio della sinistra. Il sociologo Luciano Gallino accredita oggi le tesi di Gumplowicz (1905), Oppenheimer (1928), Darlington (1969), secondo le quali le classi sociali hanno origine alla “conquista violenta di un paese da parte di un popolo straniero, o alla costituzione forzata di un’organizzazione statale. (…) In molti paesi all’origine della divisione in classi sociali v’è un’espansione di tipo coloniale, da parte non soltanto della razza bianca ma anche dei cinesi, degli indiani, dei malesi, degli arabi e di varie stirpi africane, a spese di locali popoli primitivi”. Berneri, confortato dalla posizione anarchica, era della stessa idea: “Gli anarchici si differenziano dai  marxisti nel considerare lo Stato non come un organo interclassista bensì come un organo di classe. Secondo Marx-Engels, lo Stato sarebbe sorto quando già si erano formate le classi. Questa  concezione, che costituisce un ritorno alla filosofia del diritto naturale di Hobbes, è respinta dagli anarchici, che considerano il potere politico come il generatore principale delle classi, e da questa concezione storica inducono che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non dell’estinzione del capitalismo”. Il lodigiano segnalava – citandolo – che persino secondo il socialista Labriola, lo studio scientifico della genesi del capitalismo: “conferisce un carattere di realismo veramente insospettato alle tesi anarchistiche sull’abolizione dello Stato. Sembra infatti assai più probabile l’estinzione del capitalismo per effetto dell’estinzione dello Stato, che non l’estinzione dello Stato per effetto dell’estinzione del capitalismo”.

Berneri non contesta tanto l’analisi economica di Marx, quanto quella politica, denunciandone l’astrattezza idealistica che fa da brodo di coltura per la creazione di nuove forme di dominio, perché lo stato, come già affermava Bakunin, è un apparato che non può smentire se stesso. La vera “utopia” negativa sta quindi nella convinzione che la statualità possa essere utilizzata per poi praticamente “estinguersi motu proprio” ed il vero “revisionismo” (presente in nuce nel marxismo) sta nell’affermare tale possibilità. La sinistra tardo-comunista guarda invece ancora attonita il capitalismo di stato cinese e – dopo analoga fine per tutto il restante socialismo “surreale” – non sa far altro che balbettare giaculatorie sul presunto “tradimento” degli ideali di Mao (quindi non muove una paglia per il Tibet ed il Darfur: eppure già la crisi del sistema sovietico avrebbe dovuto insegnare che lo statalismo è parente strettissimo dell’imperialismo e dell’etnocentrismo).

Berneri anticipa la denuncia di un vero e proprio collettivismo burocratico, sul tipo di quello analizzato a cominciare dal 1937 da Bruno Rizzi, quando le dinamiche del sistema bolscevico erano già ben evidenti. L’ancora ignoto Rizzi – transfuga della IV Internazionale in polemica diretta con Trotskij che non gli perdonava la definizione di capitalismo di stato per il regime sovietico – è l’unico in campo marxista ad aver identificato la vera natura dell’URSS. Si parla di quella tecnoburocrazia poi chiaramente identificata in campo anarchico con lo studio degli anni ‘70 sui nuovi padroni (intellighènzia dell’apparato statale e di partito ed aristocrazia operaia).

Nessuna scuola che si richiami al marxismo – neanche quelle più critiche verso il “socialismo reale” – ha mai riconosciuto l’esistenza del capitalismo di stato: una bestemmia per i seguaci dell’autore de Il capitale. Ma questa chiusura ideologica impedisce, ad esempio, di capire le dinamiche delle grandi privatizzazioni. Ad Ovest, la guerra fredda aveva favorito il welfare e riforme di struttura che hanno consentito lo sviluppo del potere dei boiardi di stato, ceto moltiplicato peraltro dallo statalismo fascista e delle socialdemocrazie. Caduto il muro e scongiurato il “pericolo comunista”, la marcia è stata invertita facendo rotta sul liberismo totale e la cosa pubblica è diventata business, con un occhio di riguardo per i burocrati che la gestivano.

Esattamente come ad Est, ove le strutture economiche e di servizio di quelli che furono “stati socialisti” sono oggi proprietà dei “camaleonti” che già le dirigevano e le sfruttavano “in nome e per conto di tutti”.

 

L’etnocentrismo marxista

Marx credette che il raggiungimento di un’organizzazione statuale fosse sinonimo di sviluppo e relegò – nella fase dell’etnocentrismo occidentale cresciuta all’ombra dell’industrialismo – le cosiddette realtà “tribali” ad un ruolo secondario ed arcaico, intanto perché solo con lo stato si produrrebbe oltre la quota determinata dai bisogni primari. Ma, discutibilità del dato a parte – le popolazioni “primitive” producono anche beni per soddisfare le pulsioni ludiche e lo scambio – è nella diversa cultura e qualità della vita che va ricercato il loro “topos” sociale: nel collettivismo, nella gestione comunitaria e nella riduzione del potere dei “capi” al solo momento della difesa. L’etnologia libertaria è di tutto rispetto, ma quanti conoscono La società contro lo stato (Feltrinelli, 1977) di Pierre Clastres? Eppure la concezione etnocentrica deriva da quella antropocentrica. Oggi denunciamo, con Bookchin, il presunto diritto al dominio totale dell’essere umano sulla natura come retaggio della concezione aristotelica e della Bibbia (o, se si preferisce, della sua “vulgata”). Tale autorità assoluta è affatto scontata nella filosofia dell’uomo in natura e certamente prelude al dominio di gruppi umani su propri pari, giustificandone la reificazione, per analogia, al ruolo dell’animale, considerato, più ancora che subordinato, quale “cosa” senza spirito senziente.

In sostanza, la subordinazione assoluta della natura incardina un precedente, dal quale, gradualmente, si passa con facilità all’etnocentrismo, allo schiavismo, al razzismo. A tali conclusioni era già giunto, peraltro, e nell’800, Elisée Reclus: “C’è tanta differenza fra il cadavere di un bue e quello di un uomo? L’abbattimento del primo facilita la distruzione del secondo”. Oggi possiamo affermare a ragion veduta, con Adorno, che: “Dire: «Tanto è solo un cane»“, non è che il primo passo per dire: “«Tanto è solo un ebreo»“. D’altronde, Reclus può ben dirsi un precursore del pensiero ecologico, avendo affermato per primo che: “L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa”.

Non può sfuggire come lo sfruttamento smisurato delle materie prime e delle risorse (rinnovabili e non), nonché il quasi totale disinteresse per le leggi di natura – una congiuntura che sta portando il pianeta al collasso – abbiano molto a che fare con tale arroganza antropocentrica. La ricerca di Marx, indirizzata prevalentemente verso la “struttura” economica produttiva, intesa quale volano di sviluppo del proletariato (la futura “classe egemone”), ha lasciato in ombra elementi fondamentali e di cultura, a torto ritenuti “sovrastrutturali”, facendo del marxismo un’ideologia collaterale e del tutto compatibile con lo sviluppo (ed il sottosviluppo) capitalistico e industrialista.

La deviazione ha poi raggiunto il suo apice nell’operaiolatria (ben denunciata da Berneri) e nel culto del produttivismo (stakanovismo). La sinistra ha così accumulato anni luce di ritardo in un campo strategico dell’analisi sociale. Un ritardo da recuperare in fretta, se si vuole che i movimenti di liberazione espressi dal Terzo Mondo – laddove non siano segnati da tendenze retrive e passatiste come l’integralismo islamico – vengano valorizzati per il contenuto di “novità” ecologica ed ecosociale che rappresentano, anziché spinti a terminare il loro percorso ancora una volta nell’imbuto del neo-stalinismo marxista leninista dal quale sono sempre corteggiati ed infiltrati. Anche rispetto alla questione degli immigrati, non esiste solo l’arrogante pretesa a matrice liberista di un’assoluta “integrazione” delle culture altre, bensì pure il rischio di una semplicistica omologazione agli

stereotipi marxiani.

Contro il dogmatismo positivista

Poi sopravvive un dogmatismo positivista. Berneri insegna a diffidare del conformismo di sinistra e della politica del ghetto: occorre invece una concezione etica del pensiero. La coerenza con la propria coscienza è tutt’uno con il dovere di sperimentare in pratica la giustezza e l’applicabilità dei postulati di principio. Quello che conta non è l’omologazione al “branco”

(foss’anche quello dell’ “élite” del politically correct), bensì l’attitudine all’indipendenza ed alla libertà: “Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa”. Tutti gli integralismi sono un pericolo, e così anche le “religioni” della ratio e della scienza.

Perciò Berneri, prima di Feyerabend, lavorò ad una nuova epistemologia anarchica, affermando: “Essere irrazionalista (…) non vuol dire essere un sostenitore dell’irrazionale bensì essere un diffidente nei riguardi delle verità di ragione”. La stessa posizione la ebbe rispetto al rapporto fra politica, scienza e religione: “L’anticlericalismo assume troppo spesso il carattere di Inquisizione… razionalista. Un anticlericalismo illiberale, qualunque sia la colorazione avanguardista, è fascista. (…) Il sovversivismo e il razionalismo demomassonico furono in Italia clericalmente anticlericali”.

Quanto alla liceità dei culti, per l’appunto autodefinendosi agnostico, si espresse chiaramente a favore della totale libertà religiosa, come diritto da garantire e non da sopportare.

Contro lo scetticismo

Berneri escluse dall’anarchismo lo scetticismo e l’indifferentismo: “Credere di possedere la verità o considerarla come inaccessibile è un bivio che non può esistere per l’anarchico irrazionalista. (…) Lo scettico non è che la caricatura o il cadavere vivente dell’irrazionalista. (…) Ogni volta che lo scettico vuole illustrare lo scetticismo diventa un razionalista sentenzioso, sillogistico, aprioristico”. E giunse all’aperta denuncia dell’estremismo esibizionista e massimalista: “I fascisti che bruciano i giornali di opposizione sono, per lo più, quegli stessi sovversivi che non leggevano che i giornali del proprio partito e ci giuravano sopra. I fascisti che fanno a pezzi le bandiere rosse sono, per lo più, quelli che non volevano che i preti sonassero le campane, che disturbavano le processioni, che offendevano gli ufficiali, ecc. Là dove l’ineducazione sovversiva era maggiore il fascismo s’è sviluppato prima e più largamente. Perché l’intolleranza della violenza spicciola è il portato della miseria e della grettezza intellettuale e di una scarsa e deviata sensibilità morale. (…) Anche riguardo alla tolleranza il giusto morale e l’utile politico concordano. (…) L’anarchia è la filosofia della tolleranza”. Con una precisazione: “La tolleranza, del resto, non implica scettica valutazione della vita; dubbio sui fini e sui metodi. E non giustifica il ritrarsi egoistico dall’opera comune. Né implica tolstoiana rinuncia alla violenza”.

L’ignoranza di una certa sinistra

E’ sempre l’ignoranza il male peggiore. Ma ciò non vale solo quando ci s’accorge che per questo le destre (Berlusconi docet!) divengono maggioritarie: ci si dovrebbe preoccupare anche di una sinistra divenuta orfana di se stessa a forza di usare stereotipi oltremodo sconfitti dalla storia. Il fatto che Berneri per la stragrande maggioranza della sinistra sia quasi sconosciuto nonostante abbia lo stesso spessore di Gramsci, spiega molto in proposito. Stesso dicasi per la rivoluzione iberica, il fenomeno d’autogestione di massa più interessante del ‘900, già poco studiato in Spagna e quasi per nulla all’estero.

Oggi si parla tanto di Zapatero ma, come al solito, nessuno indaga sul pregresso. Nel ‘36 i veri “riformisti” erano i rivoluzionari. Nonostante tutto, i libertari hanno segnato la storia senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla democrazia sostanziale, ancorché nel mezzo di una guerra civile e di un forte scontro interno. Con ben quattro dicasteri ricoperti dagli anarchici furono possibili: la prima donna al mondo divenuta ministro (Federica Montseny); la prima legge in assoluto sull’aborto, da lei promulgata dal ministero della Sanità e Assistenza Sociale vent’anni dopo la rivoluzione d’Ottobre; la completa parità fra i generi proprio con un decreto  dell’anarchico García Oliver, ministro di Grazia e Giustizia (quando nella stragrande maggioranza delle rinomate “democrazie compiute”, le suffragette non avevano ancora ottenuto neppure il diritto di voto); il riconoscimento legale della socializzazione di fabbriche e campagne. E poi una piena riforma sanitaria, la parificazione/integrazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la speciale attenzione all’educazione integrale, laica e non direttiva.

Il socialismo riprenderà forza e valore solo quando saprà tornare alle proprie radici che, soprattutto nei paesi latini, sono umanitarie e libertarie. Il pozzo non cala e non cresce e lo schema è sempre lo stesso.

L’eguaglianza senza la libertà non è possibile: verrà automaticamente negata anche (e soprattutto) fosse “ottenuta” tramite la dittatura. La strutturazione autoritaria porta alla creazione di una nuova classe di sfruttatori che possiede gli strumenti culturali – affatto “sovrastrutturali” e la cui “nazionalizzazione” non è possibile – atti a gestire ad usum delphini il “bene comune”, e quelli coercitivi forniti dalla dittatura del partito unico (indiscutibile casta dominante). All’equità non si potrà mai pervenire se non con un processo unitario, complesso e paritetico fra diritti civili e diritti sociali.

La libertà senza l’eguaglianza non esiste, perché le condizioni economiche fra gli uomini sono dispari. Non può esistere libertà nella miseria: le condizioni – di partenza e permanenti – avvantaggiano l’uno e condannano l’altro. Non si può giocare una partita di libertà con i dadi truccati del liberismo economico, delle sole leggi di mercato deificate e deregolamentate.

L’anarchismo è per l’eguaglianza nella libertà, senza sconti, veramente senza se e senza ma o inutili e controproducenti machiavellismi. La sua alterità – si sarebbe tentati di dire, in burla del marxismo, già “scientificamente provata” alla luce degli esiti catastrofici che il potere bolscevico aveva immediatamente prodotto ancora nel 1921 – è soprattutto etica. Però, perché l’etica domini la politica, occorre realizzare ciò che Berneri tentò senza riuscirvi: un vero rinnovamento (plurale ed inclusivo) del movimento libertario, ovvero la (ri)nascita di un anarchismo politico. Per dirla precisamente con lui: “L’anarchismo deve essere vasto nelle sue concezioni, audace, incontentabile. Se vuol vivere, adempiendo la sua missione d’avanguardia, deve differenziarsi e conservare alta la sua bandiera anche se questo può isolarlo nella ristretta cerchia dei suoi”.

 

Berneri in pillole: alcuni cenni biografici

 

Berneri è uno degli elementi principali del nuovo socialismo italiano dei primi del ‘900 (nasce nell’897). Fa quindi parte della medesima generazione di Gobetti, dei fratelli Rosselli, di E. Rossi, di A. Gramsci (maggiore di circa 6 anni) e di tutti questi fu stimato interlocutore. La sua produzione intellettuale non ha certo nulla da invidiare agli altri. Solo Gramsci sviluppa la propria produzione su di un orizzonte che, se è altrettanto vasto, ha – soprattutto a causa della lunga prigionia – occasione di ordinare con maggiore sistematicità. Berneri interloquisce inoltre con giovani (come Tasca, Pertini, Bordiga) e “vecchi” del socialismo, quali Malatesta, Salvemini, Turati, Fabbri.

Eppure è quasi sconosciuto ai più, complice il mondo accademico ed in primis la storiografia di sinistra. Non ha neppure una strada che lo ricordi. Con un’emblematica eccezione. Si legga Gianni Furlotti (1) (ogni commento è superfluo): “Appena fuori Reggio, sulla via Emilia che porta a Parma, il Rio Modolena è poco più di un fosso. La sua riva sinistra che parte dalla grande strada è un argine in terra battuta dai bordi erbosi che s’inoltra sinuoso nella campagna. E’ un sentiero che porta in nessun posto, e il Comune di Reggio una ventina d’anni or sono, l’ ha intitolato a Camillo Berneri. Due cose furono sùbito chiare: quell’argine non sarebbe mai assunto

a dignità di strada, e che sarebbe stata l’ultima tappa dell’esilio di Camillo. L’antifascista anarchico più estradato d’Europa”.

Berneri nasce a Lodi, ma sviluppa l’adolescenza fra Reggio Emilia, Arezzo e Firenze. Gira molto l’Italia sia per la sua professione d’insegnante di scuola superiore, che per l’impegno sociale che lo attrae sin da giovanissimo.

Viene alla politica quindicenne, aderendo al socialismo umanitario di Camillo Prampolini. E’ l’unico studente di Reggio Emilia nel socialismo ed uno dei pochissimi nel Paese. Collabora immediatamente a molte testate del partito: da “L’Avanguardia”, di Roma, organo della Federazione Giovanile Socialista Italiana, all’emiliana “La Giustizia” (domenicale), diretta dallo stesso leader reggiano, a “L’Università Popolare” di Luigi Molinari e “La Folla” di Milano, al foglio razionalista “La Luce” di Novara. Diviene segretario provinciale e membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile Socialista Italiana. Svolge soprattutto propaganda antiinterventista e subisce le prime aggressioni. Conosce un’altra grande figura, Torquato Gobbi (2), e – giudicando inadeguata di fronte alla guerra la politica del “non aderire e non sabotare” – passa nel 1916 all’anarchismo.

Berneri segna la svolta con una toccante lettera aperta (3) rivolta ai giovani socialisti. A testimonianza di un clima di grande correttezza che, a dispetto di tutto, pur dopo la rottura assicurò rispetto e stima reciproci – nonché dell’alto senso democratico che pervadeva la Federazione Socialista di Reggio Emilia – sarà utile riportare le seguenti considerazioni di Berneri: “Poiché vi era la consuetudine di leggere all’assemblea le lettere di dimissioni pensai di farne una che servisse alla propaganda. La spedii un venerdì, e la sera di poi mentre passeggiavo sotto i portici della Via Emilia i socialisti del circolo mi richiamarono che era l’ora della riunione (ci riunivamo ogni sabato). Io dissi fra me e me: Non hanno ricevuto le mie dimissioni. E risposi loro, non senza un po’ di batticuore: ‘Ma non avete avuta la mia lettera?’. ‘Si, mi risposero, l’abbiamo avuta, ma vieni lo stesso’. Allora andai. Ed ebbi una delle più vive emozioni della mia vita: quella di essere chiamato a presiedere l’ultima riunione alla quale partecipavo. Fu un gesto di simpatia del quale soltanto più tardi vidi l’enorme valore di educazione politica” (4).

Anche l’atteggiamento di Prampolini fu correttissimo: “ ‘Dunque, ci lasci’ egli disse al dimissionario, con tristezza; e dopo una pausa, soggiunse: ‘Ma resta sempre nel socialismo’ “ (5).

Ma Berneri non vede nell’anarchismo solo il veicolo per una lotta più determinata, bensì un movimento che in potenza può fornire risposte politiche maggiormente appropriate per un cambiamento del mondo qui ed ora.

E’ così, dopo esser stato cacciato per “idee sovversive” ed insofferenza verso il militarismo dall’Accademia allievi ufficiali di Modena e spedito al fronte nel 1918 sotto scorta dei carabinieri, che Berneri inizia la sua “dissacrante” riflessione libertaria.

Nel frattempo, viene deferito due volte al Tribunale di guerra, anche perché arrestato alla Casa del Popolo di Sestri Ponente durante lo stato d’assedio proclamato per i moti di Torino. Nel 1919, ancora sotto le armi, è inviato al confino a Pianosa in occasione dello sciopero generale del mese di luglio. Liberato, però ancora coscritto, continua il lavoro. Racconta Luce Fabbri: “Nel 1920, erano le dieci di sera, e parecchi compagni erano riuniti da me, quando sentimmo bussare alla porta ed una voce che mi chiamava che era affatto sconosciuta. Era lui. (…) Berneri passava la giornata alla caserma e la notte a lavorare con la penna, studiando e scrivendo per ‘Umanità Nova’” (6). Partecipa direttamente all’occupazione delle fabbriche, ai moti antifascisti e s’impegna nella preparazione armata delle squadre operaie, quale membro di una speciale commissione.

Berneri è presente da subito nei momenti topici del Movimento, dal Congresso di fondazione della Unione Anarchica Italiana (Ancona, aprile 1919), alla creazione del suo organo più importante, il quotidiano “Umanità Nova” (1920). S’impegna sin dal primo numero (Roma, 1.1.1924), con Errico Malatesta (7), Luigi Fabbri (8), Carlo Molaschi e Carlo Frigerio, nella principale rivista teorica libertaria: “Pensiero e Volontà”. Cionondimeno allarga sempre i propri orizzonti, continuando a partecipare al dibattito pubblico sui giornali socialisti e spaziando ovunque. Berneri presta la sua penna anche a “Conscientia” (9), rivista protestante, nonché ad altri periodicidichiaratamente non anarchici come “Pagine Libere” di Pistoia, “Humanitas” di Bari, “I nostri quaderni”, di Lanciano, l’ “Avanti!” di Milano e “La Critica Politica” di Roma. Studente universitario a Firenze, frequenta i più significativi gruppi intellettuali della città.

E’ influenzato da “La Voce”-”Lacerba” di Prezzolini-Papini (10). Per i rapporti con il primo, rimane il ricordo (molto postumo) dedicato a Berneri all’interno di Prezzolini alla finestra: “(…) appariva nella conversazione di una cultura non comune, come poi mi son accorto dalle sue citazioni negli scritti che ho letto di lui” (11).

Però Berneri è attratto soprattutto da “L’Unità” (Firenze-Roma 1911-20), settimanale creato da Salvemini (uno dei “padri nobili” del liberalsocialismo italiano, nel 1929 fondatore con i fratelli Rosselli, Lussu, Nitti ed altri, della formazione politica Giustizia e Libertà). Con questi stabilirà, come vedremo, una relazione stretta e duratura (sarà il docente più apprezzato e più vicino negli studi accademici). E’ proprio Salvemini a testimoniare che: “Quando Carlo e Nello Rosselli ed Ernesto Rossi fondarono un gruppo di studi sociali, Berneri fu uno degli assidui” (12).

Berneri collaborerà quindi al “forum” antifascista raccolto intorno ad uno dei primissimi fogli clandestini italiani, il “Non mollare” (1925). Parallela all’impegno culturale, la sua attività militante non subisce mai pause, è anzi sempre più febbrile. Come scrive lui stesso: “In quel tempo ero membro del Consiglio Nazionale dell’Unione Anarchica Italiana e della Federazione Giovanile Rivoluzionaria. Ebbi qualche influenza, pur non essendo nei quadri, nel campo degli Arditi del Popolo, ed entrai nell’ ‘Italia Libera’ (sezione fiorentina) partecipando alla sua attività clandestina. Dal 1924 al 1926 lavorai illegalmente (diffusione stampa antifascista, ecc.), partecipando nell’inverno ‘26 al convegno anarchico delle Marche, del quale fui delegato al convegno nazionale dell’Unione Anarchica Italiana” (13).

Una grande curiosità intellettuale

La curiosità intellettuale del lodigiano non ha praticamente confine. Per questo, di lui si potrà dire: “Contenuta nell’arco temporale di un ventennio, la vicenda politica e intellettuale di Camillo Berneri si rivela, in misura in cui viene recuperata negli archivi, prodigiosa di opere. E’ impressionante la mole e la varietà degli scritti; vasto il solco aperto nella problematica ideale e politica di quel periodo; unica e pressoché isolata figura nel grande affresco che raffigura la battaglia libertaria nell’Europa dell’interguerra” (14).

Persino in campo psicanalitico, singolarmente, produsse almeno due opere molto significative per l’epoca: “A Firenze, oltre che con Salvemini, Berneri aveva lavorato con Enzo Bonaventura, autore di un manuale divulgativo sul pensiero freudiano. Ebreo (…), Bonaventura tenne a Firenze, nel primo dopoguerra, un corso sulla psicanalisi che vide Berneri tra i più (…) attenti ascoltatori. E’ mescolando il ricordo delle conversazioni con Bonaventura, insieme alla lettura folgorante dell’edizione francese, curata da Marie Bonaparte, del Ricordo d’infanzia di Leonardo Da Vinci, che l’anarchico inizia a riflettere sull’opera freudiana, sulla libido e sul réfoulement. (…) Ai ricordi d’infanzia di Leonardo è dedicato un apposito studio. Per tutte queste ragioni Le Juif antisémite (15) va inserito nel dossier di Michel David, su La psicoanalisi nella cultura italiana: la figura di Berneri costituisce un capitolo importante nella storia della prima, travagliata penetrazione di  Freud in Italia”. Così Roberto Cavaglion, autore di studi molto felici su Berneri ed il mondo ebraico (16). Per lui: “…Berneri (va) considerato oggi un intellettuale del nostro Novecento tra i più attenti al problema ebraico, ipersensibile dinnanzi ai segni premonitori di una campagna razziale imminente, ma da nessuno, escluso appunto lui, avvertita come tale. (…) Ma è comunque un dato ancora sconosciuto ai più. Nessun minimo cenno a Berneri, e al suo libro uscito in edizione francese presso una casa editrice assai nota nel mondo del fuoruscitismo (17), ritroviamo in alcuna opera dedicata alla storia degli ebrei; né è mai stata fatta, in sede di ricerca storiografica, una indagine a tappeto sulla stampa periodica anarchica italiana, da sempre sensibile alla questione. Né infine Le Juif antisémite è ricordato se non di sfuggita nella memorialistica dell’antifascismo in Francia. Qualche significativo cenno a Berneri come figura dell’anarchismo troviamo adesso nel volume collettivo AAVV, P. Gobetti e la Francia, a cura del Centro Studi Piero Gobetti di Torino, Milano, F. Angeli, 1985, pp. 43 e 53. Sulle ragioni del silenzio che avvolge (…) questo libro (…) meriterebbe fare un discorso a parte” (18). Cavaglion cita la (tuttora) validissima ultima esortazione contenuta ne L’ebreo antisemita: “A noi rimane il piacere di poter rileggere di tanto in tanto il suo appello finale, rimeditando sul suo estremo ‘Ascolta, Israele!’ di sapore bebeliano (l’antisemitismo come socialismo degli imbecilli) (…)” (19).

Stesso silenzio sulla berneriana, brillantissima “psicologia di un dittatore” (20), intitolata Mussolini grande attore (21). Va segnalato, in proposito, quanto ha scoperto Pier Carlo Masini: “(…) fu sulla base dell’indirizzo  iennese di S. Freud, trovato da un informatore nella sua agenda, che la polizia fascista condusse l’inchiesta sulla Scuola psico-analitica e sulle sue propaggini in Italia. Quando saranno aperti gli archivi di Freud, probabilmente ne uscirà fuori anche la lettera con cui Berneri accompagnava l’invio dell’opuscolo Le Juif antisémite al fondatore della psico-analisi (…)” (22).

Berneri, con questo libro, ci ha regalato un testo politico redatto con un tempismo storico che non ha pari. Solo un ebreo tedesco, Theodor Lessing, aveva appena scritto un pamphlet (23) simile, cosa che pagò con la vita, nel 1933, raggiunto dai sicari dei servizi segreti nazisti fino a Marienbad, a dimostrazione della particolare sensibilità di Hitler sull’argomento (si ricordi il contenzioso aperto sulle voci relative ad una possibile ascendenza “non ariana” del “fuhrer”).

Già dalle prime battute ci si accorge che Berneri non è un personaggio “qualunque”. Eppure è rimasto particolarmente sconosciuto al “grande pubblico”. La verità è che a Berneri è stata destinata la sorte da sempre riservata all’anarchismo, contro il quale la congiura del silenzio ha operato ad ogni “latitudine politica” o “longitudine storica”. Una vergogna che, già prima dell’esperienza spagnola (peraltro senza citare neppure Messico, Italia, Francia, Portogallo, Argentina, Brasile, Svezia, Cina, Giappone, Corea…), denunciò chiaramente anche il lodigiano stesso: “Il ruolo degli anarchici nella rivoluzione russa, in quella germanica e in quella ungherese è materia, quando lo è, di paragrafo, mentre lo sarebbe per più di un capitolo: superficialità e tendenziosità che si rivelano in tutta la storiografia contemporanea più in voga (…)” (24).

Gaetano Salvemini testimoniò il seguente ricordo di Berneri (che con lui si laureò): “Aveva il gusto dei fatti precisi. In lui l’immaginazione, disciolta da ogni legame col presente, in fatto di possibilità sociali, si associava a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. Si interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate (a dire il vero non sono i soli!) lui teneva aperte tutte le finestre” (25).

Berneri si laureò in filosofia il 27 novembre 1922, con tesi ad indirizzo pedagogico (sulle riforme scolastiche in Piemonte intorno al 1848) (26).

Negatagli per veto prefettizio nell’autunno 1925, avendo rifiutato di giurare fedeltà al regime (27), la cattedra di Liceo cui – dopo aver abitato ad Arezzo (città nella quale nel ‘18 nacque la primogenita Maria Luisa) ed ancora a Firenze (ove l’anno dopo vide la luce l’altra figlia, Giliana); dopo aver insegnato anche a Montepulciano, Cortona, Bellagio, Milano e Macerata – aveva diritto, ottenne infine solo un incarico meno remunerato presso l’Istituto Tecnico di Camerino. Ormai era chiaro che non lo avrebbero lasciato più vivere.

Esilio

Sempre segnalato e seguito dalla polizia, aggredito dai picchiatori in orbace, Berneri e famiglia (28) ripararono in Francia nell’aprile 1926. Qui il nostro attraversò periodi di vera e propria indigenza e non esitò a guadagnarsi da vivere esercitando qualsiasi lavoro, anche quello dell’edile.

Comincia così, dopo un breve periodo di clandestinità, il suo “esilio senza requie” (29), durante il quale gli affibbiano il (ben meritato) titolo di “italiano più espulso d’Europa” (30). Partecipa in prima persona  all’antifascismo d’oltralpe e si fa promotore di iniziative ove mette a rischio la propria vita ed è fra gli “osservati speciali” dell’OVRA. La tentacolare polizia segreta del regime, che imbastisce a suo danno più d’una montatura, facendolo sbattere in galera ed espellere anche oltralpe. E’ quindi al centro di una grande campagna per la riammissione dal Belgio e dal Lussemburgo in Francia. Viene braccato anche in Svizzera, Olanda e Germania, sempre

combattendo, con la critica e con i fatti, il tiepidume dell’ “ufficialità” del “fuoruscitismo” antifascista, il presenzialismo, l’attendismo ed il compromesso. Intanto colleziona condanne contumaci e nuove denunce ed istruttorie in Italia.

Berneri spazia, è presente e considerato in tutti i dibattiti, anche se questo nel mondo anarchico è poco recepito ed ancor meno compreso: “Per conto mio, ho collaborato alla stampa socialista, a quella repubblicana, a quella protestante così come ho sempre accettato di parlare per invito di partiti avversari, a condizione di esser del tutto libero di scrivere o di parlare. Questo mio modo di vedere ha creato leggende, delle quali non mi sono mai curato” (31).

All’interno del movimento libertario, articoli e saggi del lodigiano sono conosciuti in Europa e nelle due Americhe già dal 1926 al 1932, ben prima del suo arrivo in Spagna. Collabora a “Il Monito”, “La Lotta Umana” e “La Revue Anarchiste” di Parigi, a “L’en dehors” di Orleans, a “Le Reveil” di Ginevra e “Vogliamo” di Lugano, a “Guerra di Classe” di Bruxelles, a “La Revista Blanca” di Barcellona e ad “Estudios” di Valencia, ad “Arbetaren” di Stoccolma, a “Der Syndikalist” di Berlino, così come a “Studi Sociali” di Montevideo; “L’Adunata dei Refrattari”, New York; “Germinal”, Chicago (Illinois); “Il Pensiero”, “Antorcha”, “Niervo”, “La Protesta” e relativo supplemento, di Buenos Aires.

Lo scontro con il fascismo e la critica del massimalismo e della demagogia “di sinistra”

L’amicizia con Carlo Rosselli è stata determinante per Berneri. Come detto, i due s’erano legati dal tempo della condivisa esperienza di studio all’Università di Firenze presso la cattedra di Gaetano Salvemini, nel corso della quale avevano maturato un’intransigente avversione per ogni totalitarismo ed uno smisurato amore per la giustizia sociale.

Entrambi combatterono il fascismo con tutte le loro forze, ma parimenti non furono certo teneri nel giudizio sulla follia di massa che aveva sconvolto l’Italia, segnalando le responsabilità del Paese reale.

Rosselli nel 1930 ebbe modo di scrivere: “In una certa misura il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto della unanimità, che fugge l’eresia, che sogna il trionfo del facile, della fiducia, dell’entusiasmo. Lottare contro il fascismo non significa dunque lottare solo contro una reazione di classe feroce e cieca, ma anche contro una certa mentalità, una sensibilità, contro delle tradizioni che sono patrimonio, purtroppo inconsapevole, di larghe correnti popolari” (32).

Berneri, intorno alla metà dello stesso decennio, aggiunse: “Quando un avventuriero come Mussolini può giungere al potere, vuol dire che il paese non è né sano né maturo. Bisogna che gli italiani si sbarazzino di Mussolini, ma bisogna anche che si sbarazzino dei difetti che hanno permesso la vittoria del fascismo” (33). Oppure: “Bisogna abbattere il regime fascista, ma bisogna sanare l’Italia della mistica fascista, che non è che una manifestazione patogena della sifilide politica degli italiani: il facilonismo retorico” (34). Ma già nel 1929 aveva formulato un vero e proprio “vaticinio” sul rapporto fra i connazionali ed il regime, preconizzando le condizioni della

caduta dello stesso, cosa che avverrà solo a causa dei rovesci della guerra nel 1943: “Il popolo italiano non è ancora un branco di schiavi, non è materia morta. Ma non è neppure un popolo uso a libertà e di libertà geloso. Non è l’asino paziente, ma non è il leone incatenato. La rivolta non sarà morale. Sarà lo scoppio di un generale malcontento egoistico, di  una esasperazione di ventri vuoti” (35).

Il lodigiano non ha mai amato la demagogia: “Una bella rivelazione fu per me una conferenza di Angelo Tasca, che illustrò la questione della guerra di Libia con il manuale di statistica del Colajanni alla mano. Parlare in un comizio con tanto di manuale statistico alla mano era trasferire alla piazza la serietà della scuola” (36). Per questo non lesinò critiche anche alla sinistra: “Oggi è costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti ad uno specchio” (37).

La politica delle alleanze e la lezione storica dello scontro con i due totalitarismi

Ha scritto Pier Carlo Masini che Berneri: “(…) si sentiva vicino ai repubblicani di Critica politica, (…) trasferiva la tematica federalista all’interno del movimento operaio, fino ad allora egemonizzato dal centralismo di marca germanico-socialdemocratica e di marca russo-bolscevica

Il liberalismo di Gobetti era considerato compatibile per un’alleanza con l’anarchismo, perché “richiama a Pareto, a Einaudi, ecc. ben più che ai liberali inglesi” (40).

Carlo Rosselli, autore durante il confino nell’isola di Lipari e prima di riparare in Francia, dell’opera Socialismo liberale, fu il principale animatore di un’organizzazione politica sincretista, federalista e liberal-socialista che, soprattutto attraverso Berneri, dialogò molto con gli anarchici.

Questo portò alla realizzazione – tra alterne vicende – di una colonna mista che, inquadrata fra le forze della CNT, ebbe in Rosselli il comandante (41) ed in Berneri il commissario politico e che raggruppò, oltre ai volontari di Giustizia e Libertà, parte significativa dei duemila anarchici italiani accorsi in Spagna per combattere a fianco della Repubblica nella guerra rivoluzionaria che seguì il colpo di stato fascista del 17 luglio 1936. Va segnalato che questa milizia precorse di molto le (oggi) più famose “Brigate Internazionali” di matrice comunista. Intellettuali militanti, Berneri e Rosselli combatterono in prima linea sul fronte di Huesca. Il lodigiano venne ferito nella battaglia per la conquista di Monte Pelato (42).

Morte di Berneri
(cinque uomini, un unico destino)

L’esistenza di Berneri, Gobetti e Rosselli venne segnata da un feroce destino comune, dettato proprio dall’impatto con l’intolleranza espressa dagli assolutismi ideologici del “secolo breve”. Non uno di loro ebbe vita facile: oltre che con gli avversari, dovettero scontrarsi anche con molti “compagni di strada”. Come Berneri, pure Rosselli non era molto amato da una certa “sinistra”. Il lodigiano ne prese le difese: “ (…) sono curiosamente e cordialmente attento all’attività dei giellisti che conosco: quelli di Parigi. Io mi rifiuto di considerare «diciannovisti ritardatari» dei giovani intelligenti, colti e di animo generoso nei quali non riesco a scorgere una forma mentis mussoliniana ma nei quali vedo, invece, una ferma volontà di formazione politica, il disgusto per l’improvvisazione programmatica e per la demagogia, un’appassionata ricerca di colmare le proprie lacune di cultura e di esperienza nello studio e nel contatto con elementi dei vari partiti e movimenti dell’emigrazione antifascista” (43). A nessuno di loro – con Antonio Gramsci (che ne condivise la sorte), i maggiori intellettuali  dello antifascismo italiano di nuova generazione – venne consentito di invecchiare.

Il primo segnale fu la prematura scomparsa di Gobetti, non ancora venticinquenne, avvenuta il 15 febbraio 1926 a Parigi, dove era riparato da soli nove giorni onde ricoverarsi in clinica per i postumi del brutale pestaggio (che gli fu fatale) subito in Italia dai fascisti due anni prima (44). Rosselli (con il fratello Nello) (45) venne poi eliminato in Francia dai sicari di Mussolini il 9 giugno 1937. Con poco anticipo, nello stesso anno, Berneri – come Rosselli non ancora quarantenne – venne prelevato da casa ed assassinato a sangue freddo, nel corso delle giornate di maggio a Barcellona, da agenti staliniani sguinzagliatigli contro da Palmiro Togliatti. Com’è noto, questi era segretario in esilio del Partito Comunista d’Italia e plenipotenziario nella penisola iberica di quel Komintern del quale, con coraggio, il lodigiano aveva resi pubblici nel 1933 i vergognosi compromessi e cedimenti verso il nazismo ingiunti al Partito Comunista tedesco, indotto a tempestare “col calcio del fucile il sistema di Weimar” (46).

Erano i prodromi della campagna contro il “socialfascismo”, orchestrata da Stalin a scapito di tutti i gruppi di sinistra che non fossero direttamente controllati da Mosca. Berneri aveva denunciato che la Spagna era “posta tra due fuochi: Burgos e Mosca” (47), accomunando i totalitarismi rappresentati dalla capitale-fantoccio di Franco e da quella dell’URSS. Aveva infine “osato” difendere il POUM, piccolo ma combattivo partito comunista dissidente (spesso oggi impropriamente definito come “trotskista”), vergognosamente denigrato dagli stalinisti, alleato politico del movimento libertario.

L’altro grande giovane intellettuale italiano dell’epoca, la vera mente del comunismo marxista in questo Paese – peraltro affatto gradito a Stalin – era deceduto appena nove giorni prima a Roma solo quarantaseienne, dopo undici anni di carcere fascista e confino in Sardegna nel corso dei quali non aveva praticamente ricevuto alcuna cura. Nonostante fosse ammalato di tubercolosi e “soggetto a svenimenti prolungati e febbri altissime”, come scrisse lo stesso lodigiano nel Discorso in morte di Antonio Gramsci (48), l’ultimo che Berneri pronunciò dalla radio CNT-FAI di Catalogna, la sera del 3 maggio, solo quarantotto ore prima di venire rapito.

Fra Berneri e Gramsci esisteva un rapporto di comune, reciproco, rispetto. Il lodigiano aveva scritto interventi anche per “L’Ordine Nuovo, diretto dall’intellettuale comunista, foglio che ammirava e che teneva come esempio, unitamente a “L’Unitàdi Salvemini, per un suo progetto di rivista che non riuscì mai a realizzare.

Con Gramsci polemizzò, si scontrò sul bolscevismo e sulla concezione del primato operaio: “In Italia, la mistica industrialista di quelli dell’Ordine Nuovo mi appariva (…) come un fenomeno di reazione analogo a quello del futurismo” (49). Ma ne ebbe sempre quella grande considerazione che testimoniano i contenuti dell’elogio funebre per il “sardo tenace” (letto appunto a Radio Barcellona il giorno prima della morte): “Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente per indicare chiunque abbia fatto gli studi” (50).

Per ironia della sorte, quando venne sequestrato per essere ucciso, sul suo tavolo stava l’appello all’unità contro il franchismo che il nostro stava scrivendo onde scongiurare la guerra civile nella guerra civile, nei giorni dell’assalto dei comunisti alla centrale telefonica della capitale catalana. Centrale che dal 19 luglio ‘36 era controllata dalle milizie anarcosindacaliste, cioè da quando esse avevano inchiodato nelle caserme e costretto alla resa i militari golpisti nei due terzi della Spagna.

L’assassinio brutale ed a sangue freddo suscitò grande indignazione. Peraltro aveva fatto molto felici le spie dell’OVRA che euforicamente comunicarono a Roma che la “Ceka del partito comunista” s’era sbarazzata del più pericoloso avversario in Spagna fra le fila repubblicane.

Nenni, nel discorso d’apertura del 3° congresso del Partito Socialista in esilio denunciò con forza le responsabilità dei  comunisti staliniani: “Berneri è stato assassinato e noi dobbiamo dirlo” (Parigi, resoconto del 28 giugno 1937). Lo stesso aveva già fatto Angelica Balabanoff (51) dalle colonne del “Nuovo Avanti” del 6 giugno 1937: “E’ caduto assassinato vilmente, freddamente dalla Ceka controrivoluzionaria. Il PSI saluta il nuovo martire della rivoluzione spagnola, ripetendo più forte che mai le sue ultime parole: ‘La rivoluzione deve vincere su due fronti e vincerà’”. Altrettanto determinate furono ovviamente le denunce di Carlo Rosselli, Ernesto Rossi e tantissimi altri. Sul “Grido del Popolo” del 20 maggio 1937, organo del Fronte Unico controllato dai comunisti italiani, Togliatti, senza scomporsi e dopo aver attaccato giellini e socialisti deplorando cinicamente “le tradizioni di un passato prefascista, quando gli avversari politici potevano essere

nello stesso tempo amici personali”, rivendicò invece direttamente l’eliminazione di Camillo Berneri, “giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa”.

Ma fu una mossa molto avventata. Nel volgere di poco, sommerso dall’ondata di sdegno, cambiò tesi, negando ogni responsabilità e addebitando alla malasorte ed alle pallottole vaganti la morte del lodigiano. Sino a giungere persino, in una polemica aperta da Gaetano Salvemini, a tessere le lodi di Berneri, questa volta qualificato come elemento serio  dell’anarchismo, “che si stava avvicinando ai socialisti unificati” (cioè ai comunisti), addirittura nemico degli ‘anarchici cattivi’, definiti “incontrollati” (“Rinascita”, marzo 1950).

Su tutto ciò non v’è davvero bisogno di commento.

La differenza fra gradualismo e riformismo. il “sovietismo” di Berneri

 

Berneri additò compiutamente la differenza, non solo tattica, fra gradualismo intransigente e riformismo concertativo: “Vi è un possibilismo ingenuo come vi è un estremismo ingenuo. Tutto sta non nell’essere possibilisti od estremisti bensì nell’essere rivoluzionari intelligenti” (52). A sinistra,

l’errore sta nello statalismo marxista, vera e propria forma di revisionismo negativo, incline al compromesso nella socialdemocrazia e nel leninismo alla riedificazione autoritaria (e per questo socialmente e moralmente iniquo): “L’ibrido connubio del rivoluzionarismo apocalittico e del gradualismo determinista che era in Marx si perpetuò nella socialdemocrazia. Dal primo derivò la trascuratezza verso i problemi dell’economia di transizione, dal secondo il riformismo” (53).

Berneri tenne in Spagna una posizione pragmatica. Non criticò i leaders della CNT dell’epoca perché “ministri”. Li criticò quando non seppero decidersi a fare quello che andava fatto. Per questo appoggiò il piano elaborato da Pierre Besnard, segretario dell’Internazionale anarcosindacalista (al tempo AIT). Significava assumersi delle precise responsabilità di fronte alla storia. Rendere innocuo il poco esteso partito comunista di stretta osservanza moscovita, al quale venivano rimessi gli approvvigionamenti sovietici, rendendo di pubblico dominio la vergognosa manovra di accantonare le armi nelle retrovie in funzione della già prevista repressione antianarchica. Dichiarare indipendenti le ex colonie (ove avevano base le truppe golpiste) e riconoscerne la legittima rappresentanza autoctona. Liberare Abdel Krim, capo rivoluzionario marocchino, per scatenare la guerriglia alle spalle di Franco, anche se questi era prigioniero dei tiepidi “alleati” francesi (governo di “Fronte Popolare” social-comunista) che più del fascismo temevano egoisticamente un “contagio” indipendentista verso l’Algeria. Intensificare una guerra di resistenza “mordi e fuggi” nei territori iberici controllati dai fascisti e fomentare rivolte in Portogallo contro il regime di Salazar. Confiscare l’oro della Banca di Spagna per acquistare liberamente le armi necessarie e sopperire così alle carenze tattiche e strategiche dovute alle continue forniture italiane e tedesche alle truppe di Franco. Disgraziatamente il piano, al quale erano favorevoli Buenaventura Durruti ed altri, fu bloccato all’ultimo momento da Federica Montseny e da una parte dei leaders cenetisti. Così, quindici giorni dopo, il tesoro nazionale finì in URSS e non venne restituito nemmeno alla caduta di Franco, perché introitato – complice parte del governo – come smisurato pagamento delle armi “generosamente” inviate alla Repubblica. Per liberarsi dello stato occorreva avere una precisa autonomia politica in grado di esautorare il sistema, svuotandolo con la difesa e l’estensione delle conquiste popolari ed al tempo stesso di combattere efficacemente il fascismo internazionale e la quinta colonna legata a Mosca.

La posizione del lodigiano è pragmatica, ma non deroga dai binari  dell’anarchismo, così come quando aveva difeso il “sovietismo” dai “puristi” che lo rifiutavano a priori: “Recisamente contrari al sovietismo, noi? Noi che nelle autonomie locali avremmo la migliore trincea per sbarrare la strada allo Stato? Noi che non possiamo sognare di veder realizzata l’anarchia se non dopo la più lunga e la più profonda esperienza di auto-democrazia, nel campo dell’amministrazione cooperativa e comunale?

(54). Vedeva nel protagonismo del movimento anarchico in quanto tale lo strumento per utilizzare l’impianto comunalista della rete dei soviet (letteralmente “comune”), non l’occasione per ritrarsi dallo scontro con i bolscevichi in nome di forme stereotipe di “autismo ideologico”. Ma al tempo stesso non cadde mai nell’errore di voler “copiare” i bolscevichi o abbandonarsi, immoti ed abbacinati, alla loro guida: “Il sovietismo è il sistema di auto-amministrazione popolare e risponde ai bisogni fondamentali della popolazione, rimasta priva degli organi amministrativi statali. Questo sistema può permettere la ripresa della vita economica, compromessa dal caos insurrezionale e può servire di base alla formazione di un nuovo ordine sociale, costituendo inoltre una proficua palestra di auto-amministrazione preparante il popolo a sistemi di maggiore autonomia. E’ compito degli anarchici in seno al sovietismo di cercare di conservare ad esso il suo carattere spontaneo, autonomo, extra-statale: di cercare che

esso sia un sistema essenzialmente amministrativo e non diventi un organismo politico, destinato, in tal caso, a partorire uno stato accentrato e la dittatura del partito prevalente; di lottare contro le tendenze burocratiche e poliziesche, cercando anche di circoscrivere la sua azione legislativa ai regolamenti rispondenti all’utilità generale” (55). Anche il sovietismo non è che un mezzo: la meta è più alta. Perciò è transitorio: “Resta inteso che gli anarchici considerano il sovietismo come un sistema transitorio e superabile, e che non esiteranno a porsi contro di esso quando lo vedessero degenerare in istrumento di dittatura ed accentramento” (56).

Il fatto che Camillo Berneri, un instancabile costruttore di progetti ed un intransigente organizzatore, sia stato poi curato e ricordato da morto (ed i suoi scritti così spesso ospitati in vita), soprattutto da anarchici dichiaratamente antiorganizzatori o intransigenti (come nel caso della redazione de “L’Adunata dei Refrattari” o di Aurelio Chessa, fondatore in Italia dell’ “Archivio Famiglia Berneri”) (57), è un (apparente) paradosso che conferma la tesi. Anche la dirigenza cenetista fu, davvero, quantomeno improvvida nel non preoccuparsi di fornire a Berneri adeguata protezione, nonostante egli fosse uno dei più esposti alle rappresaglie degli agenti del Komintern nel pieno dello scontro fra anarchici e “cekisti”.

Troppo spesso si ricorda la figura di Berneri solo come quella di uno dei “santi degli ultimi giorni” che si opposero strenuamente alla degenerazione della rivoluzione spagnola. Il suo testo più diffuso a livello internazionale è la “Lettera aperta alla compagna Federica Montseny” (58), del 14 aprile 1937, con la quale metteva in guardia contro gli arretramenti della rivoluzione e la compiacenza verso i comunisti, con la famosa frase: “E’ l’ora di rendersi conto se gli anarchici stanno al governo per fare da vestali ad un fuoco che sta per spegnersi o vi stanno ormai soltanto per far da berretto frigio a politicanti trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della ‘repubblica di tutte le classi’”. La stessa lettera nella quale il lodigiano ricordava come, nonostante il 17 dicembre 1936 la “Pravda” avesse già proclamato: “In quanto alla Catalogna è cominciata la pulizia degli elementi trotskisti e anarco-sindacalisti, opera che sarà condotta con la stessa energia con la quale la si condusse nell’URSS”, proprio la Montseny aveva, più recentemente, rilasciato in un’intervista la seguente, grottesca dichiarazione: “…non fu Lenin il vero costruttore della Russia, bensì Stalin, spirito realizzatore…”.

Eppure Berneri non era stato fra quelli che s’erano stracciate le vesti di fronte alla nomina dei ministri anarchici. Per lui il problema non era l’utilizzazione (peraltro incidentale) delle istituzioni. Aveva difeso le scelte della dirigenza cenetista, collaborato con essa e scritto cose molto apprezzate per un lungo elenco di giornali libertari spagnoli (la “Revista Blanca”, “Mas Lejos”, “Tierra y Libertad”, “Tiempos Nuevos”, “Estudios”, il quotidiano “Solidaridad Obrera”), dai quali il suo apporto era richiesto e sollecitato (59).

Si preoccupava bensì dell’assenza di un progetto volto a privilegiare ed estendere, coscientemente ed in modo organico, le conquiste rivoluzionarie ottenute sul campo e le molteplici strutture autogestionarie e federaliste che l’anarcosindacalismo aveva comunque dimostrato di saper creare, dando libero sfogo ad un’esperienza accumulata in decenni e decenni di lotte. Se vi fosse stata abitudine alla politica, le istituzioni sarebbero state svuotate, non dall’interno ma “dall’esterno”, della presenza dello stato.

Egli vide bene l’originalità della “Spagna lavoratrice” (60), che: “…coordina, potenziandole vieppiù, le proprie forze ricostruttive; e questo su schemi propri e non scimmiottando questa o quella rivoluzione” (61). Seppe riconoscere davvero la trasformazione avanzatissima della società spagnola, gli elementi d’inaudita potenza che s’erano sviluppati, come l’abolizione del denaro in grandi territori rurali, la socializzazione delle fabbriche, delle campagne, dei servizi ed il doppio miracolo di una tenuta della funzionalità e dell’aumento della produzione. Era il tipo di prassi rivoluzionaria alla quale aveva sempre creduto, capace di coniugare elementi forti dal punto di vista economico con successi altrettanto importanti sul piano delle libertà e dei diritti civili. Senza mai venir meno al pluralismo politico ed alla  democrazia sostanziale, ancorché nel mezzo di una guerra civile e di un forte scontro interno con chi – comunisti in testa – intendeva “gestire” opportunisticamente la guerra ed abbandonare la rivoluzione, in un patto scellerato che contemplava la restituzione delle terre e delle industrie.

Esattamente a partire da quelle realizzazioni, che comunque restano agli atti come le più importanti nell’ambito di una rivoluzione, e dall’esame delle cause della sconfitta, assume maggior valore il monito di Berneri. Ma davvero pochi ne hanno, ancor oggi, compreso il messaggio, in primo luogo per quanto attiene alla necessità impellente di una revisione profonda nel campo socialista libertario, arato male e senza sistema.

L’anarchismo fra politica ed antipolitica (nessun sogno romantico)

A quasi vent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dalla tragicomica fine del socialismo “surreale”, l’opera di questo intellettuale militante, più unico che raro nel panorama libertario “classico” per le sue prese di posizione insieme eterodosse ed illuminanti, assume una valenza universale, utile non solo agli anarchici, bensì a tutti quanti abbiano finalmente chiaro che il rinnovamento della sinistra non può essere mera riedificazione di facciata, pena la definitiva scomparsa del complessivo movimento d’emancipazione dalla scena del panorama politico.

Ed è proprio dalla “crisi della politica” che deriva l’attualità del pensiero di Camillo Berneri. Da quella richiesta forte, e sempre meno eludibile, di una trasformazione della mistificazione della delega assoluta di potere in partecipazione cosciente ed attiva, in decentramento federalista ed in democrazia diretta. Dalla spinta ad invertire l’incipit fondamentale dell’organizzazione umana, nel passaggio dei modi della rappresentanza, per dirla con Berneri, dal “sono governati” al “si governano” (62).

In verità, in politica egli concesse ben poco al romanticismo: “Il romantico ama i tempi remoti perché può metterli in cornice. Il nuovo gli sfugge e gli fa paura. Così il romantico ama gli eroi, perché può idealizzarli a suo piacimento” (63). Il romanticismo vive una contraddizione insanabile con l’anarchismo: “Il romanticismo è la statuaria della letteratura, della storiografia e della filosofia della storia. Il romanticismo confonde facilmente la grandezza con la fama, l’eroismo con il successo. E’ storicista” (64). Infine, il segno tradizionale e distintivo del romanticismo “classico” inclina pericolosamente a destra: “E il romanticismo reazionario accettò il prete ed elogiò il boia: perché riconducevano il popolaccio dietro le quinte della storia. Il popolo fa troppo fracasso e mette in subbuglio lo spirito. (…) Il romanticismo era contemplazione più che azione, mollezza più che volontà, egoismo più che generosità. E il suo sogno fu quello reazionario”(65).

 

La questione del programma

 

Berneri è soprattutto un “animale politico”, abituato a filtrare ogni cosa alla luce di una enorme capacità critica.

Ma sbaglierebbe chi pensasse a Berneri semplicemente come ad un “dissacratore” della tradizione anarchica. Il suo approccio è semmai contrario ed inverso e denota l’impegno consapevole di operare uno screening fra ciò che di vivo, vitale ed “immortale” è in essa contenuto e quanto invece, da elemento secondario, congiunturale e tattico è, per un gioco “inerziale”, assurto impropriamente al rango di principio. Per lui, i principi non escludono la politica: sono semmai quanti negano la politica a confondere gli elementi tattici con le questioni di principio. Berneri vuole: “un anarchismo idealista ed insieme realista, un anarchismo, insomma, che innesta verità nuove al tronco delle sue verità fondamentali, sapendo potare i suoi vecchi rami. Non opera di facile demolizione, di nullismo ipercritico, ma rinnovamento che arricchisce il patrimonio originale” (66). Di concerto ritenne perciò necessario combattere i “tabù” dei dottrinari, la fobia e l’ideologismo della “degenerazione”: “(…) e non pianteremo più meli perché molte mele hanno il baco? Ogni cosa che è nel mondo ha il proprio baco. Tutto sta nel saperlo levare. Preoccuparsi eccessivamente delle degenerazioni possibili, conduce ad un errore comune a molti tra noi: alla negazione assoluta” (67).

La generalizzazione negativa è un arbitrio logico” (68).

Il compito che coscientemente s’impose fu quello di demolire le costruzioni incerte edificate sotto l’influenza di pratiche “rituali”. Per questo, la lettura di Berneri è più che propedeutica al ritrovamento di un anarchismo in grado di agire a tutto campo, orgoglioso delle proprie radici ed altamente “competitivo” rispetto agli avversari, “conservatori” o “progressisti”. Berneri lavora affinché l’azione ed il pensiero libertario vengano restituiti alla propria dimensione naturale: per un anarchismo sempre pronto a mettersi in discussione, mai chiuso rispetto alla verifica della prassi, aperto a previsione e revisione. Capace quindi di rispondere alle sfide, di reinventarsi e soprattutto di esprimere progettualità.

 

 

 

Contro “l’anarchismo dagli occhiali rosa”

 

Il nostro ingaggerà dunque una lotta – rispettosa ma senza quartiere – contro l’ubriacatura positivista, il semplicismo, l’ottimismo spontaneista e l’ “anarchismo dagli occhiali rosa” (69) di kropotkiniana memoria, presenti anche in altro filone dell’anarchismo: quello comunista. Fra le varie, dichiarerà: “Respinto da Bakunin il Rousseau arcadico e contrattualista, l’ideologia kropotkiniana ci ha riportati all’ottimismo e all’evoluzionismo solidarista. Sul terreno dell’ottimismo antropologico, l’individualismo ha perpetuato il processo negativo dell’ideologia anarchica, conciliando arbitrariamente la libertà del singolo con le necessità sociali, confondendo l’associazione con la società, romanticizzando il dualismo libertà ed autorità in uno statico ed assoluto antagonismo. Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell’aggregato sociale (…)” (70).

Berneri lavora alla costruzione di un progetto politico che sappia raccogliere le caratteristiche migliori del pensiero antiautoritario ed egualitario: “Dal 1919 in poi non mi sono stancato di agitare in seno al movimento anarchico il problema di conciliare l’integralismo educativo e il possibilismo politico, osando sostenere polemiche e contraddittori con i più autorevoli rappresentanti dell’anarchismo italiano” (71). Per lui saranno soprattutto il federalismo ed il comunalismo gli strumenti atti alla riappropriazione ed all’autodeterminazione, mentre l’anarcosindacalismo rappresenterà il metodo organizzativo ed agitatorio in grado di dare al movimento libertario capacità di penetrazione, onde sviluppare la necessaria “egemonia” nel mondo del lavoro atta a far maturare e mutare i rapporti di forza. Strumento utile anche a combattere la scarsa propensione all’autodisciplina dello “specifico” anarchico ed a far da cemento per il senso di appartenenza che deve legare le strutture militanti.

 

 

La scelta anarcosindacalista

 

Recupererà quindi di Kropotkin il rigore scientifico, gli studi sulle dinamiche della rivoluzione francese, le intuizioni sulla fine del bolscevismo, la questione della parificazione fra lavoro manuale ed intellettuale, la propensione federalista (che arricchirà grazie alla profonda conoscenza di Cattaneo acquisita negli studi con Salvemini), lo spirito organizzativo e la comprensione dell’importanza del nascente anarcosindacalismo. Ecco, sintetizzato, il suo Commiato (72), redatto in morte del grande vecchio: “(…) al di sopra delle riserve, delle incertezze contingenti il suo sovietismo sindacalista-comunista brillava di coerenza logica e di audacia costruttiva”.

Che Berneri vedesse in Kropotkin un fautore dell’anarcosindacalismo è testimoniato anche da quest’altro estratto: “Il partito anarchico sognato dal Kropotkin sarebbe stato, anche se non ne avesse portato il nome, un partito anarco-sindacalista. Narra lo Schapiro: ‘E quando la discussione era sulla questione sindacale ripeteva sempre che in realtà, il sindacalismo rivoluzionario così come si sviluppava in Europa si trovava già interamente nelle idee propagate da Bakunin nella Prima Internazionale, in questa Associazione Internazionale dei lavoratori che egli amava dare come esempio di organizzazione operaia. Egli si interessava sempre più dello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario e dei tentativi degli anarco-sindacalisti russi di partecipare al movimento sindacale ed alla ricostruzione industriale del paese’” (73).

Come Kropotkin, Berneri identificava nell’anarcosindacalismo la continuazione ideale della Prima Internazionale. Precisamente: “La ricostruzione sociale anti-statale non può essere, quindi, secondo il Kropotkine, che un nuovo ordine basato su un sistema di rappresentanze e di direzioni del quale partecipi tutta la massa lavoratrice. E tanto più questa massa dispone di uno strumento proprio per sostituire al regime capitalistico  l’organizzazione economica comunista, e tale istrumento non può che essere il sindacato, tanto più è possibile che la federazione comunalista possa subentrare allo Stato” (74).

Berneri, che nell’esilio scelse di rivitalizzare e dirigere la rivista di lingua italiana “Guerra di Classe” – prima del fascismo organo dell’Unione Sindacale e col quale aveva già collaborato in Italia dal 1917 – fu molto chiaro in merito: “Il campo sindacale è diventato l’unico campo che permette  un’attività concreta. (…) La stampa anarco-sindacalista ha un riflesso costante dei bisogni, delle aspirazioni, delle lotte delle masse proletarie (…) ma quella anarchica, pura, salvo qualche rara eccezione, è generica, cioè sorda e cieca alle realtà particolari dell’ambiente sociale in cui essa vive. Il giornale di Parigi potrebbe essere fatto a New York, e quasi in nulla muterebbe. In questo fenomeno sta uno dei massimi indici della crisi dell’anarchismo puro” (75).

Il suo è un anarcosindacalismo di progetto, volano di un nuovo programma: “La maggior parte degli anarco-sindacalisti è costituita da anarchici che sono sindacalisti in quanto vedono nel sindacato un ambiente di agitazione e di propaganda più che di organizzazione classista. E ben pochi anarco-sindacalisti si sono, quindi, posti i problemi inerenti al sindacato quale cellula ricostruttiva, quale base di produzione e di amministrazione comuniste. Ancor meno numerosi sono coloro che si sono posti il problema dei rapporti fra i sindacati e i Comuni. Ancor oggi siamo al bivio, fra l’insidia del sovietismo bolscevico e l’insidia unitaria accentratrice del confederalismo socialdemocratico” (76). Un programma insieme economico e politico, nonché mirato alle diverse realtà nazionali: “Se il movimento anarchico non si decide a limitare il proprio comunismo a pura e semplice tendenzialità, a formulare un programma italiano, spagnolo, russo, ecc. a basi comunaliste e sindacaliste; a crearsi una tattica rispondente alla complessità e variabilità dei momenti politici e sociali; a sbarazzarsi, insomma, di tutti i suoi gravami dogmatici, di tutte le sue abitudini stilistiche, di tutte le sue fobie, il movimento anarchico non attirerà più la gioventù intelligente e colta, non saprà combattere efficacemente la statolatria comunista, non potrà per lungo tempo uscire dal marasma. La crisi dell’anarco-sindacalismo è la crisi dell’anarchismo. Ed io ho fede che nella corrente anarco-sindacalista più che in ogni altra è possibile trovare le possibilità di una rielaborazione ideologica e tattica dell’anarchismo” (77).

Nel proprio iter il lodigiano esprimerà il suo punto di vista praticamente su tutte le questioni dibattute nel movimento libertario internazionale.

Contro l’individualismo

 

L’individualismo nichilista verrà combattuto da Berneri con grande determinazione, in particolare nelle sue accezioni nietzschiane e superuomistiche: “Una vita di quotidiani sforzi di volontà e di quotidiane esperienze di dolore e di amore vale certo più dei sogni infingardi dei Super-uomini, che si credono tali solo perché non sanno, non vogliono essere ‘uomini’” (78).

Significativa in proposito anche l’interpretazione critica che Berneri ci fornisce del Carlyle: geni ed eroi sono il prodotto di moltitudini, eventi e tempi dai vasti e spesso anonimi confini. Non esiste alcuna giustificazione per le concezioni elitarie: i pochi sono il prodotto, la voce dei tanti che si sommano fra passato e presente. Cionondimeno, il lodigiano non sottovalutò mai la forza dell’idea e la positività del mito: “Lo studioso dall’abito di considerare la storia, è condotto ad una particolare forma di irrealismo: quella che consiste nel non vedere la funzione del mito, delle tendenze estreme, dell’assoluto” (79). Purché l’ideologia non venisse considerata sacra e intoccabile e di contro la storia non dimenticasse ugualmente il determinante apporto dei semplici ed il sacrificio della miriade degli anonimi militanti: “Il socialismo deve uscire dall’infantilismo rivoluzionario che vede posizioni nette là dove sono problemi complessi, e da quello riformista, che non capisce la funzione storica dei programmi massimi e degli imperativi spirituali. E deve convincersi delle necessità di abbinare, nella propaganda, il fascino del mito con l’evidenza della necessità, in un’armonica conciliazione di valori ideali e di interessi utilitari” (80).

 

 

Per l’organizzazione politica degli anarchici

 

Per ovvi motivi, Berneri contrastò gli antiorganizzatori. Egli era per un anarchismo capace di dotarsi di strutture forti, di metodo e di senso d’appartenenza: “Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un programma di parte” (81).

Io non vedo i pericoli dell’accentramento, dell’autoritarismo che molti vedono nell’organizzazione sempre più salda e coordinata dei nostri gruppi, delle nostre unioni provinciali, delle nostre federazioni regionali. L’atomismo individuale e dei gruppi ha mostrato di essere utile? Il nostro movimento non è per sua natura e per definizione refrattario ai cattivi influssi di una disciplina di partito male intesa? Per quali ragioni un movimento libertario può cristallizzarsi divenendo un partito e può degenerare in tutte quelle forme di autoritarismo accentratore che alcuni paventano e profetizzano?” (82).

Eppure dovette constatare che il fenomeno, apparentemente marginale, aveva – eccezion fatta forse per la Spagna – conquistato molto più spazio di quello relativo ai singoli gruppi che esprimevano un palese rifiuto teorico dell’organizzazione: “Se me la piglio con l’individualismo è perché, se la corrente individualista ha poca importanza numerica, è riuscita ad influenzare quasi tutto il movimento” (83). Berneri scorgeva nel ripudio del lavoro sindacale, nella demonizzazione della discussione finalizzata al progetto e nell’indisponibilità ad impegnarsi sul piano di una politica del quotidiano, la determinante influenza dell’individualismo: “Quasi tutti gli anarchici, ai miei occhi, sono individualisti, ottimisti e dottrinari” (84).

Va da sé che gli strali di Berneri fossero diretti contemporaneamente contro la politica del “tanto peggio, tanto meglio”, (alla quale bisogna sostituire il detto: “meglio il male attuale che uno peggiore”) (85), quanto contro ogni tentazione di defilarsi dal contatto con le masse e di allontanarsi, con pericolose “fughe in avanti”, dalla comprensione dell’uomo comune.

E’ forse solo con Camillo Berneri che si può cominciare a parlare di un esplicito spirito autocritico nella storia del Movimento Anarchico militante. Se non si fosse colta la cosa sino ad ora, si avrà certo modo di ricredersi presto. L’orizzonte critico del lodigiano scava così in profondità nel paradigma libertario, tocca così tanti argomenti, da potersi definire davvero il tentativo di rivederlo globalmente, a tratti nella ricerca di una riattualizzazione, altrove cercando di “ripulirne” l’ideologia dalle scorie sedimentate di differente provenienza, e non di rado assistiamo ad una vera e propria opera di riforma.

Se in ogni occasione siamo di fronte ad un linguaggio privo di tatticismi, davvero sempre mirato senza mezzi termini all’obiettivo (ed anche in ciò sta la grandezza e la singolarità del “caso Berneri”), dinanzi agli interrogativi ed alle questioni relative all’organizzazione abbiamo l’argomentare più diretto e meno mediato in assoluto. Il testo più emblematico in materia ha un titolo assai significativo: Il cretinismo anarchico (86), del 1935. Vi si lancia una sfida senza esclusione di colpi alle deficienze croniche  dell’anarchismo “fossile”, vale a dire a prassi ed atteggiamenti invalsi da una acquisizione superficiale dei “sacri” principi: ciò che viene colpito è

quell’insieme di rituali senza senso che caratterizzavano – ed in molte occasioni caratterizzano ancora – un certo modo di vivere il momento collettivo nello specifico anarchico. Il malinteso di una mancanza assoluta di regole, un “democraticismo” autistico e paranoide che scambia il rispetto per forzatura autoritaria, e tanto d’altro: tutti elementi che impediscono il corretto funzionamento di un’organizzazione, ne nullificano l’esistenza.

Invece, il problema del funzionamento dell’organizzazione sta molto a cuore a Berneri. Per lui la struttura non deve servire al piccolo protagonismo dei partecipanti ad un’assemblea, bensì allo  scopo per la quale esiste in ogni consesso umano ed in particolare in politica: costruire ed affinare

l’impianto onde rendere incisiva la prassi del movimento. Leggiamo questo testo: “Benché urti associare le due parole, bisogna riconoscere che esiste un cretinismo anarchico. Ne sono esponenti non soltanto dei cretini che  non hanno capito un’acca dell’anarchia e dell’anarchismo, ma anche dei compagni autentici che in esso sono irretiti non per miseria di sostanza grigia bensì per certe bizzarrie di conformazione cerebrale. Questi cretini dell’anarchismo hanno la fobia del voto anche se si tratti di approvare o disapprovare una decisione strettamente circoscritta e connessa alle cose del nostro movimento, hanno la fobia del presidente di assemblea anche se sia reso necessario dal cattivo funzionamento dei freni inibitori degli individui liberi che di quell’assemblea costituiscono l’urlante maggioranza, ed hanno altre fobie che meriterebbero un lungo discorso, se non fosse,  quest’argomento, troppo scottante di umiliazione. Il problema della libertà, che dovrebbe essere sviscerato da ogni anarchico essendo il problema basilare della nostra impostazione spirituale della questione sociale, non è stato sufficientemente impostato e delucidato. Quando, in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l’ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene delle compagne presenti o dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la ‘libertà dell’io’, ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur nero per far volare l’unico in questione fuori dal locale o la pazienza di Giobbe per spiegargli che è un cafone cretino. Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di annoiarsi mortalmente. Nelle nostre riunioni bisognerebbe stabilire la regola della condizionale libertà di parola: rinnovabile ogni dieci minuti. In dieci minuti, a meno che non si voglia spiegare i rapporti tra le macchie solari e la necessità dei sindacati o quella tra la monere haeckeliana e la filosofia di Max Stirner, si può, a meno che si voglia far sfoggio di erudizione o di eloquenza, esporre la propria opinione su una questione relativa al movimento, quando questa questione non sia di … importanza capitale. Il guaio è che molti vogliono cercare le molte, numerose, svariate, molteplici, innumerevoli ragioni, come diceva uno di questi oratori a lungo metraggio, invece di cercare e di esporre quelle poche e comprensibili ragioni che trova e sa comunicare chiunque abbia l’abito a pensare prima di parlare. Disgraziatamente accade che siano necessarie delle riunioni di ore ed ore per risolvere questioni che con un po’ di riflessione e di semplicità di spirito si risolverebbero in mezz’ora. E se qualcuno propone, estremo rimedio alla babele vociferante, un presidente, in quel regolatore della riunione che ha ancor minore autorità di quello che abbia l’arbitro in una partita di foot-ball, certe vestali dell’Anarchia vedono… un duce. Per chi questo discorso? I compagni della regione parigina che hanno, recentemente, affrontato la spesa e la fatica di recarsi ad una riunione da non vicine località per assistere allo spettacolo di gente che urlava contemporaneamente intrecciando dialoghi che diventavano monologhi per la confusione imperante e delirante, si sono trovati, ritornando mogi mogi verso le loro case, concordi nel pensare che la gabbia dei pappagalli dello zoo parigino è uno spettacolo più interessante. Quando degli anarchici non riescono ad organizzare quel problema meno difficile di quello della quadratura del circolo, di esporre a turno il proprio pensiero, un regolatore diventa indispensabile.

Questa è quella che io chiamo l’auto-critica. Ed è diretta a tutti coloro che rendono necessario un regolatore di riunioni anarchiche. Cosa che è ancora più buffa di quello che pensino coloro che se ne scandalizzano. Molto buffa e molto grave. E grave perché resa, molte volte, necessaria proprio là dove dovrebbe essere superflua”.

Il ruolo dell’organizzazione specifica è ben preciso per Berneri. Nel testo Risposta ad una consultazione sui compiti immediati e futuri dell’anarchismo (87), egli accenna a critiche e suggerimenti: “L’organizzazione (l’Unione Anarchica Italiana) ha vissuto poco, ma qualche anno di vita sarebbe bastato, se fosse esistita tra noi una costante ed intelligente volontà rivoluzionaria, a fare di essa un organismo di combattimento capace di agire con coordinazione e simultaneità, anche fuori dei quadri sindacali ed indipendentemente dai fronti unici, che si risolsero in bluff. Si consumarono energie insurrezionali in sporadiche azioni e si perdettero ottime occasioni (…) le esperienze del passato non vanno dimenticate. E la diagnosi dei nostri mali e delle nostre deficienze va accompagnata alla ferma volontà di un rinnovamento”.

E’ un altro, ancor più forte, richiamo all’organizzazione come veicolo della politica, capace di concentrare ed applicare le forze ed al tempo stesso di rigenerarsi e rielaborare: un vero e proprio laboratorio di idee, capace di essere al tempo stesso fabbrica e motore di esperienze.

Berneri è molto infastidito dai continui attacchi alla logica organizzativa. Già nell’agosto del 1922 interviene nel dibattito, molto contrariato dalle invettive strumentali lanciate contro l’appena nata Unione Anarchica Italiana: “(…) Vediamo, piuttosto, se ha ragione lo Cizeta a scrivere che gli anarchici italiani ‘costituendosi in partito e centralizzandosi negli organi e nelle commissioni di corrispondenza dell’Unione Anarchica Italiana, si sono allontanati dalle folle’. (…) Dov’è la centralizzazione? Forse nella Commissione di Corrispondenza? Essa è una Commissione (in cui v’è un solo indennizzato) incaricata dai singoli gruppi, di prendere iniziative di carattere generale: come manifesti nazionali, partecipazione a convegni con altri partiti di sinistra, ecc. La sua opera si limita a ricevere e trasmettere comunicati, somme di denaro, ecc. quando i gruppi abbiano bisogno, per questo, di lei. Altrimenti tutta la vita del movimento si svolge senza che sia avvertita l’esistenza di questa Commissione che ha tanto impressionato alcuni fegatosi critici per scopi personali e voi che, vivendo lontano non sapete come stanno le cose. Non vi avrei scritto se non credessi dannosi al nostro movimento questi contrasti che sono creati artificiosamente e non hanno alcuna ragione di esistere.

Piuttosto che sprecare lo spazio dei nostri giornali a fare critiche che non hanno base seria, intensifichiamo la nostra propaganda al di fuori ed al di sopra delle piccole sfumature di tendenza. Avrei preferito scrivere sul vostro giornale di altri argomenti, ma ho creduto necessario chiarire un equivoco che minaccia di prolungarsi, tutto a scapito del movimento nostro” (88).

In Considerazioni sul nostro movimento (89), Berneri non disdegna di usare il termine “partito”. La cosa è significativa, anche se si tratta della medesima accezione usata talvolta pure da Malatesta. La questione di una unione precisa dell’anarchismo organizzatore, sebbene all’epoca più sentita all’interno della tendenza maggioritaria, era comunque affatto scontata: “(…) Sul tappeto della discussione rimane la questione della costituzione del nostro movimento a partito. Occorre, per questa come per tutte le altre questioni, stabilire il valore delle parole, dando loro un significato ben definito, per evitare le eterne ed inutili discussioni pro e contro. Si può ripetere oggi quello che Epicuro – mi si conceda una citazione che puzza d’antico – diceva in una sua epistola ad Erodoto: «Convien rendersi conto del significato fondamentale delle parole, per poterci ad esse riferire come criterio nei giudizi o nelle indagini o nei casi dubbi: se no, senza criterio procederemo all’infinito nelle dichiarazioni o useremo parole vuote di senso». Che cosa intendiamo per partito? Qual è il calore, quali i limiti, quale la missione? (…) Io credo alla necessità di consolidare le nostre forze, associandole e coordinandole, ma riconosco che molte e contrastanti correnti scorrono in seno al nostro movimento riguardo a questa questione (…)”.

In un altro testo, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri (90), il lodigiano aggredisce il problema con ancor maggiore veemenza: “(…) Siamo immaturi. Lo dimostra il fatto che s’è discussa l’Unione Anarchica sottilizzando sulle parole partito, movimento, senza capire che la questione non era di forma, ma di sostanza, e che quello che ci manca non è l’esteriorità del partito, ma la coscienza del partito (…)”. Berneri ci dice subito a cosa si riferisca: “Che cosa intendo per coscienza di partito? Intendo qualche cosa di più del lievito passionale di un’idea, della generica esaltazione di ideali. Intendo il contenuto specifico di un programma di parte” (91).

Sta evidentemente parlando di un’unità teorica e strategica, nonché di un necessario “senso di appartenenza”. Due cose che difettano molto nel movimento anarchico: la prima per carenza di programma, soprattutto in ambito strategico e tattico, la seconda per un malinteso senso di assoluta indipendenza individuale di fronte all’organizzazione. Questa è sicuramente un corpo collettivo, ed in quanto tale ogni suo membro, pur libero in coscienza, ne è parte, e deve ugualmente sentirsi interno ad un’entità plurima e plurale che unifica. Altrimenti non avrebbe senso parlare di organizzazione. La libertà individuale è quindi libertà di dissenso, ma mai senso di nonappartenenza. La differenza fra le due cose non è secondaria. La libertà di dissenso è garantita dalle regole, ma le regole sono di tutti e per tutti. Non sono valide a seconda della “giornata e dell’umore”. Una decisione può essere contrastata, ma deve, comunque, venire riconosciuta come la decisione della maggioranza, perché questa è la regola di ogni associazione umana. L’anarchismo non sfugge quindi alla democrazia: deve semmai essere democratico sino all’estremo limite, ma questo non può significare mettere in discussione la democrazia stessa. Si può arrivare all’estrema ratio di non rendere obbligatoria l’applicazione delle decisioni per chi non ha contribuito a prenderle, ma mai si può negare l’obbligo, almeno d’onore, di accettarle come scelte della maggioranza e quindi dell’organizzazione o quello di rimanere leale alla stessa.

 

 

Berneri ed Arcinov

 

Il dibattito sull’organizzazione diverrà assai attuale fra gli anarchici negli anni ‘20, dopo la deriva autoritaria della rivoluzione russa e la marginalizzazione del movimento libertario in quel paese, dovuta anche a deficit organizzativi palesi denunciati dalla maggioranza degli anarchici ucraini che avevano resistito militarmente all’armata rossa dopo che da questa erano stati abbandonati, traditi ed attaccati alle spalle durante le invasioni dei reazionari bianchi e dopo che la rivoluzione in Ucraina era stata assolutamente opera loro. Questi, data vita al gruppo “Dielo Truda”, proposero una Piattaforma per la ricostituzione dell’anarchismo organizzato che propugnava la cosiddetta “responsabilità collettiva” e l’unità tattica e teorica per una rifondazione dell’organizzazione libertaria.

Anche Berneri esprime critiche alle insufficienze di struttura dell’anarchismo russo (92): “Un altro errore è quello di non aver tenuto conto del fatto che tra lo scoppio della rivoluzione (…)” e la presa del potere da parte dei bolscevichi c’è stato un significativo lasso di tempo con “(…) libero gioco fra i partiti” durante il quale il movimento anarchico “(…) s’è esaurito e i partiti di sinistra hanno dimostrato di non essere all’altezza della situazione”. Nello stesso articolo, il lodigiano riconosce che, nonostante: “Criticare i criteri ed i metodi del partito comunista russo, illustrare gli errori e gli orrori del governo bolscevico”, fosse per gli anarchici un preciso “(…) dovere ed un diritto, poiché nel fallimento del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma delle nostre teorie libertarie”, di fatto inizialmente vi fu il silenzio a causa del “(…) fascino rivoluzionario” (93) esercitato dalla Russia. Ed ammette che la denuncia cominciò per contrastare “(…) lo scimmiottamento di tutti i criteri tattici e la pedissequa imitazione di tutti i punti programmatici di Lenin e compagni” (94), aggiungendo: “Ci trovammo nella necessità di non più tacere ciò che era ormai rivelato dalla stampa socialista e nella necessità di opporci a quella propaganda giacobina che dilagava tra le masse, pregiudicando quello che noi riteniamo il giusto indirizzo rivoluzionario. A tutto questo si aggiunse la reazione anti-anarchica del governo di Mosca e la convinzione che la politica dei bolscevichi russi portasse ad un ripiegamento rivoluzionario in Russia e nell’Occidente” (95).

È evidente il senso di una riflessione amara, che denuncia col senno di poi i guasti prodotti dall’appiattimento di molti anarchici nella prima fase dell’affermarsi del potere sovietico, un favore che i bolscevichi ricambiarono con una spietata repressione.

Il motivo del contendere, a proposito della piattaforma del gruppo Dielo Truda, era relativo sia alla prassi organizzativa che a quella politica. E Berneri è sempre stato schierato per una più seria ricostruzione di entrambi gli elementi. Ci saranno però due cose che ad un certo punto lo faranno sobbalzare.

In primis, l’eccesso di zelo di uno dei massimi esponenti del gruppo “revisionista” russo: quel Pietro Arcinov che era stato il braccio destro di Nestor Mackhno, il principale fautore della rivoluzione anarchica in Ucraina. Arcinov, contrariamente a quanto avvenuto per gli altri, deciderà nel giugno del 1935 di tornare in Russia dall’esilio francese al quale era stato costretto come tutti per le persecuzioni dell’armata rossa e di aderire, nel pieno dello stalinismo, al partito comunista sovietico. A quel punto, in una lettera aperta del 5.10.1935, Due parole a Pietro Arcinov (96), Berneri stigmatizzerà brutalmente la posizione del russo: “(…) se ero preparato all’abiura, non ero preparato – nonostante non vi abbia mai considerato, come oggi vi presenta la stampa bolscevica, «uno dei più notevoli ideologi dell’anarchismo» – alla miseria delle giustificazioni, alla tendenziosità delle critiche, alla volgare demagogia delle sconfessioni dei vostri giudizi di un passato non ancora remoto. (…) Mentre, in nome del fallimento della dittatura proletaria nell’URSS, dei bolscevichi hanno dato e danno la libertà o la vita, voi, neobolscevico, vi affrettate ad agitare il turibolo di fronte allo Czar Stalin, e proprio in un momento politico in cui il possibilismo bolscevico sta degenerando nell’opportunismo il più governamentale e il più nazionalista.

Quando Francesco Saverio Merlino si allontanò dall’anarchismo, credette giustamente che fosse dovere di dignità di pensatore e di scrittore giustificare seriamente il suo nuovo atteggiamento. Quello che voi scrivete a giustificazione vostra e ad incitamento agli anarchici a seguirvi è di una povertà pietosa e di una volgarità disgustevole.

La vostra Piattaforma del 1926 ha contribuito a scindere il movimento anarchico polacco e quello bulgaro, e tanto in Polonia che in Bulgaria i secessionisti piattaformisti sono finiti in grembo al bolscevismo o alla socialdemocrazia. (…) Lo stesso Mackhno che agli estranei del movimento anarchico ucraino pareva essere unito a voi da una profonda comunità di idee, vedeva nel vostro piattaformismo una deviazione bolscevizzante. Mackhno era anarchico; ed è per questo che, non sperando adescarlo e sapendolo tenacemente coerente nemico, la stampa bolscevica lo ha sistematicamente diffamato in Russia e fuori di Russia.

Voi siete, inserito nel regime bolscevico, un suicida. Non avete altro ruolo che non sia quello dell’anarchico ricreduto. Quando attaccherete noi, tutte le Pravda e tutte le Isvestia vi saranno aperte. Ma se un po’ del lievito rivoluzionario, anche un minimo residuo, è restato nel vostro cervello e vorrete esprimere opinioni non consone a quelle del dittature e dei suoi luogotenenti, finirete come Sandomirsky. Il bivio aperto dinanzi a voi è questo: o insignificante inserito, destinato a confondersi nel grigio totalitario del regime o oppositore ben presto costretto a meditare su quanto e su come il regime bolscevico sia una dittatura proletaria. Questa seconda strada vi salverebbe dal fallimento della vostra personalità. (…) Eravate al di sopra della vostra abiura, Arcinov. Vi è modo e modo di andarsene dalla nostra casa. Voi ne siete uscito sbattendone le porte e vociferando come un ubriaco. E questo modo di uscire porta disgrazia, perché è di per sé un segno di decadenza intellettuale e morale”.

Purtroppo per Arcinov, il nostro fu buon profeta: il russo, dopo essere stato spremuto come un limone a fini propagandistici, verrà, di lì a poco, spietatamente epurato dal regime sovietico.

Arcinov era caduto nel versante opposto della critica che aveva espresso: avviando con altri una comprensibile critica all’anarchismo rispetto all’ambito organizzativo, era scivolato tragicamente nell’imitazione dell’avversario politico, quel bolscevismo che una ristrutturazione seria dell’anarchismo avrebbe messo in grande difficoltà. Questo, perché succube del plagio dei “vincitori”, cosa che gli aveva fatto dimenticare le ragioni dell’anarchismo. Ma succube anche del mito frontista, contrastato da Berneri in Spagna (e non solo) (97), nonché del politicismo senza scrupoli, tipico del bolscevismo. Peraltro, questo malinteso spirito d’unità, pure in campo sindacale (ove la scelta di formare un’organizzazione libertaria verrà sacrificata spesso alla militanza nel sindacato comunista) e filo-consiliarista, divenuto paradossalmente un indistinto, spontaneo embrasson nous (concepito fra mitiche “basi” popolari “autonome”), risulterà anche successivamente un difetto dei cosiddetti “arcinovisti” (di quanti cioè continuarono a seguire le

indicazioni della Piattaforma dopo la morte di Arcinov).

Infine, la seconda questione: la Piattaforma non poteva essere accettabile laddove portava – appunto copiando l’opportunismo marxista in politica – verso l’assurdo della cosiddetta “dittatura antistatale del proletariato”. Una sorta di periodo “transitorio” utilizzante ovviamente l’apparato statuale in termini totalitari: una sorta di pre-anarchismo negante la radice dell’anarchismo. Questo era inusitato, soprattutto per Berneri, che vedeva nella concezione antistatale l’elemento discriminante prioritario dell’anarchismo politico. Anche se per il lodigiano si tratta di un antistatalismo mai immotivato o dottrinario, bensì riconosciuto come base ineludibile per costruire una società di liberi ed eguali, proprio tramite la crescita e la vittoria della società civile a scapito delle impalcature autoritarie costruite per mantenere o ricreare il dominio di classe. Lo scontro fra il lodigiano ed i cosiddetti piattaformisti non è quindi ascrivibile alla questione organizzativa relativa al movimento specifico, rispetto alla quale moltissime sono le prese di posizione a favore di una maggiore strutturazione del movimento libertario negli scritti che abbiamo analizzato.

Non è certo la questione della “responsabilità collettiva”, la “pietra dello scandalo”. Berneri ha addirittura una concezione “etica”   della organizzazione, e in nome dell’integrità della struttura diviene a volte durissimo (98). Semmai, il nostro, rimprovera ai piattaformisti un inalterato eccesso di ingenuità dovuto, ancora una volta, all’idealizzazione delle masse. Vediamo, in proposito, il testo In margine alla piattaforma (99): “(…) nell’azione popolare insurrezionale vedo più «effetti» anarchici che «intenti» anarchici; non credo che la funzione degli anarchici nella rivoluzione debba limitarsi «a sopprimere gli ostacoli» che si oppongono alla manifestazione della volontà delle masse; vedo gravi pericoli e non poche difficoltà negli egoismi municipalisti e corporativi”.

Ed ecco di nuovo la critica del “semplicismo” di Kropotkin, inaccettabile per Berneri e da lui chiamato ancora in causa a proposito di un’ennesima, malintesa “santificazione” dell’azione popolare: “Il «Mir» con i suoi anacronismi, il Comune medioevale autoritario nella sua intima struttura, l’anarchismo comunalista delle masse popolari della Rivoluzione francese, gli apparivano, giustamente, forze innovatrici libertarie, moderne, in funzione storica di anti-Stato. Ma quando si trasportò sul terreno politico e guardò all’avvenire, Kropotkin sublimò le masse. Crollato lo stato, ci vuole una potenza ricostruttrice che ne riprenda e ne perfezioni le funzioni vitali, pubbliche. Kropotkin (la) sostituì (con): l’iniziativa popolare. Questo genio collettivo, questa volontà proteiforme ed armonica insieme, non ha soste e ricorsi. È satura di anarchismo. Gli anarchici posson confondersi in essa, che non fa che moltiplicare i loro sforzi, non fa che attuare le loro idee. Tutt’al più non c’è che da levare in alto una bandiera, da additare qualche ostacolo o lanciare una idea. Tutt’al più non c’è che da respingere il tentativo dei giacobini di pilotare l’azione popolare” (100).

Berneri vuole un progetto chiaro, capace di indicare concretamente la strada dell’organizzazione sociale dopo la rivoluzione, mentre i piattaformisti continuano ad affidarsi al cosiddetto “spirito costruttivo delle masse”. Queste sono paradossali analogie con l’impostazione kropotkiniana. Ma, meglio ancora sarebbe il dire che si tratta di indubbie influenze consigliariste (marxiste nella forma e populiste nella sostanza): “Kropotkin, storiografo ed etnologo, vide, in potenza, l’anarchismo integrale nell’anarchismo relativo delle masse in rivolta o nelle masse viventi fuori dell’orbita statale. Con ingenuo ottimismo proiettò il secondo nella rivoluzione sociale avvenire, e credette che tutto dovesse svolgersi non per una serie di esperienze, più o meno fortunate, ma per un «fiat»“ (101).

In ultima analisi, la necessità di un’organizzazione strutturata viene vista da Berneri come ineludibile, ma a patto che sia utile all’elaborazione di un progetto serio, non l’ennesimo appiattimento strategico di natura ideologica, che non è capace di differenziare la tattica relativamente alle esigenze. Il lodigiano vuole di più di un organismo strutturato, vuole che la capacità di intervenire in modo sincronico derivi da elaborazioni ed acquisizioni convinte, non da un semplice ed inutile conformismo di partito fine a se stesso. Per questo, nel piattaformismo, critica la “tattica unica”: “(…) Bisogna uscire dal romanticismo. Vedere le masse in modo, direi, prospettico. Non c’è il popolo, omogeneo, ma folle varie, categorie. Non c’è la volontà rivoluzionaria delle masse, ma momenti rivoluzionari, nei quali le masse sono enormi leve. (…) «Tattica unica» vuol dire tattica uniforme e continua. Alla «tattica unica» la «Piattaforma» è portata dalla semplificazione del problema dell’azione anarchica in seno alla rivoluzione. Se vogliamo arrivare ad una revisione potenziatrice della nostra non piccola forza rivoluzionaria, bisogna che sbarazziamo il terreno dagli apriorismi ideologici e dal comodo rimandare al domani l’impostazione dei problemi tattici e ricostruttivi. Dico ricostruttivi perché è nelle tendenze conservatrici delle masse il pericolo maggiore dell’arresto e delle deviazioni della rivoluzione” (102).

Se vi fossero ancor dubbi, va detto che è semmai proprio rispetto al profilo organizzativo che Berneri non usa mai mezzi termini. Contrariato dal timore reverenziale di tanti anarchici, avversi per partito preso alla strutturazione del movimento, la ritiene, al contrario, del tutto necessaria.

Nessuna paura della revisione: giudizi di fatto e giudizi di valore

 

Per inseguire e determinare un progetto anarchico capace di affermarsi sul piano politico, Berneri non esitò neanche di fronte alla solitudine: “(…) solissimo arrabbiandomi per far sì che gli anarchici siano qualche cosa di meglio degli eterni chiacchieroni ipercritici ed utopisti (…)” (103). “Chi dice chiaramente il proprio pensiero senza cercare applausi e senza temere le collere è l’uomo della rivoluzione” (104).

Lo confortava una frase di Malatesta, il cui ritaglio (sistema di raccolta e catalogazione molto usato da Berneri), conservava gelosamente: “Chi non si sente più anarchico si ritira da sé, in maniera più o meno franca ed elegante; e chi si sente anarchico resta tale anche se nell’interpretazione tattica dell’anarchismo fosse il solo della sua opinione” (105).

Il lodigiano nobilita il “revisionismo” in campo anarchico: “Non temiamo quella parola revisionismo, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come ai dogmi. L’autoritarismo ideologico dell’ ipse dixit non lo riconosciamo che come canovaccio di comuni motivi ideali, non come schema da svilupparsi in pure e semplici volgarizzazioni” (106).

E’ ancora la figlia di Luigi Fabbri a scrivere: “(…) caratteristica principale che si libera chiaramente da tutti i suoi scritti: l’indipendenza di giudizio di fronte ai ‘Padri della Chiesa’, sarebbe a dire ai pensatori consacrati. Egli aveva in orrore il termine ‘ortodossia’” (107).

Sua convinzione basilare è non avere principi inamovibili: “Lo confermo: a me il richiamo ai principi non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni. (…) Io ho dei principi e tra questi vi è quello di non mai lasciarmi impressionare dal richiamo ai principi. (…) L’uomo che ‘parte da principii’ adotta il ragionamento deduttivo, il più infecondo e il più pericoloso. L’uomo che parte dall’esame dei fatti per giungere alla formulazione di principii adotta il ragionamento induttivo: che è l’unico veramente razionale” (108).

Berneri contrasta con vigore: “(…) la gretta e pigra mentalità di molti compagni che trovano più comodo ruminare il verbo dei maestri che affrontare i problemi vasti e complessi della questione sociale quale si presenta oggi” (109).

Contro la religione della scienza

Berneri critica il positivismo, come rivela questa frase contenuta in un intervento di natura filosofica che esprime anche personali tensioni emotive: “respingerò, dunque, qualsiasi verità sulla materia. E fino a quando la materia rimarrà per me un mistero, in quel mistero vi è posto per Dio”.

Ma la valenza politica dello stesso, già dal titolo, non lascia alcun dubbio: “Irrazionalismo e anarchismo”. Si tratta di un testo molto importante, nato come risposta nel mezzo di un dibattito nel corso del quale Berneri fu critico sull’ateismo: “Tutti i ragionamenti dell’ateismo sono di una presunzione enorme e mi sembrano altrettanto assurdi dei ragionamenti del teismo. Irrazionalista, l’anarchico non sarebbe ateo bensì agnostico. E sarebbe il solo modo di essere razionale. Diffidenza verso il si sa dello scienziato; nessuna concezione universale del mondo, agnosticismo di fronte al problema religioso” (110).

Lo aveva già detto, usando delle citazioni, in termini ugualmente efficaci ma forse più “morbidi” ed allusivi, in un altro intervento (111): “Henri Poincaré ha potuto scrivere che «il mondo, che due secoli or sono si credeva relativamente semplice, diventa sempre più oscuro ed indecifrabile» proprio perché viveva in un’era di grande sviluppo scientifico. Ed il Pasteur diceva in un suo discorso: «Colui che proclama l’esistenza dell’infinito – e nessuno vi può sfuggire – accumula in questa affermazione più di soprannaturale di quel che ve ne sia in tutti i miracoli di tutte le religioni»“.

Ma il contributo sull’Irrazionalismo, come ben si può capire, non riguardava certo solo questo punto: “Il razionalismo conduce all’utopismo autoritario, al giacobinismo, alla mistica industrialista. Chi parla di verità proprie e di pregiudizi altrui è incline a sopprimere con la forza le ‘ragioni’ divergenti. (…) La pretesa di possedere la verità conduce a tutti gli eccessi autoritari. (…) La Città del sole dei filantropi autoritari è una specie di enorme gabbia dorata nella quale questi maniaci vorrebbero far entrare l’intera umanità” (112). Viene quindi posta in discussione qualsiasi presunzione dottrinaria basata sic et simpliciter sul raziocinio positivista, sullo scientismo manicheo e materialista che s’era fatto ideologia ed aveva arruolato anche gli anarchici, per analoghi ed altri versi già vittime di un altrettanto pericoloso semplicismo.

A dimostrazione delle difficoltà che il lodigiano aveva rispetto all’ambiente libertario, va detto che il testo rimase inedito, rifiutato dal giornale per il quale era concepito: “L’Adunata dei Refrattari”, di New York. Uscì postumo ed incompleto su “Volontà” solo nel 1952.

Per la tolleranza

 

Contro la violenza dei totalitarismi ed a favore della tolleranza come dato distintivo dell’anarchismo, Berneri ha scritto passi memorabili: “La tolleranza ha, dunque, due piani di possibilità: quello intellettuale e quello morale. Quanto al primo è tollerante colui che conoscendo il valore dello scambio di idee, della loro fusione o contrasto, non respinge aprioristicamente le ideologie altrui, ma si accosta ad esse e tenta penetrarle; per trarne ciò che vi è di buono (…). Quanto al secondo è tollerante colui che, pur avendo fede in un gruppo di principi e sentendo profondamente la passione di parte, comprende che altri, per il loro carattere, per l’ambiente in cui vivono, per l’educazione ricevuta ecc., non partecipa alla sua fede e alla sua passione. La distinzione tra il male e il malvagio, tra la tirannide e gli oppressori è scolastica, e chi concepisce la vita come lotta per il bene e per la libertà deve combattere coloro che intralciano la sua opera di redenzione. Ma il suo spirito, pur negando come formalistica la distinzione sopraccennata nei riguardi del problema morale dell’azione, giunge a combattere senza l’odio bruto che non sa la pietà (…). E a svolgere quest’azione di tolleranza, con la propaganda e con la forza, dobbiamo essere noi. I comunisti hanno una mentalità domenicano-giacobina, i socialisti riformisti sono dei De Amicis che si perdono in un impotente sentimentalismo. Noi possiamo abbinare la violenza e la pietà, in quell’amore per la libertà che ci caratterizza politicamente ed individualmente. La tolleranza è un concetto squisitamente nostro, quando non si intenda con questo termine  il menefreghismo (113).

Umanesimo e anarchismo

 

Alla tolleranza va avvicinato l’umanesimo profondo “ereditato” da Malatesta: “Malatesta è stato sempre profondamente umano, anche verso i poliziotti che lo sorvegliavano. Una notte fredda e piovosa, in Ancona, egli sapeva che un questurino era là alla porta, ad inzupparsi e a battere i denti per adempiere il proprio compito. Andare a letto compiacendosi di sapere il segugio nelle peste sarebbe stato naturale, ma non per Malatesta, che  scese alla porta ad invitare il questurino a scaldarsi un po’ e a bere un caffè. Passarono gli anni, tanti anni. Una mattina, in piazza della Signoria, a Firenze, Malatesta riceve un buon giorno, signor Errico’ da un vecchio spazzino municipale. (…) Gli domanda chi sia e quegli gli dice: ‘Sono passati tanti anni. Si ricorda quella notte che io ero alla sua porta…’. Era quel questurino, che serbava in cuore il ricordo di quella gentilezza come si conserva tra le pagine di un libro il fiore colto in un giorno soleggiato dalla gioia di vivere. Malatesta, nel raccontare quell’incontro, aveva un sorriso di dolce compiacenza, quello stesso sorriso con cui Gori respingeva l’insistente offerta di portargli la valigia, pesante di lastre da proiezione, dei poliziotti che, nel corso delle sue tournées di conferenze, lo attendevano alla stazione. (…) Soltanto chi vede in ogni uomo l’uomo, soltanto costui è umanista. L’industriale cupido che nell’operaio non vede che l’operaio, l’economista che nel produttore non vede che il produttore, il politico che nel cittadino non vede che l’elettore: ecco dei tipi umani che sono lontani da una concezione umanista della vita sociale. Egualmente lontani da quella concezione sono quei rivoluzionari che sul piano classista riproducono le generalizzazioni arbitrarie che nel campo nazionalista hanno nome xenofobia. Il rivoluzionario umanista è consapevole della funzione evolutiva del proletariato, è con il proletariato perché questa classe è oppressa, sfruttata ed avvilita ma non cade nell’ingenuità populista di attribuire al proletariato tutte le virtù e alla borghesia tutti i vizi e la stessa borghesia egli comprende nel suo sogno di umana emancipazione” . (…) Niente dittature, né del cervello sui calli, né dei calli sul cervello, ché ogni uomo ha un cervello e il pensiero non sta nei calli”. (…) Dittatura del proletariato è concetto e formula d’imperialismo classista, equivoca ed assurda. Il proletariato deve sparire, non governare (…). Che cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc.. (…) La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore” (114).

La verve antidottrinaria di Berneri, quindi, non fu certo rivolta solo contro i “dogmi” dei “maestri” dell’anarchia, per i quali, peraltro, conservò sempre, pur nella polemica, profonda considerazione, bensì contro tutti i luoghi comuni della “vulgata” di una certa sinistra.

 

Il revisionismo marxista

 

Berneri sviluppa un’altra delle vecchie questioni indicate da Bakunin. Puntando tutto sull’economico e considerando la cultura come “sovrastrutturale”, il potere sarà ancora una volta nelle mani di epigoni borghesi, naturali detentori degli arnesi del sapere atti a gestire la cosa pubblica, o dell’aristocrazia operaia, patrimonio quindi di un nuovo ceto tecnoburocratico giunto a dominare grazie all’infingimento della dittatura “proletaria”. In sostanza, non basta abolire la proprietà privata, se si crea una nuova struttura di dominio (connaturata allo stato), perché, tramite il monopolio del sapere, rimarrà il monopolio della conduzione del bene pubblico, amministrato da pochi sebbene nel nome di tutti. Evidentemente, il monopolio, anche economico, nelle mani dello stato, e la dittatura del partito unico rendono impossibile lo sviluppo della società in senso autogestionario: “Egualmente formalista è l’affermazione della necessità di un massimo concentramento del potere economico e politico dello Stato, come se il massimo concentramento avesse di per se stesso potere regolatore, virtù d’innovazione positiva, e non fosse, invece, il massimo accentramento statale passibile di dare una progressione geometrica agli errori dei governanti” (115).

Per Berneri, che lo stato sia la causa scatenante delle classi: “appare evidente dagli studi degli stessi marxisti quando siano degli studi seri, come quello di Paul Louis su Le travail dans le monde romain (Parigi 1912). Da questo libro risulta chiaramente che il ceto capitalista romano si è formato come parassita dello Stato. Dai generali predoni ai governatori, dagli agenti delle imposte alle famiglie degli argentari, dagli impiegati della dogana ai fornitori dell’esercito, la borghesia romana si creò mediante la guerra, l’intervenzionismo statale nell’economia, il fiscalismo statale, ecc., ben più che altrimenti. E se esaminiamo l’interdipendenza tra lo Stato e il capitalismo, vediamo che il secondo ha largamente profittato del primo per interessi statali e non nettamente capitalistici. Tanto è vero questo, che lo sviluppo dello Stato precede lo sviluppo del capitalismo. L’Impero Romano era già un organismo vastissimo e complesso quando il capitalismo romano era ancora alla gestione familiare. Paul Louis, non esita a proclamare: ‘Il capitalismo antico è nato dalla guerra’. I primi capitalisti furono, infatti, i generali ed i pubblicani. Tutta la storia della formazione delle fortune è storia nella quale è presente lo Stato. E’ da questa convinzione che lo Stato è stato ed è il padre del capitalismo e non soltanto il suo alleato naturale che noi deriviamo la convinzione che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non della disparizione delle classi e della non-rinascita di esse” (116).

Il lodigiano si scontra violentemente con il bolscevismo, considerando insieme impropri e mortali per il movimento socialista l’eliminazione del pluralismo ed il dominio del partito unico. Cosa che non perdona a Lenin e a Stalin, ma neppure a Trotskij, condannandone l’involuzione militarista e la disinvoltura politica: “Trotsky in atteggiamento di san Giorgio in lotta con il drago stalinista non può fare dimenticare il Trotsky di Kronstadt” (117).

Berneri svela inesorabilmente il legame profondo fra i dettami del marxismo ed i suoi epigoni, nessuno escluso, neppure quelli che denunciano la “burocratizzazione” del sistema sovietico. Infatti l’errore sta all’origine: “(…) se la diagnosi opposizionale è quasi sempre esatta, l’etiologia opposizionale è quasi sempre insufficiente. (…) Scagliarsi contro gli effetti senza risalire alle cause, al peccato originale del bolscevismo (dittatura burocratica in funzione di dittatura del partito) vale semplificare arbitrariamente la catena causale che dalla dittatura di Lenin giunge a quella di Stalin, senza profonde soluzioni di continuità” (118).

I marxisti sono i giacobini del socialismo e se Stalin è Napoleone, Lenin è Robespierre: “Chi dice «Stato proletario» dice «capitalismo di Stato»; chi dice «dittatura del proletariato» dice «dittatura del Partito Comunista»; che dice «governo forte» dice «oligarchia zarista» di politicanti. Leninisti, trotskisti, bordighisti, centristi non sono divisi che da diverse concezioni tattiche. Tutti i bolscevichi, a qualunque corrente o frazione essi appartengano, sono dei fautori della dittatura politica e del socialismo di Stato. Tutti sono uniti dalla formula: «dittatura del proletariato», equivoca formula corrispondente al «popolo sovrano» del giacobinismo. Qualunque sia il giacobinismo, esso è destinato a deviare la rivoluzione sociale. E quando questa devia, si profila l’ombra di un Bonaparte. Bisogna essere ciechi per non vedere che il bonapartismo stalinista non è che l’ombra fattasi vivente del dittatorialismo leninista” (119).

Nell’illusoria “scientificità” del meccanicismo economicista, nella subordinazione di ciò che è affatto “sovrastrutturale”, nel machiavellismo spregiudicato sempre pronto alla “conversione” dei principi a seconda della convenienza del momento, nella riduzione della libertà a “concetto borghese”, il marxismo teorizzato ed applicato tradisce tutti i suoi vizi.

Berneri denuncia di concerto la discriminazione del “popolo non operaio” ed all’interno di questo verso le masse contadine, peraltro a volte più combattive di quelle industriali: “Durante la settimana Rossa i centri industriali si mantennero fermi. Durante l’agitazione interventista, i centri industriali furono al di sotto delle campagne nelle manifestazioni antiguerresche. Durante le agitazioni del dopo-guerra i centri industriali furono i più lenti a rispondere. Contro il fascismo nessun centro industriale insorse come Parma, come Firenze e come Ancona, e la massa operaia non ha dato alcun episodio collettivo di tenacia e di spirito di sacrificio che eguagli quello di Molinella. Gli scioperi agrari del modenese e del parmense rimangono, nella storia della guerra di classe italiana, le sole pagine epiche. E le figure più generose di organizzatori operai le hanno date le Puglie. Ma tutto questo è misconosciuto. Si scrive e si parla dell’occupazione delle fabbriche, e quella delle terre, ben più grandiosa come importanza, è quasi dimenticata. Si esalta il proletariato industriale, mentre ognuno di noi, se ha vissuto e lottato nelle regioni eminentemente agricole, sa che le campagne hanno sempre alimentato le agitazioni politiche d’avanguardia delle città e hanno sempre dato prova, nel campo sindacale in ispecie, di generosa combattività” (120).

Per il lodigiano, sono sbagliate ed ingiuste le discriminazioni aprioristiche anche contro il ceto medio e medio-basso: “(…) La realtà è la classe sfaccettata in ceti, la classe eterogenea socialmente e psicologicamente” (121).

Tutti gli uomini hanno bisogno di essere redenti da altri e da se stessi. Il proletariato è stato, è e sarà più che mai il fattore storico di questa universale emancipazione. Ma lo sarà tanto più quanto meno sarà fuorviato dalla demagogia che lo indora e ne diffida, che lo dice Dio per trattarlo da pecora, che gli pone sul capo una corona di cartapesta e lo lusinga perfidiosamente per conservare, o per conquistare, su di lui il dominio” (122).

Per il lodigiano, il marxismo diviene parodia di se stesso quando, con presunta “scientificità”, condiziona lo sviluppo umano allo sviluppo dell’industrialesimo: “(…) la teoria della concentrazione del capitale si ridurrebbe ad un errore teorico che non intaccherebbe la solidità del marxismo se non avesse assunto, nella forma rivoluzionaria, il valore della previsione: separazione profonda tra le classi e conseguente cozzo finale (…); nella forma social-democratica, della previsione: conquista completa dello Stato da parte del proletariato per mezzo del parlamento. Quest’ultima revisione da tempo non ha ripercussione politica notevole, ma la prima si è trasformata in quella idolatria della grande industria come condizione necessaria del socialismo” (123).

Tale convinzione, che ha fatto del marxismo una “energia collaterale” nell’opera di spoliazione delle società cosiddette “primitive” (e non statali) e nella devastazione dell’ambiente, ha esportato anche a sinistra il mito del produttivismo, finendo, col bolscevismo e lo stalinismo, alla

ben nota farsa consistita nell’esaltazione dello stakanovismo.

Dovere del lavoro e diritto all’ozio

Berneri, pur fautore di una “rivoluzione culturale” ed economica in grado di eliminare l’anomia indotta dalla ruolizzazione del lavoro e dai miti del produttivismo acquisiti anche nel campo socialista (124), si preoccupò di ragionare sul modo affinché in una società liberata il lavoro venisse accettato come un dovere di tutti: “Un grande numero di anarchici oscilla tra il diritto all’ozio e l’obbligo del lavoro per tutti, non riuscendo a concepire una formula intermedia, che mi pare potrebbe essere questa: nessun obbligo di lavorare, ma nessun dovere verso chi non voglia lavorare” (125).

Cionondimeno, l’operaismo è per il lodigiano una deviazione ipocrita e pericolosa, dietro la quale spesso si celano anche forme di corporativismo invalse in un certo mediocre sindacalismo, incline a “lottare”, ad esempio, per l’aumento delle commesse militari nelle fabbriche d’armi.

Stesso dicasi per certe antieconomiche forme di protezionismo, destinate ad impoverire i consumatori ed a creare disoccupazione per favorire mere rendite di categoria: “Nel 1914, gli operai dell’industria zuccheriera che erano 4.500, cioè una piccolissima categoria, venivano protetti dai socialisti riformisti, che chiedevano al governo la protezione doganale dello zucchero, senza curarsi dell’industria danneggiata dall’alto prezzo della materia prima. Tale richiesta veniva a danneggiare tutti i consumatori italiani, costretti a pagare a prezzo più alto non solo lo zucchero, ma anche le confetture e le marmellate. Non solo; essa limitava il consumo interno delle seconde, ne impediva la esportazione, quindi diminuiva il lavoro degli operai di queste industrie. Gli operai degli zuccherifici avrebbero, quindi, dovuto: o richiedere la protezione per tutte e due le industrie o richiedere il libero scambio per lo zucchero, potendo essi essere assorbiti dallo sviluppo dell’industria delle confetture e della marmellata. Questo nell’interesse generale. Ma come pretendere che gli operai degli zuccherifici che guadagnavano «salari elevati, ignoti ad altre categorie di lavoratori» (Avanti!, 10 marzo 1910) rinunziassero alla loro posizione privilegiata?”(126).

Contro l’operaiolatria

 

L’operaismo sviluppa, per Berneri, un’inaccettabile iconografia. Scrisse: “Fu a Le Pecq, mentre in costume e in fatica da manovale muratore mi aveva sorpreso uno dei ‘responsabili’ comunisti. ‘Ora la puoi conoscere, Berneri, l’anima proletaria!’. Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di sabbia e due secchi di ‘grossa’ riflettei (…). I primi contatti con il proletariato: era lì che cercavo la materia della definizione. Ritrovai i miei primi compagni (…). E dopo allora, quanti operai, nella mia vita quotidiana! Ma se nell’uno trovavo l’esca che faceva scintilla nel mio pensiero, se nell’altro scoprivo affinità elettive, se nell’altro ancora mi aprivo con fraterna intimità, quanti altri aridi ne incontravo, quanti mi urtavano con la loro boriosa vuotaggine, quanti mi nauseavano con il loro cinismo! (…) E gli amici e i compagni operai più intelligenti e più spontanei mai mi parlavano di ‘anima proletaria’. Sapevo proprio da loro, quanto lente a progredire fossero la propaganda e l’organizzazione socialiste. Poi (…) vidi il proletariato, che mi parve, nel suo complesso, quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali, o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, d’infantili illusioni. (…) Il giochetto di chiamare ‘proletariato’ i nuclei di avanguardia e le élites operaie è un giochetto da mettere in soffitta. (…) Una ‘civiltà operaia’, una ‘società proletaria’, una ‘dittatura del proletariato’: ecco delle formule che dovrebbero sparire. Non esiste una ‘coscienza operaia’ come tipico carattere psichico di un’intera classe; non vi è una radicale opposizione tra ‘coscienza operaia’ e ‘coscienza borghese’” (127).

 

 

Il valore della cultura

 

La cultura, peraltro, ha per lui un valore quasi assoluto. Ma non certo in quanto mero esercizio di enciclopedismo elitario e dimostrativo fine a se stesso, la qual cosa Berneri rifugge a tal punto da farne oggetto di analisi impietose e persino inutilmente autocritiche (sorta di “esorcismi” volti a definire prioritariamente un ruolo militante che prevale nettamente sul suo essere intellettuale). La sua preoccupazione è quella di differenziarsi dallo stile del “pensatore solitario” chiuso in una torre d’avorio che, con una critica speciosa ed onnicomprensiva, naufraga infine nel puro scetticismo.

Cultura e pratica d’analisi sono per Berneri indispensabili alla maturazione della coscienza e della capacità dell’organizzazione libertaria, ed è per questo che mostra di aborrire l’ideologismo, statico e immutabile: “Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo” (128). Il lodigiano non sopporta la superficialità raffazzonata ed invasata dei neofiti e la sicumera di alcuni dottrinari dell’anarchismo: “Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda. Siamo avveniristi, e basta. Il fatto che ci sono editori nostri che continuano a ristampare gli scritti dei maestri senza mai aggiornarli con note critiche, dimostra che la nostra cultura e la nostra propaganda sono in mano a gente che mira a tenere in piedi la propria azienda, invece che a spingere il movimento ad uscire dal già pensato per sforzarsi nella critica, cioè nel pensabile. Il fatto che vi sono dei polemisti che cercano di imbottigliare l’avversario invece di cercare la verità, dimostra che fra noi ci sono dei massoni, in senso intellettuale. Aggiungiamo i grafomani pei quali l’articolo è uno sfogo o una vanità ed avremo un complesso di elementi che intralciano il lavorio di rinnovamento iniziato da un pugno di indipendenti che danno a sperar bene. (…) E’ l’ora di finirla coi farmacisti dalle formulette complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l’ora di finirla coi chiacchieroni che ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l’ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell’Ideale distribuendo scomuniche” (129).

Anche fra noi vi è il volgo, difficile a fare orecchio nuovo a musica nuova, che ad impostazioni di problemi e a soluzioni oppone vaghi disegni utopistici e grossolane invettive demagogiche. Ché quelle quattro ideuzze, racimolate in opuscoletti didascalici o in grossi libri incompresi, nel cervelluccio inoperoso si sono accucciate e se ne stan lì, al calduccio di una facile retorica che pretende essere forza solare di una fede intera, mentre non è che focherello fumoso”(130).

Il suo sforzo per la costruzione di un progetto politicamente fruibile per l’anarchismo è assai complesso e variegato, come dimostra l’organicità della Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS) (131), sortita a latere del Convegno d’intesa degli anarchici italiani esuli in Francia tenutosi a Parigi nel 1935, ove è ben riconoscibile un preciso organigramma collettivistasindacalista-comunalista. Anche se si tratta di un progetto di “secondo livello” per l’anarchismo, utile, come ha avuto modo di sostenere Max Sartin, principalmente ad una mediazione per l’alleanza con Giustizia e Libertà, vi si trovano elementi tipici della posizione berneriana. Oltre al piano di una strutturazione orizzontale tramite il quale la società civile esautora lo stato, v’è ad esempio una particolare attenzione nella salvaguardia dell’autonomia e delle specifiche competenze delle professioni. Un elemento che richiama il periodo contiguo agli studi universitari, quando il nostro si prese una “reprimenda” da Salvemini appunto per aver innalzato l’insegnamento alla stregua di una professione: “…occorre sopprimere ciò che non si riferisce strettamente al tema. Il libero esercizio delle professioni ha niente da vedere con la libertà d’insegnamento. (…) le due questioni sono del tutto distinte: e formano argomenti di studi diversi. (…) Comprendere insieme le due discussioni non è né logicamente corretto, né utile al lavoro. (…) Sono incantato di aiutarti coi miei consigli; (…) è il mio dovere di insegnante” (132). Ricordiamo che Berneri ha esercitato il lavoro di cattedra. Alla luce degli sviluppi della funzione docente, ridotta ormai a rango di livello impiegatizio, chi può dire quale dei due avesse ragione?

Per un programma economico aperto

 

Berneri, se è intransigente in politica (per lui l’anarchismo coincide prioritariamente col rifiuto dello stato), non lo è in campo economico. Il ruolo dell’individuo deve venire recuperato in una struttura sociale che ne favorisca le inclinazioni e, pur nella necessaria strategia volta alla democrazia economica, occorre tener conto del valore e dell’iniziativa dei singoli.

Egli propende quindi per un sistema collettivista di tipo bakuniniano, con il rispetto della piccola proprietà (anche agraria), contemperata dalla eliminazione del lavoro salariato e da “inserti” di comunismo non coatto, proposti soprattutto a mo’ d’esempio e per realizzare, in itinere, il necessario incontro con i “compagni di strada” liberalsocialisti: “Le mie simpatie per i repubblicani revisionisti in senso socialista e autonomista risalgono al 1918 e le ho più volte manifestate, giungendo a polemizzare con Malatesta, che insistiva sull’individualismo repubblicano in contrasto con il comunismo nostro, (e le ho più volte manifestate) a favore di questa tesi: il collettivismo, inteso (…) come adattamento delle premesse comuniste alla realtà economica e psicologica dell’Italia, può diventare il terreno d’incontro e di collaborazione tra noi e i repubblicani” (133).

Avoca ai comuni ed alle entità federali la gestione generale delle terre e delle istituzioni pubbliche, ma intende premiare la capacità produttiva per il tramite di cooperative ed associazioni. Affida le grandi imprese alle assemblee operaie.

La sua è, anche in economia, un forma complessa di socialismo libertario (“socialista libertario come lo sono io”) (134), che parte dal piano più semplice per giungere ad una realtà più ramificata (ma mai piramidale), più “equitaria” che pianificatoria. Parlando della Prima Internazionale in Italia, ed usando la cosa per chiarire il suo pensiero, Berneri scrive: “ <<Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale. Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l’assioma ‘chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro’, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?’>> (…) In questa risposta del Friscia è netta l’opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell’eguaglianza relativa (economica); ed infine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere” (135). L’accento è posto sia su una democrazia diretta da realizzarsi prioritariamente in sede locale (pur contemperata dall’opera di salvaguardia solidaristica e di controllo di altre entità di tipo regionale e nazionale), che sull’attenzione allo sviluppo autonomo dei membri della collettività (cosa determinante per la stessa).

Il lodigiano coglie con preveggenza il problema e la sfida che rappresenta per il movimento rivoluzionario l’imporsi di una società complessa con un’enorme moltiplicazione dei beni, ove la questione di una nuova qualità della vita non può venire affrontata deterministicamente con un sistema chiuso. Egli considera “utopistica ogni pretesa di ridurre la produzione ad una sola forma”, individuale od associata (136). I meccanismi della partecipazione, l’organizzazione del lavoro, come già la diffusione della cultura, sono prioritari nella sua riflessione, in un interrogarsi che non ammette deroghe inclini al “sic et simpliciter” e ad assolutizzazioni ideologiche. Una

riflessione che non dà mai nulla per scontato.

In sostanza, Berneri indaga a tutto campo e “senza rete”, mettendo in crisi tutti i dogmi del socialismo. Di se stesso scrive: “Ho abbandonato il movimento socialista perché continuamente mi sentivo dare dell’anarchico; entrato nel movimento anarchico mi sono fatto la fama di repubblicano federalista. Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea ed io sono agnostico; è comunista ed io sono liberista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è anti-autoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomistafederalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)” (137). “In sede politica, il federalismo repubblicano di Cattaneo e del Ferrari mi pareva, fin dal 1918, passibile d’integrarsi col comunalismo libertario propugnato dalla 1.a Internazionale e con il Soviettismo, quale esperienza genuina, cioè prima che diventasse strumento della dittatura bolscevica” (138).

Nondimeno Berneri resterà sempre e comunque un socialista libertario ed i tentativi (anche postumi) di guadagnarlo al liberalismo rimarranno sempre frustrati.

Astensionismo ed anarchismo

 

Berneri arriva a mettere in discussione anche la pratica astensionista. Parte dall’assunto che la critica antiparlamentare debba nutrirsi di esempi pratici, in grado di rendere chiaramente comprensibile alla gente comune sia le lacune del burocratismo dovute alla delega priva di controllo che la sostituibilità del sistema secondo un progetto orizzontale. Perciò la propaganda non dovrà essere astrusa e dozzinale, dovendosi invece nutrire del quotidiano, ed il progetto dovrà essere meditato, pratico e comprensibile: “Federalismo! E’ una parola. E’ una formula senza contenuto positivo. Che cosa ci danno i maestri? Il presupposto del federalismo: la concezione antistatale, concezione politica e non impostazione tecnica, paura dell’accentramento e non progetti di decentramento” (139).

Berneri si scaglia quindi contro la reiterazione senza soluzione di continuità che l’anarchismo fa dell’astensionismo: “Come constato l’assoluta deficienza della critica antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima, così non sono astensionista nel senso che non credo, e non ho mai creduto, all’utilità della propaganda astensionista in periodo di elezioni” (140). La propaganda astensionista va usata cum grano salis: è da adottarsi solo se utile tatticamente. Precisamente: “Ora, vorrei poter proporre a Malatesta questo quesito: se un trionfo elettorale dei partiti di sinistra fosse un tonico rialzante il morale abbattuto della classe operaia, se quel trionfo permettesse il discredito degli esponenti di quei partiti e avvilisse al tempo stesso le forze fasciste, se quel trionfo fosse una conditio sine qua non degli sviluppi possibili di una rivoluzione sociale, come un anarchico dovrebbe comportarsi? (…) Che quell’anarchico possa errare nella valutazione del momento politico è possibile, ma il problema è: se giudicando così un momento politico ed agendo di conseguenza egli cessa di essere anarchico (141).

Berneri, in realtà, si chiede che tipo di democrazia debba costruire l’anarchismo e non tralascia d’interrogarsi anche sul diritto (“ubi societas ibi jus”) (142).

Ubi societas, ibi jus: la differenza fra autorevolezza ed autoritarismo

 

Berneri ci lascia in merito un’ultima riflessione importante per l’anarchismo: “L’autorità è libertà quando l’autorità sia mezzo di liberazione, ma lo sforzo anti-autoritario è necessario come processo di autonomia. Autorità e libertà sono termini di un rapporto antitetico che si risolve in sintesi, tanto più la antitesi è sentita e voluta” (143). E’ l’autorevolezza che sta nelle cose, presente in natura, ad esempio, nelle regole non scritte che soprassiedono allo scambio di esperienze fr esseri umani e ai meccanismi dell’apprendimento, o al rapporto con i figli: “Ed è, d’altra parte, l’eteronomia dell’autorità, quando non mi ha soffocato od offuscato lo spirito, che ha permesso la mia autonomia, cioè la mia libertà” (144). Il concetto ha un valore notevole e si avvicina molto ad una dichiarazione programmatica, sempre presente nei testi di Berneri.

Quella del lodigiano è una concezione dinamica, pragmatica e affatto demagogica, per una nuova pedagogia sociale rivoluzionaria: “L’anarchia mi pare risulti dall’approssimarsi, identificarsi mai, ché sarebbe la stasi, della libertà e dell’autorità. Come principi. Come fatti, libertà e autorità stanno tra loro come verità ed errore; come enti che differenziano e si identificano, nel divenire storico” (145).

 

Berneri e Malatesta

 

Chiuderemo questo excursus berneriano cercando di tracciare – a mo’ di sintesi e chiosa – la differenza fra l’opzione malatestiana (un “classico” dell’anarchismo) e quella del nostro. Meglio sarebbe dire che si proverà a definire per sommi capi il percorso evolutivo che stacca Berneri da Malatesta, ma che pure mantiene i due in relazione. E’ vero infatti che se l’attualismo del lodigiano supera il volontarismo, dallo stesso volontarismo Berneri non prescinde completamente. Semplicemente lo sublima politicamente.

A prescindere da Malatesta, per Berneri, anziché parlare sempre e solo dei massimi sistemi, in un crescendo millenaristico che verrà riconosciuto al massimo come utopia positiva, irrealizzabile o molto “aldilà” da venire, la propaganda anarchica deve calarsi nella realtà, deve prendere corpo nell’azione quotidiana. In sostanza, non deve affidarsi al semplice volontarismo, deve divenire induttiva. L’anarchismo deve essere levatore di se stesso partendo dal capo e non dalla coda della problematica sociale. Per vincere, deve convincere la società civile che si può fare a meno dello stato, che ci si può organizzare su basi differenti, e che tutto ciò è assolutamente pratico e utile.

D’altro canto è evidente la necessità immediata di uscire dalle vuote formule cui il dottrinarismo ha costretto la ricerca sociale ed economica del movimento. Un movimento al quale – banalizzando – è stato predicato che prima avviene la rottura rivoluzionaria e poi la costruzione, che i due momenti sono privi di continuità e religiosamente separati, quasi nell’attesa di una sorta di palingenesi “mistica”, tanto timoroso di sbagliare da esser certo che si sbagli non appena ci si cali nell’opera di preconizzazione del futuro.

Questo è il segno dell’influenza giacobina sul movimento libertario, sia perché dal giacobinismo mutua la sciocca certezza che, mutatis mutandis, un “partito” d’avanguardia possa comunque forzare e predeterminare il futuro con la semplice azione o il gioco d’azzardo dei propri quadri (concezione che può bastare solo ad organizzazioni che abbiano come fine ultimo la realizzazione di un mero colpo di stato), sia perché esigenze dovute alle incombenze immediate della lotta politica e della storia costringono giocoforza l’anarchismo (privato della riflessione e del “sistemismo” che invece i vari giacobini praticano) a seguire pedissequamente “in coda” il bolscevismo in tutte le sue varianti.

Anche questo viene capito dal Berneri che comunque, sia detto per inciso, è un intellettuale d’azione. Egli afferma: “Io ho sempre vissuto, idealmente, accanto ai giganti dell’azione. Non ho idolatrie, ma tutti coloro che gettarono la vita, la libertà, la salute nel turbine luminoso della lotta per la Causa mi sembrano fratelli” (146).

Il lodigiano non disdegna per nulla l’opera di traino dei militanti rivoluzionari. Per lui occorrono l’uno e l’altro: un progetto che sfugga all’arroganza dei sistemismi e degli scientismi, nonché l’azione. Un progetto chiaro e comprensibile, ma sempre in divenire e soprattutto sempre aperto davanti agli insegnamenti pratici e teorici che si determineranno nel corso del suo inverarsi. Un’azione senza compromessi sul piano etico, ma pragmatica soprattutto nella capacità attrattiva che deve svolgere verso le masse. Infine, è per lui necessaria una revisione epistemologica, filosofica e sistemica dell’anarchismo. Paradossalmente, nonostante le critiche che riceve, Berneri è molto più “libertario” dei suoi detrattori o di quanti sono portati ad esprimersi polemicamente nei suoi confronti. Berneri, proprio nel momento in cui ritiene sia più necessario di qualsiasi altra cosa elaborare un programma, è totalmente convinto dell’impossibilità di una realizzazione, totale e radicale, del programma stesso.

Per gli stessi motivi, Berneri sa bene quanto poco possa essere auspicabile la credenza palingenetica nella totale trasformazione sociale dovuta alla rottura rivoluzionaria e persino, altrettanto naturalmente, aborre il retaggio di un’idea di perfezione. Proprio il pragmatismo varrebbe infatti a spingere il movimento anarchico, che dovrebbe essere il meno dottrinario per definizione, ad una prassi di continuo confronto senza rete con la realtà e con il progetto.

Tutto ciò è tanto importante da spingere il lodigiano a mettere nel conto che sarà meno grave un isolamento interno dell’anarchismo innovatore, dovuto all’incomprensione dell’ortodossia libertaria, che un isolamento dell’intero movimento rispetto al resto della società a causa dell’incapacità di rinnovarsi. Tuttavia non esiste il “sofisma” della “verità”. Se occorre riflettere a trecentosessanta gradi e darsi una rotta, non bisogna neppure dimenticare l’aderenza alla questione fondamentale: il moto di sdegno contro l’ingiustizia. Da ciò, il richiamo al sentimento, all’impeto, alla “bellezza” intrinseca allo spirito rivoluzionario.

Quali sono dunque le differenze fra il classico volontarismo malatestiano e l’attualismo berneriano?

Entrambi combattono contro il rivoluzionarismo “general generico”. L’alterità etica vale in entrambi i casi. Ma per il lodigiano il primo richiamo è verso la capacità d’incidere nel mondo e d’essere all’altezza delle situazioni, nonché dell’inevitabile assunzione di responsabilità che questo comporta, onde piegare la politica all’etica. Tutti e due lottano contro il nichilismo e le correnti disgregatrici, tutti e due promuovono un forte senso d’appartenenza, ma in Berneri tale sentimento è “più politico”. Per Malatesta conta maggiormente l’autonomia assoluta dell’etica di fronte alla politica. Tanto che, come avvenuto soprattutto dopo la scomparsa del “grande vecchio” (la cui mera presenza di grande organizzatore, unitamente ad un intuito innato avevano sempre funzionato da “collante”), l’anarchismo corre il pericolo di dirigersi semplicemente “contro la storia”.

Ma a ben vedere il volontarismo malatestiano rischia di divenire molto più “politico” di quanto non sembri, o addirittura involontariamente politicista. Se estremizzato (nel modo secondo il quale se ne sono appropriati molti epigoni), vi si può riscontrare la pericolosa tendenza a vedere il sociale quale mera risultante della volontà. Quindi volontà politica, se vogliamo, degli “uomini d’azione”, una variante “romantica” del partito di quadri (la “minoranza agente”).

Parliamo naturalmente della propensione a pensare di poter sovradeterminare la realtà per il tramite preponderante della volontà. La realtà è però molto più complessa, e l’evoluzione sociale, soprattutto se la si vuole libertaria, necessita per forza di cose un’attenzione particolarissima al livello di consapevolezza del corpo sociale (ed alla crescita dello stesso). Il volontarismo ha quindi senso solo se diviene volontà d’ascolto, capacità di relazione, sintonizzazione sulla lunghezza d’onda delle “masse”, stimolo alla crescita. La mera volontà, altrimenti intesa, può servire unicamente ad un colpo di mano più o meno autoreferenziale che (se riuscito) necessita poi di un’altra iniezione di “volontà”: quella dei vincitori (che diviene imposizione). L’approdo di un tale “volontarismo”, ben lungi dai desideri di Malatesta (il cui impianto teorico era poi tutto volto alla tolleranza), può divenire una variante di quella che oggi viene chiamata “società trasparente”, nell’accezione di una realtà subordinata agli imperativi di qualche “metafisica” volontà, che controlla l’intera vita di relazione. E’ per questo che – come dice Giampietro Berti (anche se all’interno di un discorso d’altro tipo) – per Berneri: “All’idea di un assetto ideale sotteso da una tensione utopica, è preferibile pensare l’anarchia in termini ‘liberali’, cioè non come: ‘la società dell’armonia assoluta, ma solo come la società della tolleranza’” (147).

Il progetto che si basa sull’indeterminata “volontà”, anche se non scritto (o forse a maggior ragione per questo), diviene in tal caso legittimazione del controllo, e il tutto (paradossalmente) si aggrava se alla base viene posta una totale fiducia nella spontaneità delle “masse”. La cosa non cambia qualora vi si sostituisca la fede nella capacità, presupposta come “innata” (conculcata sino alla rivoluzione, ma pronta a “riemergere”), di esprimere rispetto reciproco e civile coesistenza da parte degli “individui”. Qualora invece si prospetti una rivolta delle istituzioni contro lo stato, mirante a sopprimere l’identità del dominio, ma non a sovradeterminare il corpo sociale, la situazione è di molto diversa. Cambiano sia il concetto di “rivolta”, che quelli relativi a “massa” ed individuo. Carlo De Maria (148) conduce riflessioni interessanti in proposito: “(…) notiamo come l’importanza del gruppo familiare – vale a dire dell’ammaestramento dei genitori, della fedeltà a certe persone, della ricchezza di una tradizione ereditata, della continuità tra le generazioni – fosse parte in Berneri della centralità del ‘mondo dell’associazione involontaria’ (…). Potremmo dire che esse costituiscono il dato sul quale si fonda (si radica) l’ individuo, divenendo persona (con i suoi legami sociali, culturali ed economici) (149). Ai fini del nostro discorso, risulta particolarmente efficace la definizione di ‘persona’ che è stata data da Alessandro Ferrara: ‘Individuo <<preso con tutta la zolla>>, considerato cioè in congiunzione con quel nesso di relazioni di riconoscimento reciproco che lo fanno essere quel <<chi>> unico e irripetibile che è’ (150). Le seguenti parole di Lelio Basso – che corrispondevano, nel 1933, a un questionario di Giustizia e Libertà – forniscono, poi, una periodizzazione estremamente significativa: Abbandonare definitivamente il concetto dell’individuo così come è stato elaborato dal pensiero settecentesco e dalla rivoluzione francese, per sostituirvi quello più concreto e completo di personalità, ciascuna diversa e distinta e ciascuna centro di confluenza di rapporti sociali economici spirituali, è, se non m’inganno, un bisogno largamente diffuso fra le giovani generazioni’ (151). La sensibilità per le modalità della finitudine richiama (e sostanzia) l’opposizione ai regimi totalitari e al volontarismo politico – inteso come onnipotenza verso il dato – che li caratterizza (152). (…) Diviene, allora, possibile individuare con estrema chiarezza i temi della critica sociale di Berneri. Al totalitarismo, egli oppose, da una parte le associazioni involontarie e, dall’altra, l’autonomismo e il federalismo (…). La riflessione di Berneri ebbe al suo centro l’individuo immerso (come produttore e cittadino) nella società e nei suoi corpi intermedi, territoriali e non territoriali (famiglia, Comune, sindacato ecc.). Individuo radicato (153) in antagonismo con la società, piuttosto che individuo assoluto – ‘eroe liberale’ (e anarchico) – ‘preso’ e contrapposto allo Stato. La riflessione sull’individuo radicato in società conduce a una dimensione giuridica (di ‘diritti e responsabilità’) (…) avendo in mente ‘la società, con tutte le sue istituzioni: familiari, economiche, religiose, politiche, ecc.’ (154) e ‘intendendo le leggi come le norme morali e civili che sono più universalmente accettate come base di un’ordinata convivenza, e come quelle necessarie costrizioni della libertà individuale che sono la condizione necessaria della sicurezza e libertà individuali e collettive’ (155). (…) Proprio la coscienza dell’importanza del diritto si configura come antidoto alla presa esercitata dalle ideologie (156).  (…) Di fronte al totalitarismo, Ortega y Gasset, come Berneri, dava risalto al fenomeno giuridico (157). Rispetto a questa affinità, la lontananza politica tra i due passa – ai nostri occhi – in secondo piano (…). Con consonanza sorprendente, Ortega y Gasset e Berneri rifiutarono il contrattualismo moderno. Secondo le parole del primo (maggio 937): ‘Uno degli errori più grandi del pensiero ‘moderno’, di cui sentiamo ancora gli ultimi riverberi, è stato quello di confondere la società con l’associazione, che è più o meno il suo contrario. Una società non si costituisce per un accordo delle volontà. Al contrario, ogni accordo di volontà presuppone l’esistenza di una società, di gente che convive, e l’accordo non può consistere che nel precisare questa o quella forma di tale convivenza, di tale società preesistente’ (158).

L’errore contrattualista – aveva scritto Berneri – consiste nel confondere l’associazione con la società. Il contratto sociale non fu la base di alcuna società, di alcuno Stato; né lo può essere. Il contratto sociale è lo stabilirsi di una forma politica basata sulla libera volontà dei consociati. E’ la società che si uniforma nel volere, la società che da natura e storia si fa filosofia. E’ società utopica che si fa associazione ideale’ (159).

Potremmo dire che alla volontà del contrattualismo moderno i due autori contrapposero una fatalità del radicamento (della tradizione). La società, secondo le parole di Berneri, è ‘una cosa che si trova’. Essa comprende un insieme di unioni involontarie: ‘la società sono i genitori, il paese di nascita’… In questo, ‘non si può cambiare’ (160). (E le unioni involontarie, è bene ripeterlo, richiamano un sistema di valori comuni). A sua volta, Ortega scriveva: ‘La vita non sceglie il suo mondo, ma vivere vuol dire trovarsi immediatamente in un mondo determinato e incommutabile: questo mondo. Il nostro mondo è la dimensione di fatalità che integra la nostra vita’ (161).

Quanto abbiamo appena letto, pone un primo discrimine fra volontarismo malatestiano ed impostazione berneriana.

Al lume della conoscenza che abbiamo acquisito di lui, potremmo però affermare che il lodigiano si sforza di portare la politica ad “influire sulla fatalità”, ma in realtà egli semmai inaugura la strada per un tentativo di risocializzazione della società – dalla quale non è dato prescindere – atto a far “scorrere” la “fatalità”, sapendo che non può sovradeterminarla volontaristicamente. E tali, probabilmente, sono anche le basi del suo “irrazionalismo”. Ma tutto questo non è, come qualcuno tacitamente immagina (l’ortodossia libertaria), o apertamente tenta di dimostrare (qualche liberalsocialista), un allontanamento di Berneri dall’anarchismo, bensì una precisazione dello stesso: una “teoria politica” per il movimento autogestionario. Teoria politica con preminenza etica, ma pur sempre teoria politica. Sono le apparenti contraddizioni del lodigiano: non crede nel volontarismo, eppure è un uomo d’azione; vuole costruire un progetto, ma pretende che “l’anarchia” (il progetto stesso) sia nelle cose: nella società più che nell’associazione.

Per Berneri l’anarchismo è realtà politica (ché l’ “utopia perfetta” e totale è giudicata non solo irraggiungibile, ma anche pericolosa), e si costruisce nella storia e con la storia.

Da Malatesta la partita con la politica viene affrontata in modo molto diverso (o non viene giocata affatto, dandola per “persa” sin dall’inizio): se ne tiene conto solo se non se ne può “fare a meno”. Da qui anche il relativo interesse (se non meramente contingente e “strumentale”) per le alleanze. Lo stesso dicasi per l’anarcosindacalismo (giudicato “spurio”), per  l’associazionismo autonomo, per l’ambito normativo, per le battaglie d’opinione ed, in ultima analisi, anche per un progetto definito di federalismo sociale. Un’attenzione diminuita quindi, non tanto per il federalismo in sé, quanto per la accettazione dello stesso quale strumento, quale canale di connessione atto alla crescita graduale dell’anarchismo “possibile”.

In Malatesta, il federalismo è prima di tutto un fine. E’ vero che viene da lui visto anche come un metodo organizzativo: è intrinseco però  all’organizzazione specifica, polo intorno al quale ruota tutta l’azione degli anarchici. Per Berneri è in primis uno strumento che ha sia valenza strategica che tattica, un mezzo da utilizzarsi per estendere il protagonismo dei soggetti sociali che hanno cittadinanza al di fuori del movimento specifico, per sollevare, da subito, le contraddizioni fra società civile e stato, per far crescere la prima a detrimento del secondo. Poi è naturalmente un punto d’arrivo, ma il raggiungimento della tappa finale dipende dal percorso.

Questa è l’applicazione berneriana del gradualismo malatestiano, in uno sforzo programmatico, se possibile, molto più compiuto, che cerca ovunque adesioni e conferme quotidiane, che al tempo stesso è utilizzato per mettere in pratica e verificare costantemente un progetto politico preciso e riconoscibile, organizzato per fasi successive.

Il compito dichiarato della struttura specifica è quello di elaborare una prassi evolutiva (ed esserne garante), rivoluzionaria e non riformista, ma di lungo periodo. Non necessariamente da subito funzionale alla rottura rivoluzionaria, che semini invece il germe del divenire per essere modificazione qui ed ora, non solo per preparare lo scontro decisivo: una modificazione dell’oggi che è già parte dello scontro decisivo di domani, senza la necessità impellente di essere immediatamente strumentale allo stesso.

L’impegno volontaristico, eliminata ogni tentazione autoreferenziale, viene trasferito soprattutto nella militanza, sia nel profondo rispetto degli uomini d’azione (per i quali il riconoscimento di una valenza trainante non viene certo meno in Berneri), sia nella capacità di garantire un’autodisciplina capace di assicurare la costruttività dell’azione e l’elaborazione costante di una linea d’intervento, nella quale però le battaglie d’opinione hanno rilevanza quasi assoluta.

Un’organizzazione prima di tutto idonea a sedimentare sinergie con il corpo sociale, indipendentemente dall’adesione dello stesso agli ideali anarchici, indicando obiettivi e conquiste immediatamente praticabili, ma anche in grado di elaborare ed aver ben chiaro un progetto strategico che sappia sia promuovere una cultura del cambiamento, dell’autonomia e della libertà, che identificare le necessarie alleanze con quelle altre forze politiche che vengano ritenute utili per aumentare la possibilità di raggiungere tali obiettivi. Forme d’alleanza stabili che richiedono un’approfondita riflessione politica, l’identificazione di una linea di demarcazione (quella rispetto ai totalitarismi), in grado di garantire l’identificazione di obiettivi strategici a medio e lungo termine (come il comunalismo), e quindi non unicamente episodiche e contingenti come sono le alleanze nelle fasi di tensione ed insorgenza sociale. Un’organizzazione non ecumenica, ma decisamente orientata, parallelamente capace però di aprire le porte all’innovazione ed alla sperimentazione pragmatica e di circoscrivere le tendenze fondamentaliste. Nella quale la discriminante ideologica principale viene identificata nell’eliminazione finale dello stato, più che in disegni di trasformazione immediata rigidamente di stampo comunista (l’economia è un campo nel quale il lodigiano è molto più possibilista). Berneri rimprovera a Malatesta la contraddittorietà di un programma molto ideologico ed altrettanto parco nell’approfondimento del peculiare carattere politico (discussione di previsione sulle fasi, sulle tattiche, sulle strutture della società liberata, rimando generalizzato alla “onnicomprensività” della rivoluzione, anche in ambito normativo, sottovalutazione di una politica delle alleanze), ma molto rigido in economia. Tanto rigido da rischiare (nella pratica politica) di esporre il movimento ad opzioni codiste di fronte all’iniziativa di marca giacobina, nella quale la trasformazione economica e del potere prescindono da quella libertaria.

L’anarcosindacalismo è per Berneri un elemento di riconoscibilità dell’anarchismo, di sperimentazione della prassi della democrazia diretta, già nel quotidiano della prima fase di costruzione del tessuto connettivo del cambiamento, esattamente come gli altri strumenti per la propaganda specifica, ma con maggiori possibilità d’incidere a partire dall’impatto aggregativo delle vertenze e dalla pratica dei bisogni. Con una strutturazione organizzativa assai più forte, perché più forti sono il legame e la motivazione se non discendono unicamente da elementi di carattere ideologico. Soprattutto grazie alla consapevolezza di divenire gradualmente la base strutturale della riorganizzazione futura. Uno strumento per l’esercizio di un’egemonia reale del mondo del lavoro sui partiti e tutte le nomenclature della politica, operante a mezzo di un’autonomia decisiva anche dallo specifico anarchico (e dalle sue carenze organizzative e chiusure dottrinarie). Cionondimeno, espressione di un socialismo umanista, questo si, di chiaro stampo malatestiano. Nell’ambito di un “sovietismo sociale” capace di nutrirsi non solo dell’apporto dell’associazionismo indipendente, bensì anche delle istituzioni espresse – principalmente sul piano decentrato (ma non solo) – ancora una volta da quella società civile che per il lodigiano va stimolata dall’insieme dell’intervento politico dell’anarchismo nella capacità di darsi strumenti, anche normativi, per un autogoverno che dovrà basarsi su di una prassi libertaria, ma essere politicamente pluralista. La militanza libertaria organizzata, la cui presenza è fondamentale in quanto garante (oggi e domani) della democrazia diretta, non è perciò indirizzata senza consegne tattiche nelle organizzazioni di massa (ovvero con l’unica raccomandazione “frontista” di agire da stimolo per l’azione diretta), bensì deve lavorare alla costruzione di un sindacato autogestionario ben riconoscibile e strutturato.

In quanto all’empiriocriticismo, esiste invece un rapporto stretto con Malatesta, anche se Berneri porterà più avanti il discorso, fino alle estreme conseguenze, e con evidenti e ben diverse ricadute – come abbiamo già visto – sulla questione della politica. Scrive in proposito Pietro Adamo: “E’ il radicamento delle elaborazioni politiche nella sfera dell’epistemologia a costituire uno degli elementi dell’originalità berneriana, con una riflessione che (…) muove direttamente dai problemi posti dalla nuova fisica e dalla nuova filosofia della scienza. (…) Prendere atto dell’impossibilità di giungere a ‘verità’ definite conduce ovviamente alla valorizzazione della tolleranza, della controversia e del dibattito, come vie per evitare le cadute nel dogmatismo e nell’assolutezza dottrinaria e per progredire lungo la strada della conoscenza. Ed è proprio a partire da questa prospettiva che Berneri tenterà di concettualizzare la sua ‘rivisitazione’ dell’anarchismo, caratterizzandolo come la filosofia politica più adeguata a esprimere le ragioni e le suggestioni che emergevano dalla scienza (…)” (162).

Ed ecco, a seguire, il legame epistemologico con Malatesta. Questi, infatti, non solo consentì ed incoraggiò la sperimentazione berneriana perché – nonostante l’intransigenza “anti-politica” – era nel profondo intrinsecamente tollerante e “fidente” nel valore positivo  della controversia e del dibattito, ma soprattutto perché lui stesso aveva iniziato dapprima un percorso epistemologico parallelo (che, pur giunto infine all’importante istanza gradualista, non riuscirà a concludersi con i risultati d’impatto politico prodotti da Berneri): “La riflessione di Berneri si situa in un momento storico (gli anni Venti e Trenta del Novecento) in cui gli argomenti degli empiristi radicali e degli empiriocriticisti sono divenuti uno dei principali strumenti dell’attacco alla concezione positivistica della scienza ma anche della politica. La critica dello ‘scientificismo’, elaborata e divulgata in Italia soprattutto dai pensatori idealisti (Croce primo fra tutti), viene ripresa anche da parte dell’intellighenzia anarchica, in particolare da Malatesta. Quest’ultimo ammette di esser stato in gioventù ‘sotto l’influenza dell’allora prevalente filosofia positivista’ e di esser caduto, per questo motivo, ‘nella contraddizione in cui si dibattono tutti i cosiddetti deterministi’, accettando in particolare una visione organicistica del corpo sociale e la fede in una ‘legge sociale’ analoga, per sua natura, alle leggi naturali. Sottrattosi poi al nefasto ascendente ‘dei sociologi organicisti e dei pregiudizi scientificisti’, Malatesta giunge a una posizione che, di fatto, è assimilabile non tanto – e non solo – alla posizione idealista, quanto piuttosto alle versioni critiche del valore della scienza a suo tempo proposte da un matematico-scienziato come Jules-Henri Poincaré, e poi riprese e sviluppate nell’ambito del cosiddetto Circolo di Vienna, per non dire delle considerazioni sulla natura fallibile della scienza articolate nel corso degli anni Trenta da Karl Popper in confronto critico, se non in aperto scontro, con gli stessi positivisti logici e con l’impostazione convenzionalistica” (163).

Infine, quale fu il rapporto fra diretto fra Malatesta e Berneri? Le posizioni del lodigiano non hanno mai portato ad uno “scontro” aperto con Malatesta, che pare invece aver sempre avuto grande considerazione ed affetto per il giovane, indubbiamente considerato più che una promessa per il movimento. E la grande stima era certo ricambiata. Non è mai stata esercitata alcuna “censura” verso Berneri fino a che l’anarchico di Santa Maria Capua Vetere e Luigi Fabbri sono stati in vita.

 

 

Note

1 Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

2 Ne L’operaiolatria, Berneri scrisse: “Torquato Gobbi mi fu maestro (…). Lui era legatore di libri, io studentello di liceo, ancora <<figlio di papà>> dunque, e ignaro di quella grande e vera Università che è la vita”. Vd. C. Berneri, L’operaiolatria, pubblicato in opuscolo, Gruppo d’edizioni libertarie, a Brest nel 1934, poi in P. C. Masini e A. Sorti, Scritti scelti di Camillo Berneri. Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964, p. 145. Sulla figura di Gobbi vd. il libro indicato nella nota a seguire.

3 Berneri, quando decide di passare al movimento anarchico scrive, usando lo pseudonimo “Camillo da Lodi”, la ben nota Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico, che viene pubblicata nel 1916 sul giornale pisano “L’Avvenire Anarchico”. La lettera verrà poi ripresa (parzialmente) in Pensieri e battaglie, edito a cura del Comitato Camillo Berneri, Parigi 5.5.1938. Oggi in Francisco Madrid Santos, Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897- 1937). Rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937), Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985.

4 Commento di Berneri a ricordo della “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”, op. cit., pubblicato in premessa alla stessa su C. Berneri, “Pensieri e battaglie”, op. cit., espresso in una lettera alla figlia Maria Luisa.

5 Adalgisa Fochi, In difesa di Camillo Berneri, Cooperativa Industrie Grafiche, Forlì 1951, p. 16.

6 Luce Fabbri, Prefazione a C. Berneri, Guerre de classe en Espagne, Edition Les Humbles, Parigi, luglio 1938 (la traduzione è mia).

7 Su Errico Malatesta vd. Luigi Fabbri, Malatesta, l’uomo e il pensiero, Edizioni Anarchismo, Catania, 1979; Giampietro Berti, Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932, Franco Angeli Editore, Milano, 2003.

8 Su Luigi Fabbri vd. Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero, Biblioteca Franco Serantini Edizioni, Pisa,1996.

9 “Conscientia”, [1922] – 1925, rivista diretta da Piero Chiminelli e Giuseppe Gangale.

10 Raccogliamo queste informazioni da P. C. Masini in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, pubblicato in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

11 G. Prezzolini, Ricordo di Camillo Berneri, da “Il Resto del Carlino”, Bologna 1962, poi in Prezzolini alla finestra, Pan Editrice, Milano 1977. Citato da Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986. Lo stralcio citato del giudizio di Prezzolini su Berneri è ricordato da C. De Maria, nel suo Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004, p. 42.

12 Gaetano Salvemini, Donati e Berneri, da “Il mondo”, Roma 3.5.1952. Va ricordato che al nominato Circolo di Cultura o “Gruppo di cultura politica” – sorto con sede in Piazza S. Trinità nel gennaio 1921 e bruciato dai fascisti nel ‘25 – collaboravano anche Piero Calamandrei, Alfredo e Nello Riccoli, Piero Jahier e naturalmente lo stesso Salvemini, che ne fu il principale ispiratore.

13 C. Berneri, Ricordi, appunti manoscritti non datati, conservati presso ABC, Reggio Emilia, cassetta XII.4.Ricordi.

14 Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

15 C. Berneri, Le Juif antisémite, Edition Vita, Parigi 1935. Oggi vd. C. Berneri, L’ebreo antisemita, Carucci Editore, Roma 1984.

16 Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.

17 Edition Vita, Parigi, per i tipi della quale venne appunto pubblicato, nel 1935, di C. Berneri, Le Juif antisémite.

18 Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.

19 Ibid.

20 Il libro è stato pubblicato anche con questo titolo.

21 C. Berneri, Mussolini grande attore. Pubblicato per la prima volta in Spagna, Mussolini gran actor, Valencia Collecion Manana, 1934, Impresos Costa, Nueva de la Rambla, 45 Barcelona. In Italia, C. Berneri, Mussolini grande attore, Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia 1983. Viene trattato nel presente libro nel capitolo: Contro il fascismo e…. (nda).

22 P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri.

Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

23 Theodor Lessing, Judischer Selbsthass – in italiano vd.: T. L., L’odio di sé ebraico (a cura di Ubaldo Fadini), Mimesis, Milano 1995. Segnala Cavaglion: “ (…) (un libro che ebbe diffusione maggiore di Le Juif antisémite), se soltanto qualcuno avesse avuto l’opportunità di segnalarlo alla sua curiosità onnivora – ma nemmeno Spire, che dopo il 1935 fu amico di Berneri, conosceva Lessing” (Alberto Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico filosemita, op. cit.).

24 C. Berneri, Gli anarchici e G.L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935. Ora in P. C. Masini, P. C. Masini, A.Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo La polemica con Carlo Rosselli.

25 Gaetano Salvemini, Donati e Berneri, da “Il mondo”, Roma 3.5.1952, op. cit.

26 Il titolo esatto della tesi fu: La campagna dei clericali piemontesi per la libertà della scuola in rapporto alla campagna clericale in Francia (1831 – 1852), citato in C. Berneri (a cura di P. Feri e L. Di Lembo), Epistolario inedito, vol. II, ed. AFB, Pistoia, 1984, p. 18.

27 La stessa cosa la fece Luigi Fabbri: anch’egli insegnante, perse la cattedra quando si trattò di dover giurare fedeltà al fascismo ed infine riparò in Uruguay. E così molti altri. Ma la lotta contro l’imposizione del giuramento ha sempre appassionato gli anarchici, che hanno dimostrato di saper condurre (e vincere) anche battaglie d’opinione, alle quali poi lo stesso movimento libertario, sottovalutandole, ha dato e dà poco lustro. Per un insegnante, dover aderire alle leggi dello stato – di qualunque stato – è in sé un’imposizione assolutamente inaccettabile. Si tratta infatti di dare un placet in toto alle leggi e piegarsi ad esse ed alla ragion di stato (pensiamo ad esempio ai diktat sulla storia), ad onta della libertà d’insegnamento e di coscienza. Lo comprese bene l’insegnante e militante anarchico Sandro Galli, di Bologna, che nel 1982, con un durissimo sciopero della fame, costrinse gli organi preposti ad esonerare i docenti (unici, da allora, fra i dipendenti pubblici italiani) dal dovere di sottostare a tale pratica.

28 E’ doverosa una nota sulle donne della famiglia di Camillo Berneri. Tutte hanno dato un loro diretto contributo al movimento anarchico. La moglie, Giovanna Caleffi in Berneri (4.5.1897), presa su di sé l’attività politica del marito, con l’occupazione nazista viene detenuta per 3 mesi alla Santé di Parigi alla fine del 1941 e poi deportata in Germania, ove rimane in prigione altri 5 mesi. Consegnata alle autorità italiane, è rinchiusa nel carcere di Reggio Emilia e quindi condannata ad un anno di confino. Liberata, si dà alla latitanza e nel 1943 si unisce a Cesare Zaccaria, col quale pubblica il giornale clandestino “La rivoluzione libertaria”. Sempre con Zaccaria, dopo la liberazione, sarà la (ri)fondatrice in Italia della rivista “Volontà”, erede della storica testata teorica di Fabbri e Malatesta, che avrà come collaboratori Silone, Camus, Salvemini e diversi altri tra i migliori intellettuali del momento. Gestirà anche una casa editrice libertaria. Nel 1948 edita l’opuscolo Il controllo delle nascite, subito sequestrato: lei e Zaccaria subiscono un processo per propaganda contro la procreazione, dal quale usciranno assolti solo dopo due anni di battaglie su quello che fu il primo caso di denuncia civile dell’ignoranza in materia, imposta in Italia dal mondo politico clerico-fascista. Nello stesso anno, darà vita ad una sorta di Colonia estiva per bambini e ragazzi delle famiglie di anarchici, in particolare del Meridione, ospitati da compagni del Nord, esperimento che si ripeterà anche nel ‘49. Nell’estate del 1951, grazie ad una proprietà sita a Piano di Sorrento, messa a disposizione da Zaccaria, la Comunità è stabilmente inaugurata e raccoglie i giovani ospiti per due mesi d’estate, informandosi unicamente a principi di solidarietà e pedagogia libertaria. Verrà intitolata alla figlia Maria Luisa (scomparsa prematuramente a soli 31 anni), e procederà sino al 1957. Con la chiusura del rapporto con Zaccaria, dopo un periodo d’intervallo, altri proseguiranno il lavoro, sino agli anni ‘60, in località Ronchi, a 700 metri dal mare in provincia di Massa. Giovanna muore il 14 marzo 1962.

La primogenita, Maria Luisa (Arezzo, 1.3.1918), dopo aver condiviso il lavoro del padre a Parigi e Barcellona, con Vernon Richards darà vita a Londra al giornale “Spain and the word” combattendo dal 1939 al 1945 una difficilissima battaglia contro la guerra tramite le pagine dell’unica rivista antimilitarista presente in una nazione direttamente impegnata nel conflitto. Animerà l’editrice “Freedom Press” e darà un contributo importante all’anarchismo britannico. Come il padre, s’interessa alla psicologia ed è fra i primi a diffondere nel Regno Unito le opere di Wilhelm Reich.

Morirà per un’infezione virale quattro mesi dopo un parto andato male conclusosi con la morte della nascitura, il 13.4.1949 a Londra. Cionondimeno lascerà molti scritti, fra i quali il bellissimo libro Viaggio attraverso utopia

(Edizione a cura del Movimento Anarchico Italiano-Archivio Famiglia Berneri di Pistoia, Carrara, 1981).

L’altra figlia, Giliana (Firenze, 3.10.1919), laureata in medicina, opererà a lungo nel movimento anarchico francese dopo la liberazione. E’ morta il 19.7.1998 a Montreuil-sous-Bois. In quanto alla madre, Adalgisa Fochi Berneri, coinvolta direttamente nella vicenda politica del figlio, esule ella stessa, dopo l’assassinio lavorò assiduamente per tenerne alta e viva la memoria.

29 C. Berneri, Esilio, inedito, originale incompiuto custodito da AFB, Reggio Emilia. Si tratta di un libro autobiografico che Berneri iniziò a scrivere ma non riuscì mai a portare a termine.

30 Si veda in proposito: Vittorio Emiliani, Camillo Berneri: l’anarchico più espulso d’Europa, in V. Emiliani, Gli anarchici. Vite di Cafiero, Costa, Malatesta, Cipriani, Gori, Berneri, Borghi, Bompiani Editore, Milano 1973.

31 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 4.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società…, op. cit.

(38). La sua attenzione sarà volta in particolare verso “Rivoluzione Liberale” e “Giustizia e Libertà”, organi di stampa omonimi dei relativi movimenti politici (embrionale il primo, definito il secondo), guidati rispettivamente da Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Fu nel corso di uno dei primi dibattiti affrontati su quei giornali, proprio confrontandosi con Gobetti nell’aprile del ‘23, che Berneri sostenne essere gli anarchici “i liberali del socialismo” (39). 32 Carlo Rosselli, Socialisme libéral, Paris 1930, frase riportata da C. Berneri in Mussolini grande attore (Conclusioni), op. cit.

33 C. Berneri, Mussolini grande attore (Conclusioni), pubblicato per la prima volta in Spagna, Mussolini gran actor, Valencia Collecion Manana, 1934, Impresos Costa, Nueva de la Rambla, 45 Barcelona. In Italia, Mussolini grande attore, Edizioni dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia 1983.

34 C. Berneri, Della demagogia oratoria (III), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 28.3.1936. Pubblicato fra i testi di complemento nell’edizione italiana curata da P. C. Masini di Mussolini grande attore, op. cit.

35 C. Berneri, Scuotiamoci dal tedio di una attesa imbelle, indegna di noi. Appello agli anarchici, da “Il Martello”, New York 8.6.1929.

36 C. Berneri, Della demagogia oratoria (II), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 7.3.1936, riportato fra i testi di complemento nell’edizione curata da P. C. Masini di C. Berneri, Mussolini grande attore, Ed. dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia, 1983.

37 Ibid.

38 P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979.

39 C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, da “Rivoluzione liberale”, Torino 24.4.1923, poi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

40 C. Berneri, Il mio nazional-anarchismo, manoscritto inedito conservato presso Archivio

Famiglia Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, cassetta IV – opere di carattere politico, citato da P. C. Masini, in La formazione intellettuale di Camillo Berneri, op. cit. Il manoscritto non è datato, ma per le citazioni che vi appaiono risulta sicuramente successivo a C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), probabilmente elaborata nel corso del Convegno d’Intesa degli anarchici italiani emigrati in Europa o a margine dello stesso, Parigi, ottobre /novembre 1935. Lo scritto è anche indubitabilmente successivo alla Riforma Gentile (divenuta legge nel 1923).

41 Incarico assunto dopo la morte di Mario Angeloni, repubblicano, caduto il 19 agosto del 1936 nella battaglia di Monte Pelato (come l’Angeloni stesso aveva soprannominato una parte d’importanza strategica che venne conquistata sull’altipiano della Galocha). Angeloni morì in circostanze eroiche: “Angeloni era alla testa di un plotone di una quarantina di miliziani italiani, a pochi Km. da Huesca. Mentre Angeloni, con i suoi uomini, marciava sulla strada carrozzabile in direzione appunto di Huesca, un’auto blindata occupata da nazionalisti, improvvisamente è sbucata di fronte alla piccola colonna. Naturalmente una scarica di mitragliatrice ne uccise otto o nove; gli altri, gettandosi a terra a lato della strada, e fuggendo, riuscirono a salvarsi. (…) Al momento di morire, l’Angeloni lanciava una bomba a mano contro l’auto blindata (…)” (Divisione Affari Generali e Riservati, Nota n.° 441/038065, copia appunto n.° 500/27108, datata 17.9.1936, conservata presso ABC-Reggio Emilia, posizione CPC ACS, CB, documento n.° 104).

42 Lo testimonia una nota informativa sui partecipanti ai funerali di Mario Angeloni, tenutosi a Barcellona. Si tratta della Nota della Divisione Generale Affari Riservati n.° 441/038065, copia appunto n.° 500/27108, datata 17.9.1936 (documento n.° 104, conservato presso CPC ACS, CB, ABC-Reggio Emilia), e vi si legge: “(…) I funerali ebbero luogo il 1° corrente (…) Seguivano il corteo anche Rendani, l’anarchico Berneri, con la testa bendata e il braccio al collo, essendo anch’egli stato ferito in combattimento”.

43 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

44 Su Gobetti, dopo la sua morte, Berneri scrisse ampiamente recensendo Risorgimento senza eroi in “Veglia” (Parigi) del novembre 1926. Segnalato da P. C. Masini, La formazione intellettuale di Camillo Berneri, in Atti del Convegno di studi su Camillo Berneri. Milano 9 ottobre 1977, La cooperativa Tipolitografica Editrice, Carrara 1979. Su Berneri collaboratore di “Rivoluzione liberale” lo stesso Masini ha scritto un saggio su “Volontà”, Napoli 1.6.1947.

45 Sabatino (Nello) Rosselli, fratello di Carlo, pubblicò nel 1927 l’opera Mazzini e Bakunin in Italia, lavoro considerato oggi come il primo a porre sul piano scientifico l’intervento storico sul movimento operaio nella penisola. Oggi vd. Einaudi, Torino 1982. Berneri scrisse: “La lotta fra Mazzini e Bakunin, così ben illustrata da Nello Rosselli e da Max Nettlau, fu in grande parte lotta tra l’astratto ideale di Mazzini e il concretismo sociale” (C. Berneri, Il mio nazionalanarchismo, op. cit.).

46 C. Berneri, Cielo tre quarti coperto, da “La protestation”, Puteaux 28.3.1933. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

47 C. Berneri, Guerra e rivoluzione, in “Guerra di Classe”, Barcellona 21.4.1937. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

48 C. Berneri, Discorso in morte di Antonio Gramsci. Ricostruito e pubblicato da Alberto Sorti, Pier Carlo Masini in Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964.

49 C. Berneri, L’operaiolatria, pubblicato in opuscolo, Gruppo d’edizioni libertarie, a Brest nel 1934, poi in P. C. Masini e A. Sorti, Scritti scelti di Camillo Berneri. Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar Editore, Varese 1964.

50 C. Berneri, Discorso in morte di Antonio Gramsci, op. cit. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

51 Angelica Balabanoff. Esponente storico del movimento operaio, russa, nata nel 1869 a Černigov e morta a Roma nel 1965. Di famiglia benestante, laureatasi a Bruxelles, fu in Italia dal 1897. Della scuola di A. Labriola, aderì nel 1900 al Partito Socialista Italiano. Svolse lavoro politico in Svizzera con gli immigrati italiani. Sino alla prima deflagrazione mondiale fu vicina a Mussolini ed al suo massimalismo e “codiresse” con lui l’organo del PSI, il quotidiano “Avanti!”. Rientrata in Russia nel 1917, le vennero affidate da Lenin responsabilità di governo. Divenne segretaria dell’Internazionale Comunista, ma nel 1922 rifiutò i metodi dei bolscevichi ed, entrata fra l’altro in forte contrasto con Zinoviev, uscì dal Komintern e lasciò l’URSS, stabilendosi a Vienna ed in seguito a Parigi. Qui fu vicina a Turati e diresse l’ “Avanti!”. Fu anche negli USA. Di ritorno in Italia con la liberazione, aderì al nuovo PSLI e rimase nell’area socialista sino alla morte. Tra l’altro, ha scritto: Ricordi di una socialista (1946) e Lenin visto da vicino (1959). Angelica Balabanoff, nel protestare per l’assassinio di Berneri, riconobbe in lui l’erede della migliore tradizione dell’anarchismo: “Dopo la scomparsa di Malatesta e di Fabbri, egli era certamente la mente più elevata del movimento libertario italiano” (da l’ “Avanti!”, Parigi 6.6.1937).

52 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

53 C. Berneri, La socializzazione, op. cit.

54 C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, op. cit.

55 Ibid.

56 Ibid.

57 Su Aurelio Chessa è appena uscita una biografia curata dalla figlia Fiamma, che attualmente gestisce l’Archivio Famiglia Berneri, oggi intitolato anche a nome del padre. Dell’Archivio Famiglia Berneri, Chessa è stato per decenni l’animatore. Senza l’impegno, le doti e la tenacia di questo vecchio militante, qualsiasi studio sul lodigiano, qualsiasi ricerca o anche il semplice reperimento di molti dei testi (anche fra i più significativi), sarebbe oggi estremamente difficile. Egli è riuscito a raccogliere, catalogare e conservare un insieme incredibile di reperti, significativamente incrementati pure rispetto a quanto ebbe dalla moglie di Berneri, Giovanna. Un’opera continuata da Fiamma con analoga abnegazione, arguzia e competenza.

Aurelio Chessa (Putifigari-SS, 30.10.1913 – Rapallo, 26.10.1996), si avvicina all’anarchismo dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale. Con Franco Leggio, risulta tra i fondatori del gruppo “Genova Centro” e nel 1948 conosce Giovanna Caleffi (vedova Berneri), fornendole aiuto per la Colonia estiva libertaria che ella costituisce su di una proprietà di Cesare Zaccaria nella zona di Sorrento. Alla scomparsa della primogenita di Berneri, Maria Luisa, Chessa s’impegna nel supporto della Comunità che le viene intitolata e nella gestione della segreteria della rivista “Volontà”. Nel frattempo viene processato per istigazione alla disobbedienza civile a seguito di una campagna astensionista. Ferroviere, è molto attivo nelle iniziative popolari che hanno l’epicentro proprio in Genova durante il luglio 1960 e la parte datoriale lo ammonisce per la partecipazione a scioperi e manifestazioni politiche, imputandogli l’inosservanza “degli obblighi di servizio”. Nel 1962, alla morte di Giovanna, l’ultima figlia di Berneri, Giliana, gli passa l’archivio di famiglia che assumerà poi l’attuale denominazione. Chessa, intrattenendo costanti rapporti con la vecchia militanza anarchica in Italia ed all’estero, incrementa il materiale, assumendo varie importanti donazioni. Parallelamente, egli dà vita alle editrici “Vallera” e “Porro”, curando la stampa di varie opere di Berneri. “Galleanista”, con la scissione della FAI intervenuta nel 1965, è fra i promotori dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica costituitisi il 4.11.1966. A quel punto, con ventidue anni d’anzianità, lascia il lavoro per dedicarsi interamente al movimento, impegnandosi, anche economicamente, oltre che per l’Archivio, nella cura del “Notiziario dei GIA” e del giornale “L’Internazionale”, nonché nella promozione di convegni ed iniziative a carattere nazionale (notizie da AA.VV., Dizionario biografico degli

anarchici italiani (2 volumi), Biblioteca Franco Serantini Edizioni, Pisa-Città di Castello, 2004).

58 C. Berneri, Lettera a Federica Montseny. Pubblicata postuma in Pensieri e battaglie, Parigi 5.5.1938. Oggi vd. in C. Berneri, Il federalismo libertario (a cura di Patrizio Mauti), Ed. La Fiaccola, Catania 1992.

59 La redazione di “Tiempos Nuevos” a Camillo Berneri – Barcellona, 3.9.1936: “Caro compagno, colla presente vogliamo chiederti un articolo di collaborazione per la nostra rivista <<Tiempos Nuevos>> su temi teorici di

orientamento e di ricostruzione sociale. Occorre che tu metta il necessario impegno nel sostenere, col tuo apporto intellettuale il nostro sforzo economico, in modo che noi si riesca a superare tutte le difficoltà del momento attuale, che assorbe in molteplici incarichi ed attività i compagni del corpo redazionale. Poiché la nostra Rivista, a livello nazionale come internazionale, è una pubblicazione unica nel suo genere come tribuna di propaganda libertaria, di grande prestigio, e indiscutibile importanza; vogliamo che rifletta nelle sue pagine i numerosi problemi di ricostruzione che gli anarchici devono affrontare nel momento attuale e il tuo apporto e le tue opinioni non devono mancare nelle sue pagine contribuendo così al chiarimento delle idee e delle tattiche del movimento libertario. Tenendo presente che il tempo preme, ti chiediamo che tu ci invii il tuo scritto colla massima urgenza, in modo che

possa uscire tra il 1° ed il 15 di questo mese. Sperando che tu risponderai alla nostra richiesta, ti salutiamo cordialmente. Redazione e Amministrazione” Il giornale chiedeva che Berneri inviasse il suo saggio su Lo Stato e le classi, già uscito in lingua madre sulla testata diretta dall’italiano (C. Berneri, Lo Stato e le classi, in “Guerra di Classe”, Barcellona, 17.10.1936, riportato in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.).

Ma è interessante anche la seguente comunicazione di “Solidaridad Obrera”, quotidiano, principale organo dell’anarchismo catalano (ed iberico). Chi la scrive, esponente della FAI, è il direttore del giornale (che sostituì De Santillán). Jacinto Toryho da parte di “Solidaridad Obrera” a Camillo Berneri (Barcellona, 10.11.1936): “Compagno Berneri, Salud! L’organizzazione mi ha appena incaricato della direzione del nostro giornale <<Solidaridad Obrera>>. Ho accettato ben sapendo l’enorme responsabilità che mi assumo, responsabilità che mi sarà alleviata se potrò contare sulla tua collaborazione, cosa che sollecito attraverso queste brevi righe. Ti sarei grato se mi inviassi un articolo settimanale sulla attività che realizzi, e ti esprimo il desiderio che lo scritto in questione non abbia una lunghezza superiore a tre cartelle senza interlinea. Senza altro se non il mio saluto, rimango fraternamente tuo. Toryho”. Entrambe le lettere sono tratte da C. Berneri, Epistolario inedito, Vol. II – a c. di Paola Feri, Luigi Di Lembo. Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1984, pp. 171-199.

60 C. Berneri, Levando l’ancora, da “Guerra di Classe”, Barcellona, n.° 4, 9.10.1936. Anche in Entre la revolution y las trincheras-Recompilacion de nueve articulos de Camilo Berneri (Guerra di Classe, Barcelona, 1936-1937), Rennes,

  1. Poi in Guerra di Classe in Spagna (1936-1937), Edizioni RL, Pistoia, 1971. 61 Ibid.

62 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

63 C. Berneri, Carlyle. Oggi in Interpretazione di contemporanei, Ed. RL, Pistoia 1972.

64 Ibid.

65 C. Berneri, Il romanticismo sanfedista, da “Pensiero e Volontà”, Roma, 15.6.1924.

66 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

67 C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 15.10.1932. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato con il titolo Il Soviet e l’Anarchia.

68 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, op. cit.

69 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

70 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

71 C. Berneri, Gli anarchici e G.L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti,”Pietrogrado 1917…”, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo La polemica con Carlo Rosselli.

72 C. Berneri, Il federalismo di Pietro Kropotkin, su “Fede!”, Roma 1925. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit. Riprendiamo il testo riportato da Masini nell’opera citata, ove però (come chiarisce P. Adamo nel suo Anarchia e società aperta, op. cit., pp. 258-259), va segnalata l’integrazione di C. Berneri, Pietro Kropotkin e l’anarcosindacalismo, “Guerra di Classe”, Bruxelles febbraio 1931.

73 Ibid.

74 C. Berneri, Pietro Kropotkin e l’anarco-sindacalismo, da Guerra di Classe, Bruxelles, febbraio 1931 (incluso da P. C. Masini nel testo precedente: C. Berneri, Il federalismo di Pietro Kropotkin).

75 C. Berneri, Fallimento o crisi?, in “Guerra di Classe”, Parigi 1930. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

76 C. Berneri, L’ora dell’anarco-sindacalismo, da “Guerra di Classe”, Parigi settembre 1930. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato sotto il titolo Anarco-sindacalismo, oggi e domani.

77 Ibid.

78 C. Berneri, Nietzsche e l’anarchismo, oggi in Quaderni liberi: C. Berneri, Interpretazione di contemporanei, op. cit.

79 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

80 C. Berneri, La socializzazione, op. cit.

81 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, op. cit.

82 C. Berneri, Considerazioni sul nostro movimento, firmato con lo pseudonimo “Camillo da Lodi”, in “Libero accordo”, Roma luglio 1926. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., pubblicato sotto il titolo Il movimento anarchico.

83 C. Berneri, Lettera a Luigi Fabbri, fra dicembre 1930 e gennaio 1931, pubblicata poi in Pensieri e battaglie. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

84 Ibid.

85 C. Berneri, Per finire, op. cit.

86 C. Berneri, Il cretinismo anarchico, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 12.10.1935. Oggi in P. Adamo, Anarchia esocietà aperta, op. cit.

87 C. Berneri, Risposta ad una consultazione sui compiti immediati e futuri dell’anarchismo, da “La Revue Internationale Anarchiste” (sezione italiana), Parigi, 15.1.1925. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op.cit.

88 C. Berneri, A proposito dell’Unione Anarchica Italiana da “L’Adunata dei Refrattari”, New York, 30.8.1922.

89 C. Berneri (firmato con lo pseudonimo “Camillo da Lodi”), Considerazioni sul nostro movimento, da “Libero accordo”, Roma 1920. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit., ivi pubblicato con il titolo Il movimento anarchico.

90 C. Berneri, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922.Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, op. cit.

91 Ibid.

92 C. Berneri, A proposito delle nostre critiche al bolscevismo, quotidiano “Umanità Nova”, 4.6.1922. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

93 Ibid.

94 Ibid.

95 Ibid.

96 C. Berneri, Due parole a Pietro Arcinov, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 5.10.1935. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

97 Si veda in proposito il duro attacco di Berneri all’Unione Comunista Anarchica che, appena abbracciata la teoria arcinovista, sollecitata dai socialisti massimalisti, progettava l’ingresso in un fronte unico con questi e con i comunisti (“L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 10.6.1933).

98 Basta dare uno sguardo a quanto scrisse (e fece) in Spagna, quando ad esempio fu promotore dell’espulsione di un militante di nome Girelli. Da C. Berneri, Un indegno, su “Guerra di Classe” (Barcellona) del 16.12.1936, si legge: “Comunico ai compagni tutti di aver richiesta l’espulsione dalla Spagna di Giuseppe Girelli, che iscritto alla milizia della CNT e della FAI, si è ripetutamente sottratto alle partenze per il fronte per abbandonarsi alle più indegne gozzoviglie. In Spagna un anarchico non viene che per combattere e per lavorare e non per sciupare tempo, energie, e soldi nelle bettole e nei postriboli. (…) Chi manca alla disciplina morale della milizia antifascista, come vi è mancato il Girelli, non è che un sedicente anarchico ed un pseudo rivoluzionario. Ed è doveroso sbarazzare il campo da questa gramigna”.

99 C. Berneri, In margine alla piattaforma, da “Lotta umana”, nella serie “Discussioni anarchiche”, Parigi 3.12.1927. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

100 Ibid.

101 Ibid.

102 Ibid.

103 C. Berneri, Lettera a S. Spada, Versailles, 15.11.1929, copia manoscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riportata da Carlo De Maria in Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

104 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 22 / 29.8.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, “Pietrogrado 1917…”, op. cit.

105 Frammento presente nella “Raccolta di articoli sul pensiero degli anarchici classici”, presso l’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia.

106 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

107 Luce Fabbri, Prefazione a C. Berneri, Guerre de classe en Espagne, Edition Les Humbles, Parigi, luglio 1938 (la traduzione è mia).

108 C. Berneri, I principii, da “L’Adunata dei Refrattari”, New York 13.6.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

109 C. Berneri, Anarchismo e federalismo – Il pensiero di Camillo Berneri, op. cit.

110 C. Berneri, Irrazionalismo e anarchismo, interno ad un dibattito, ma non pubblicato da “L’Adunata dei Refrattari”, uscito postumo ed incompleto su “Volontà” (Napoli) nel 1952, testo custodito dall’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in P.Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001.

111 C. Berneri, Anarchismo e anticlericalismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 18.1.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

112 C. Berneri, Irrazionalismo e anarchismo, op. cit.

113 C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

114 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, op. cit.

115 C. Berneri, Sullo Stato proletario. Manoscritto del 1936 per il “Nuovo Avanti”, censurato dalla redazione, raccolto nel fondo V. Richards, ora depositato presso AFB, Reggio Emilia e pubblicato da P. Adamo in Anarchia e società aperta, M&B, Milano 2001.

116 C. Berneri, Il marxismo e l’estinzione dello Stato, in “Guerra di Classe”, Barcellona 9.10.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

117 C. Berneri, Lo Stato e le classi, da “Guerra di Classe”, Barcellona 17.10.1936. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917..., op. cit.

118 Ibid.

119 C. Berneri, Abolizione ed estinzione dello Stato, da “Guerra di Classe”, Barcellona 24.10.1936. Oggi in P. C. Masini e A. Sorti, Pietrogrado 1917…, op. cit.

120 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

121 C. Berneri, Sulla difesa della rivoluzione. Per impedire la formazione di un’armata bianca, del 1929, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 21 / 29.5.1937. Citato da C. De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, op. cit.

122 C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, op. cit.

123 C. Berneri, A proposito di revisionismo marxista, in “Pensiero e Volontà”, Roma 1.4.1924. Oggi in P. C. Masini, A. Sorti, Pietrogrado 1917..., op. cit.

124 Berneri scrisse infatti: “L’uomo dell’avvenire sarà un miliardario delle idee, un re dello spirito, (…). L’uomo di domani sarà semplice. I suoi piaceri saranno intimi (la lettura dei filosofi e i giuochi erotici) o collettivi (il concerto con 100.000 uditori), piaceri che costano poco e sono inesauribili. (…). Il regime socialista è un sistema epicureo, non utilitarista borghese”. C. Berneri, La ricchezza che è in noi, in “L’Adunata dei Refrattari”, New York 17.6.1933. Citato da Gianni Furlotti, Le radici e gli ideali educativi dell’infanzia di Camillo Berneri, in Memoria antologica. Saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Ed. Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986.

125 C. Berneri, Il lavoro attraente, da “L’Adunata dei Refrattari” N. Y., vari numeri dal settembre al novembre 1936. Pubblicato in Spagna: C. Berneri, El trabajo atrayente, Ediciones “Tierra y Libertad”, Barcelona, 1937. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

126 C. Berneri, L’operaiolatria, op. cit.

132 Frammento di lettera di Salvemini a Berneri, Firenze 9.1.1924, conservato presso Archivio Famiglia Berneri –Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa /

Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980. Citato anche da Carlo De Maria, “Camillo Berneri tra anarchismo e liberalismo”, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

127 Ibid.

128 C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936. Oggi in P. Adamo,Anarchia e società aperta, op. cit.

129 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, op. cit.

130 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

131 C. Berneri, Costituzione della Federazione Italiana Comuni Socialisti (FICS), op. cit.

133 C. Berneri, Del diritto alla critica, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 2.7.1932. Citato in C. De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, op. cit.

134 C. Berneri, Come vedo il movimento giellista, op. cit.

135 C. Berneri, Il liberismo nell’Internazionale, op. cit. Oggi in Pier Carlo Masini, Alberto Sorti, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937. Scritti scelti di Camillo Berneri, op. cit., qui pubblicata sotto il titolo Una lettera a Pietro Gobetti. Berneri si riferisce (testualmente) a: Risposta di un internazionalista a Mazzini “(pubblicata sopra il giornale bakuninista <<L’Eguaglianza>> di Girgenti, e ripubblicata da Guillaume, che la trova superba e l’approva toto corde [cfr. Oeuvres, VI, pagine 137-140])”. Aggiunge (in nota) Masini: “Successive ricerche hanno accertato che l’autore dell’articolo L’Internazionale e Mazzini (e non Risposta di un internazionalista a Mazzini) apparso su “L’Eguaglianza” di Girgenti, fu non Saverio Friscia ma Antonino Riggio, direttore di quel giornale”.

Per quanto riguarda il testo citato, vd. James Guillaume, L’Internationale. Documents et souvernirs (1864-1878). Oggi vd. James Guillaume, L’Internazionale. Documenti e ricordi (1864-1878), (4 volumi), Edizioni Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti 2004 (nda).136 C. Berneri, I problemi della produzione comunista, in “Volontà”, Ancona 1.7.1920. Oggi in P. Adamo, Camillo Berneri…, op. cit.

137 C. Berneri, Lettera a Libero Battistelli, Versailles 7.12.1929, copia dattiloscritta da una spia fascista, Archivio Centrale dello Stato, riprodotta in Camillo Berneri. Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa / Pier Carlo Masini, Archivio Famiglia Berneri Edizioni, Pistoia 1980. Riportata anche da C. De Maria, Camillo Berneri…, op. cit.

138 C. Berneri, Del diritto alla critica, op. cit.

139 C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, op. cit.

140 C. Berneri, La questione elettorale. Il cretinismo astensionista, in Compiti nuovi dell’anarchismo, su “L’impulso”,Livorno 1955, già apparso come Astensionismo e anarchismo, ne “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia…, op. cit.

141 C. Berneri; Astensionismo e anarchismo, op. cit.

142 C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, op. cit.

143 Ibid.

144 Ibid.

145 C. Berneri, Libertà ed autorità, op. cit

146 C. Berneri, Lettera a Manlio Bonaccioli, Reggio Emilia, settembre 1918, originale in Archivio Feltrinelli, Milano.Pubblicata in appendice a C. Berneri, Epistolario inedito, Vol. I, a cura di Aurelio Chessa / Pier Carlo Masini. Ed.Archivio Famiglia Berneri, Pistoia (Carrara) 1980, p. 154.

147 Giampietro Berti, Il “revisionismo” di Berneri nella storia dell’anarchismo italiano, in Camillo Berneri singolare/plurale. Atti della giornata di studi. Reggio Emilia, 28 maggio 2005, Biblioteca Panizzi. Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2007, p. 22. Berti riporta una frase tratta da C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit.

148 Carlo De Maria, Camillo Berneri fra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

149 Segnala De Maria: “Il ‘mondo dell’associazione involontaria’ ricorda, decisamente, la ‘radice’ di cui scrisse Simone Weil (nel 1942-43): la ‘partecipazione naturale’ – ‘cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente’ – alla vita di una collettività (cfr. Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. di F. Fortini, SE, 150 Segnala De Maria: “A. Ferrara, Presentazione del fascicolo di ‘Parolechiave’, 1996, n.° 10/11, dedicato al termine ‘persona’ (pp. 9-12, p. 9)”.

151 Segnala De Maria: “Citate in M. Salvati, Lelio Basso protagonista e interprete della Costituzione, in G. Monina (a c. di), La via alla politica…, cit., pp. 33-50, p. 41. Basso è del 1903: di appena sei anni più giovane di Berneri. E’ da notare che entrambi ebbero interesse per la dimensione religiosa dell’uomo. Più in particolare, verso la metà degli anni venti, sia Berneri che Basso si avvicinarono alla rivista neo-protestante ‘Conscientia’ di Roma (Berneri vi collaborò nel periodo 1924-1926, con una decina di articoli). Più tardi, poi, Basso fu influenzato dal personalismo di Emmanuel Mounier. Berneri conosceva la figura dell’autore cattolico francese: lo nominò in un articolo (…); in più fra le sue carte vi è il ritaglio di un articolo di Mounier (cfr. Raccolta di articoli sul tema della ‘Intolleranza religiosa in Spagna’, in Afb, cassetta X). Per quanto detto su Basso, cfr. anche G. Monina, Basso, La Malfa e Ruini: considerazioni sul percorso formativo, in id. (a c. di), La via alla politica…, cit., pp. 11-29, pp. 12-15”.

152 Segnala De Maria: “Cfr. A. Finkielkraut, L’humanité perdue, Seuil, Paris 1998 (1° ed. 1996), pp. 80-81. Dedica attenzione a questo testo Mariuccia Salvati, Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001 (cfr. p. 101). Una precisa definizione di volontarismo politico la ricaviamo dalle pagine sul Novecento di François Furet: la tendenza a immaginare il sociale come un puro prodotto della volontà politica (cfr. F. Furet, op. cit., pp. 93, 187)”.

153 Segnala De Maria: “Usiamo questa formula poiché Berneri non usò il termine ‘persona’”.

154 Segnala De Maria: “C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, cc. 2 + cc. 4 con numerazione separata, in Afb, cit., cc. 2”.

155 C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri–Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia. Oggi in Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano

  1. Citato in questo caso da De Maria.

156 Segnala De Maria: “Cfr. M. Salvati, Hannah Arendt e la storia del Novecento, in M. Flores (a c. di), Nazismo,fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Mondadori, Milano, 1998, pp. 219-257 (p. 249); M. Salvati, Lelio Basso protagonista e interprete della Costituzione, cit., p. 33”.

Milano 1990, p. 49)”.

157 Segnala De Maria: “Simone Weil andò oltre. Nel 1942-43, la nozione di ‘diritto’ non le sembrava più sufficiente.Preferì quella di ‘obbligo’. L’obbligo al ‘rispetto’ dell’essere umano in quanto tale. Mentre ‘i diritti appaiono sempre legati a date condizioni’, ‘quest’obbligo è incondizionato’: ‘in esso nessun cambiamento nella volontà degli uomini può nulla modificare’. Dal rispetto per l’essere umano deriva il rispetto per ogni collettività (…)”.

158 Segnala De Maria: “Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., pp. 31-32”.

159 Segnala De Maria: “C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, (…)”, (op. cit. – nda).

160 Segnala De Maria: “Nell’intento di delineare una netta contrapposizione tra società e associazione, Berneri scrisse:’La società è per propria natura giuridica. L’associazione è essenzialmente contrattuale. (…) L’associazione è l’amante,la moglie, il partito: una cosa che si sceglie. La società sono i genitori, il paese di nascita: una cosa che si trova, che non si può cambiare’ (ivi, c. 4 di cc. 4)”. Il riferimento è sempre a La concezione anarchica dello Stato, op. cit.

161 Segnala De Maria: “J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 80”.

162 P. Adamo, Per una fondazione epistemologica dell’anarchismo: Camillo Berneri e l’empiriocriticismo, in Camillo Berneri singolare/plurale. Atti della giornata di studi. Reggio Emilia, 28 maggio 2005, Biblioteca Panizzi. Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2007, p. 112-113.

163 Ibid., p. 106.

E il povero Abele?

di Paolo Repetto, 2013

D’accordo, siamo stirpe di Caino;
ma ricordiamoci anche dello zio.

Quasi mezzo secolo fa, negli “anni formidabili” in cui la mia generazione giocava a cambiare il mondo senza accorgersi che il mondo era già cambiato da un pezzo, per conto suo e nella direzione opposta, io ero molto impegnato a verificare le possibilità di una rappresentazione terrena di quel sogno: ma avevo anche già imparato a prendermi intervalli di istruttiva ricreazione. Avevo ad esempio scoperto che per capire qualcosa della vita era più utile frequentare le aule dei tribunali (come spettatore, naturalmente) che quelle universitarie, e che il banco degli imputati era un’ottima cartina di tornasole per ogni laboratorio di chimica sociale.

Seguivo, al palazzo di giustizia di Genova, nelle pause tra un esame e un’assemblea e quando il lavoro part-time me lo consentiva, le cause più clamorose o le vicende più bizzarre. Un giorno mi trovai ad assistere ad un processo che vedeva alla sbarra un magnaccia di mezza tacca, accusato di aver ucciso a coltellate la convivente nei bagni di un cinema. L’imputato ad un certo punto, dopo aver ammesso il fatto (era difficile fare diversamente, l’avevano beccato col coltello in mano), proruppe in un pianto dirotto, proclamando che la sua mano era stata forzata dalla gelosia, perché lui quella donna l’amava. Davanti a me sedevano due anziani e assidui frequentatori delle udienze, due maestri di sarcasmo che parevano la versione dal vivo dei vecchietti dei Muppets. Il lapidario commento di uno dei due alla scena fu: “Meschinettu, u l’è ‘n sentimentale”.

Se paragono l’efficacia corrosiva di quelle tre parole alla melassa ipocrita che trasuda oggi dal teleschermo e dalla carta stampata, ho l’idea di una distanza vertiginosa, di una caduta a picco nel vuoto. Il “poveretto” icasticamente liquidato dalla più spiccia delle giurie popolari oggi sarebbe un personaggio della nuova mitologia mediatica. Sarebbe inondato da lettere di ammiratrici, apostole della redenzione o semplicemente amanti del brivido. Godrebbe di più passaggi televisivi del papa o di Berlusconi. Diverrebbe un’icona.

Forse nel frattempo è successo qualcosa.

A dire il vero, era iniziato tutto già duemila anni fa. Prima le cose andavano in un altro modo, erano molto più semplici. Quando Caino aveva ucciso Abele, Dio lo aveva maledetto e condannato a sputare sangue. Il principio era chiaro: sbagli, paghi. I discendenti di Caino avevano capito e avevano tradotto l’insegnamento divino nella legge del taglione. Come poi la legge fosse applicata, a favore di chi, con quali eccezioni e con quali aberrazioni, col principio c’entra poco, nel senso che non lo inficia. Tutto ciò che è umano ha qualche problema a rimanere in linea coi principi.

A complicare la faccenda venne però duemila anni fa la parabola del figliol prodigo, col povero primogenito che dice: “Ma padre, io sono rimasto qui buono buono, ho lavorato per voi, e nessuno mi ha mai detto grazie. Questo se ne va, si fa i cavoli suoi fregandosene di tutti, e come torna, solo perché probabilmente non ha nessun altro posto dove andare, gli imbandite persino il vitello grasso?” La domanda era condannata a rimanere senza risposta, perché uno che ti dice: “E vabbé, lui era perduto e lo abbiamo ritrovato, tu sei sempre stato qui, cosa dovremmo festeggiare?” non ti sta rispondendo: ti sta prendendo a schiaffi (e sta prendendo a schiaffi il principio). Ti sta dicendo che sei normale, che sei un buono, che non hai nemmeno nulla di cui pentirti, se non forse di non essertene andato prima di tuo fratello, e quindi non fai notizia.

Non raccontiamoci storie, ormai è così che funziona. Esiste in Italia (ma forse è diffusa in tutto il mondo) un’associazione che si chiama “Nessuno tocchi Caino”, rifacendosi direttamente all’ingiunzione divina (se però vogliamo stare alla lettera della Bibbia, Dio stesso marchia fisicamente Caino). Trovatemene una che si intitoli “Ricordati anche di Abele”. Non c’è. Il povero Abele ormai è andato, e pace all’anima sua. Magari avrebbe potuto essere ancora vivo, se qualcuno avesse scaldato al momento giusto la schiena di Caino: ma questo non si può dire, è politicamente scorretto.

E allora, seppelliamo velocemente Abele, magari salutando con applausi l’uscita della bara (è un bel preludio allo spettacolo, e liquida il risarcimento alla vittima). Poi offriamo a Caino la ribalta. Che non è più il banco degli imputati, ma vede sfilare in un crescendo di passerelle mediatiche ex detenuti pluriomicidi, ex brigatisti rossi o neri, ex tossici o alcolizzati che hanno sterminato mogli e figli. Sono importanti, si dice: testimoniano che ce la puoi fare, che c’è una speranza per tutti. Certo, per tutti quelli che possono concedersi il lusso di essere degli ex qualcosa. Non per le loro vittime, ad esempio. Ma neppure per altri, per quelli che, senza essere vittime, non sono stati nemmeno carnefici. Non ho mai visto ospitata la testimonianza di un ex operaio di fonderia. Uno che ha lavorato per quarant’anni ad un altoforno senza finire drogato o alcolizzato, o senza pensare che magari una rapina ben riuscita poteva cambiargli la vita, o che far fuori qualche alto dirigente poteva rendere migliore quella di tutti. Non sarebbe questa una testimonianza efficace? “Ragazzi, badate che ci si può fare, lo fanno in tanti: si può essere consapevoli dell’iniquità, laddove esista, della condizione propria e altrui, e combatterla con le armi lecite della dignità e del coraggio. Si può essere orgogliosi del proprio lavoro, addirittura della propria fatica, affidandogli il senso, o gran parte del senso, del proprio esistere”. Ma così è troppo banale. La parabola del figliol prodigo è stata tradotta nel “solo chi cade può risorgere” delle canzonette. Messaggio fantastico, perfettamente in tono col “fratello, pecca tranquillo, che la misericordia di Dio è infinita”. E chi poveraccio non cade? Chi ce la mette tutta e regge coi denti, perché non vuole cadere, perché crede nel dovere di essere normale?

Non basta. Ad aggiungere un’ulteriore beffa al danno è arrivata la sindrome del perdonismo. Come a Dio, anche alle vittime viene chiesto di esercitare una misericordia infinita. Da quando Wojtyła ha perdonato al suo attentatore (e nel suo caso non si vede che altro potesse fare, stante il ruolo e soprattutto il fatto che ne è uscito vivo) va in scena una squallida farsa. Alle vittime prima ancora di soccorrerle vengono cacciati a forza in bocca i microfoni per strappare parole di perdono. A figli che hanno appena persi i genitori, e magari nemmeno ancora lo sanno, a genitori che hanno vissuto per giorni lo strazio di non avere notizia dei figli, per poi vederseli restituiti scempiati e morti, una schiera di mentecatti stringe un vergognoso assedio, a caccia di dichiarazioni che insaporiscano la notizia. Dall’altra parte, delinquenti e maniaci recitano compunti le frasi di pentimento che gli avvocati mettono loro in bocca, e provano davanti alle telecamere i toni e gli sguardi per quando saranno chiamati anche loro nel circo a portare testimonianza.

È quanto già stanno facendo i nuovi protagonisti, quelli destinati a riempire il palinsesto della prossima stagione. La più recente versione della tragedia originaria vede infatti nella parte di Caino i persecutori e gli uccisori di donne, così che l’Abele dei nostri giorni sembra essere diventato dovunque e nel suo assieme l’universo femminile. Non a caso l’ultimo successo librario su scala mondiale è stato “Uomini che odiano le donne”. Il fenomeno è stato anche debitamente titolato, naturalmente con un termine anglosassone, stalking, che significa né più né meno persecuzione. Ma in Italia il termine ha dovuto essere aggiornato in senso peggiorativo: la persecuzione si sta traducendo in un vero e proprio sterminio, e a sottolineare l’esistenza di una tipologia di omicidio dalla forte connotazione “di genere” è stato coniato un bruttissimo neologismo, femminicidio. Non so quanto questa sottolineatura aiuti o complichi la percezione di ciò che sta realmente accadendo, ma non è il caso di perdersi nelle sottigliezze semantiche. “Femminicidio” sta ad evidenziare l’incredibile aumento delle violenze mortali perpetrate nella sfera domestica o comunque affettiva. E che non si tratti solo dell’effetto di una passeggera sovraesposizione mediatica, (quella per intenderci che produce un paio di volte l’anno, ai cambi di stagione, i titoli sulla pedofilia o sugli stupri degli extracomunitari), lo dimostrano i numeri e le percentuali, che crescono in maniera esponenziale. In Italia la metà delle donne vittime di morte violenta sono uccise da mariti, fidanzati e conviventi, quasi sempre ex: la media mondiale è di poco superiore al dieci per cento. Siamo in linea con i paesi islamici e con le aree più arretrate del mondo.

Le cifre a dire il vero erano già alte da prima, come si conviene ad un paese che ha contemplato sino agli anni ottanta il “delitto d’onore” nel suo codice penale e lo conserva ancora oggi in quello etico. Ma il fenomeno odierno ha poco da spartire col vecchio delitto d’onore, anche se al fondo permane la stessa concezione “padronale” del rapporto di coppia da parte maschile. Questo residuato di millenni di androcrazia cozza oggi con un atteggiamento femminile che nel giro di mezzo secolo si è radicalmente “occidentalizzato”, e che non accetta più la sudditanza: ragion per cui i maschi “mediterranei” si trovano completamente spiazzati, e sembrano saper rispondere solo con reazioni istintive ed esasperate. Non sono più messi in questione “l’onore” e l’identità pubblica, ma l’autostima, il ruolo e l’identità privata.

Sappiamo tutte queste cose perché della crisi del maschio, e di quello latino in particolare, discettano da tempo in tivù sociologhe, psicologhe e filosofe di vaglia, oltre ai femministi equi e solidali: e non ho dubbi che la loro analisi sia fondata. Ma, al di là del fatto che può essere applicata solo ai paesi mediterranei, perché le donne nordiche sono emancipate da un pezzo e tuttavia la violenza è in aumento anche a quelle latitudini, a cosa approda poi, in definitiva, tutto questo chiacchiericcio? A setacciare i libri di testo a caccia di immagini o espressioni scorrette (perché è sempre la mamma a preparare la cena?), alla richiesta di declinare al femminile gli appositivi di ruolo (si può usare magistrata?) e di bandire quelli che già lo sono, ma in negativo (perché si usa la spia anche per i maschi?), a sollecitare la rivalorizzazione dell’apporto muliebre in tutti gli ambiti, pretesa che in molti casi si rivela ridicola o insensata (come faccio a rivalutare il ruolo della donna nella musica classica, se non ci sono state grandi creatrici di sinfonie o di opere liriche? Ma soprattutto, è poi così importante?), a proporre una cultura della differenza che viene poi contraddetta dalla richiesta di quote rosa nell’esercito, nel giornalismo calcistico e in parlamento. Messa in questo modo, tutto finisce in sostanza per essere ricondotto ad una versione aggiornata dell’eterna rivalità tra uomini e donne, ad una resistenza dei primi allo sparigliamento dei ruoli determinato dal modo di produzione industriale. E le analisi vengono inframmezzate da inserti pubblicitari che naturalmente degradano a merce l’immagine femminile, o alternate a trasmissioni nelle quali l’esibizione di seni, glutei e dentature ricorda il mercato degli schiavi.

Io credo ci sia ben altro. La spiegazione dello spiazzamento, al di là dei modi in cui è stata fatta propria dalla cultura del salotto televisivo, che la condisce di testimonianze e di lacrime in diretta – di quelle dei soli carnefici, per ovvie ragioni –, non è affatto sufficiente. Rimane in superficie e alla fine, se anche non assolve, è in qualche modo “comprensiva” nei confronti dei violenti.

Se davvero vogliamo invece capire cosa sta accadendo dobbiamo risalire più a monte: guardare non solo al femminicidio, ma ad un insieme crescente di comportamenti in apparenza insensati e che tuttavia configurano un nuovo modello culturale. La ragione profonda sta infatti nel trionfo di un relativismo etico che da sempre è presente nel cromosoma cattolico del nostro paese – per questo dicevo che ha avuto inizio duemila anni fa – ma che è diventato carattere dominante negli ultimi quarant’anni. Sulle responsabilità del relativismo la penso dunque esattamente come Ratzinger; siamo meno d’accordo sulle sue cause e sulla sua natura. Quello che Ratzinger non dice, infatti, è che allo sfascio odierno ha contribuito la Chiesa stessa, proprio per come ha indirizzato e interpretato il proprio ministero (ammetto comunque che gli ultimi sviluppi della carriera dell’ex-pontefice me lo hanno fatto sentire più vicino).

In sostanza: è in atto una de-valorizzazione di ogni valore, che è altra cosa dalla trasvalutazione di Nietzsche, ancorché a Nietzsche più di uno dei suoi teorici si rifaccia, e che sta ribaltando la prospettiva entro la quale si era andata costruendo, nel corso di tutto il secondo millennio, l’etica occidentale. Quell’etica era il frutto dell’ibridazione tra le due radici della nostra cultura, quella ebraica e quella greca: Dio che dice ad Abramo “Prenditi la responsabilità di decidere con la tua testa” e Socrate che dice al suo discepolo “Prima di farlo, però, guardati dentro”. Si fondava quindi sull’idea di una responsabilità individuale, conseguente la libertà dell’uomo di scegliere tra diversi possibili comportamenti. In origine si trattava ancora di una libertà molto condizionata, perché il fato in Grecia e Jahvè in terra di Palestina, nonché i vincoli creati dalla “organicità” al gruppo, continuavano a metterci il becco: ma era già un bel passo avanti rispetto alla totale eteronomia che caratterizzava le società più antiche. Alla confluenza tra i due percorsi, nella “volgarizzazione” cristiana, questa idea la si era annacquata e resa più digeribile a tutti, reintroducendo un ampio margine di “non responsabilità”: in quanto mortali e imperfetti gli uomini devono essere aiutati e orientati dall’alto nelle loro decisioni, e qualora sbaglino, purché lo riconoscano, possono sperare nella misericordia divina (eccolo, il figliol prodigo!). Come a dire: le regole che l’uomo trova stampate nella coscienza le ha dettate Dio, evidentemente a propria misura. È implicito che per gli umani valga un po’ di tolleranza, altrimenti sarebbe un gioco impari.

Un’etica veramente laica, quella che oggi riconosciamo come tale perché suppone che a dettarsi le regole sia l’uomo stesso, e quindi sia tenuto a rispettarle senza sconti, aveva cominciato a farsi strada solo nel Medio Evo, e si era infine imposta nel secolo di Spinoza e del libertinismo. Kant ne aveva poi data la formulazione più alta, fondandola da un lato sull’autonomia assoluta del singolo, dall’altro su una determinazione “formale” (il “tu devi”). Siamo umani, possiamo fare solo quello che possiamo; ma almeno questo dobbiamo farlo. “Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura”. Ne scaturiva che il “diritto” è ciò che l’uomo si conquista assolvendo con senso di responsabilità al proprio dovere, e che il dovere sta nel rispetto incondizionato, volontario e disinteressato di valori evidenti e assoluti, presenti alla coscienza di ciascuno, quale che sia la sua formazione culturale (“Tutte le nazioni hanno onorato come virtù la bontà, la compassione, l’amicizia, la fedeltà, la sincerità, la riconoscenza, la tenerezza paterna, il rispetto filiale”, aveva scritto Diderot). Nell’imperativo kantiano è lasciato ben poco spazio al pentimento, tanto alla sua versione cattolica che prevede un riscatto intermediato quanto a quella protestante che lo risolve nella disperazione individuale: il senso di responsabilità deve guidare la scelta, non attivarsi a posteriori e ridursi a senso di colpa. Fosse stato il padre della parabola, Kant avrebbe detto al primo figlio “tu stai facendo solo il tuo dovere, e dovresti già essere appagato perché lo fai”; ma non avrebbe certo ucciso il vitello grasso, e forse nemmeno una gallina, per quello prodigo.

Bene, tutto questo sembra oggi far parte di un mondo che non c’è più, come quei paesaggi che compaiono nelle vecchie foto di famiglia e che sono a stento riconoscibili nella bruttura contemporanea. Kant era ancora in vita e già gli si rimproverava, alla luce di quanto stava accadendo in Francia, di aver celebrato troppo precipitosamente l’uscita dell’Uomo “dalla minorità”, fingendo di ignorare quanto il maestro di Könisberg fosse invece consapevole della distanza intercorrente tra questi e l’Umanità (e non solo lui. Diderot, che anticipa molti aspetti del pensiero di Kant e riassume quello dei philosophes, scrive: “In tutto il mondo è stata imposta agli uomini non la migliore legislazione che si potesse dar loro, ma la migliore che essi potessero ricevere”) e che la sua era, prima e oltre che un auspicio, una proposta programmatica. Il paradosso è che Kant viene tacciato di utopismo per aver chiesto al singolo uomo di mirare alto, anzi, di guardarsi dentro e di essere “etico” per sé, per dare senso qui e subito alla propria esistenza, senza attenderne il riscatto da improbabili future palingenesi: mentre realistiche sarebbero quelle concezioni che attribuiscono a masse “irresponsabili” la volontà e la capacità di realizzare, opportunamente guidate, una società giusta. O quelle che semplicemente, preso atto che l’umanità cresce come un “legno storto”, abdicano ad ogni speranza di raddrizzarlo.

Di fatto, nei due secoli successivi da ogni direzione all’individuo è stata nuovamente negata quell’autonomia di scelta che comporta una piena assunzione di responsabilità; e questo in nome di volta in volta della natura, di Dio, dello stato, della storia, della comunità, del progresso, da ultimo persino del mercato. La sfiducia nell’uomo tant’è ha prevalso: evidentemente è più comodo considerarlo un eterno minore, incapace di dettarsi dei fini, e ricondurlo velocemente sotto tutela, come era accaduto in reazione all’illuminismo greco. In questo modo l’individuo diventa insignificante strumento, sacrificabile a fini sempre più grandi di lui: una volta scaricato della responsabilità verso se stesso potrà essere caricato facilmente della soma di incubi e utopie che altri sognano per lui.

Anche le critiche più fondate all’eccesso di soggettivizzazione dell’etica kantiana (provenienti tanto da destra che da sinistra, da Spengler ai francofortesi), quelle che paventavano i rischi di una deriva individualistica, alla fine hanno fatto gioco solo alla demolizione del vecchio impianto di valori, senza proporre nulla di nuovo o di alternativo. Tra i molti che presagivano come questa deriva avrebbe portato alla cancellazione delle individualità in una massa indistinta, pochi hanno capito che tra il rimbambimento totalitario e la solitudine disperata di fronte all’assurdo rimaneva sempre una terza via, coerente negli esiti, se non nelle premesse, con la formulazione di Kant. Da Leopardi a Camus, si contano sulle dita di una mano.

Risultato: la demolizione dei valori “forti” illuministici, iniziata da subito, con Fichte e l’idealismo e proseguita ininterrottamente sino ad oggi, ha sollevato un polverone in cui alla fine tutti gli uomini diventano grigi, tutte le azioni sono leggere e tutte le idee risultano intercambiabili. Sotto questa nuvola c’è un deserto di terra bruciata, sulla quale può crescere solo un “pensiero debole”; un insaccato di macerie, informe e dilatabile sino a contenere e a giustificare tutto. La debolezza del pensiero, la negazione dell’esistenza di un sistema di valori interiori di riferimento, l’educazione degli individui alla non-responsabilità creano peraltro l’humus ideale per l’affermazione del totalitarismo. E infatti quest’ultimo, sconfitto nel secolo scorso in quelle incarnazioni politiche che ne facevano una bandiera, ha trionfato alla fine nella versione post-moderna, sotto le spoglie “democratiche” del mercato e della finanza, ed ha imposto il credo della produzione e della crescita illimitate. In aggiunta, la crisi tardonovecentesca delle ideologie, collassate sotto l’incalzare dell’indifferenza unica (nel senso sia soggettivo, del non cercare un senso, che oggettivo, di non averlo) non ha significato affatto la scomparsa dell’ideologismo: ha solo banalizzato le prime e ha reso impossibile combattere il secondo, che è sopravvissuto come scoria e ha inquinato in profondità le falde del pensiero.

Questo avvelenamento ha prodotto una concezione prettamente garantista e sofistica del diritto. Il diritto non è interpretato oggi come progressiva e consapevole conquista interiore, da porre poi a fondamento dei rapporti esterni, ma come una fiammella pentecostale che la storia ha fatto scendere sugli uomini, a proteggerli e deresponsabilizzarli preventivamente piuttosto che a illuminarli e responsabilizzarli. L’idea che non sia trasmissibile come un immobile di padre in figlio o da una generazione all’altra, e che ciò che va trasmesso è semmai il terreno libero sul quale ciascuno sarà poi chiamato a coltivarlo, riesce particolarmente indigesta. Non solo ai legulei, che sulle interpretazioni a senso unico del diritto ci campano, ma a tutti quanti, compresi legislatori e sindacalisti. La nostra è ormai una cultura del diritto acquisito, non di quello conquistato: e se le parole hanno un senso, questa è la differenza nei confronti del mondo che Kant sognava, guardando sì al futuro, ma anche al suo presente.

L’arroccamento su questa concezione del diritto come pura corazza difensiva presuppone che gli individui vengano sollevati dalla responsabilità piena delle loro azioni. Se nessuno è considerato capace di agire in totale autonomia, si configura una sorta di collettiva incapacità di intendere e di volere. Ma dal momento che con qualcuno bisogna pur prendersela, nel minestrone culturale del post-moderno il ruolo che era attribuito un tempo al fato o all’arbitrio divino viene oggi imputato alla “società”. Al termine del gioco al rimpallo la “paglia” finisce ad una generica società matrigna, colpevole di tutto perché ingerisce e condiziona, e del suo contrario perché è assolutamente indifferente e fredda (Leopardi, che queste cose le pensava della natura, attribuiva però la responsabilità alla presunzione umana di esserne al centro). Così, quando viene chiamata in causa quale responsabile, e cioè in ogni caso in cui non si possano scaricare sui più prossimi le colpe, la società è percepita come presenza esterna, o addirittura estranea, con la quale ci si scontra, anziché sentirsene partecipi. Quando invece la si evoca in positivo (la fantomatica “società civile” che resiste, che si indigna, che è migliore dei suoi governanti), allora sembra comprendere una ristretta cerchia di persone (in pratica, la nostra). Che sia null’altro che l’insieme dei singoli e ne sommi le attitudini, e che il risultato non sia superiore alla somma ma ne rappresenti la media, è una evidenza che non riesce ad imporsi. A seconda dei casi torna comodo giocare al rialzo o al ribasso. Soprattutto però non viene presa in considerazione la possibilità e la pretesa che il livello medio delle coscienze individuali si alzi, e che tutti si sentano parte della comunità con responsabile coerenza: dato che la maggioranza è “minorenne”, occorre applicare uno statuto etico più morbido. É il trucco dell’atrazina nell’acqua: dal momento che non riusciamo a rispettare i livelli minimi di tollerabilità, alziamo i valori ammessi e l’acqua torna miracolosamente potabile.

Dietro il fenomeno della violenza sulle donne c’è dunque ben altro. Non è distorta solo la percezione dell’immagine femminile, lo è quella globale della vita e del suo senso. Il balordo che dopo aver strangolato la fidanzata telefona ai carabinieri dicendo: “Ho fatto una cavolata” userebbe la stessa espressione dopo aver causato una strage guidando ubriaco, o dopo aver dato fuoco ad un barbone. Il problema vero è la riduzione di tutto ad una “cavolata”, e la strada che conduce a questa distorsione è perfettamente ripercorribile, anche se ricorda quel giochino da settimana enigmistica nel quale si univano i puntini numerati per scoprire una figura. Il percorso parte come abbiamo visto dall’ostracismo intellettuale decretato ai “valori forti”, passa per la delegittimazione a priori di ogni istituzione, avvalorata a posteriori dallo scandaloso comportamento di chi le istituzioni dovrebbe rappresentarle e difenderle, e attraverso una serie di giri viziosi arriva al garantismo inossidabile dei genitori nei confronti di qualsiasi comportamento idiota dei figli (lo conosco bene, è un bravissimo ragazzo, magari un po’ influenzabile, ma a casa non si è mai comportato così” – che implica “siete voi che me lo rovinate”) o a quello farisaicamente ideologico dei difensori ad oltranza dei diritti del persecutore (qualche anno fa una circolare ministeriale sul bullismo invitava a considerare come prima vittima, negli episodi di bullismo, proprio colui che compie il gesto. Abele si rivolta ancora nel suo tumulo). È inevitabile che la figura che compare alla fine sia un mostro.

Sarà il caso allora di cominciare a lavorare proprio dalla scuola, come del resto predicano nei talk show e nei convegni le psicologhe e sociologhe e i femministi. Ma non certo per espungere le massaie col grembiule dai libri di testo, o per dare a Giovanna d’Arco altrettanto spazio che a Napoleone. Il lavoro da farsi è ben altro, è arduo e quasi impossibile, perché va a cozzare contro le resistenze congiunte delle famiglie, della burocrazia ministeriale, dei garantisti d’ordinanza, nonché delle corporazioni stesse degli indagatori della psiche, individuale e collettiva, che ogni giorno inventano sindromi nuove. È evidente, ad esempio, che il bulletto o ragazzino caratteriale che a scuola diventa un soggetto con Bisogni Educativi Speciali, e anziché essere alzato per le orecchie gode di particolari attenzioni e piani di studio personalizzati, e fa il suo percorso alla pari con gli altri ma faticando meno, così da potersi ritagliare tutto il tempo e le occasioni per rompere agli altri le scatole, continuerà per tutta la vita a pensare alle sue azioni come a “cavolate”: e se contrariato distruggerà la vita di un’altra persona, sia essa l’ex compagna, o il coinquilino che protesta, o l’automobilista incrociato all’autogrill, con la stessa indifferenza con la quale a scuola rovinava quella degli sfortunati compagni e distruggeva magari i loro libri o i loro cappotti. Allo stesso modo incendierà cassonetti o auto o caterpillar, non appena gli si presenterà l’occasione di una ribalta e di una bandiera che ammanti la sua nichilistica idiozia di una qualche confusa idealità: magari appellandosi alla militanza in un movimento anarchico del quale, nella sua perfetta e pervicace ignoranza, non sa un accidente (qui è lo spirito di Berneri e di Malatesta a rivoltarsi). E troverà la “comprensione” proprio di chi dovrebbe invece sentirsi due volte offeso, per lo sfregio stupido al civismo e per la ferita inferta a idealità generose e sincere.

Non sto dicendo che quattro calci nel sedere risolverebbero il problema e ammansirebbero ragazzi allevati allo stato brado. Sto dicendo che per aiutarli davvero, loro e quelli che con loro hanno a che fare, la scuola non ha bisogno di reti di buone pratiche e di corsi di formazione dove si racconta la favola del brutto anatroccolo, e nemmeno di tutto l’armamentario di laboratori informatici e registri elettronici che sembra diventato la panacea di ogni problema: ha bisogno di gente che a sua volta nei valori ci creda, li conosca, li pratichi e non si sia già arresa alla loro scomparsa. Che non dia per scontata l’impotenza dell’istituzione a difendere le vittime, i miti, coloro che frequentano ancora con la voglia e col piacere di imparare, dalla prevaricazione e dalla violenza impunita, e dalla delusione che questa impunità crea. Perché ogni gesto di violenza tollerato, sottovalutato o persino in qualche modo “giustificato” non si porta dietro solo il danno immediato o remoto alla vittima (tra gli stalker non ci sono solo i persecutori per vocazione, ma anche quelli per reazione, quelli che hanno accumulato rancore proprio per non essersi sentiti protetti), ma anche quello, forse maggiore, inferto agli occhi di tutti alla credibilità dei valori più elementari della convivenza. E davvero crea un danno allo stesso persecutore, perché lo rafforza nella convinzione che non ci siano dazi da pagare, che tutto sia insomma “una cavolata”.

Esiste sul serio la possibilità di fare argine al progressivo scivolamento nell’”indifferenziato”? É difficile crederlo. Mi sono soffermato sulla scuola perché la ritengo l’ultimo ridotto dal quale si potrebbe ipotizzare una resistenza, ma non credo ci si debbano fare troppe illusioni. Degli altri fronti poi, da quello della famiglia a quello della politica, non val nemmeno la pena parlare. Lì la guerra è già persa da un pezzo, e non è necessaria un’indagine sociologica per capirlo. È sufficiente guardarsi attorno. Ciò che vediamo somiglia sempre di più all’immagine televisiva: e non perché sia la televisione a rispecchiare il mondo, ma perché è ormai quest’ultimo a conformarsi a un modello di comunicazione e di rapporti costantemente urlati, si tratti di pubblicità come di politica, di sentimenti come di cultura. Questo mondo a modello unificato offre il terreno della rivincita agli ignoranti, e ne diventa ostaggio. Sono loro gli “utenti” più fedeli, meno critici, più manovrabili: e per attrarli, a loro deve sempre più somigliare. Dal momento che in tutti i casi l’obiettivo è vendere qualcosa, per allargare il bacino dei possibili acquirenti si tara al minimo la richiesta di un impegno intelligente. Anzi, possibilmente la si esclude. L’offerta marcia in conseguenza. Non si fa audience tra gli idioti con chi dice cose intelligenti, ma con chi litiga e insulta. Non c’è posto per i figli che rimangono a casa, ma per quelli che scappano.

Se anche le fosse consentito, quindi, la scuola si troverebbe a combattere una guerra solitaria. Eppure di questa guerra deve farsi carico. È rimasta l’unica istituzione a poter educare i giovani al fatto che non c’è convivenza senza un sistema di regole, che le regole valgono per tutti allo stesso modo e che non sono arbitrarie restrizioni, ma poggiano sul riconoscimento di valori positivi universali. Questi valori li può raccontare attraverso la narrazione storica, li può rintracciare nella tradizione letteraria, li può dimostrare con l’analisi scientifica, soprattutto li può inverare affermandoli e difendendoli nella quotidianità delle relazioni interne. Può naturalmente anche metterli in discussione, o meglio, mettere in discussione le interpretazioni che ne sono state date, le strumentalizzazioni e le distorsioni cui sono stati piegati: anzi, deve farlo, ma senza mai perdere di vista la verità che solo il riferimento ad un sistema di valori consente di pensare un futuro, perché impone di fare un progetto della propria vita, di attribuirle un fine, e quindi di darle un senso.

Per spiegare tutto questo la scuola dovrebbe recuperare senso al linguaggio: ridare alle parole il loro significato, ripristinare la loro aderenza alle azioni e alle cose. L’impoverimento progressivo del linguaggio, l’uso improprio o approssimativo dei termini, la loro perdita di peso e di sostanza, non sono solo una spia ma anche la concausa della confusione e della povertà morale. La scuola può insegnare che un omicidio non è una cavolata proprio restituendo al termine tutto il suo peso e all’azione tutto il suo carico di responsabilità.

Avremmo tutti più che mai bisogno di una bella ripassata alla grammatica della vita: ma per i miei coetanei e per i nostri figli maggiori temo sia purtroppo già tardi. Non resta che guardare ai più giovani: non per un melenso giovanilismo, perché la giovinezza non è una virtù, ma una condizione, e la percentuale di idioti non varia tra le fasce d’età, quanto semplicemente perché sono ancora in tempo ad imparare qualcosa. E perché sono le giovani generazioni a pagare il prezzo più alto della sparizione di valori. Lo pagano nell’indeterminatezza del presente, ma soprattutto nell’azzeramento di ogni possibile futuro: questo vuoto impedisce infatti loro di pensare a qualcosa che valga al di là dell’immediato e del contingente, le induce a lasciarsi trascinare dagli eventi e dagli istinti, soprattutto le assolve da responsabilità nei confronti delle generazioni più sfortunate ancora che seguiranno.

Vista in questa prospettiva, la strage delle donne è dunque solo una delle tante disastrose conseguenze di quella delle idealità. E allora non troverà riparo nei telefoni rosa o nei centri d’ascolto, e nemmeno nelle leggi ad hoc e nei sit in di solidarietà o di protesta, ma solo in un colpo di reni che ci rimetta in piedi, per quanto storti, e restituisca a noi la dignità di sentirci responsabili delle nostre azioni e alle vittime almeno l’amaro conforto di essere riconosciute come tali. Per intanto, però, si potrebbe intraprendere l’azione educativa col restituire la responsabilità ai Caino di turno, e soprattutto col togliere loro la ribalta. Non è necessario arrivare alla damnatio memoriae. Basta molto meno. Mi sembra di sentirli, i miei due vecchietti, se potessero assistere alle ignobili farse dei pentimenti “ in diretta”: Cosse ti veu, ‘sun tuti ‘nnamué.

Ma per fortuna, dove siedono ora, non c’è televisione.

 

Berneri e le foglie secche dell’ideologia

di Paolo Repetto, 2012

Chi dice chiaramente il proprio pensiero,
senza cercare applausi e senza temere le collere,
è l’uomo della rivoluzione

Su un’altra “tragica fine”, quella di Camillo Berneri, il piccolo almanacco rosso tagliava secco e pesante: “Vigliaccamente trucidato dagli stalinisti”. Ero un ragazzino, avevo letto I Ragazzi della via Paal e coltivavo come un cavaliere medioevale la repulsione per tutto ciò che puzza di viltà, fisica o psicologica che sia. Quell’avverbio mi indignava: immaginavo Berneri colpito alle spalle, perché se gli si fossero presentati di fronte non avrebbero avuto scampo, come con Modesto o con Cipriani. Ma non c’era verso di trovare altri riscontri: il nome di Berneri pareva cancellato dal libro della storia. Ho dovuto attendere la metà degli anni sessanta e l’ingresso all’università per avere qualche notizia più precisa.

Si è trattato anche allora di una conoscenza di seconda mano, perché Berneri sembrava aver lasciato solo pamphlets polemici occasionali, praticamente irreperibili: ma è stata comunque sufficiente, assieme alla lettura delle opere di Kropotkin, a traghettarmi da una concezione salgariana dell’anarchismo ad una curiosità politica e umana più profonda. Solo di recente però, da quando ho potuto finalmente rintracciare i suoi scritti più significativi, quell’interesse è diventato una vera e propria empatia. Ho scoperto un anticonformismo genuino e ho trovato una incredibile consonanza con mia la visione del mondo e degli uomini. Se non porto Berneri nel cuore, come accade per i maestri della mia gioventù, da Leopardi a Camus, è solo perché sono ormai troppo anziano per i colpi di fulmine: ma lo reputo un “amico”, e di là del rimpianto per non averlo frequentato prima mi viene da lui il conforto di non avere sprecato tutto questo tempo. Temo solo, a questo punto, che le pagine che seguono finiscano per confondere troppo spesso la mia voce con la sua. Non sarebbe una novità.

Camillo Berneri appartiene alla quarta (ed ultima) generazione anarchica. Potremmo definirla la generazione degli antifascisti, dopo quella degli ex-mazziniani o ex-garibaldini, che va in pratica da Pisacane a Cipriani, quella degli insurrezionalisti, Cafiero e Malatesta, e quella dei terroristi, Passanante e Bresci. Con essa, e nella resistenza ai totalitarismi di destra e di sinistra della prima metà del Novecento, l’anarchismo vive le ultime luci del crepuscolo: poi calerà il buio totale.

L’appartenenza di Berneri a questa generazione è in realtà più anagrafica che sostanziale: il nostro è riuscito infatti a farsi considerare un eretico anche da coloro che da sempre sono gli eretici per antonomasia. Questo spiega, perché ancora oggi sia tanto difficile accostare direttamente il suo pensiero: e, di converso, perché mi sembri quanto mai doveroso contribuire a strapparlo a questo oblio1.

Un’adolescenza socialista – Quando Berneri viene al mondo a Lodi, nel 1897, Cipriani sta combattendo (e perdendo) la sua ultima battaglia, mentre Cafiero è già morto da un pezzo e l’anarchismo ha chiuso la sua stagione più significativa. Anche a lui la vocazione libertaria è trasmessa geneticamente, ma nel suo caso il cromosoma più irrequieto è quello materno: Adalgisa Fochi è una scrittrice e insegnante socialista che vanta un padre garibaldino e un nonno carbonaro, e che prima di fermarsi in Emilia si porta appresso il figlio nei suoi continui trasferimenti su e giù per l’Italia. Camillo non scoppia di salute: ha rischiato di morire appena nato e ad ogni spostamento si busca una nuova malattia. Di conseguenza rimarrà cagionevole anche da adulto: ma questo non gli impedirà di essere comunque coriaceo e combattivo.

L’esordio politico è naturalmente precoce. Entra nel partito socialista a quindici anni, a Reggio Emilia, in un ambiente improntato al socialismo “educazionista” di Camillo Prampolini, al quale Berneri continuerà ad ispirarsi anche dopo il passaggio all’anarchismo. A diciassette è redattore della rivista del movimento giovanile e appena scoppia la guerra mondiale riesce a sbatterne fuori il direttore, che si è schierato con Mussolini a favore dell’intervento (in questo frangente ha l’aiuto di Bordiga). È un ragazzo determinato, convinto che ai giovani debba essere riconosciuto uno spazio reale di partecipazione (e capace di conquistarselo: a diciott’anni è già nel Comitato Centrale della federazione emiliana), e radicalmente antimilitarista. La sua posizione è ispirata ai principi del collaborazionismo operaio europeo: non crede affatto che la guerra spalanchi le porte alla rivoluzione, e meno che mai che si possano fare dei distinguo tra i vari imperialismi: il compito delle classi operaie europee è semmai quello di sabotare un conflitto anacronistico e suicida. Su questi temi, come vedremo, non accetta tentennamenti.

Quanto al ruolo del partito, ne ha una concezione più culturale che politica: la sua funzione deve essere in primo luogo educativa. L’innalzamento del livello culturale delle masse è la precondizione necessaria, e forse anche sufficiente, per ogni rivoluzione futura. Su questa posizione influisce senz’altro la lezione di Prampolini, e più ancora la vocazione pedagogica della madre: ma per un diciottenne cresciuto nel clima massimalista dell’anteguerra, quando nella sinistra è più che mai viva l’attesa di un risveglio “dall’interno” delle masse e si confida nel detonatore rivoluzionario della “coscienza proletaria”, è comunque indice di una maturità non comune.

Partendo da queste posizioni è quasi scontato che Berneri intraprenda un percorso diametralmente opposto a quello compiuto da Andrea Costa. Al secondo anno di guerra, in aperto contrasto con l’atteggiamento del partito socialista, che è in pratica quello di un acquiescente “né aderire né sabotare”, e disgustato dalla facilità con la quale un sacco di ex adepti sono passati all’interventismo (oltre a quello di Mussolini c’è ad esempio il caso di Cesare Battisti), esce dal Comitato Centrale. Negli ultimi suoi interventi sulla rivista denuncia il fatto che la cultura italiana, e non solo quella borghese, dopo essersi avvitata su “inutili astruserie metafisiche” ha finito per soggiacere ai miti del superomismo e alle tentazioni imperialistiche. Di lì a poco chiude anche con il partito2.

Berneri ha a questo punto solo diciannove anni. Sulla sua decisione e sul suo futuro orientamento hanno un peso determinante l’amicizia stretta con un coetaneo anarchico, Torquato Gobbi, rilegatore di libri, che gli sembra rappresentare molto meglio che non i compagni di sezione la purezza dell’ideale rivoluzionario, e il rapporto con Giovanna Caleffi, anch’essa anarchica, che sposa quando entrambi sono ancora minorenni e che sarà la compagna non solo della sua vita ma anche delle sue lotte3. Nel 1918 Giovanna gli dà una figlia, ma né questo né il fatto di essere stato riformato ad una prima visita gli risparmiano la chiamata alle armi. Non dà un grande contributo alla vittoria: dopo pochi mesi all’Accademia di Modena viene sbattuto al fronte, dove ha il tempo di farsi notare e denunciare per due volte al tribunale militare, per insubordinazione e per aver fatto propaganda anarchica tra i soldati. Appena congedato, nel 1919, dopo aver soggiornato per qualche mese al confino di Pianosa per la partecipazione ad una manifestazione di piazza, comincia a collaborare con Errico Malatesta e con la stampa anarchica, ed è uno dei fondatori dell’Unione Anarchica Italiana.

La sua posizione, però, risulta “non allineata” persino nel mare magnum dell’anarchismo, dove pure non esiste un canone ufficiale e dove il dibattito è molto più acceso e vivace che non all’interno dei partiti di matrice marxista. La linea che Berneri sposa non è in realtà nuova: è già stata intrapresa da Malatesta, che ne “L’anarchia” teorizzava un “gradualismo” rivoluzionario: la rivoluzione per l’anziano maestro è un percorso a tappe, che conosce sviluppi diversi a seconda delle differenti situazioni socio-economiche di partenza. Dove esistono le condizioni per farlo gli anarchici devono naturalmente attuare il loro programma, ma in altri casi non possono che opporre la massima resistenza alle ricomposizioni post-rivoluzionarie in direzione statalista o capitalistica, fornendo esempi di vita e d’azione che mantengano viva la speranza, e rimandando a tempi migliori la costruzione dalla società totalmente libera. Ciò suppone una distinzione tra “giudizi di fatto”, che concernono la realtà storica e naturale, e “giudizi di valore”, che concernono le idealità; ai secondi si impronta la dimensione politica, ai primi quella economica. Berneri procede nella stessa direzione, ma sposta di molto in avanti i margini del possibilismo “tattico”, senz’altro nella dimensione economica, ma in una certa misura anche in quella politica, mentre per quanto concerne l’imperativo etico rimarrà assolutamente intransigente.

Sin dall’inizio della sua militanza anarchica Berneri si trova dunque ad essere classificato come un “revisionista”, stimato per le capacità operative e per l’incredibile mole di lavoro polemico che riesce a svolgere, ma sempre sospetto di devianza rispetto ai dogmi irrinunciabili del credo anarchico. Il che, peraltro, è vero, se quella anarchica viene vissuta come un’ideologia o come una religione, anziché come una disposizione: e Berneri, anziché respingere sdegnato l’accusa, quasi la rivendica4: “Non temiamo quella parola ‘revisionismo’, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come a dogmi”.

I conti con il leninismo – Motivi di scandalo all’ortodossia anarchica Berneri ne dà parecchi. Le occasioni non gli mancano. Nel momento stesso in cui sta transitando dal socialismo all’anarchismo scoppia la Rivoluzione d’ottobre. Avviene ciò che per decenni era parso irraggiungibile, o si era intravisto solo per un attimo durante la Comune, ed è reso possibile da un progetto politico e da una tattica che non coincidono affatto con quelli dell’anarchismo. Per certi versi, pensa Berneri, è normale che gli anarchici ne diffidino, ma per altri occorre che accettino almeno inizialmente l’accaduto come un risultato positivo.

Il successo ottenuto dai bolscevichi mette infatti in qualche modo fuorigioco l’anarchismo classico, che non appare più adeguato ai nuovi assetti sociali ed economici; ma offre anche l’opportunità per un ripensamento profondo, se non sui fini, almeno sui modi dell’azione rivoluzionaria. Fino a quando quello della rivoluzione è stato un sogno proiettato nel futuro lo si poteva trattare appunto come un sogno, rivestendolo di tutte le intransigenze teoriche e tattiche rispetto all’esistente politico proprie dell’anarchismo; ma adesso che si è tradotto almeno in parte in realtà occorre rivedere le proprie posizioni, per non restarne fuori.

Lo scenario nuovo fa scaturire intanto alcune domande fondamentali. La prima è addirittura: ha ancora senso essere anarchici? Ovvero: si è attesa invano per anni una rivoluzione che rendesse inutile la dialettica politica; ora la rivoluzione c’è stata, ma la dialettica si ripropone anche all’interno di essa. Si può continuare a rifiutarla categoricamente? E poi: se l’anarchismo viene a compromesso con l’esistente, è ancora anarchismo? Vedremo dopo quali risposte Berneri si dà: per intanto le domande se le pone mentre agisce, mentre combatte. I dubbi non gli impediscono di mettersi in gioco comunque. E le realtà che vive di volta in volta, dal momento che con la realtà ha scelto di confrontarsi, lo indurranno in seguito a sfumare le sue posizioni e magari a porsi altre domande.

Insomma, Berneri è esattamente l’opposto di Cipriani, che attraversa sessant’anni di battaglie senza essere scalfito da altro se non dalla stanchezza. Ciò non significa che non sia egualmente sorretto da una fede incrollabile: solo che la sua riguarda più la necessità individuale di un’esistenza eticamente giustificata (il senso del dovere, per capirci) che non la bontà assoluta della causa per cui combatte. E questo spiega la sua disponibilità a rimettere in questione i modi e in qualche misura anche i fini di questa causa.

Per quanto concerne la rivoluzione russa Berneri parte dalla semplice oggettività del fatto che è avvenuta. L’evento assume già di per sé un grande valore, perché se non altro dimostra che una rivoluzione ci può essere. La rivoluzione ha poi portato alcune novità che gli sembrano importantissime, prima tra tutte la nascita dei soviet: una qualche forma spontanea di autorganizzazione risulta dunque possibile. Pur essendo evidente anche a lui che quella russa è una vittoria del socialismo autoritario rispetto a quello libertario, ciò non gli impedisce di pensare che la Russia sia un immenso terreno di sperimentazione, ancora tutto da esplorare5. Di qui la necessità di darsi una mossa, “di adeguare velocemente il programma politico ed economico dell’anarchismo alle necessità strategiche della rivoluzione”: in altre parole, se gli anarchici vogliono che qualcosa accada devono scendere dal regno celeste dei sogni e posare i piedi sul terreno della realtà (anche a rischio di infangarli un po’). “Non si può rimanere abbracciati ai cadaveri dei maestri – dice Berneri – anche se di giganti come Bakunin; bisogna maturare una visione più ampia ed acuta delle nuove situazioni”.

Questa impostazione, della quale è ancora quasi per intero debitore a Malatesta, prende il nome di “attualismo”, e viene appunto sofferta da molti anarchici come “revisionista”. Berneri ne è perfettamente cosciente: “Sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi”. Così come è cosciente che capirlo e seguirlo risulta, per i compagni, piuttosto problematico, soprattutto inizialmente, quando sembra convenire che la “dittatura del proletariato”, sia pure intesa in modi e con funzioni ben diverse da quelle bolsceviche, sia un passaggio legittimo e necessario della rivoluzione. “Io credo che la concezione integrale e ortodossa del comunismo libertario porti, nel campo della realtà, alla dittatura del proletariato, non quale è nel significato che danno a questa formula i comunisti autoritari, ma come formazione storica scaturente dal fatto di una rivoluzione spinta ai limiti estremi” scrive ancora nel 19206. Ma ha già ben chiaro quale piega stiano prendendo le cose: ragion per cui due anni dopo dichiara che “criticare i criteri e i metodi del partito comunista russo, illustrare gli errori e gli orrori del governo bolscevico, è per noi un dovere e un diritto, perché nel fallimento del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma delle nostre teorie libertarie7. A sgombrare il campo da eventuali dubbi hanno provveduto le rivelazioni di quei compagni che hanno vissuto in prima persona sia la rivoluzione che la sua rapida deriva autoritaria, e sono stati abbastanza svegli o fortunati da sfuggire alla feroce repressione delle comuni e dei soviet anarchici operata da Trotsky.

È anche convinto che occorra relativizzare, saper leggere i fenomeni nel loro specifico contesto: in fondo, “ogni rivoluzione ha lo sviluppo di cui è capace il popolo che la compie”. Quel modello rivoluzionario, poi, gli appare tanto particolare da fargli scrivere che “non si può giudicare con criteri occidentali una rivoluzione che appartiene più all’Asia che all’Europa”. Questo significa anche che è assurdo guardare ad esso come ad un archetipo; al più, può essere l’esempio di una generica “possibilità” concreta. Per contro, vede il grave pericolo insito in questa speranza di “esportazione”, quando dice che l’idea comunista educa gli italiani (e gli occidentali tutti) ad attendersi quasi una venuta provvidenziale (“verrà Lenin”, diventato poi “verrà Stalin”) invece che ad elaborare una loro via alla rivoluzione e una loro risposta alla crescente reazione.

Molto più tardi, tornando sul tema della dittatura del proletariato nel bel mezzo della contrapposizione politica della guerra di Spagna, si esprimerà in questi termini: “Dittatura del proletariato è una formula equivoca quanto il popolo sovrano: concetto e formula di imperialismo classista, equivoca e assurda. Il proletariato deve sparire, non governare. Il proletariato è proletariato perché dalla culla alla tomba è sotto il peso dell’appartenenza alla classe più povera, meno istruita, meno passibile di individuale emancipazione, meno influente nella vita politica, più esposto alla vecchiaia e alla morte precoce, ecc. redento da queste ingiustizie sociali, il proletariato cessa di essere una classe in sé, poiché tutte le altre classi sono spogliate dei loro privilegi. Cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc. Il problema sociale, da classista, si farà problema umano. La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore”8.Difficile essere più chiari.

Sarebbe dunque ingeneroso, anche dal punto di vista della stretta osservanza anarchica, imputargli un eccessivo entusiasmo iniziale nei confronti della rivoluzione russa. Quando questa scoppia Berneri ha vent’anni, da tre è in corso una carneficina destinata a cambiare le sorti del mondo e ancora le organizzazioni politiche e sindacali tradizionali della sinistra non riescono a uscire dall’impasse del lealismo nazionalista. È più che naturale che saluti ciò che sta accadendo in Russia come un evento epocale, ed è in buona compagnia, perché dello stesso avviso è mezza Europa. Avrà modo sin troppo presto, sulla propria pelle, di rendersi conto di quanto la vittoria del bolscevismo sia stata letale per il futuro delle speranze rivoluzionarie e dell’idea libertaria. Non dimentichiamo che ad altri, ai più, è occorso mezzo secolo per arrivarci, e che qualcuno deve ancora capirlo adesso.

Fenomenologie dell’autoritarismo: il culto del capo – All’inizio degli anni venti Berneri ha ormai due figlie e porta a termine gli studi: si laurea in Filosofia a Firenze con Salvemini ed entra a far parte della cerchia del primissimo antifascismo, conoscendo personaggi come Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei, collaborando a Non Mollare e a numerose altre riviste, tra le quali la Rivoluzione liberale di Gobetti. Di lì a poco deve però lasciare Firenze, perché ormai è nel libro nero dei fascisti: dopo aver subito un paio di aggressioni si ritira perciò ad insegnare a Camerino, senza naturalmente cessare l’opera di propaganda politica e di “revisione” dell’anarchismo.

I modi e i tempi di questa revisione sono imposti dal convulso precipitare di eventi e mutare di situazioni che caratterizza la prima metà degli anni venti, quando sembra possibile tutto e il contrario di tutto: è ancora viva la speranza rivoluzionaria, ma appare già chiara la deriva statalista e totalitaria dell’URSS; si afferma il fascismo, ma ancora sembra destinato ad autoliquidarsi per la sua rozzezza politica; nascono a sinistra del partito socialista nuove forze, ma questo anziché rafforzare il movimento libertario ne esaspera le contrapposizioni interne. Berneri vive quelli che Hobsbawm definisce “tempi interessanti”, nei quali non è facile tenere il passo degli avvenimenti; e la scelta di non perdere di vista quanto realmente accade, e di non sacrificare “i fatti” forzandoli ad ogni costo a rientrare in una costruzione teorica cristallizzata, lo porta ad allargare su più fronti la sua attenzione, a cogliere gli elementi di novità in ogni piega e in ogni risvolto dell’attualità. Per questo lo troviamo instancabilmente impegnato ad analizzare con tutte le armi critiche possibili, compresa la psicanalisi, i fenomeni nuovi che caratterizzano la scena politica, primo tra tutti naturalmente quello dell’irresistibile ascesa di Mussolini.

In un articolo apparso su “L’Ordine Nuovo” nel 1924 Gramsci aveva scritto che Mussolini era in fondo soltanto un buffone, estraneo alla vita nazionale, e che al massimo sarebbe passato alla storia delle maschere italiane. Berneri, che Mussolini lo conosce bene, avendone già ammirato nel 1912 una performance nel congresso socialista di Reggio Emilia, non ne è altrettanto sicuro, e lo ribadisce più volte. Dieci anni dopo, nel 1934, torna in maniera definitiva sul tema con un breve e saporitissimo saggio, Mussolini grande attore, nel quale, usando gli strumenti dell’analisi psicoanalitica oltre a quelli della critica storica, dimostra quanto invece la figura del dittatore sia costruita attraverso l’uso sapiente dei nuovi strumenti di propaganda (la radio e il cinema) e l’assunzione di atteggiamenti plateali ma di grande effetto. Mussolini ha la capacità di “recitare”, più ancora che di interpretare, un ruolo nella storia. È vero, si serve spesso di un apparato e di modi da avanspettacolo, che riflettono l’evidente povertà dei contenuti politici; ma ci sono aspetti, in questa rappresentazione, che non vanno sottovalutati, primo tra tutti quello dell’”educazione delle masse” o, se vogliamo, del loro plagio. È naturale per Berneri, che ha sempre attribuito un valore prioritario all’educazione dei giovani, apprezzare, sia pure in negativo, la capacità di Mussolini di operare direttamente su questi ultimi attraverso la scuola e le altre forme di omologazione e di inquadramento parascolastiche. Non è un caso, dice Berneri, che la prima riforma del fascismo sia stata quella di Gentile.

La promozione dell’immagine e del culto di Mussolini è chiaramente funzionale per Berneri ad un progetto di “normalizzazione” del potere, che passa attraverso l’azzeramento della coscienza critica della massa, e quindi di ogni opposizione. Il ricorso alla rappresaglia fisica, che è stato fondamentale per il fascismo al momento della conquista del potere e nella fase di consolidamento, consentendo di tagliare le teste pensanti più pericolose, ha lasciato il campo da un lato ad una “rappresaglia” istituzionale, legalizzata, dall’altro al condizionamento psicologico: e questo sembra aver funzionato perfettamente.

In realtà infatti non è tanto la figura di Mussolini ad interessare Berneri, anche se ci legge un possibile esito di certe esasperazioni individualistiche riconducibili persino all’anarchismo, quanto invece la reazione (verrebbe da dire: la mancanza di reazione) della massa, pronta a farsi circuire da un imbonitore, per quanto scaltro. “Per essere un grande attore non bastano virtù soggettive, occorre anche comprendere e interpretare le esigenze del pubblico, in un dato luogo, in un momento dato”. Altro che estraneo alla vita nazionale! Berneri consente perfettamente con Rosselli quando questi scrive che il fascismo “esprime i vizi profondi, le debolezze latenti del nostro popolo, del nostro intero popolo. In un certo modo, il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione”. E una parte di responsabilità, nella creazione del “mostro”, Berneri l’attribuisce anche alla sinistra, tutt’altro che immune dal culto della personalità. La sua analisi può quindi essere estesa, al di là dello specifico mussoliniano, anche ad altre situazioni, prima tra tutte quella sovietica; e per taluni aspetti, fatte salve le ovvie differenze, calzerebbe perfettamente a quanto accaduto in Italia negli ultimi due decenni.

L’anarchico più espulso della storia – Dopo il delitto Matteotti il regime, anziché indebolirsi, si consolida e i guai per Berneri e per la sua famiglia si moltiplicano. Intanto Camillo rifiuta di prestare il giuramento di fedeltà alla monarchia (e a questo punto, implicitamente, al fascismo) imposto a tutti i docenti, e viene quindi privato della cattedra: poi, dopo le aggressioni che costeranno la vita a Gobetti e ad altri antifascisti di punta, e dopo essere sfuggito ad un paio di agguati delle squadracce, capisce che il cerchio si sta stringendo e nell’aprile del 1926 si rifugia in Francia. Di lì a poco viene raggiunto da Giovanna e dalle figlie. Ma la vita del fuoruscito non è facile: è costretto ad arrangiarsi con lavoretti saltuari, mentre cerca di mettere assieme i pezzi di una organizzazione che di fatto è allo sfascio, sotto i colpi delle delazioni e degli agenti provocatori. Fa un po’ di tutto, anche lavori che sono assolutamente incompatibili con la gracilità del suo fisico: racconta ad esempio che “fu a Le Pecq, mentre in costume e in fatica da muratore mi aveva sorpreso uno dei “responsabili” comunisti. “Ora la puoi conoscere, Berneri, l’anima proletaria!” Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di sabbia e due secchi di “grossa” riflettei sull’anima proletaria”. 9 Non pretenderà mai, però, a differenza di altri, che il suo temporaneo rapporto con il lavoro manuale ne abbia fatto un “autentico proletario” e lo abbia abilitato a parlare a nome di tutti i lavoratori.

Nel 1928 viene arrestato ed espulso una prima volta dalla Francia come “pericoloso anarchico”. Nel suo ardore polemico ha finito per cadere in una trappola della polizia segreta fascista. Il gioco di quest’ultima consiste nell’alimentare attraverso i suoi agenti infiltrati i dissapori tra fuorusciti di tendenze ideologiche diverse, e anche Berneri è indotto ad attaccare un altro antifascista, il cattolico Giuseppe Donati. Questi è a sua volta manovrato da un secondo provocatore, e ad entrambi vengono fatti arrivare finanziamenti per pubblicare i loro opuscoletti. Il risultato è che i due si scambiano pesanti accuse, offrendo alla polizia il pretesto per stare loro addosso e alla magistratura quello per sbatterli fuori.

L’episodio conferma una debolezza che caratterizza tutti i movimenti di opposizione clandestina in ogni tempo e paese: la costante permeabilità all’infiltrazione di agenti provocatori. È indubbiamente un rischio ineliminabile, che deve essere corso e che è difficile limitare, specie in una situazione aggrovigliata come quella del fuoruscitismo, nella quale i riscontri sulla reale identità, attività e militanza sono molto più difficili: ma in questo caso l’impressione è che l’ambiente anarchico ecceda nell’accordare fiducia a chiunque si professi libertario (cosa che si verifica molto meno nelle formazioni comuniste, dove i filtri hanno maglie più strette), pur restando vero che un’idea come quella anarchica è perseguibile solo se si esclude il sospetto sistematico come procedura di sicurezza. In questo caso poi il fatto paradossale è che Berneri il fenomeno degli infiltrati lo ha studiato e denunciato in un opuscolo documentatissimo, Lo spionaggio fascista all’estero, pubblicato nel 1928, e ciononostante ne cadrà ripetutamente vittima.

Alla prima espulsione fa seguito una serie di peregrinazioni per mezza Europa, dall’Olanda al Lussemburgo, dalla Spagna alla Germania Ovunque arrivi Berneri trova ad attenderlo un paio di agenti che lo trattengono un giorno o due, lo identificano e lo rispediscono al mittente. Racconta lui stesso questi episodi in tono divertito, addirittura ricordando con affetto quei poliziotti che lo hanno trattato umanamente, e rievocando i contradditori improvvisati durante lunghe notti in guardina con quelli meno sensibili. Il vagabondaggio ha improvvisamente termine nel dicembre dell’anno successivo, quando viene arrestato in Belgio con l’accusa pesantissima di avere ordito un complotto per uccidere il ministro italiano Alfredo Rocco (l’autore del nuovo codice penale) durante una visita diplomatica. Nell’ambito della stessa operazione sono arrestati in Francia altri fuoriusciti italiani (tra cui Carlo Rosselli). Berneri è trovato in possesso di una pistola; si assume ogni responsabilità e scagiona gli altri, rimediando per sé una condanna a soli sei mesi di carcere, anche perché durante il processo emergono il ruolo e la reale appartenenza del “mandante”, l’infiltrato trentino Ermanno Menapace (che è a sua volta è condannato in contumacia a due anni). Scontata la pena Berneri è rimandato in Francia, dove subisce un altro processo e si becca un’altra condanna. Viene amnistiato dopo qualche mese e scarcerato nel maggio del 1930.

Ormai non può più essere espulso, perché nessuno degli stati confinanti è disposto ad accoglierlo. Nel giro di tre anni viene ancora arrestato quattro volte, ma tutto sommato la sua vita riprende più tranquilla, limitandosi al proselitismo e alla scrittura. In questo periodo la famiglia tira avanti con i proventi di una piccola drogheria gestita da Giovanna, che non manca di diventare una centrale di accoglienza e riferimento per i fuorusciti italiani.

La ricostruzione di ciò che è avvenuto nel 1929 riesce piuttosto confusa, e nemmeno lo stesso Berneri nelle lettere e nella bozza autobiografica che ha lasciato sembra avere le idee chiare. Nell’agosto del 1929 sono giunti a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, fuggiti in motoscafo dal confino di Lipari. Berneri, che con i Rosselli aveva già stretto amicizia ai tempi di Firenze e della frequentazione del Circolo di Studi Sociali gravitante attorno a Salvemini, vede in questo arrivo una grande occasione. Pochi mesi dopo viene costituito a Parigi il movimento Giustizia e Libertà, i cui orientamenti sono in sintonia con quelli di Berneri e degli anarchici. È soprattutto Lussu a spingere perché si passi immediatamente all’azione, adottando la tecnica terroristica degli attentati individuali, restituendo colpo su colpo ai fascisti e mirando soprattutto a eliminare Mussolini. Per alcuni mesi la collaborazione è aperta, e sull’onda di un entusiasmo un po’ precipitoso vengono progettati diversi attentati. Una nota informativa del dicembre del 1929, basata proprio sull’attività spionistica di Menapace, dettaglia minuziosamente a Mussolini le intenzioni e i movimenti di Berneri: in particolare il progetto di un attentato alla Società delle Nazioni di Ginevra, in collaborazione con altri anarchici e con esponenti di Giustizia e Libertà.

Pur facendo la dovuta tara alle informative dell’OVRA, di norma gonfiate e in qualche caso addirittura inventate di sana pianta dall’ufficio centrale per dimostrare l’efficienza del servizio, o dai singoli agenti per giustificare il proprio stipendio, esiste veramente a cavallo degli anni trenta, nelle fila dell’antifascismo e soprattutto tra i fuorusciti, la fissazione dell’attentato, del passaggio all’azione diretta.

Lo dimostrano i casi degli anarchici Schirru e Sbardellotto10, e l’urgenza di gesti dimostrativi è anche facilmente spiegabile con il sentimento di frustrazione che si va diffondendo tra gli oppositori, una volta constatato che non soltanto il regime non crolla per intrinseca debolezza, come si era sperato in un primo tempo, ma si rafforza e si radica sempre più, e che addirittura, dopo che la crisi del ’29 ha messo in ginocchio le maggiori potenze democratiche, sta guadagnando consensi tra la popolazione. A questo punto l’impressione di molti, e non solo degli anarchici, è che senza un gesto isolato che decapiti il potere non si arriverà a nulla. Mal che vada, l’azione diretta dimostrerà agli italiani e al mondo che il consenso al fascismo non è unanime, e che la resistenza è ancora ben viva.

Questo atteggiamento si intiepidisce poi verso la metà degli anni trenta, anche se i tentativi non cesseranno del tutto: ma essi saranno sempre più frutto di scelte isolate. La sorveglianza poliziesca e la repressione hanno resa impossibile in Italia qualsiasi congiura e, peggio ancora, il regime dimostra di saper utilizzare a proprio vantaggio, attraverso un organizzatissimo ed efficiente lavoro di enfatizzazione e disinformazione, ogni tentativo fallito, fino al punto di arrivare a costruirne di falsi.

Per intanto, con Berneri fuori gioco, non solo perché carcerato, ma anche perché gli arresti e il processo hanno drammaticamente portato alla luce le debolezze della rete anarchica, il sodalizio con Giustizia e Libertà si scioglie. Di lì a poco, nell’autunno del 1931, G.L. aderisce infatti alla Concentrazione Antifascista, un fronte di resistenza che riunisce i fuorusciti politici italiani di ogni colore, ma dal quale gli anarchici si sono autoesclusi.

Berneri come si è detto “gode” di un forzato periodo di riflessione, e come da suo carattere si interessa a varie discipline, dalla psicologia alla storia, dalla filosofia all’arte. Ma è tutt’altro che tranquillo. Scottato dal fallimento dei suoi progetti d’azione, e più ancora dalla caduta di credibilità conseguente l’affare Menapace, scrive nel 1930 dal carcere alla figlia Maria Luisa: “Sono contemporaneamente sereno e disperato: come se fossi rassegnato ad una fatalità e come se io disponessi di una volontà in grado di creare un mondo. La situazione è cambiata tanto da essere per noi tema doloroso; ciò che è grave ed esige una soluzione è che il peso frantuma l’energia dell’animo. Sono alla ricerca precisa di me stesso e devo vincermi. Non è il carcere che mi preoccupa, ma è lo sforzo che devo fare per uscire dalla mia vita di ieri che è una volta di più spezzata e che non spero di poter riprendere a meno che io non riesca a raggiungere un po’ di tranquillità11 . È questo però il periodo in cui le sue idee sull’anarchismo prendono una forma più compiuta.

Fenomenologie dell’autoritarismo: il culto della massa – Le contraddizioni che a posteriori si vorrebbero – o almeno, che alcuni hanno voluto – cogliere nel percorso teorico di Berneri sono solo apparenti. In realtà esso è sorretto da una tenace coerenza, che non si cristallizza in rigidità dogmatica ma si confronta di volta in volta con una eccezionale capacità di lettura del presente: oltretutto, in questo caso, di un presente caotico, confuso e mutevole, pregno di tutto e del contrario di tutto.

L’assenza dalla sua opera di una “formulazione teorica” strutturata è legata senz’altro alla continua precarietà in cui si trova a vivere, oltre che alla precoce scomparsa, e di questo Berneri si lamenterà spesso: ma è anche dovuta alla sua stessa concezione della militanza intellettuale, che lo mette in sospetto di fronte a tutto ciò che è astrazione ideologica, perché questa impedisce di avere chiara la situazione ed anche la condizione dei soggetti trattati. Fermarsi a teorizzare significa per Berneri perdere di vista quanto sta accadendo. D’altro canto, la sua concezione dell’anarchismo si va sempre più definendo come la definizione di una linea ideale, questa sì fissata una volta per tutte, di comportamento individuale, di responsabilizzazione personale, che non ha bisogno di revisioni: la revisione riguarda semmai il confronto con il mondo, che in questo modo viene liberato dalle pastoie di una teoria prefissata alla luce della quale di debbano leggere gli accadimenti.

Ciò non significa che Berneri non affronti i nodi cruciali della teoria. Lo fa eccome, e senza lasciarsi condizionare da particolari riverenze per le idee e per le formule del canone anarco-socialista. Il suo percorso di svecchiamento, mirato a “spazzar via le foglie morte dell’ideologia” parte dalla considerazione che “la crisi dell’anarchismo è evidente”, e che questa crisi è legata ad una interpretazione sbagliata dell’utopismo. I suoi compagni anarchici, per la stragrande maggioranza, non distinguono tra quello che può essere un modello sociale “ideale” di riferimento e quello che dovrebbe essere un modello “possibile”, da contrapporsi ai fenomeni emergenti o dominanti nella realtà “attuale”, le dittature fasciste e i totalitarismi. “Arriva il momento scrive Berneri in cui tutti domandano: cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per fare da capi, ma perché la folla non se li crei…”. Occorre redigere pertanto un programma di previsione per la futura società libera. Per diventare credibile l’anarchismo deve definire e dichiarare apertamente ciò che intende costruire. Si deve parlare di regole, di strutture economiche e di meccanismi decisionali. La lotta contro lo stato deve essere animata da una prospettiva di organizzazione futura.

Ma c’è dell’altro: il modello ideale non solo non è realizzabile, ma quand’anche lo fosse si tradurrebbe a sua volta in totalitarismo, come l’esperienza russa insegna. Non ci si deve illudere che l’anarchismo non corra certi pericoli: è a rischio come qualunque altra ideologia o credenza che ad un certo punto si fossilizzi attorno a dei dogmi. Per questo è necessario che la “revisione” sia sempre aperta, e che abbia il coraggio di arrivare alle radici dei problemi. Partendo proprio da quello, eterno, del rapporto tra libertà individuale e giustizia.

Nell’immediato dopoguerra in seno all’anarchismo si confrontano due diverse tensioni, che sono tanto lo specchio di quanto accade “fuori” quanto il risultato di un’ambiguità originaria del pensiero anarchico. Da un lato c’è il nuovo protagonismo delle masse operaie e contadine, messe in movimento dalla guerra, risvegliate dagli accadimenti russi e tuttavia sempre potenziali prede dell’estremismo demagogico di alcuni capi: dall’altro c’è una tentazione individualistica, giustificata dal mito della libertà assoluta individuale (la linea “nietzschiana”). Nell’anarchismo le due anime, populista e individualistica, hanno fino ad ora convissuto più o meno pacificamente: ma la nuova situazione creata dalla guerra, con la rivoluzione russa e con il fascismo, impone con urgenza e con drammatica necessità di compiere delle scelte. Occorre quindi arrivare ad una definizione chiara delle mete politiche da perseguire e dei percorsi da intraprendere, e va dissolta in primo luogo l’aporia che da sempre caratterizza il pensiero libertario: come conciliare la libertà individuale con la giustizia “egualitaristica” invocata dalle masse?

Berneri parte dal buon senso: la libertà individuale non è mai assoluta, ma sempre condizionata dalla necessità delle contingenze storiche, dal “contesto”. Quindi non si può continuare a parlare di “abolizione” dell’autorità, come recita la dottrina anarchica: l’obiettivo realistico è semmai la riduzione dell’autorità ai termini minimi consentiti dalla necessità. “L’ideologia kropotkiniana ci ha riportati all’ottimismo e all’ evoluzionismo solidarista. Sul terreno dell’ottimismo antropologico, l’individualismo ha perpetuato il processo negativo dell’ideologia anarchica, conciliando arbitrariamente la libertà del singolo con le necessità sociali, confondendo l’associazione con la società, romanticizzando il dualismo libertà e autorità in uno statico e assoluto antagonismo”. Con buona pace di Kropotkin, è inutile illudersi di poter realizzare la società dell’armonia: bisogna invece concentrare gli sforzi sulla società della massima tolleranza. “Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell’aggregato sociale, e forme primitive di società associazioni ebbe troppo presenti per capire l’ubi societas, ibi jus insito alle forme politiche che non siano preistoriche”12.

In pratica Berneri muove dallo stesso assunto di Hobbes, anche se ne ricava poi un esito diverso. Gli uomini non sono angeli, la loro natura e i loro impulsi non sono omogenei, e non convivono in una assoluta assenza di urti, di spigoli e di contrapposizioni. È necessaria una mediazione, e questa mediazione è appunto la politica. “La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un’approssimazione della realtà al sistema reale … non la ripetizione di dottrinari luoghi comuni”.

Come può darsi allora quella valorizzazione e quell’affermazione dell’individualità che l’anarchismo ha sempre perseguito e predicato? Attraverso il ruolo di guida che gli individui possono assolvere nei confronti delle masse, dice Berneri: “Il genio della rivoluzione non è genio di maggioranza, ma di minoranze fattive”. Questa concezione è indubbiamente molto influenzata da quanto è accaduto nella rivoluzione bolscevica, ma non va interpretata nella versione leninista: le “avanguardie” per Berneri non devono trascinarsi dietro il proletariato, ma stimolarlo, smuoverlo, aiutarlo a prendere coscienza: e questo possono farlo attraverso l’esempio personale (come diceva Cipriani), con l’attivazione della prassi insurrezionalista (come la predicavano e la praticavano Cafiero e Malatesta) e con la diffusione della conoscenza (come sostiene Berneri stesso). “La funzione delle élites mi parve chiara: dare l’esempio dell’audacia, del sacrificio, della tenacia; richiamare la massa su se stessa, sull’oppressione politica, sullo sfruttamento economico, ma anche sull’inferiorità morale e intellettuale delle maggioranze”. Il giacobinismo leninista è invece solo populismo demagogico: “Il nemico del popolo è il politicante, il parolaio che esalta il proletariato per esserne la mosca cocchiera, che esalta i calli per dispensarsi dal farseli o dal rifarseli, che denuncia come contro-rivoluzionario chiunque non sia disposto a seguire la corrente popolare nei suoi errori”.

Tutto questo ci conduce al rospo che probabilmente è risultato più indigesto per la sinistra, socialista, anarchica o comunista che fosse, e che rende ragione dell’ostracismo perdurante nei confronti di Berneri: la demitizzazione del proletariato.

Ne L’operaiolatria, un piccolo opuscolo edito nel 1934, come recensione a Socialismo liberale di Rosselli, Berneri afferma: Non ho mai lucidato le scarpe al proletariato “evoluto e cosciente”, neppure in comizio”. Non c’è da dubitarne. E aggiunge, coerentemente con quanto abbiamo visto sopra, che “il giochetto di chiamare “proletariato” i nuclei di avanguardia e le élites operaie è un giochetto da mettere in soffitta”. Le parole hanno un senso, e quando l’abuso o l’uso improprio le caricano di valenze eccessive o contradditorie è necessario rimettere ordine. È quanto Berneri intende fare, per cui passa a modo suo, senza mezzi termini, a sgomberare il terreno dalle favole e dalla retorica del romanticismo operaista.

Primo ad essere liquidato è l’assunto socialista che dà per scontata l’esistenza di un’“anima proletaria” delle masse, quasi che la coscienza di una appartenenza di classe fosse un portato biologico. Non c’è alcun automatismo, dice, per il quale l’appartenere di fatto ad una particolare classe sociale, in questo caso al proletariato, implichi una “coscienza” in positivo di tale condizione (su quella in negativo non c’è problema: se faccio la fame, me ne rendo senz’altro conto), vale a dire implichi anche la percezione della possibilità e della necessità di una azione collettiva di cambiamento (leggi: rivoluzione).“I primi contatti con il proletariato: era lì che cercavo la materia della mia definizione: l’anima proletaria non la trovai. Poi, entrato nella propaganda e nell’organizzazione, vidi il proletariato, che mi parve nel suo complesso quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, di infantili illusioni”.

In realtà le “masse oppresse” sono un’entità molto disomogenea, frammentata e vulnerabile, oltre che facilmente manipolabile, che può trovare un comune denominatore di resistenza e di attacco solo nella conoscenza sociale, economica e storica, ovvero nell’istruzione. Questo denominatore al momento è ancora ben lontano, a dispetto di “una retorica socialista che è terribilmente ineducativa, e i comunisti contribuiscono, più di qualsiasi altro partito d’avanguardia, a perpetuarla. Non contenti dell’”anima proletaria”, hanno tirato fuori la “cultura proletaria”. La “cultura proletaria” esiste, dice Berneri, ma “è ristretta alle conoscenze professionali e all’infarinatura enciclopedica raffazzonata in disordinate letture …. Una persona colta che si occupi ad esempio di scienze naturali e che non abbia conoscenze di matematica superiore si guarderà bene dal giudicare Einstein. Un autodidatta, in generale, ha in materia di giudizi un fegataccio grosso così. Dirà di Tizio che è un filosofucolo, di Caio che è un “grande scienziato”, …” Il che, al di là della generalizzazione polemica, può non piacere, ma è assolutamente vero.

Ma Berneri non si ferma qui. Arriva al dunque, quello di fronte al quale arretrano tutti gli intellettuali “progressisti”: “La dottrina socialista è una creazione di intellettuali borghesi. Essa non è una dottrina del proletariato, ma una dottrina per il proletariato. I principali teorici e agitatori dell’anarchismo, da Godwin a Bakunin, da Kropotkin a Cafiero, da Mella a Faure, da Covelli a Malatesta, da Fabbri a Galleani, da Gori a Voltarine de Cleyre, uscirono da un ambiente aristocratico o borghese, per andare al popolo. Proudhon, di origine proletaria, è di tutti gli scrittori anarchici il più influenzato dall’ideologia e dai sentimenti della piccola borghesia. Grave, calzolaio, è caduto nello sciovinismo democratico il più borghese”. Questo si chiama chiamare le cose col loro nome: anche perché nella connotazione “borghese” della cultura anarchica che Berneri evidenzia non c’è alcuna valenza negativa. “In tutti i campi il passato ci ha fatto eredi di beni inestimabili che non potrebbero venire attribuiti a questa o a quella classe…. Dei sapienti, degli scrittori e degli artisti borghesi ci hanno dato opere di una importanza emancipatrice; invece, degli intellettuali sedicenti proletari ci cucinano dei piatti spesse volte indigesti”.13 Berneri è insomma una sorta di Gobetti “emiliano”, forse meno brillante nella scrittura, ma non meno lucido nell’analisi e nello sguardo sulla realtà.

Mi permetto a questo punto un inciso. Passi per me, che ero un ragazzotto rozzo e sprovveduto, e Berneri lo conoscevo solo di nome: ma è possibile che in tutta la sinistra, nel sessantotto e dintorni, nessuno abbia avuto la ventura di leggere questo opuscolo, e di trovarci già diagnosticata e dissezionata l’ipocrita idolatria del proletariato che ha riempito per quasi due decenni riviste, salotti, cortei? O ancora: è possibile che quando, nel mezzo di una delle famose assemblee congiunte studenti-operai, un lavoratore dell’Ansaldo tagliava corto dicendo: “ragazzi, qui voi state parlando di rivoluzione, noi di un aumento di cinquanta lire l’ora”, fossi l’unico a pensare che quella era la genuina “coscienza proletaria”?

Amici e compagni di viaggio – Messi in soffitta il populismo e il bolscevismo, Berneri non ha esitazioni a denunciare il pericolo “totalitario” latente nello stesso pensiero anarchico, quello cui si accennava sopra. Totalitario può essere infatti anche il rifiuto radicale di ogni forma politica e di ogni istituzionalizzazione, perché suppone un’umanità composta di individui tutti perfettamente consapevoli e concordi sul significato da attribuire al termine libertà, e sull’etica che ne consegue: e dal momento che le cose non stanno così, finisce per trasformarsi in un’attesa indefinita della palingenesi sociale, che esclude ogni possibilità di agire davvero, con qualche risultato, qui ed ora.

Compito di una politica libertaria concreta e coerente è quindi quello di individuare delle soluzioni immediatamente attuabili, che da un lato salvaguardino il più possibile le libertà individuali e dall’altro consentano di sperimentare modelli inediti di aggregazione sociale. Questa ricerca va condotta nell’ambito dell’esistente, e deve sfociare nella continua costruzione dal basso di nuove forme politiche ed istituzionali. Dove non è possibile farlo al di fuori del sistema, si debbono cercare gli interstizi per operare dall’interno, senza esserne fagocitati.

Se vuoi costruire una società libera e giusta, dice Berneri, devi prevedere anche norme, diritti, istituzioni che difendano tale libertà. Questo significa, ad esempio, che va mantenuto un minimo di legislazione penale, e che per far rispettare quest’ultima sono indispensabili anche le carceri e i tribunali. “Un minimo di diritto penale è necessario, così come un minimo i autorità … Credo che l’idea di giustizia sia nel popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle14 . Semmai “gli anarchici mostrerebbero più intelligenza politica spingendo il popolo a conservare indipendenti dagli organi centrali governativi la polizia e la magistratura comunali”. Allo stesso modo, è certo fondamentale educare ad una concezione “ludica” del lavoro, conferendo a quest’ultimo una “dignità” che non sia puramente ed hegelianamente nominale, ma venga sostanziata da condizioni ambientali, corrispondenza alle attitudini, democraticità di rapporti, gratificazioni economiche e spirituali adeguate: ma va anche contemplata la necessità di una disciplina che integri, dove necessario, il senso individuale di responsabilità.

Ora, nell’esistente ciò che più si avvicina a questo modello è costituito da tutta la tradizione del liberalismo classico, che per un verso, certo, è responsabile di una falsa declinazione della libertà, quella che addirittura ha portato alle degenerazioni nazionalistiche, capitalistiche, colonialistiche, imperialistiche, e da ultimo totalitarie, ma per un altro almeno offre contro lo stesso totalitarismo qualche garanzia, con la difesa radicale della libertà individuale, ad esempio, o con il liberismo in economia. Non si può negare che alcune conquiste, sia pure soltanto sul piano teorico del diritto, sono state rese possibili dal liberalismo. E allora con il liberalismo, quantomeno con la sua versione “rivoluzionaria” (quella propugnata da Gobetti) o con quella “socialista” di Rosselli, è necessario confrontarsi (d’altro canto, “nell’Internazionale gli anarchici furono i liberali del socialismo”).

Per Berneri è pertanto assurdo accomunare nello stesso rifiuto la democrazia, per debole e fittizia che essa sia, con i fascismi e con il totalitarismo, come fanno molti suoi compagni e gli stalinisti ortodossi: prova ne sia il fatto che le batoste maggiori l’anarchismo le sta ricevendo, là dove era più radicato e contava maggiori forze numeriche e culturali, proprio per il crollo dei regimi liberal-democratici.

Partendo dal gradualismo di Malatesta Berneri distingue quindi in fasi il processo rivoluzionario. Questo può realizzarsi passando per un governo autoritario (è il caso bolscevico), e abbiamo già visto come va a finire, oppure attraverso un patto di convivenza tra quelle forze che, ciascuna a suo modo, sostengono la democrazia diretta.

La democrazia diretta non è ancora il compimento dell’anarchismo, ma gli prepara la strada. In questa fase il ruolo degli anarchici è quello di garanti della conservazione del “[…] carattere spontaneo, autonomo, extrastatale…” del regime consiliare, per evitarne le derive autoritarie: ma per farlo devono partecipare. E questo è in fondo è il compito che Berneri immagina per loro anche a rivoluzione compiuta, sia pure in posizione defilata: “Io non concepisco la vittoria degli anarchici nella rivoluzione come predominio politico, bensì come impossibilità di qualsiasi dittatura politica, non solo, ma anche dell’affermarsi di un ordine sociale in cui, pur non essendo soppresso l’antagonismo tra i partiti, prevalga un sistema di rappresentanze di carattere esecutivo prevalentemente tecnico […] In questa negazione della dittatura politica di qualsiasi partito, gli anarchici possono affermarsi non come forza di predominio egemonico, ma forza di equilibrio e di potenziamento. La vittoria sarà nostra a questa condizione, e sarà tanto più nostra quanto meno sarà appariscente la nostra partecipazione agli organi direttivi del nuovo ordine sociale”.

In sostanza, Berneri ipotizza come formula politica cui tendere una democrazia diretta che contempli anche un minimo di rappresentanza, sotto forma di una delega alla gestione di problemi e aspetti “tecnici”, revocabile in qualsiasi momento. In seno a questa democrazia compiuta la partecipazione non andrebbe più a confliggere con la militanza anarchica, ma ne sarebbe anzi il corretto esito, dal momento che l’anarchismo non è il fine, ma lo strumento. E anche lungo il cammino che a questa democrazia deve condurre possono darsi situazioni nelle quali, proprio per evitare arresti o retromarce, partecipare è un dovere.

La democrazia diretta non è però di per sé sufficiente a creare le condizioni per una società realmente libertaria. Deve combinarsi con il federalismo integrale, e solo da esso, anche su un piano prettamente tecnico, è resa possibile. L’avversario ultimo e più pervicace della società libertaria è infatti per Berneri la burocrazia. Tanto nelle “democrazie” borghesi come nei regimi autoritari la burocrazia è lo strumento di oppressione usato dallo stato accentratore – e lo è tanto più in quegli stati che si autodefiniscono “senza classi”. La salvezza dalla burocrazia – e quindi dallo Stato – può venire solo dal federalismo; e non da quello amministrativo, imposto dall’alto, ma da quello frutto di una rivoluzione sociale che produca comuni indipendenti, liberamente federati. Per federalismo integrale Berneri intende quindi un vero e proprio “comunalismo”15, che pone alla base gruppi corporativi come i consigli operai, contadini, professionali, ecc… e al centro un consiglio comunale elettivo, con potere esecutivo: via via poi ci saranno organismi di raccordo, come i consigli provinciali e regionali, sino ad arrivare a quello nazionale, ma con una struttura a piramide rovesciata e con deleghe sempre più ristrette e specifiche16 . Ogni altro tentativo di delegare il potere ad una rappresentanza eletta degenera per Berneri nel dispotismo. L’Anarchia è dunque “un sistema politico in cui al governo degli uomini subentra l’amministrazione delle cose17.

Le “cose” sono tutto ciò che attiene all’ambito economico. Come abbiamo già visto, per Berneri “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti, mentre sul terreno politico sono intransigenti al cento per cento. Se dunque la critica allo stato e la negazione del principio di autorità rimangono postulati irrinunciabili, la formula economica anarchica deve essere invece aperta e sperimentale. Guardando a ciò che è accaduto in Russia pensa si debba lasciar agire la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione può funzionare se nasce da una libera scelta, ma non ha alcuna chanche ed è anche profondamente anti-libertaria qualora venga imposta dall’alto. Berneri è un cooperativista, piuttosto che un collettivista: le aggregazioni devono essere spontanee, aperte alla risoluzione e vincolanti solo per quel che concerne alcuni patti e prestazioni fondamentali: per il resto agli individui deve essere lasciata la massima autonomia decisionale rispetto ai tempi, ai modi e alla destinazione delle proprie attività.18 È quindi per il mantenimento della piccola proprietà, per un’imprenditoria privata contenuta entro limiti di scala familiare, che può benissimo convivere e interagire, soprattutto in alcuni settori e non soltanto nel periodo della transizione rivoluzionaria, con un’economia comunitaria: in particolare, non deve essere attuata alcuna requisizione forzata delle produzioni agricole in funzione delle esigenze della città o dell’industria, né alcuna “nazionalizzazione” delle terre. Sarà sufficiente costringere entro regole antispeculative l’economia di mercato. Un regime di concorrenza pulita e di competizione escluderà magari che si possa parlare di una società perfettamente armonica, ma non impedirà di realizzare una società della tolleranza.

In questa opzione almeno parzialmente “ruralista” non bisogna però leggere una qualche nostalgia per la purezza dottrinale originaria dell’anarchismo, anche se è vero che la tradizione anarchica ha sempre avuto un forte radicamento nella cultura contadina e artigiana. Berneri avverte piuttosto la necessità di difendere con coerenza estrema tutti i diritti individuali, compreso quello alla proprietà, ma soprattutto quella di porre dei contrappesi ad una possibile deriva del sindacalismo operaio, che rischia di creare nuove élites e di sfociare in un autoritarismo tecnocratico, oltre che burocratico. Si sottrae insomma a quel mito dell’industrialismo che sta a fondamento di tutto il socialismo moderno, marxista e non, e che ha finito per contagiare anche i suoi stessi compagni anarchici. Il che ancora una volta, e paradossalmente proprio quando si attiene ad una qualche “ortodossia” anarchica, sia pure reinterpretata, ne fa un “eterodosso”.

Giustizia e/o Libertà? – All’atto pratico però, e a dispetto come vedremo anche di una posizione possibilista in contingenze storiche eccezionali, il rifiuto della democrazia rappresentativa rimane uno scoglio sul quale si infrange ogni politica delle alleanze. Esso è all’origine del rapporto conflittuale che oppone il movimento anarchico anche alle organizzazioni antifasciste di natura liberal-socialista, primo tra tutte il gruppo di Giustizia e Libertà creato da Carlo Rosselli. In un primo tempo Berneri ha davvero creduto che GL potesse costituire l’alleato perfetto, tanto contro il fascismo quanto contro il totalitarismo bolscevico. Ma poi, come abbiamo visto, il “realismo politico” che ha condotto i giellisti ad entrare nella Concentrazione Antifascista si è rivelato qualcosa di diverso dal suo “attualismo”, e ne ha portato allo scoperto il carattere essenzialmente moderato e legalitario.

Berneri dà per scontato che le forze rappresentate nell’Alleanza nazionale antifascista, un movimento di tipo allargato, costituzionalista, filo-monarchico e cattolico, o magari anche nella stessa Concentrazione antifascista, che raccoglie un po’ di tutto, con l’unico collante di un nemico comune e della pregiudiziale repubblicana, abbiano un carattere fortemente moderato e temano la rivoluzione quasi quanto, o forse più, del fascismo. Ma attribuisce questo atteggiamento anche a Giustizia e Libertà, ritenendo che in sostanza aspiri a costituire una repubblica conservatrice. Ne La tattica fumogena, del 1932, scritto immediatamente dopo l’adesione di GL alla Concentrazione, dice: “La paura della rivoluzione sociale è, dunque, il principale fattore di successo dell’Alleanza nazionale. Ma tale paura è ugualmente evidente nel programma di Giustizia e Libertà”.

Il rapporto di amore-odio con Rosselli si riapre nel 1935, dopo il lungo periodo di gelo seguito alla vicenda Menapace. È Berneri a rompere il ghiaccio, con una lettera pubblicata su Giustizia e Libertà del 6 dicembre 1935 in risposta ad un ex anarchico passato nelle fila gielline. Il tono è naturalmente polemico, ma gli argomenti risultano un po’ forzati: “L’anarchismo contemporaneo ha nella propria breve storia San Martino e San Francesco in Cafiero e in Fromentin, milionari prodighi di tutta la loro fortuna; principi passati dalla reggia al tugurio e al carcere, come Kropotkin e Bakunin, scienziati insigni non disdegnanti le più umili attività propagandistiche, come i fratelli Réclus, […]”; il senso finale è: “Gli anarchici non sono disposti a fare, in seno a G.L., la parte che il rosmarino fa nell’arrosto. Essi hanno un programma proprio, un movimento proprio, e tra i giellisti non possono cercare e trovare che scambi d’idee, impostazioni di problemi, riesame di teorie”. In parole povere: non avete nulla da insegnarci, anzi, avete imparato tutto da noi.

Rosselli risponde a stretto giro di posta, sullo stesso numero della rivista: dà atto dei meriti dell’anarchismo, ma gli rinfaccia di faticare a prendere contatto con le nuove realtà, e la nuova realtà sono i problemi della lotta antifascista. Che intenzioni hanno gli anarchici? Mantenersi fedeli all’assoluto libertario, rimanendo una setta a parte, o concorrere prima alla lotta contro la dittatura e poi alla costruzione di un nuovo grande libero movimento italiano? Questo è il vostro problema, socialisti anarchici, scrive Rosselli: ma poi lancia ancora un appello: “La futura possibile linea di frattura delle forze rivoluzionarie … avverrà presumibilmente in relazione alle antitesi: autorità-libertà; dittatura-autonomie; socialismo o comunismo dispotico o centralizzatore-socialismo o comunismo democratico federalista liberale. L’esperienza russa è lì a dimostrarci che … può riuscire facile ad una minoranza armata impadronirsi dello Stato mettendo a tacere tutte le altre correnti. Guai se i fautori di un socialismo liberale e libertario saranno divisi in dieci gruppi e sottogruppi […] Mentre noi staremo a disputarci entro che limiti debba contenersi un potere centrale, altri faranno di questo potere centrale la macchina inesorabile che tutti ci schiaccerà”. In sostanza Rosselli sostiene che contro il nemico del presente è necessario un percorso unitario, che questo percorso deve creare le premesse antiautoritarie per il futuro della rivoluzione e che le discussioni sul dettaglio istituzionale debbono essere rimandate semmai a dopo la vittoria.

La controreplica di Berneri compare su Giustizia e Libertà il 27 dello stesso mese di dicembre, ed usa toni più concilianti. Inizia proprio sottolineando come si tratti di un “nostro” problema, ovvero rivendicando la libertà della scelta isolazionista e possibilistica dell’anarchismo: e giustifica questa scelta alla luce delle recenti disillusioni venute dalla rivoluzione russa, del superamento del determinismo storico di origine marxista, della rilettura “attualistica” dei maestri dell’anarchismo. Scrive: “L’ortodossia stessa non è, nel campo nostro, che la cristallizzazione del revisionismo. Malatesta, ad esempio, si è sempre differenziato da Kropotkin su moltissime questioni pratiche e moltissime impostazioni teoriche. E Fabbri mi diceva, un giorno: ‘É necessario che noi, vecchi, moriamo perché l’anarchismo possa rinnovarsi’. L’anarchismo è più che mai fermentato da impulsi novatori, e alla propaganda generica, tradizionalista, prevalentemente dottrinaria sta subentrando ovunque un problemismo salveminiano precursore e nuncio di programmi aderenti a questa e a quella soluzione rivoluzionaria”. Un modo per dire che il vecchio anarchismo delle grandi barbe e dei dogmi irrinunciabili è finito.

I nuovi anarchici non sono però “possibilisti” al punto di tapparsi il naso e fare causa comune con chiunque avversi il fascismo: sanno cosa vogliono, e sanno che per ottenerlo devono preservare la loro diversità. Quindi si riservano un percorso autonomo, che consenta loro di mantenere il ruolo di garanti contro le tentazioni totalitarie del giacobinismo, ma anche contro quelle stataliste dei liberal-democratici. La possibilità di un’azione unitaria con GL è pertanto subordinata all’adesione di quest’ultima ad un progetto autenticamente federalista. In caso contrario gli anarchici sarebbero chiamati ad un certo punto a svolgere un ruolo governativo assolutamente antitetico con gli interessi del movimento rivoluzionario, bruciandosi ogni possibilità e ogni credenziale di baluardo anti-stato.

Proprio perché questa è la discriminante per una possibile alleanza, Berneri ritiene di dover tornare una volta per tutte sull’idea anarchica di federalismo. Il federalismo libertario differisce da quello autonomista-legalitario di un Ferrari o di Cattaneo, al quale Rosselli fa riferimento nella sua risposta, perché il secondo propone una concezione democratica dello Stato. Il federalismo libertario, quello di Bakunin, di Cafiero, di Malatesta, l’esistenza di uno Stato, democratico o no, non la contempla: ne sono state date diverse interpretazioni, da quella “sindacalista” a quella sovietica, ma la più compiuta e anarchicamente coerente rimane quella comunalista di Kropotkin. Su questa base, e solo su questa, si può parlare di alleanze.

L’ultima parola spetta naturalmente a Rosselli: la rivista in fondo è sua.

Mi sono soffermato a lungo su questo dibattito perché mi sembra riassumere efficacemente le conclusioni cui Berneri perviene, in un momento cruciale del suo percorso, rispetto al problema della collocazione “tattica” dell’anarchismo. Tornerà a più riprese sul tema nel corso della guerra civile spagnola, ma allora sarà l’urgenza a dettare di volta in volta, convulsamente e in mezzo a mille contraddizioni, gli atteggiamenti da assumere. Qui invece ci dà l’occasione per tirare un po’ le somme di un percorso che in effetti può apparire tortuoso, pur nella sua coerenza.

Abbiamo visto che Berneri insiste sulla necessità per gli anarchici di passare alla concretezza e di tenersi pronti a cogliere ogni evenienza storica. Questo significa che nella fase rivoluzionaria, laddove non sia possibile gestirla in toto (e nella realtà questa evenienza non è mai data), occorre tener conto di potenziali alleati e della necessità di passaggi graduali. Il che può apparire logico e scontato per chiunque, ma per gli anarchici, a partire dalla rottura del 1872 con l’Internazionale, non lo era affatto. Le alleanze “naturali” indirizzano infatti verso movimenti che in parte perseguono gli stessi fini, ma nella sostanza viaggiano in direzioni ben diverse. La lezione russa ha insegnato che il totalitarismo può anche vestire panni rivoluzionari, e si annida in ogni richiamo demagogico ad un presunto “spontaneismo popolare”. Il campo di scelta delle alleanze si restringe quindi ai movimenti che garantiscano la salvaguardia di un certo livello di libertà individuale, in sostanza quelli eredi del liberalismo democratico.

A questo punto il problema diventa quello di come tradurre in pratica le alleanze: procedere ad una azione congiunta, partecipando in prima persona a tutte le fasi della dialettica politica, o agire come fiancheggiatori, tenendosi fuori dal gioco e riservandosi un ruolo di vigilanza contro possibili involuzioni? La prima possibilità si dà solo in presenza di una comunità di intenti in direzione di un federalismo autenticamente libertario, quindi non si dà, perché non si capisce dove starebbe la differenza degli altri movimenti dall’anarchismo; la seconda è quella che Berneri ritiene praticabile, a certe condizioni. C’è infatti un limite nella discesa al compromesso, al di sotto del quale l’idealità anarchica non ha più ragione d’esistere, e quel limite Berneri non lo vuole passare. Un programma anarchico, per quanto adattato alle circostanze e ridotto all’osso, non può contemplare la scelta tra diversi modelli di stato, ma deve necessariamente perseguire la riduzione della presenza dello stato al minimo indispensabile.

Berneri non è però, come abbiamo visto e come vedremo ancora, a proposito della vicenda spagnola, un amante degli steccati e dei confini tracciati a tavolino. Ogni situazione ha le sue peculiarità, impone velocità, ritmi, a volte anche percorsi diversi. Non esiste quindi “una” tattica, esiste un atteggiamento tattico, fondato sulla concretezza delle situazioni e mirante alla concretezza delle realizzazioni. Ciò che deve rimanere invariato è la direzione, e quella ha da essere ben chiara.

A Berneri è stato contestato dalla storiografia dell’anarchismo, e soprattutto da Giampietro Berti, un eccesso di disinvoltura nell’applicazione del suo “attualismo”. Non solo. La domanda implicita è se, arrivato alla fine del suo processo di revisione, Berneri possa ancora essere considerato a tutti gli effetti un anarchico. Berti sottolinea inoltre, e direi giustamente, come Berneri spesso non abbia colto le cause profonde dei fenomeni (ad esempio, quando fa discendere direttamente il regime fascista dal liberalismo giolittiano, definendo Giolitti come levatrice del fascismo, mentre per Berti la politica rinunciataria di Giolitti è dettata dalla debolezza del sistema, non da una congenita spinta all’autoritarismo). Sono rilievi leciti: è probabile che Berneri abbia azzardato o forzato alcune interpretazioni storiche, ferma restando la scusante di una situazione che non gli garantiva la lucidità e il distacco necessari per leggere correttamente situazioni tanto complesse: oppure che il suo “attualismo”, pur nella intrinseca coerenza, risultasse difficile da capire per compagni intellettualmente molto meno duttili: ed è infine anche vero che in qualche caso il difetto stava già a monte, nel punto di vista adottato.

Credo però che rispetto ad una figura e ad una vita come quelle di Berneri ci si debba porre in modo diverso. Non sono la capacità di cogliere il dato storico o la coerenza della teorizzazione politica il metro col quale lo si può giudicare (senza peraltro dimenticare che nella lettura dei fenomeni e degli accadimenti dell’epoca la gran parte dei suoi contemporanei andò incontro ad abbagli ben più gravi). Berneri va preso per quello che è, una figura moralmente diversa, eccezionale. Il suo lascito non è quello dell’analisi storica o politica (anche se, a mio giudizio, il suo contributo è tutt’altro che trascurabile): è quello dell’esemplarità etica. Ed è di questo che mi preme davvero parlare.

Un agnosticismo programmatico – Torniamo così alla questione di fondo che ha continuato ad emergere di volta in volta sotto l’attualismo e il pragmatismo tattico professato da Berneri: se ci si deve adeguare alle contingenze storiche, ciò significa che anche la morale deve essere relativizzata?

No, certamente, dice Berneri. Esiste un’istanza che si esprime sempre e comunque, al di là dei tempi e delle situazioni (in questo senso è molto kantiano): essa si declina e si accresce storicamente, nel senso che di volta in volta prenderà le forme relative ai problemi più urgenti, ma è presente comunque al di là della storia, è universale. L’istanza è quella del dovere, fondata su una coscienza che ci suggerisce cosa è giusto e cosa è sbagliato e ci impone di comportarci in modo tale da promuovere il bene massimo per l’umanità. Il bene massimo è quello della libertà, il dovere è quello di rivendicare la propria nel rispetto e nella salvaguardia di quella altrui. Ogni vera morale si fonda su questa innata e insopprimibile esigenza, anche quando non ne riconosca l’origine autonomamente umana. E questo ci porta al rapporto con la religione, che è uno degli aspetti più controversi del pensiero di Berneri.

La religione non è per Berneri né oppio dei popoli né puro strumento di dominio: è una delle forme in cui l’istanza morale si esprime: anzi, è la forma più universalmente diffusa. E questa forma non la si può ignorare, o liquidare sprezzantemente come superstizione. Con essa ci si deve confrontare. Egli sottolinea giustamente come l’ateismo assoluto non sia in sostanza che un teismo di segno rovesciato. Se secolarizzo tutto e traduco l’idea di Dio in una immanenza storica, non faccio che trasferire sulla terra il dogmatismo che prima rapportavo ad una presenza ultraterrena. In questo vede lontano: il materialismo consumistico in fondo genera altri rituali, altre liturgie, altre pressioni comportamentali. Non solo: la rivendicazione di laicità, nelle forme nelle quali è stata comunemente avanzata, rischia di ridursi ad un accanimento sulla necessità di dimostrare la non esistenza del presupposto fondamentale della religiosità. Questo significa in realtà automaticamente evocare il divino, facendolo esistere quanto meno come non-essere. Quindi, con grande scandalo degli anarchici “puri”, Berneri si professa non ateo, ma agnostico: e forza il paradosso, condannando anche l’anticlericalismo.

L’occasione per riflettere sul tema è offerta dalla firma dei Patti Lateranensi. Berneri naturalmente condanna l’accordo, ma vuole chiarire che lo fa da una posizione che non è quella genericamente e pregiudizialmente anticlericale. I patti non gli piacciono perché non riguardano il rapporto dello stato con la libera associazione dei cattolici, ma quello con una sorta di monarchia assoluta. La libertà di associazione non consiste, per lui, semplicemente nella possibilità di costituire un gruppo con una struttura propria: implica la libertà di seguire e professare determinati principi, che permettano di realizzare per quanto possibile e compatibile con le istanze di altri gli scopi del gruppo.

La Chiesa è appunto un’associazione e va rispettata come tale, anche nella libertà del suo culto e delle sue istituzioni culturali ed educative. Soprattutto in Italia la laicità di tutte le istituzioni nazionali appare illiberale, dal momento che i cattolici sono nel paese la maggioranza. Non solo: nel momento in cui si attua una netta separazione dello Stato dalla Chiesa e si riconosce a quest’ultima una struttura “statale”, la si disconosce in quanto associazione. La Chiesa finisce quindi per essere considerata come una istituzione autonoma: un vero e proprio Stato, con una sua autorità temporale (territoriale, giudiziaria, monetaria, ecc.), un governo, una monarchia elettiva: e in quanto Stato per Berneri è naturalmente intollerabile.

La Chiesa però non è soltanto il clero, è anche e soprattutto la “comunità” dei cattolici: e a questi, mentre sono da un lato soggetti a tutti gli obblighi e tributi imposti dallo Stato laico, viene poi in pratica negato il diritto associativo. Paradossalmente la laicità, che dovrebbe essere garante di libertà, si risolve nella negazione parziale dei diritti di una maggioranza del paese, ed è proprio lo Stato “democratico” a perpetrare questa negazione.

Senza arrogarsi alcun ruolo di riformatore religioso, semplicemente applicando alla Chiesa le proprie idee politiche e sociali, Berneri prova a leggerne e valorizzarne le valenze “libertarie”. Sulla base dei propri principi fondanti la chiesa potrebbe organizzarsi come una democrazia con delega rappresentativa: i fedeli nominano i vescovi, questi scelgono i cardinali, i cardinali eleggono il papa, riconoscendolo non come sovrano ma come capo dell’associazione.

Una repubblica davvero democratica non dovrebbe poi esercitare alcun controllo sui beni ecclesiastici e sulle nomine vescovili: ma non deve nemmeno cadere nell’errore opposto, quello di difendere la Chiesa come Stato e proprietà. Piuttosto, sarebbero semmai da liquidare, da parte dei cattolici stessi, tutte le proprietà ecclesiastiche per realizzare opere di benessere sociale, come la costruzione di scuole e ospedali. In definitiva, se i cattolici riconoscessero il Papa come loro capo e non come re la Chiesa potrebbe essere considerata una associazione rivoluzionaria: ma finché conserveranno la Chiesa-Stato dietro la facciata della Chiesa-associazione, saranno combattuti dai veri rivoluzionari.

Ben oltre l’”attualismo” – Accanto a quello sulla religione Berneri sforna un’incredibile serie di altri scritti, dedicati a tematiche che potrebbero sembrare marginali, per l’apparente occasionalità e per la distanza dall’ambito più propriamente “politico”. Si occupa delle cose più lontane tra loro, dal giovanile Le menzogne del vecchio testamento a Il peccato originale o Il Leonardo di Sigmund Freud, e c’è da chiedersi quando trovi il tempo, se non nei periodi di detenzione, per documentarsi. Non c’è fenomeno o argomento che non lo interessi e rispetto al quale, nei limiti della condizione sempre precaria nella quale si trova a lavorare, non senta la necessità di un approfondimento. Chi lo ha conosciuto parla di una curiosità onnivora unita ad un’impressionante capacità e sistematicità di ricerca19 . Ai compagni che gli si rivolgono per informazioni sui temi più disparati chiede un paio di giorni, poi fornisce loro dei dossier incredibilmente corposi, messi assieme con ritagli e documenti di ogni genere20. Una delle tante occupazioni con cui sbarca il lunario è in effetti per diversi anni quella di raccogliere e organizzare degli archivi documentali per Gaetano Salvemini.

Non si tratta comunque solo di curiosità: nell’interpretazione di Berneri tutto si tiene, in un quadro d’insieme che gli fornisce un terreno d’analisi ben più ampio e solido di quello della pura teoria politica. Non si possono tirare somme del presente o praticare ricognizioni storiche senza mettere in conto tutti i fenomeni culturali e sociali più significativi. L’uomo non è un animale puramente politico: prima che politico è un animale, oltre che politico è un uomo. E nemmeno è solo un soggetto economico: le sue azioni, le sue speranze e le sue paure non sono dettate unicamente dalla ricerca dell’utile o dall’urgenza del bisogno. Non rendersi conto di questo è miopia, non accettarlo a dispetto di ogni evidenza è criminoso.

La rapidità con la quale si succedono gli eventi (la crisi economica, l’ascesa di Hitler, l’esplosione del razzismo antisemita) offre un’infinità di spunti e materiali per questa ricognizione a tutto campo. La crisi è letta ad esempio da Berneri, a differenza di altri pensatori che ci vedono il crollo del capitalismo, come una forma di assestamento, una malattia di passaggio del capitalismo da una sua modalità ad un’altra. Le contraddizioni interne al sistema esplodono, ma solo per sgomberare il terreno e fare spazio ad un modello nuovo. Nel frattempo creano macerie, non solo economiche ma anche, e soprattutto, culturali.

Nel 1934 Berneri dà, ne La frenesia razzista, un’interpretazione dell’hitlerismo alla luce della sua esperienza con il fascismo. Non lo considera un momento di distrazione della razionalità (secondo la formula di Croce), isolato e localizzato in una nazione colpita dopo la sconfitta da una serie di tracolli economici: ci vede invece la reificazione di una insensatezza collettiva (Berneri parla di “pazzia”) che sta dilagando in tutto il vecchio continente. Aveva già denunciato il fenomeno nell’immediato dopoguerra, mettendo sotto accusa un mondo intellettuale, anche di sinistra, che giocava col fuoco dell’irrazionalismo: ora l’incendio appiccato è sfuggito al controllo e fa strage del libero pensiero, annunciando una tragedia immane21. Tutti quei principi morali che stavano a fondamento della libera convivenza tra i popoli sono tranquillamente ripudiati, e monta anche a livello delle masse una pulsione razzista, segregazionista, autoritaria, senza che si scorga alcun indizio di una qualsiasi capacità collettiva di reazione. Ciò che accade in Germania, dove esponenti del pensiero libertario come Musham e Lessing sono stati tra i primissimi a pagare con la vita la loro opposizione, è terrificante, ma anche le notizie dall’Italia sono sconfortanti. Più che mai, di fronte alla marea devastante del nazionalismo, Berneri sente la necessità di cancellare ogni appartenenza nazionale e di affermare il valore di una cittadinanza universale per ogni individuo.

Il precipitare degli eventi lo induce l’anno successivo ad affrontare un’altra fondamentale ed attualissima tematica, in genere sottaciuta dalla sinistra, che in proposito continua ancora oggi a vivere un ambiguo imbarazzo: quella dell’antisemitismo. Ne Le Juif antisemite, opera del 1935, Berneri distingue tra anti-ebraismo e anti-semitismo. L’anti-ebraismo è un atteggiamento teologico e filosofico, di matrice cristiana, diffuso dai primi secoli della nuova era sino a tutto il medioevo, e va distinto dall’antisemitismo, che è invece una teoria razziale, frutto della modernità. È vero che spesso, ad esempio nell’atteggiamento cristiano moderno, le due cose vengono confuse; ma la repulsione antisemita veicola qualcosa che va ben oltre l’odio verso una tradizione religiosa. Ad essere odiato è un simbolo, prima ancora che una razza, o meglio è una razza che simboleggia un modo di essere, una possibilità diversa di esistenza. Per dimostrare questo Berneri analizza innanzitutto il fenomeno dell’odio di sé che ha caratterizzato molti ebrei e parte della cultura ebraica dopo l’emancipazione22. Dopo aver passato in rassegna i convertiti e gli apostati che hanno servito in ogni tempo e in ogni luogo l’antisemitismo, dalla Spagna di Isabella alla Germania e alla Russia zarista, si sofferma sulle peculiarità di questo atteggiamento nel Novecento, in personaggi come Paul Ree, Arthur Trebitsch, Max Steiner, lo stesso Walter Rathenau (il quale ha pubblicato nel 1897 un Hore Israel (Ascolta Israele, che è un vero manifesto antisemita) e soprattutto Weininger.23 Attraverso quest’ultimo ha modo di mettere in relazione l’antisemitismo e la misoginia, come due espressioni analoghe e coincidenti di condanna e di discriminazione verso il debole. Attacca anche Marx, per la sua posizione liquidatoria sulla questione ebraica. Precorrendo i tempi della Shoà Berneri scrive che “se non si presterà attenzione l’antisemitismo sarà ancora per lungo tempo all’ordine del giorno della stupidità umana”. La cosa più triste è che il suo Le Juif antisémite viene attaccato nel 1937 dalla rivista fascista La Nostra Bandiera, degli ebrei di Torino, che solo un anno più tardi saranno bruscamente svegliati dall’introduzione delle leggi razziali anche in Italia.

Berneri chiude il suo saggio con un Hore Israel di tono ben diverso da quello di Rathenau. Il suo appoggio al mondo ebraico è dovuto al fascino che per prova per i senza patria: “sono i senza patria i più adatti a formare le basi della grande famiglia umana”. Il suo modello ideale è quello di un ebreo cosmopolita capace superare l’impasse tra assimilazione e ortodossia, tra l’assimilazione e nazionalismo. Esiste una terza possibilità, quella della missione. Il popolo ebraico, proprio perché privo di una terra e perseguitato dall’antisemitismo nazista, oltre che dagli altri regimi che stanno adottando il razzismo tra i propri principi, può diventare l’emblema della lotta di ogni popolo per la difesa della propria identità e al tempo stesso fare da tessuto connettivo per la realizzazione di un mondo senza confini.

Il percorso che dovrebbe condurre a tale obiettivo, passando anzitutto per il superamento da parte degli ebrei stessi della propria condizione d’inferiorità psicologica, è quello del riscatto individuale. È questo, alla fin fine, il punto di approdo di tutte le analisi di Berneri, e quello di partenza per le sue utopie.

Lo stesso discorso vale infatti anche per l’altra categoria discriminata e “razzialmente” vilipesa. Berneri analizza ne “La garçonne e la madre” quello che considera una sorta di odio di sé femminile: e lo fa alla sua maniera schietta e sbrigativa (“la coscienza di aver compiuto una buona azione, mi ha permesso di vincere la riluttanza a pillolizzare una trattazione che sarei stato portato a condurre con larghezza” scrive nella prefazione). Certamente, il suo opuscolo non rischia di diventare un classico dell’emancipazione: prende lo spunto dai diversi modelli di “liberazione” e di “parificazione” femminile, sul piano sessuale, su quello lavorativo, ecc…, per concludere che il ruolo della donna è quello di custode del focolare e della serenità familiare, nonché di prima e fondamentale educatrice dei figli. Non risparmia gli stereotipi, compresi quelli pseudo-scientifici relativi alla maggiore o minore intensità del desiderio sessuale femminile, e porta a testimonianza persino Lombroso e Neera. Ma… è comunque Berneri: e non parla a vanvera. In primis, attacca l’idea che l’emancipazione possa passare per la “libertà” sessuale, anche perché, sottolinea, “nella donna l’istinto sessuale è vivo, ma fuso e confuso con l’istinto della maternità. Questa fusione ha una base anatomica e nessi fisiologici evidenti. Al carattere sperperatore della vita sessuale maschile corrisponde la funzione prettamente sociale dell’uomo, mentre al carattere economizzatore della vita sessuale femminile corrisponde la funzione prevalentemente biologica e familiare della donna”. Semmai, non di una conquista della “libertà”, termine che nell’ambito sessuale assume significati ambigui, occorre parlare, quanto piuttosto di quella del rispetto da parte maschile; e questo è possibile solo attraverso una crescita culturale che non può realizzarsi disgiuntamente. Liquida poi il concetto di una parità raggiungibile attraverso l’espletamento delle stesse funzioni lavorative dell’uomo: tutt’altro, dice Berneri. Farsi simile all’uomo è solo un modo per rinnegare la propria specificità: e comunque il lavoro, quando si svolga nelle attuali condizioni di dipendenza, costrizione e alienazione non libera nessuno.

Ciò che colpisce è che le sue posizioni nascono da un senso reale e sentitissimo di pietà e di rabbia per la condizione femminile (c’è un pezzo bellissimo sulle zitelle), ma hanno poi un fondamento proprio nell’idea di società anarchica, che deve avere come suo fulcro la famiglia. Berneri si rende conto che la disgregazione di quest’ultima è in realtà funzionale solo alla logica del lavoro “coatto” e alle esigenze di una società produttivistica e consumistica.

La dignità del lavoro – Proprio alla concezione del lavoro sono dedicati altri due scritti di questo periodo, Il cristianesimo e il lavoro, del 1931, e Il lavoro attraente, del 1934. Al solito, Berneri non ha né il tempo né la tranquillità necessaria per una trattazione approfondita, ma riversa nelle sue pagine una marea di spunti e di riferimenti. Nel primo ripercorre il rapporto tra la religione occidentale e il lavoro, e ne ricostruisce le trasformazioni a partire dalla Bibbia. Quello più interessante è però il secondo, che mette a fuoco una concezione del lavoro ispirata ad un senso “protestante” della dignità. Parte di lontano: “Le antiche mitologie presentano il coltivatore come un reprobo scontante un peccato di ribellione. Adamo, universale progenitore, è l’angelo caduto dal paradiso dell’ozio all’inferno del lavoro”, ma dieci righe dopo è già al dunque: “Per la morale cristiana il lavoro è imposto da Dio all’uomo come conseguente pena del peccato originale. Il Cattolicismo antico e quello medioevale nobilitano il lavoro specialmente come espiazione. Anche per la Riforma il lavoro fu «remedium peccati», benché Lutero e Calvino superassero San Tommaso, preannunciando la concezione moderna del lavoro come dignità, concezione abbozzata dai maggiori pensatori del Rinascimento”. Senonché “il moralismo borghese trasferì nel campo della morale civica il principio del dovere del lavoro, ed inventò una mistica nella quale lo sfruttato servile veniva monumentato come «cavaliere del lavoro», come «fedele servitore», come «operaio modello», ecc.” e questo a fronte del progressivo peggioramento delle condizioni dello sfruttamento nel passaggio dalla società artigiana e contadina a quella industriale, col prevalere del fordismo e della logica capitalistica. Evidentemente, non di una mistica si tratta, ma una mistificazione.

I principi del dovere del lavoro e della dignità ad esso connessa rimangono tuttavia per Berneri una conquista della civiltà, un esito della progressiva “umanizzazione” della storia. Tutto sta ad intendersi. Stiamo parlando infatti di qualcosa che ha nulla a che vedere con l’umiliazione e lo sfruttamento regnanti nell’attuale rapporto di lavoro: “Se l’officina aspira ad essere non soltanto il luogo del lavoro fisico, ma il luogo della dignità, dell’orgoglio e della felicità, si comprende che essa debba perdere qualsiasi somiglianza con quello che chiamiamo officina nei nostri paesi”. E fin qui siamo nel solco di una lunghissima tradizione che in misura e in modi diversi ha auspicato un riscatto della fatica da pena a fonte di soddisfazione.

La possibilità di un “lavoro attraente” è già espressa infatti nella cultura antica, a partire da Esiodo, e torna in epoca moderna, nella versione estremizzata di Rabelais, che pone ai Telemiti la regola “fai quello che vuoi”, ripresa poi in quasi tutte le utopie letterarie e sociali24. Fourier, ad esempio, sviluppa il principio del lavoro attraente indicandone le condizioni nella varietà e nella breve durata, mentre il lavoro gradevole e senza fatica è una delle realizzazioni socialiste preannunciate nel Voyage en Icarie (1840) di Etienne Cabet. Un po’ più abbottonato è Marx, che parla di lavoro non alienato, ma non arriva a pensare che possa diventare una ricreazione, una gioia, un vero piacere, come sosteneva invece Zola, e come affermeranno gli anarchici, Kropotkin in testa.

L’eterodossia di Berneri viene fuori a questo punto, quando ponendo il problema in termini apparentemente teorici, rapportandolo cioè ad una ipotetica futura società “liberata”, il lodigiano va poi a sollevare una questione attorno alla quale gli anarchici e gli utopisti in generale hanno sempre glissato: siamo così sicuri che in tale società “nessuno si crederà dispensato da un lavoro che l’unanime concorso degli sforzi renderà attraente e vario?” Che detto in termini molto più diretti, suona: siamo sicuri che non ci siano dei pelandroni tali per natura? E nel caso, come ci comportiamo con loro?

È una domanda che va posta, e non solo in vista di una società liberata, che pare piuttosto lontana a venire, ma da subito, mentre se ne gettano le fondamenta. Berneri si chiede: “Si può anche essere convinti che verrà un tempo in cui nessuna coazione sia necessaria per far sì che tutti lavorino; ma il problema attuale è questo, per noi; caduto il regime borghese, la produzione deve essere del tutto libera, ossia affidata alla volontà di lavorare della popolazione?” Ovvero, nella fase di transizione, che non si sa quanto lunga (proprio per la sua concezione dell’anarchismo Berneri tende a considerarla a tempo indeterminato), in attesa che il nuovo ordine vada a regime, quanti saranno disposti ancora a lavorare? “Uno dei pericoli della rivoluzione sarà appunto l’odio per il lavoro che essa erediterà dalla società attuale. Noi ce ne siamo accorti nei brevi momenti in cui parve che la rivoluzione battesse alle porte. Troppa gente, fra la povera gente, troppi lavoratori credevano sul serio che stesse per venire il momento di non lavorare o di far lavorare unicamente i signori”.

Pensare di non dover più lavorare è ben diverso dal credere che ogni lavoro diverrà un’occupazione piacevole e varia. Il fatto è che quando Kropotkin parla di lavoro piacevole dice: “Nel lavoro collettivo compiuto con gaiezza di cuore per raggiungere lo scopo desiderato – libro, opera d’arte, od oggetto di lusso – ognuno troverà lo stimolante, il sollievo necessario per rendere la vita gradevole”, ma non cita come prodotti di questo lavoro pezzi meccanici, oggetti di stretta necessità, materie prime magari maleodoranti, zolfi o carboni di miniera, ecc. Berneri parla invece di qualcosa che ben conosce: “Mi alzo alle cinque, rientro alle sette di sera, ceno e vado a letto. Il lavoro (manovale muratore) mi fiacca talmente che persino tenere la penna in mano mi costa sforzo e pena”25.

È evidente che già oggi ci sono uomini che lavorano di continuo senza pena, anzi con un senso di soddisfazione, e sono gli scienziati, i pensatori, gli artisti: ma gli altri? “Nella società attuale basata sulla lotta e sulla concorrenza, il lavoro è nella maggior parte dei casi una servitù, per molti addirittura (specie pel lavoro manuale) un segno di inferiorità. La maggioranza lavora perché vi è costretta dal bisogno e dal ricatto della fame”.

È difficile credere che questa immagine negativa del lavoro possa essere immediatamente ribaltata. Si può auspicare che i lavoratori siano sempre più sollevati dalla fatica, dal disagio e dalla noia con lo sviluppo della tecnica, ma per il momento “[…] che cosa sostituirà la spinta del bisogno e il desiderio del guadagno, in una società che assicuri a tutti almeno la soddisfazione dei più elementari bisogni, in cui lo spettro della miseria e della fame non sia più un pungolo per alcuno, in cui la rimunerazione individuale sia sostituita dalla distribuzione dei prodotti a seconda dei bisogni, indipendentemente dal lavoro compiuto?” In verità, pensa Berneri, anche quando il lavoro diventerà meno pesante e meno pericoloso e cesserà di essere nocivo e penoso, tarderà comunque a diventare attraente, e non sarà mai tanto attraente da fare sparire gli oziosi. Quindi occorre accettare il fatto che i pigri esistono, e che “la regola del comunismo integrale – da ciascuno secondo le sue forze, a ciascuno secondo i suoi bisogni – non vale che per coloro che l’accettano, accettandone naturalmente le condizioni che la rendono praticabile”.

Ecco come conclude Berneri, citando quasi integralmente uno scritto di Malatesta: “Una rivoluzione di gente che non avesse voglia di lavorare, o anche solo che pretendesse di riposarsi per un po’ di tempo o di lavorar di meno, sarebbe una rivoluzione destinata alla sconfitta. Sotto l’aculeo della necessità si formerebbero al più presto degli organismi di coercizione che, in mancanza del lavoro libero, ci ricondurrebbero ad un regime di lavoro forzato e, per conseguenza, sfruttato.

Una società anarchica vi sarà non solo quando saranno stati vinti dalla rivoluzione i nemici della libertà ed abbattuti gli istituti che rendono impossibile ogni realizzazione libertaria, ma anche quando vi sarà un numero di individui (che vogliano vivere e organizzarsi anarchicamente) sufficiente a tenere in piedi una loro società, che possa bastare economicamente a se stessa ed abbia forza di reggersi e difendere la sua esistenza. L’esistenza di individui che «vogliono vivere anarchicamente» presuppone che essi «abbiano voglia di lavorare»; altrimenti non vi sarebbe alcuna anarchia possibile.

Il lavoro, anche in anarchia, dovrà quindi rispondere alle necessità della produzione, per soddisfare tutti i bisogni individuali e sociali della vita comune; dovrà essere organizzato cioè secondo le richieste di prodotti da parte di tutti, e non certo al semplice scopo di esercitare i muscoli ed il cervello dei produttori. Può darsi che in molti casi l’utile possa coincidere col dilettevole; ma ciò non è possibile sempre; e dove tale coincidenza non vi sarà, l’utile sociale dovrà avere il sopravvento.

Di qui la necessità di una disciplina del lavoro. Se questa disciplina sarà concordata e liberamente accettata, senza bisogno di coercizione, da un numero tale di individui, sopra un territorio abbastanza esteso, da costituire una società, questa sarà una società «anarchica»”.

Siamo ben lontani da quel “rifiuto del lavoro” che nelle formulazioni più disparate ha caratterizzato la contestazione degli anni sessanta, sposandosi peraltro in maniera contraddittoria con la rivendicazione del diritto all’occupazione, e che ancora rimane una bandiera di tutti gli pseudo-anarchismi odierni (il che spiega la scarsa considerazione odierna per Berneri in quegli ambienti). Soprattutto, non c’è traccia del giustificazionismo ad oltranza nei confronti di coloro che dietro la facciata della guerra al sistema mascherano un sostanziale e asociale egoismo, e che sono stati invece tollerati e incoraggiati, o almeno difesi, da una sinistra politica e sindacale sempre più attenta alle tessere e ai voti che non ai principi.

Queste cose Berneri le ha scritte a metà degli anni trenta. Per chi ha respirato per tutta la seconda metà del ‘900 la retorica del “santo lavoratore”, costruita in genere proprio da quelli e su quelli che a lavorare non ci pensavano proprio, e che in una società autenticamente anarchica sarebbero stati buttati fuori a calci, suonano politicamente molto scorrette. Probabilmente lo erano già allora, anche se, a dispetto delle condizioni in cui lo si svolgeva, in quegli anni il lavoro era forse affrontato con un senso di responsabilità e di identificazione diverso. Berneri soffriva con largo anticipo un disagio che molti oggi, a sinistra, conoscono. E aveva il coraggio di esprimerlo, di dargli voce, a costo di essere mal sopportato. Se lo poteva permettere, proprio perché incarnava l’esempio vivente di come si deve lavorare e ci si deve comportare per essere veramente “rivoluzionari”.

Spagna: l’ultimo sogno – E torniamo alla vicenda umana di Berneri, che sta viaggiando velocemente e tragicamente verso l’epilogo.

Il 17 Luglio 1936, a seguito di un alzamiento26, scoppia in Spagna la guerra civile. Il piano dei golpisti riesce solo in parte, soprattutto per la pronta reazione dei volontari anarco-sindacalisti (già il 23 luglio a Barcellona si costituisce il Comitato centrale delle Milizie antifasciste). Nelle mani degli insorti ci sono comunque quasi tutto il nord (con Pamplona, Saragozza, Burgos e Salamanca) e il Marocco: di lì a poco cadranno anche Siviglia e Cadice. Madrid e Barcellona rimangono invece sotto il controllo della repubblica.

La notizia del colpo di stato arriva in Francia due giorni dopo. Berneri è tra i primi a mobilitarsi: il 29 luglio è già in Catalogna con un carico di fucili e munizioni e organizza una colonna anarchica italiana inquadrata nella divisione di Francisco Ascaso. Quando arriva anche Rosselli i giellisti, insieme ai socialisti e ai repubblicani, si aggregano alla formazione, a dispetto di qualche resistenza della frangia anarchica più chiusa ad ogni ipotesi di alleanza. Il 19 agosto Berneri lascia Barcellona per andare a combattere sul fronte aragonese e quattro giorni dopo partecipa agli scontri durissimi sul “Monte Pelato”, dove l’attacco fascista viene respinto, ma cadono diversi suoi compagni anarchici. Il suo fisico però si ribella; non è in grado di sopportare le fatiche del fronte e subisce un forte calo della vista e dell’udito, in seguito al quale deve essere fatto rientrare a Barcellona.

Da questo momento la città catalana rimane il centro della sua attività. L’intera Spagna costituisce per Berneri un terreno di prova ideale per il dibattito teorico precedente, ma è in Catalogna, dove gli anarco-sindacalisti hanno quale naturale alleato l’autonomismo, e sono in pratica la prima forza politica, che si può davvero giocare la carta di una compiuta democrazia federalista. La guerra è diventata infatti un’occasione per la rivoluzione sociale: gli operai collettivizzano le fabbriche, i contadini occupano le terre, le milizie popolari si organizzano autonomamente. Accade tutto sin troppo in fretta, e Berneri si trova quasi schiacciato dal precipitare degli eventi: da un lato teme le accelerazioni eccessive dei compagni, e le paure conseguenti che possono diffondersi tra le masse, dall’altro sa che ogni cedimento alla burocratizzazione significherà, oltre che il fallimento della rivoluzione, la sconfitta nella guerra civile.

La sua guerra prosegue pertanto con le armi della polemica e della propaganda. Fonda un bollettino, “Guerra di classe”, che redige in pratica da solo e dalle cui pagine non cessa di spronare il governo di Madrid ad una conduzione più decisa della guerra, arrivando a invocare anche misure drastiche. Ma il suo fronte non è solo a destra. Assiste infatti con sempre maggiore preoccupazione al ripetersi dello schema già sperimentato in Russia. Nel governo centrale sta assumendo un peso determinante la componente comunista di stretta osservanza moscovita, che peraltro all’atto della ribellione di Franco contava poche migliaia di aderenti (contro il milione e mezzo di iscritti alla CNT, il sindacato anarchico). Madrid sembra più interessata a riportare sotto il proprio controllo tutte le forze dello schieramento repubblicano, disarmando progressivamente quelle più riottose, a fermare le collettivizzazioni e ad eliminare l’autonomia catalana, che ad arginare l’avanzata dei falangisti. Berneri sente che l’entusiasmo iniziale della popolazione si va smorzando, di fronte alle rivalità nella sinistra e al venir meno di una ragione concreta, ovvero di una rivoluzione sociale radicale, per la quale combattere. Ciò non gli impedisce però di sostenere, in nome del realismo e sia pure con molte riserve, l’ingresso della CNT nel governo della Generalitat Catalana.

Sulla partecipazione degli anarchici spagnoli prima alle elezioni e poi al governo Berneri era già intervenuto prima dello scoppio della guerra civile, in occasione delle elezioni del febbraio del ’36, che avevano appunto visto la vittoria delle sinistre e determinato la reazione delle forze conservatrici. L’astensionismo, scriveva Berneri in quell’occasione, è per gli anarchici una sorta di dogma: è corretto come questione di principio, perché gli anarchici devono educare le masse all’azione diretta, e non a delegare le responsabilità e i poteri: è ineccepibile come strategia di fondo, perché sarebbe assurdo partecipare alla consacrazione elettorale di istituzioni che si vogliono eliminare. Ma a livello tattico può anche rivelarsi un suicidio. Se la partecipazione in questo momento mi evita di ritrovarmi sul collo un regime che una volta instauratosi non riuscirei più a demolire, posso chiamarmi fuori? Berneri accusa di semplicismo chi sostiene questa posizione. Apprezza quindi il fatto che la CNT abbia lasciato liberi i lavoratori di partecipare alla competizione elettorale (mentre la FAI – la Federaciòn Arquista Iberica – ha continuato a propagandare l’astensionismo). Fino a quando non verrà instaurata una democrazia reale, che preveda le deleghe minime e la revocabilità immediata di cui sopra, la particolare situazione storica esige l’uso degli strumenti del potere legittimo.

Ma ora le cose stanno cambiando, e riesplodono ben presto anche le divergenze con GL e con Rosselli. C’è una causa contingente, legata a un rovescio militare, ma i dissensi hanno origini più profonde. Rosselli ha avuto il comando della colonna italiana, e per ragioni di opportunità politica ha scelto nel suo stato maggiore collaboratori vicini al partito comunista. Dopo una battaglia conclusasi disastrosamente, anche per la scarsa efficacia del settore comunista dello schieramento, gli anarchici si ribellano e in pratica lo cacciano, provocando tra l’altro una dura reazione del comandante della divisione Ascaso. È l’inizio di una faida fratricida che avrà conseguenze tragiche, ma che si preannunciava già dall’inizio inevitabile. Mentre Rosselli ribadisce infatti anche in questa occasione, e soprattutto in questa, la necessità primaria di far fronte comune al nemico, Berneri ritiene che la guerra abbia una probabilità di successo solo se mantiene la doppia valenza antifascista e rivoluzionaria, se riesce cioè a coinvolgere veramente i contadini e gli operai facendo loro intravvedere un’organizzazione sociale ed economica futura ben diversa. Per questo motivo ritiene compito suo e degli anarchici denunciare tutti quegli atti del governo che lasciano intuire una svolta statalista ed autoritaria dietro il paravento delle urgenze strategiche e militari.

Nel governo centrale guidato da Largo Caballero sono entrati nel frattempo, nel novembre del 1936, anche quattro ministri anarchici. I dubbi di Berneri questa volta diventano certezze, anche perché appare subito chiaro che il coinvolgimento della componente anarchica è strumentale ad una sua neutralizzazione. Con la formazione dell’Esercito popolare e delle Brigate Internazionali, che vengono inquadrate in una organizzazione rigida e gerarchica, è partita infatti la militarizzazione delle milizie: i comunisti mantengono il controllo delle armi provenienti dalla Russia, con le quali equipaggiano soltanto le formazioni da loro controllate, lasciando le altre allo sbaraglio, quasi disarmate, sul fronte. La conseguenza è che alla fine del ’36 le forze di Franco occupano ormai più della metà del territorio spagnolo. Madrid è praticamente sotto assedio, l’iniziale neutralità dei paesi Europei è sostituita da un sempre più incisivo interventismo dei regimi fascisti, mentre i governi “democratici” stanno a guardare. La dimensione del conflitto, dopo la fase dell’entusiasmo internazionalistico, che ha visto la partecipazione solidale di tutti i gruppi antifascisti europei, si internazionalizza in altro modo, entrando nel gioco degli opposti imperialismi continentali. L’atmosfera, anche nell’anarchica Catalogna, è quella magistralmente descritta da Orwell nel suo diario spagnolo27.

Berneri naturalmente non può tacere: critica la decisione della CNT e della FAI di continuare a far parte della compagine governativa quando il rapporto di fiducia è ormai venuto meno, si affanna a suggerire diversivi militari, come l’apertura di un nuovo fronte alle spalle dei rivoltosi, concedendo l’indipendenza al Marocco, invoca la rottura diplomatica col Portogallo, che fiancheggia i rivoltosi, chiede il sequestro dei beni dei cittadini di nazioni fasciste che dimorano in Spagna e l’azzeramento del vecchio corpo diplomatico spagnolo, tutto colluso con la cospirazione. Soprattutto si ribella ai tentativi di inquadramento delle milizie anarchiche (propone anzi la costituzione di corpi di sicurezza anarco-sindacalisti, sul modello di quelli stalinisti) e al rallentamento della rivoluzione in nome della guerra.

Le avvisaglie della tragedia incombente si hanno già con la morte in novembre di Buenaventura Durruti, che molti attribuiscono ad un killer stalinista. A Mosca si annuncia che “in Catalogna è già cominciata la pulizia dai trotzkisti e dagli anarco-sindacalisti. Essa verrà condotta con la stessa energia che nell’Unione Sovietica28. E anche con gli stessi sistemi. Il Partito Comunista Spagnolo inizia, dietro pressione degli agenti moscoviti sul territorio iberico (tra i quali si distinguono gli italiani Togliatti, Longo, Vidali, ecc…), l’operazione di screditamento del POUM (Partido Obrero de Unification Marxista, che non ha nulla a che vedere con Trotzkij, ma viene accusato di “deviazionismo trotzkista” perché non si allinea alle direttive sovietiche), portata avanti con accuse assurde e infamanti, secondo il modello classico usato per le purghe staliniane. Berneri denuncia l’infamia di queste operazioni e rinnova in ogni numero di “Guerra di Classe” l’invito ai ministri anarchici a dimettersi e a non rendersi complici di tanta infamia. “Gli anarchici sono entrati nel governo per impedire che la rivoluzione deviasse e per continuarla al di là della guerra ed altresì per opporsi ad ogni eventuale tentativo dittatoriale che sia. Oggi […], siamo in una situazione nella quale avvengono gravi fatti e se ne profilano dei peggiori”. Non viene ascoltato, e la sua voce diventa anzi fastidiosa anche per alcuni leaders sindacali anarchici, che Berneri accusa di tradimento. La CNT gli taglia pertanto i finanziamenti per il bollettino, che continua ad essere pubblicato con mezzi di fortuna ma incontra grossi ostacoli nella distribuzione. L’anarchico italiano non cede, ma ormai è un isolato, e ha iscritto di suo pugno il proprio nome nella lista di proscrizione degli stalinisti. Dopo la pubblicazione di una Lettera aperta alla compagna Federica Montseny, una dei quattro ministri anarchici del governo Caballero, nella quale definisce i filosovietici “politicanti trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della ‘repubblica di tutte le classi’”, viene ammonito che sta rischiando grosso, e capisce di essere al capolinea (infatti avverte i suoi amici parigini).

Quando ai primi di maggio del 1937 scoppia a Barcellona lo scontro aperto tra anarchici e trotzkisti da un lato e filosovietici dall’altro, l’abitazione dove vive con altri compagni viene immediatamente presa di mira. Berneri è ormai qualificato come “controrivoluzionario”; viene disarmato, privato dei documenti e diffidato a mettere il naso fuori casa. Ma il mattino del 5 Maggio arriva dall’Italia la notizia della morte in carcere di Antonio Gramsci: Camillo esce e si dirige a Radio Barcellona per pronunciare un discorso commemorativo. Prima di muoversi ha scritto l’ultima lettera all’adorata figlia Maria Luisa. Sarà il suo testamento spirituale.

Quello stesso pomeriggio è prelevato dalla sua abitazione, insieme a Francesco Barbieri, da alcuni sicari comunisti che si qualificano come agenti di polizia. I cadaveri dei due anarchici vengono ritrovati il giorno successivo nella piazza vicina, freddati con diversi colpi di pistola alla schiena.

Come avevo immaginato. Solo così potevano fermare Berneri.

Tra eretici – In queste pagine ho ripetuto sino alla nausea che Berneri era un eretico. Non è una mia fissazione, abbiamo visto che lui per primo si fregiava di questa qualifica. In una lettera a Libero Battistelli scriveva: “I dissensi vertono su due punti: la generalità degli anarchici è atea, e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali), è antiautoritaria in modo individualista e io sono semplicemente autonomista federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal sovietismo)”29. Intanto i punti sono almeno tre, e comunque a monte c’è ben altro. Ciò che intendo dire è che Berneri non era eretico nei confronti di una qualsivoglia ortodossia: era un eretico nei confronti della vita, e non perché non gli piacesse, quanto piuttosto perché, come tutti gli eretici veri, pretendeva di ricondurla alla sua purezza. In altre parole era uno di quelli che, come scriveva Novalis, “cercano l’infinito, e trovano solo cose”. Lui la declinava così: “Noi avremmo voluto un socialismo ardente e puro: ci saremmo accontentati di un socialismo combattivo: ed era la grande epoca del riformismo”. Viveva insomma il contrasto tra il sogno utopico e la costante disillusione realistica: ma anziché cercare in questa disillusione degli alibi, ne traeva invece lo stimolo a dare ancora di più. Era platonico nel pensare, aristotelico nell’agire. A differenza dei Romantici, infatti, era capace di riconoscere che le “cose” esistono, e che con esse occorre fare i conti.

Piuttosto, una volta resosi conto che dagli altri non poteva aspettarsi né pretendere granché, ha preteso da se stesso, fino in fondo. Berneri credeva nel valore dell’esemplarità (il popolo ha bisogno di vedere dei martiri, dopo che ha tanto udito parlare di martiri) e al di là dei toni alla Jacopo Ortis pensava davvero, e ne rimase sempre convinto, che il modello umano e sociale proposto dal socialismo della sua epoca fosse fuorviante, perché faceva leva sul diritto anziché sul dovere, così come aberrante gli sembrava quello sovietico, che sacrificava la libertà e la dignità individuale ad un indefinito e strumentale (al potere delle burocrazie rivoluzionarie) interesse collettivo. Il suo impegno politico era prima di tutto il modo per assolvere ad un obbligo morale (Cosa sarebbe l’uomo senza questo senso del dovere, senza questa commozione di sentirsi unito a quelli che furono, ai lontani ignoti, e ai venturi?)30. Ciò che gli importava, in definitiva, era il rinnovamento morale della società: sapeva che non può prescindere da quello politico, ma sapeva anche che quest’ultimo può essere una conseguenza del primo, e non la premessa. Per questo motivo non solo la presa del potere non rivestiva per lui alcuna priorità, ma addirittura la considerava, anziché “il fine”, “la fine” della rivoluzione. La rivoluzione non è una fase “storica” di passaggio: è una condizione di vita, individuale e sociale, permanente. “La funzione storica dell’anarchismo – scriveva – è inconciliabile per molti lati con la necessità di un attuale successo politico”; dove quel attuale è riferibile a qualsiasi tempo. Togliamo un paio di parole e arriveremo alla sostanza: l’anarchismo è inconciliabile con il successo politico. È una militanza a prescindere.

Berneri viveva dunque la sindrome dell’esemplarità. È una sindrome che nasce da una presunzione di tipo particolare: non quella, sin troppo diffusa, di essere costantemente in credito con la vita, ma piuttosto quella di essere in debito. Chi pensa di essere in debito nei confronti della vita ritiene che questa gli abbia dato molto, più che agli altri. E allora deve fare qualcosa di più rispetto agli altri, deve essere l’ultimo a cedere, perché di questa responsabilità è stato investito: “Mi sono offerto di stare alzato per lasciare andare gli altri a dormire, e tutti hanno riso dicendo che non udirei nemmeno il cannone; ma poi, ad uno ad uno sono andati a nanna, ed io veglio per tutti, lavorando per coloro che verranno. È l’unica cosa bella interamente31. Questo, è vero, significa che sotto sotto degli altri si fida poco, o meglio, preferisce non avere bisogno: ma in questo atteggiamento non c’è malevolenza. Solo, considera normale che gli altri non siano tenuti a fare ciò che lui fa.Al limite può sperare che siano moralmente stimolati dal suo esempio a darsi da fare a loro volta, e che si possa quindi trasmettere un po’ di senso di responsabilità.

È il principio che governa tutti i sodalizi volontaristici: alcuni membri, e non sono necessariamente i leader, si sentono tenuti a dare comunque, e altri ritengono essere già molto quello che danno. Si badi bene: coi primi non c’entra nulla lo stakanovismo. Sto parlando di associazioni volontarie e spontanee, non di collettivizzazione: di senso del dovere, non di competitività. Infatti non è necessario che questo maggiore sforzo sia riconosciuto ufficialmente o produca delle investiture di potere: anzi, ogni riconoscimento sarebbe controproducente, perché le investiture sono in fondo delle deleghe, e deresponsabilizzano il delegante, invece di spronarlo.

Dietro l’atteggiamento di Berneri c’è una disposizione che ho già definita “protestante”. Culturalmente questa disposizione è testimoniata dall’interesse continuativo per un mondo e per una tradizione morale che datano dalla riforma, lo stesso che accomuna la parte più sana dell’ambiente intellettuale, soprattutto di quello torinese, nel primo trentennio del secolo. In pratica, c’è l’idea che se la grazia l’hai avuta te la devi poi meritare tutta, non attraverso l’autoaffermazione, ma attraverso l’esemplarità. È una forma di protestantesimo più luterana che calvinista. Fausto Nitti e altri fuorusciti chiamavano scherzosamente Berneri “il santo”, ma non scherzavano poi più di tanto: erano davvero stupiti dal suo ascetismo, e ci ricamavano sopra vere leggende. Berneri stesso, d’altro canto, scriveva dal carcere alle figlie: “In questo sforzo sta tutto l’amore per la vostra mamma e per voi, la compensazione di sacrifici morali enormi che mi sono imposto e che nessuno oltre a me conoscerà mai; c’è in me un bisogno smisurato di prendere coscienza del mio valore e della mia missione personale nella vita32. E alla madre: “Se vengono meno le ragioni morali, in me più mistiche che razionali, della lotta, io non vedo altro che fini personali33. Forse, a ripensarci, non è nemmeno una disposizione luterana. Da buon libertario Berneri non si sente un eletto: si elegge, autonomamente.

All’inizio di questo breve saggio ho detto di provare nei confronti di Berneri una profonda consonanza. Spero di non essere frainteso. Non presumo di partecipare del suo stato: io non sono stato toccato dalla grazia, al più ne sono stato sfiorato, e non essendo né protestante né cattolico non mi aspetto pentecosti né individuali né collettive. Sono quindi rimasto nella condizione di chi sa che la grazia esiste, ma non è cosa per lui, e oltretutto si becca il debito, perché in sostanza conosce la via, ma non ha le forze, la capacità, soprattutto la volontà per percorrerla. A questo punto, a quelli destinati al Limbo rimangono solo due strade: o si incattiviscono per l’occasione perduta, o diventano particolarmente ironici con se stessi. Spero solo di non essere diventato troppo cattivo. (D’altro canto, non so nemmeno se essere toccato dalla grazia sia una fortuna oppure no.)

Questa malinconica condizione mi ha comunque messo in grado di capire, e senz’altro di ammirare, Berneri e gli altri come lui (che non sono poi tantissimi): di sentirmi con loro solidale, se non compagno, e di compiacermi della condivisione di qualche particolare attitudine.

Ne condivido senza dubbio la concezione (che non è necessariamente padronanza) enciclopedica della conoscenza. Berneri non è, per necessità ma in fondo credo anche per scelta, uno specialista. È un onnivoro, curioso di tutto e informato di tutto. Sa benissimo di trattare gli argomenti ad un livello superficiale (anche se è vero, come abbiamo visto, che raccoglieva incredibili dossier su tutto quel che lo interessava), ma ha il coraggio di tentare delle sintesi, e questo gli dà l’opportunità di cogliere legami e collegamenti tra le sfere e tra i fenomeni più diversi. Gli specialisti sono necessari, sono fondamentali, ma gli input veri alla comprensione e alla lettura innovativa dei fenomeni vengono sempre dai non specialisti. E ciò vale anche in politica: anzi, nella concezione di politica propria di Berneri, che al di là delle contingenze e delle alleanze e delle opportunità è essenzialmente educazione, questa attitudine risulta imprescindibile. Berneri è quindi cosciente del suo “dilettantismo” e dei limiti che può comportare, ma ne ribalta la funzione. Altri avrebbero potuto o potrebbero fare meglio, ma non lo fanno: e allora, buttiamo là la provocazione, e vediamo se si svegliano34.

Non è solo questione di modalità d’approccio: sono anche i contenuti, gli esiti, ad accomunarci. Forse perché quella modalità porta a quegli esiti. Ad esempio, ad una considerazione realistica della natura umana. Berneri non si fa eccessive illusioni: sembra paradossale, per un anarchico, ma è così. Vuol considerare gli uomini per quello che sono, soprattutto se presi in gruppo: la sua insistenza sulla libertà individuale nasce da una diffidenza profonda nei confronti della massa, più che dalla fiducia nei singoli. Non è individualismo: Berneri applica delle evidenze che sono tali da sempre, e che gli studi socio-antropologici della seconda metà del ‘900 hanno confermato anche a livello statistico. L’appartenenza ad un gruppo è correttamente sentita e vissuta dal singolo, e ne esalta le potenzialità e il senso di responsabilità e di partecipazione, solo entro i limiti di una stretta interrelazione, quella consentita dal villaggio o dalla piccola comunità (il gruppo ideale va dalle cento alle duecento persone). Oltre queste dimensioni vengono meno il collante e il denominatore comune sul quale giocare attivamente i rapporti, quello della conoscenza diretta.

La consapevolezza delle differenze tra gli uomini, tra le loro speranze, le loro aspettative, le loro finalità, porta quindi Berneri ad un’altra consapevolezza, quella che senza regole ben precise il gioco non può andare avanti. Questo vale rispetto al lavoro e ai comportamenti politici, ma vale poi in generale in tutti gli ambiti. Quindi la libertà va intesa come responsabilità, i doveri come fondamento e garanzia dei diritti. E a proposito di doveri, il primo dovere è per Berneri quello di fare bene le cose che si fanno: il che significa portarle fino in fondo, crederci davvero, mantenendo vigile la capacità di correggersi di fronte al cambiare delle situazioni o all’evidente inadeguatezza delle soluzioni proposte.

Il terzo fattore di condivisione (ma in fondo si tratta di un corollario dei primi due) riguarda il tema della dignità, declinato in ogni sua variabile. La dignità per Berneri non è un valore eteronomo, conferito a persone, attività o cose da una qualsivoglia entità o autorità esterna. La dignità è quella che ci si costruisce dall’interno. Siamo noi responsabili della nostra dignità, di conferirla a ciò che siamo o che facciamo, e poi di difenderla. Berneri esplicita la cosa quando parla di lavoro, ma la sottende ad ogni altro suo discorso, da quello sulla religione a quello sulla emancipazione femminile. Non ci si può attendere una liberazione, ci si deve rendere liberi, e questo è possibile anche in un contesto non favorevole. Oserei dire che forse è ancora più possibile, perché l’esistenza di ostacoli e difficoltà costringe a concentrarsi su ciò che si vuole ottenere.

Infine, Berneri non rinnega affatto l’appartenenza ad una certa aristocrazia spirituale (ed è questo che soprattutto non viene capito e gli viene rimproverato dai suoi compagni). Gli ripugna l’ipocrisia di chi si traveste di una “cultura proletaria” che in realtà non gli è propria (e che secondo lui nemmeno esiste), e disprezza quelli che lo fanno in malafede, per opportunità politica; ma non manca di stigmatizzare anche coloro che lo fanno in buona fede, che abbracciano una filosofia penitenziale per la quale occorre mortificare la propria reale natura o le proprie radici e sdraiarsi sulla linea altrui. È consapevole di quanto il proprio sogno possa essere diverso da quello degli altri, del fatto che in fondo non si vogliono davvero le stesse cose e per gli stessi motivi. Sa di poter fare un pezzo di strada in comune, ma vuole poter lasciare la compagnia quando i discorsi che si fanno lungo il cammino indicano un’altra meta. È aristocratico nel sentire, democratico nell’agire, ma soprattutto libero nell’essere e nel pensare.

Berneri fa dunque parte di un circolo ideale di anime elette, da Gobetti a Camus, da Leopardi a Micotto e a Modesto, che in ogni epoca hanno saputo opporre resistenza a qualsiasi forma di omologazione. Indipendentemente dai livelli di cultura e dai risultati raggiunti, è gente che ha preteso di vivere e di pensare autonomamente. Ha pagata cara questa pretesa, con l’isolamento, con l’incomprensione, in molti casi, come in quello di Berneri, anche con la vita: ma, accidenti, non mi si venga a dire che non c’è riuscita.

1 Negli ultimi tempi il velo di rimozione che sembrava avvolgere Berneri è stato in realtà più volte strappato. Giampiero Berti ha tracciato ne Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento (Lacaita, 1998) un bilancio “politico” esauriente della singolare esperienza berneriana (che sotto questo profilo viene considerata, forse non a torto, “irrisolta”), mentre Stefano d’Errico ha redatto una sorta di biografia intellettuale di Berneri basata sulle sue stesse parole, attraverso una scelta copiosa dalle lettere e dagli scritti polemici o saggistici. Mi ha soprattutto colpito, però, il breve saggio dedicato all’anarchico lodigiano da Renzo Ronconi e compreso ne L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (Jaka Book,2010). La vicenda di Berneri è qui colta con particolare finezza nella sua globalità, non solo quindi nelle sue valenze politiche, ma anche, e soprattutto, in quelle “umane” e più genericamente filosofiche. Come dirò più oltre, questo mio scritto in qualche maniera è condizionato dalla recentissima lettura delle pagine di Ronconi, e si propone pertanto di puntualizzare o sottolineare alcuni aspetti che in esse sono stati trattati solo marginalmente.

2 Così racconta il commiato da Prampolini: “Mi mandò a chiamare, lui che non mi aveva mai parlato, per dirmi: “Dunque ci lascia”. Ma soggiunse: “Ma resta sempre nel socialismo”. E questa parola mi fu di sollievo, ché mi pareva triste di veder allontanarsi quello che allora ero: l’unico studente militante della città socialistissima”. (Pensieri e Battaglie, Parigi 1938).

3 Di lei Camillo scrive all’amico e maestro Gaetano Salvemini: «Non è anarchica nel senso di essere una militante, però accetta le mie idee e le condivide in gran parte». In realtà, dopo la morte di Berneri Giovanna Caleffi comincia ad occuparsi attivamente di anarchismo, collaborando alla stampa libertaria. Viene arrestata nel 1940 e consegnata alle autorità italiane, che la inviano alo confino. Sfuggita alla sorveglianza, entra nella Resistenza. Dopo la guerra concretizza il suo impegno anarchico nella fondazione di una colonia intitolata alla memoria della figlia, Maria Luisa Berneri, che costituirà uno straordinario esempio di pedagogia innovativa.

4 Per un programma d’azione comunalista (1926)

5In Russia il bolscevismo ha rinnovato, in modo radicale e sistematico, i sistemi rappresentativi. Il valore di tali riforme sorpassa i confini della rivoluzione russa e per l’influenza che esse hanno sul pensiero politico delle altre nazioni e per le loro origini ideologiche. Il regime dei Soviet è una derivazione dell’autonomia federalista ed è in antitesi con la tendenza accentratrice del socialismo di Stato: non è che un sistema politico le cui linee generali e fondamentali si trovano nei disegni politico-filosofici dei principali pensatori della Francia rivoluzionaria e democratica” (L’autodemocrazia, 1919).

6 Da “L’autodemocrazia” su Volontà (Ancona) del 1/6/1919

7 A proposito delle nostre critiche al bolscevismo (1922)

8 Umanesimo e anarchismo

9 L’operaiolatria, Brest 1934

10 L’anarchico sardo Michele Schirru, giunto dall’America nel 1931 per attentare alla vita di Mussolini, è arrestato e fucilato, con l’accusa di aver progettato l’uccisione del capo del governo. Un altro anarchico, Angelo Pellegrino Sbardellotto, proveniente dal Belgio, viene trovato in possesso di un passaporto falso, di una pistola e di un ordigno, e confessa l’intenzione di uccidere Mussolini. Anche lui è condannato a morte e fucilato nel 1932.

11 Epistolario inedito

12 Per un programma d’azione comunalista, 1926

13 Koestler parlerà di ‘autocastrazione intellettuale. “Un intellettuale non poteva mai diventare un vero proletario, ma il suo dovere era di assomigliargli il più possibile… Il modo giusto era non scrivere, non dire e soprattutto non pensare niente che non fosse comprensibile anche per uno spazzino (Il Dio che è fallito)

14 Il diritto penale nella rivoluzione, in “Umanità Nova”, agosto 1921

15I comuni non devono essere più degli organi dell’amministrazione centrale, del potere governativo, ma degli organi di sintesi amministrativa locale e di cooperazione, regionale e nazionale. Occorre […] coordinare tutte le amministrazioni locali in una Confederazione di amministrazioni autonome, collegate strettamente con le organizzazioni di produzione”.

16 Il federalismo comunalista di Berneri, e i presupposti civici sui quali si basa, saranno fatti propri anche da un liberale puro come Luigi Einaudi: ”L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche”; e quanto alla politica “perché vi sia un governo libero occorre che gli uomini sentano di essere un qualcosa di diverso dagli altri uomini, che abbiano l’orgoglio di appartenere ad un ampio ventaglio di corpi intermedi, quali la famiglia, la vicinanza, il comune la comunità, la regione, l’associazione di mestiere, la fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa”; per concludere: “Occorre partire dal basso, dai corpi locali vivi di vita propria originaria, come il comune, per ricostruire un ordine politico ispirato al federalismo e generare una democrazia prossima al cittadino” (L’Italia e il secondo Risorgimento, 1944).

17 Il primo atto con il quale lo Stato si manifesta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società, è in pari tempo l’ultimo atto proprio dello Stato. L’intervento dello Stato negli affari della società diventa superfluo in tutti i campi uno dopo l’altro e poi cessa da sé stesso. Al governo delle persone si sostituiscono l’amministrazione delle cose e la direzione del processo di produzione. Lo stato non è «abolito»; esso muore.

18 Cfr. “Il lavoro attraente”

19 Scrive di lui Salvemini: “Aveva il gusto per i fatti precisi. In lui l’immaginazione disciolta da ogni legame con il presente, in fatto di possibilità sociali, si associavano a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. S’interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate, lui teneva aperte tutte le finestre” (Salvemini 1952a; 1952b)

20Il suo sistema di lavoro era una cosa curiosa. Cercatore d’istinto, era capace di chiudersi in biblioteca per giorni e giorni, a sfogliare, a leggere, a prendere note. Ritagliava pagine, sfaceva un libro per ricavarne alcune pagine: quando non poteva sfarlo, copiava. Si interessava a tutto, dalle malattie dei bambini ai problemi delle razze, dai giocattoli alle ultime teorie sull’universo. E ogni annotazione era classificata. La sua biblioteca si componeva così, in gran parte di un enorme schedario e di fasci, di casse, di carta stampata o manoscritta”.

21 È da sottolineare come il successo del nazismo si accompagni ad un enorme interesse per il paranormale e per i culti parascientifici più strampalati, tanto che si arriva a teorie della terra cava ed altre simili demenze, che avevano un grosso credito nelle alte sfere del nazionalsocialismo e che generano un’antropologia razzista criminale.

22 Lo stesso tema era stato affrontato pochi anni prima, nel 1930, da Theodor Lessing ne Der Judischer Selbsthass. Lessing, ucciso in una “spedizione punitiva” nel 1933, era anche stato una delle prime vittime dei nazisti.

23 Cfr. Otto Weininger, Das Judentum (L’odio di sé ebraico), da Sesso e carattere.

24 Anche Fénélon, nel III libro del Télémaque (1699), applica quella formula al lavoro. Morelly, nella Basiliade, scriveva: “Ammettiamo che la libera attività dell’uomo versi nel fondo comune più di quanto in esso possano attingere i bisogni, è chiaro che le leggi, i regolamenti divengono quasi inutili, poiché ad ogni funzione necessaria risponde negli individui un gusto naturale, una ben spiccata vocazione”.

25 Epistolario inedito

26 È l’insurrezione congiunta delle truppe d’oltremare (il Tercio, la legione straniera spagnola) sotto la guida di Francisco Franco, delle guarnigioni navarresi comandate da Emilio Mola e delle milizie carliste e falangiste.

27La situazione era abbastanza chiara: da una parte la CNT, dall’altra la polizia: Non ho alcun amore particolare per il “lavoratore” idealizzato quale si presenta alla fantasia del borghese comunista: ma quando vedo un vero e proprio operaio, in carne ed ossa,in lotta col suo nemico naturale, il poliziotto, allora non ho più da chiedermi da quale parte debbo schierarmi”. (Omaggio alla Catalogna)

28 Sulla “Pravda” del 17 dicembre

29 Epistolario inedito

30 Epistolario inedito

31 Epistolario inedito (settembre 1936)

32 Epistolario inedito, giugno 1930

33 Epistolario inedito, febbraio 1930

34Lo studio che segue non è che una specie di introduzione al tema: il lavoro attraente; tema sul quale vorrei vedere attratta l’attenzione di quanti potrebbero apportare idee, esperienze personali, particolari conoscenze tecniche. Un competente avrebbe fatto di più e di meglio; ma dato che i competenti sono restii a utilizzare la propria preparazione, tocca ai più disinvolti il ruolo di sollevare i problemi e di imporli all’attenzione dei compagni”. (Il lavoro attraente)

 

Per una storia della letteratura di viaggio in Italia

di Paolo Repetto, 2002

I percorsi e le scoperte (letterari) di questi ultimi anni mi hanno portato a rivedere, almeno parzialmente, il giudizio negativo sull’attenzione riservata in Italia alla letteratura di viaggio. Giudizio che avevo espresso diverso tempo fa e che ho volutamente riportato nel mio precedente articolo.

L’assenza di interesse cui mi riferivo caratterizza soprattutto il periodo del secondo dopoguerra (guarda caso, quello della mia formazione), quando gli italiani avevano un sacco di altre cose da sistemare e di cui occuparsi e il clima culturale era tutt’altro che propizio alla rievocazione delle scoperte e delle conseguenti avventure coloniali.

Ma nella prima metà del Novecento, per ragioni opposte, questo interesse c’era stato, e lo testimonia ad esempio un’iniziativa editoriale della Paravia dedicata a I grandi viaggi di esplorazione, che contava decine e decine di titoli. Si trattava di operette divulgative, caratterizzate da un marcato taglio agiografico e intrise, soprattutto quelle degli anni Trenta, dello sciovinismo di regime: avevano comunque il merito di portare all’attenzione degli adolescenti, ma non solo, la storia delle esplorazioni e dei viaggi. E anche quello di proporre, accanto alle biografie di Colombo, Magellano e Cook, vicende come quelle di Boggiani e Carlo Piaggia, e persino di Ludovico de Varthema. A giudicare da ciò che trovo nei mercatini dovette godere di una certa diffusione, almeno nelle librerie delle case borghesi, ed è l’unico mio motivo di rammarico per non essere nato in una famiglia benestante (in verità ce n’è un altro, legato alle riduzioni a fumetti dei grandi classici della letteratura avventurosa che anni dopo la Magnesia San Pellegrino distribuiva in omaggio ai clienti: a casa mia nessuno aveva problemi di digestione).

Rivista oggi, sotto un’altra luce, e ferme restando le differenze qualitative e quantitative rispetto a tradizioni letterarie come quelle inglese e francese, la letteratura italiana rivela in realtà un rapporto intenso col tema del viaggio, soprattutto fino al XVIII° secolo. Una breve carrellata lo dimostra.

Si può idealmente partire da Dante e da Brunetto Latini (Il tesoretto) per il viaggio allegorico, ma per il resoconto di viaggi reali occorre attendere Petrarca. Quest’ultimo è costantemente a caccia di manoscritti nelle biblioteche europee, e quindi visita Parigi, le Fiandre e i paesi della valle del Reno: ma nel frattempo attraversa anche a cavallo la selva delle Ardenne, e scala il Monte Ventoso (Ventoux). La sua irrequietudine è documentata nelle Epistole Familiari (I, 4 e 5).

È però già possibile ravvisare un atteggiamento tutto italiano nei confronti del viaggio nello stilnovista Guido Cavalcanti, che parte da Firenze nel 1294 per un pellegrinaggio a San Jacopo in Galizia, ma si ferma a Tolosa perché lì ha trovato una bella donna (lo confessa nel Canzoniere). Ed è questo, tra l’altro, l’unico motivo per cui abbiamo notizia del pellegrinaggio.

Il primo resoconto di un viaggio extraeuropeo di qualche interesse è invece quello di Giovanni dal Pian del Carpine, frate francescano inviato nel 1245 dal papa a Karakorum, presso il sovrano dei Tartari, nipote di Gengis Khan (Viaggio ai Tartari). Tira un po’ sul meraviglioso, ma la narrazione è sostanzialmente attendibile. Descrive il clima e l’estensione del paese, il modo di vestire, le abitazioni, la religione, l’alimentazione, l’organizzazione politica e militare dei mongoli, il modo di trattare i popoli sottomessi ecc… Per essere un religioso medioevale, si dimostra assolutamente libero da pregiudizi.

Un quarto di secolo dopo (1271) ha inizio il viaggio di Marco Polo, narrato poi (in francese) nel Livre des merveilles, e oggi conosciuto come Il Milione. Dal momento che il libro non fu scritto da Marco stesso, ma dettato a Rustichello da Pisa, si ha motivo di credere che molti degli elementi favolosi presenti nel racconto siano frutto della fantasia e della cultura di quest’ultimo. Ma il risultato non cambia. È una pietra miliare nel genere, e sorprende un po’ costatare che non ha trovato imitatori (almeno in Italia) per oltre due secoli.

Un piccolo boom della letteratura di viaggio si ha invece nel periodo rinascimentale. Tengono diari minuziosi dei loro spostamenti i diplomatici come Machiavelli e Guicciardini, soprattutto quest’ultimo (Diario del viaggio in Spagna), mentre raccontano viaggi fantastici su e giù per l’Europa e per il vicino oriente i poeti come Boiardo (Orlando innamorato) e Ariosto (Orlando furioso, con un salto anche sulla Luna). Tuttavia quando parla dei suoi viaggi reali (nelle Satire) Ariosto non manifesta grandi entusiasmi.

L’elemento cruciale di novità è però la scoperta di un continente nuovo. Cominciano a fioccare i resoconti dei viaggi oltre oceano, a partire da quelli di Cristoforo Colombo (Diario), di Amerigo Vespucci (Lettera a Pier Soderini, 1506) e di Giovanni Verrazzano (Lettera a Francesco I, re di Francia, 1524), destinati a diventare dei classici del genere. Sono altri però, molto meno noti, a lasciare le tracce più succose e intriganti del nuovo spirito nomade e avventuroso che anima il Cinquecento. Tra questi spicca il già citato Lodovico de Varthema (Itinerario dallo Egypto alla India, 1512), un incredibile avventuriero che arriva in India prima dei Portoghesi stessi, viaggiando per via di terra e attraversando tutto il mondo mussulmano. È difficile distinguere nel racconto di de Varhema la verità dalle millanterie, ma anche queste sono divertenti, di fatto comunque la gran parte delle sue avventure è testimoniata da riconoscimenti ufficiali.

Un secolo dopo il romano Pietro della Valle percorre un itinerario quasi identico (narrato nel Diario di viaggio in Persia), ma reso più complicato dal fatto che buona parte del percorso la fa in compagnia della salma imbalsamata della giovane moglie. Credo sia un’esperienza unica nella storia della letteratura di viaggio.

Il grande coordinatore di quest’ultima è Giovan Battista Ramusio, veneziano, che tra il 1550 e il 1559 pubblica i tre volumi delle Navigazioni e viaggi, dove sono raccolti tutti i materiali editi ed inediti relativi ai viaggi di scoperta del mezzo secolo precedente. Tra questi, la drammatica Relazione del primo viaggio attorno al mondo, scritta dal vicentino Antonio Pigafetta, compagno di Magellano e diarista ufficiale dell’impresa. La circumnavigazione è ripetuta verso la fine del secolo da un fiorentino, Francesco Carletti, che la descrive nei Ragionamenti del mio viaggio attorno al mondo, (editi solo nel 1701), magari meno emozionanti del racconto di Pigafetta ma di grande interesse per le descrizioni dei popoli delle Americhe e dell’Asia e delle loro culture.

Nel Seicento sono soprattutto i Gesuiti a raccontare le missioni evangelizzatrici proprie, come Matteo Ricci (Lettere e Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, 1608)), o altrui, come Daniello Bartoli (Missione al Gran Mogor, 1653). Per il resto, non essendosi sviluppata in Italia una cultura “libertina”, il tema del viaggio è relegato in secondo piano.

Un risveglio si ha nel secolo successivo. Gli stimoli che arrivano dall’Illuminismo, il clima cosmopolita e il desiderio di entrare nel Grand Tour invertendone la direzione inducono nuovamente i letterati italiani a muoversi. Lo fanno animati da un forte spirito critico nei confronti del proprio paese, ma non mancano di esercitarlo anche verso gli altri. E soprattutto lo riversano nei loro diari. A dare l’esempio è Francesco Algarotti, grande divulgatore scientifico e viaggiatore lungo un ventennio per tutti i paesi del Nord-Europa, autore tra l’altro dei Viaggi di Russia. Quasi contemporaneamente Giuseppe Baretti lascia nelle Lettere familiari ai suo’ tre fratelli (1762) delle pungenti annotazioni sui suoi itinerari attraverso Portogallo, Spagna e Francia e sul suo soggiorno in Inghilterra. Baretti quando è in giro non fa sconti a nessuno, ma è evidente che a stargli stretta è proprio l’Italia (e sceglierà infatti di rimanere in Inghilterra). Un altro bello spirito, Vittorio Alfieri, gira l’Europa per cinque anni, tra il 1767 e il 1772, toccando la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, l’Austria, la Prussia, la Danimarca, la Svezia, e ce ne dà conto ne la Vita scritta da esso. Ne ricaviamo poco sulla situazione dei vari paesi, ma del carattere del conte alla fine non ignoriamo più nulla. Così come di Giacomo Casanova, che fa avanti e indietro per tutta la vita, battendo l’intero continente e raccontandolo (nella Storia della mia vita, 1798) da un punto di vista senz’altro singolare.

Meno attento a sé e più a ciò che lo circonda è Luigi Angiolini, che lascia delle interessantissime Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia e Olanda (1790), nelle quali, come avviene per tutti gli altri autori di questo periodo, coglie l’occasione per lamentare il degrado culturale e civile dell’Italia a confronto con i paesi europei del Nord. Altri, come Giovan Battista Malaspina (Relazione del viaggio in Francia e in Spagna, 1786), sono meno esterofili, ma non mancano di sottolineare i ritardi italiani.

Il romanticismo nostrano, a differenza di quello europeo, non segna un ritorno alla grande del viaggio nella letteratura e della letteratura di viaggio. I nostri maggiori romantici magari si spostano all’estero (Foscolo in Francia e in Inghilterra, Manzoni in Francia), ma non reputano importanti queste esperienze. Meno che mai il viaggio costituisce un tema significativo nella narrativa e nella poesia. C’è molto attaccamento al focolare domestico, ai tetti e al campanile. Chi si sposta in genere non è un viaggiatore, ma un esule (Renzo, Jacopo Ortis, Carlino Altoviti ne Le confessioni di un Italiano del Nievo) o un emigrante. E solo nel tardo Ottocento compare qualche accenno a quest’ultimo tema. Edmondo de Amicis è l’unico autore italiano a raccontare, in Sull’oceano, un fenomeno che forza milioni di persone a cambiare latitudine o emisfero. Fioriscono in compenso le pubblicazioni periodiche destinate ad un pubblico di media e bassa cultura (il Giornale illustrato dei viaggi), infarcite di esotismi da salotto e di inverosimili peripezie, ed esplode il viaggio immaginario e popolar-avventuroso nei romanzi d’appendice di Emilio Salgari.

Tra i resoconti genuini di viaggi di esplorazione qualche valore anche letterario hanno La scoperta delle sorgenti del Mississippi di Giacomo Beltrami, Sette anni nel Sudan egiziano di Romolo Gessi, Due anni tra i cannibali di Carlo Piaggia e soprattutto il Viaggio allo Yemen di Renzo Manzoni, quest’ultimo forse l’unico in grado di reggere il confronto con i viaggiatori-narratori anglosassoni e francesi.

Ancora nella prima metà del Novecento il racconto di viaggio rimane confinato in un genere minore. Non mancano letterati che vi si cimentino (a partire da Guido Gozzano con Verso la cuna del mondo, o da Emilio Cecchi con America Amara e Viaggio in Grecia); ma sono soprattutto i giornalisti come Luigi Barzini (Il libro dei viaggi), Bruno Barrili (Il viaggiatore volante), Virgilio Lilli (Penna vagabonda) e Vittorio G. Rossi (Tropici) a produrre le cose migliori. In qualche caso, come per il Viaggio in India (1966) di Alfredo Todisco, sono le profonde trasformazioni intervenute nel frattempo a rendere interessante la fotografia di un mondo scomparso. In altri, come per Un’idea dell’India e Passeggiate africane di Moravia, ma anche L’odore dell’India di Pasolini, riesce fin troppo evidente come spesso nei viaggi si trovi null’altro che ciò che ci si porta.

Solo nell’ultimo scorcio del secolo il rinnovato interesse per l’argomento ha portato alla creazione di veri capolavori (come Danubio, di Claudio Magris), oltre che alla emersione (o in qualche caso, riemersione) di un paio di generazioni di bravi narratori di esperienze di viaggio, da quelle asiatiche di Fosco Maraini (Incontro con l’Asia), Tiziano Terzani (In Asia) e Giorgio Bettinelli (In Vespa), a quelle americane di Pino Cacucci (La polvere del Messico), Cesare Fiumi (La strada è di tutti) e Alessandro Portelli (Taccuini americani), a quelle africane di Carla Perrotti (Deserti), fino a quelle mondiali di Walter Bonatti (In terre lontane).

Si è ridestato anche l’interesse per la storia del viaggio e dei viaggiatori, che ha trovato ottimi narratori in Stefano Malatesta (Il cammello battriano, Il mare di sabbia) e soprattutto in Attilio Brilli (a partire da Quando viaggiare era un’arte). Brilli è il grande maestro della loggia dei viaggiatori “in su le carte”, una enciclopedia ambulante (appunto) della letteratura odeporica, e ha al suo attivo un numero straordinario di titoli.

La riscoperta del piacere e del valore culturale del viaggio, che nell’articolo sopra citato attribuivo soprattutto ad una moda di importazione (e confesso che sostanzialmente ne sono ancora convinto), ha dato nel nuovo secolo frutti notevoli, non inferiori a quelli anglosassoni. Il merito va ad autori del calibro di Paolo Rumiz, che con La leggenda dei monti naviganti ha toccato le vette della migliore letteratura, raccontando un fantastico itinerario dalle Alpi marittime alla Sicilia compiuto a bordo di una vecchia Topolino, seguendo a zig zag la dorsale appenninica, quindi la parte più sconosciuta e relativamente intatta della nostra penisola. Rumiz aveva già pubblicato il resoconto di un viaggio attraverso i Balcani in direzione di Costantinopoli (É oriente) ed ha poi proseguito nella riscoperta dell’Italia con Annibale. Un viaggio, una rivisitazione-confronto tra il passato e l’oggi sulle orme del grande condottiero cartaginese, per spostarsi infine nuovamente fuori dell’Italia con Trans-Europa Express, un itinerario che segue il vecchio confine della cortina di ferro dal circolo polare sino all’Adriatico.

Anche in Italia incontrano infine un crescente successo i “viaggiatori estremi”, in sostanza quelli che si muovono a piedi su lunghe distanze. Una traversata latitudinale completa della penisola è raccontata da Enrico Brizzi, sia pure con qualche eccessiva concessione al romanzesco, ne Gli Psicoatleti. Quella longitudinale, dall’Argentario al Cònero, l’aveva già narrata in Nessuno lo saprà. Brizzi percorre preferibilmente i vecchi itinerari del pellegrinaggio, quelli della Via Francigena o del Camino di Santiago di Compostela. Come Rumiz, e come tutti gli altri citati, sa scrivere bene. E questo è sempre un vantaggio per la letteratura, se non una condizione imprescindibile, ma per quella di viaggio può costituire anche un rischio. Perché chi ama le narrazioni di viaggio in realtà bada molto più alla sostanza che alla forma, vuole identificarsi con i luoghi e con le storie, più che lasciarsi coinvolgere dalla malìa delle parole. Oggi i viaggi vengono intrapresi sempre più solo per poterne poi scrivere, e c’è il rischio che il piacere letterario lasci poco spazio a quello della fantasia. Quando si legge per immaginare noi stessi a compiere il viaggio un racconto troppo perfetto ci esclude, non consente di figurarci qualcosa di diverso da ciò che viene raccontato.

È quanto sembra aver capito molto bene Roberto Giardina, che in due poderosi volumi (L’altra Europa. Itinerari insoliti e fantastici dell’Europa di ieri e di oggi e L’Europa e le vie del mediterraneo ha condensato un repertorio vastissimo di itinerari possibili e di suggestioni storiche da inseguire. Pochissime pagine per ciascuna tappa, descrizioni all’osso, rimandi storici a vicende e personaggi spesso sconosciuti: un liofilizzato di indicazioni che l’autore consegna al lettore come una possibilità, un ricettario con gli ingredienti essenziali: il gusto, sembra dirgli, ora devi mettercelo tu.