Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz?

Nessuno dei due

I libri che non mi sono piaciuti (2)

di Vittorio Righini, 1 febbraio 2023

Un recente giorno d’estate chiacchieravo di libri con due amici al bar, un bicchiere di vino rosso in mano; caso più unico che raro, tutti e tre appassionati di narrativa di viaggio. Il ricercare questi libri porta alla conoscenza di autori che non sono solo e necessariamente scrittori di viaggio, prima di tutto perché la narrativa di viaggio, per essere efficace, comprende la Storia, con la S maiuscola. Nella loro bibliografia, questo tipo di autori ha titoli validi ed importanti di ben altro genere.

Un esempio italiano è Paolo Rumiz: dopo averlo conosciuto anni addietro con Tre uomini in bicicletta (con Altan e Rigatti, da alcuni considerato un ‘’libercolo’’, invece gentilissimo approccio a temi, problemi e luoghi vicini eppur complessi), l’ho poi apprezzato con È Oriente, La leggenda dei monti naviganti, Morimondo, ed altri ancora per arrivare all’ottimo Appia e soprattutto ad Annibale. Quest’ultimo (è del 2008, l’ho scoperto tardi) è un libro di storia, non di viaggi (sebbene Annibale viaggiasse parecchio, anche se spesso lo faceva d’obbligo …). Dovrebbero portarlo come testo nelle scuole, e anche lo studente più ostinato, mi permetto di rilevare, si appassionerebbe alla Storia, quella con la S maiuscola.

Rumiz versus Boatti o Boatti versus Rumiz 01

Tornando al bar, un amico mi suggeriva Il filo infinito di Rumiz, del 2019, libro che racconta di un viaggio di ricerca dell’autore nei monasteri benedettini d’Europa; in realtà lo possedevo ma non lo avevo ancora aperto. In cambio, gli suggerivo la lettura di Sulle strade del silenzio. Viaggio per monasteri d’Italia e spaesati dintorni di Giorgio Boatti. Il filo conduttore di entrambi, infatti, è la visita ai monasteri, italiani d’ogni vocazione in Boatti, anche stranieri ma solo benedettini in Rumiz. In realtà non potevo proporre un confronto tra due libri più diversi di questi. Paolo Repetto mi dice: sono agli antipodi. Verissimo. Una cosa li contraddistingue: entrambi non vanno a visitare per vocazione religiosa ma perché hanno il fondato sospetto che in questo tipo di eremi si possa trovare un orientamento nelle vicissitudini odierne, capirne di più, magari risolvere qualcosa, almeno con se stessi, se non con gli altri.

Per Rumiz è una navigazione interiore, come scritto sulla terza di copertina; una ricerca ostinata e preoccupata (a mio avviso anche un po’ ansiata); per Boatti, una ricerca col cuore in mano, senza troppo giudicare, solo vedere, narrare, forse intuire. Mi riesce facile preferire, in questo caso, Boatti a Rumiz; il secondo, che nei suoi ultimissimi libri definirei una pentola di fagioli in ebollizione, tende sempre di più ad esplorare l’io, in particolare il suo. A volte mi mette freddo, mi vien voglia di accendere il camino; mi raggela soprattutto la sua mancanza di entusiasmo, comprensibile certo con l’età, con l’esperienza, col disincanto. Forse mi sbaglio, forse sono io che non riesco a leggerla questa speranza, e se è così me ne scuso, sono io che non ho capito. Alla fine de Il filo infinito, insomma, ho più dubbi di prima, freddo, e voglio una bella minestra calda di ceci per rinfrancarmi.

Allora preferisco leggere libri di tono giornalistico, il giornalismo serio, che ti da una informazione, non la distorce ma ti lascia ampia scelta sulle somme da tirare. Meno poetico e colto di quello di Rumiz, ma più fruibile alla massa, a me quindi, è quello di Boatti. Che non devi accendere il camino, non ti devi sbattere a fare la minestra di ceci, che è davvero buona ma troppo “ora et labora” se la vuoi fare bene, e ti basta uno spaghetto aglio, olio e peperoncino.

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Una dose di pensiero divergente

di Fabrizio Rinaldi, 30 aprile 2018

I “coccodrilli” si scrivono in attesa che qualche grossa personalità del circuito culturale o mediatico si decida a schiattare. In genere vi si assemblano episodi e aneddoti più o meno rilevanti della vita del morituro, ma soprattutto sviolinate, così da essere pronti per la pubblicazione un istante dopo la morte.
Questo evidentemente non è un coccodrillo. Innanzitutto il protagonista sta benissimo, e poi si tiene volentieri lontano dagli “eventi” e dal cicaleccio intellettuale che impazza sulle riviste e sui teleschermi e non ci tiene alle sviolinate. Preferisce una vita ritirata in un paesino sperduto nell’appennino, evitando inutili protagonismi, razionando con parsimonia i contatti umani, per lasciar spazio al lavoro delle braccia nel suo frutteto e del pensiero nella sua testa, zeppi entrambi di sterpaglie da estirpare, governare e contenere.
Questo scritto vuol essere dunque solo un augurio di lunga vita ad un amico che ha incrociato le strade di molti pellegrini del pensiero, accompagnandoli lungo i più diversi sentieri, da quello scolastico a quelli che portano al Tobbio, passando magari per le mostre di pittori sconosciuti – non a lui! – o per i libri di autori ignorati o dimenticati.
L’altro giorno sono andato a trovarlo. Era al Capanno, intento a piazzare i pali per un pergolato su cui dovrebbe crescere la vite canadese e a riutilizzare vecchie travi per farne le panchine su cui siederà, all’ombra, a chiacchierare con i selezionati amici che andranno a trovarlo.
La “C” maiuscola il Capanno l’ha conquistata di diritto perché, dopo sua la costruzione in solitaria da parte del protagonista, è diventato un luogo ove da anni si consumano pranzi frugali, si conciliano il cibo, la parola e il giusto silenzio, si beve del buon vino e si tenta di fare chiarezza nelle idee e nelle azioni.
Il Capanno è un “gompa”, un “buen ritiro”: lì è possibile disciplinare il moto perpetuo e disordinato delle idee con la lenta concretezza imposta dalla terra, alla quale, per avere dei frutti, è necessario inchinarsi.
La stessa perseveranza che mette nelle faccende manuali Paolo la impiega per governare le idee che gli fioriscono nella mente: è tutto un lavorio di ragionamenti, di approfondimenti e di riflessioni che richiedono poi un impegno certosino di sforbiciatura e limatura, per arrivare a quel pensiero ordinato che vuole traspaia dalle sue parole. Forse quando termina di scrivere uno dei suoi “Quaderni dei Viandanti” prova la stessa sensazione che avrà assaporato suo nonno in vigna, dopo una giornata nei campi, quando stanco ma appagato per il lavoro meticoloso e accurato si sedeva sotto una vite e si fumava una sigaretta, soddisfatto anche dell’aspetto estetico di ciò che aveva realizzato.
Nell’ora che ho trascorso con lui mi ha snocciolato tutta una serie di nuovi progetti, passando dal pergolato al pezzo che vorrebbe scrivere su Leopardi e l’Islanda, dal tetto da sistemare alle considerazioni sul cibo e la scrittura, un piano di lavoro che terrebbe occupato chiunque per i prossimi dieci anni. Non importa quando troverà il tempo per dedicarsi a tutte queste cose, magari alcune le tralascerà per buttarsi su altri progetti: non ha fretta e non deve dimostrare nulla, sa che non è necessario e sarebbe superfluo.
Non smette invece, e credo non lo farà mai, di individuare sempre nuovi lavori – manuali o intellettuali, su un piano di pari dignità – che gli consentano di continuare il suo viaggio e di soddisfare la sua curiosità, mai appagata e rivolta in tutte le direzioni. Si tratti di libri (scovati in qualche mercatino) su esploratori che nessuno ricorda più, o di possibili migliorie da realizzare attorno al Capanno, oppure d’inseguire autori, ai più sconosciuti, che lo stimolino a pensare, a Paolo preme la continua ricerca di ciò che non conosce. E vuole anche renderne partecipi gli altri.
La complessità del percorso e i ragionamenti che lo scandiscono si traducono negli scritti in nitidezza di concetto, in chiarezza di parole e in un’inappuntabile logica. Chi legge viene accompagnato per mano a capire dove si vuol arrivare.
Non so se tra i suoi progetti ci sia pure quello di scrivere poesie (probabilmente no). Ma forse tutto ciò che ha scritto (e scriverà) è un unico testo poetico: ragionamenti, scelte e ripensamenti sono armonizzati in versi liberi di filosofia e di biologia, raccolti in odi che cantano la storia comune come pure la Storia con la maiuscola, racchiusi in sonetti che raccontano viaggi nell’immaginario.
E a proposito: durante il nostro ultimo incontro ha accennato ad un viaggio che intende fare ripercorrendo l’Appennino fino ad arrivare in Sicilia. Non è stato necessario accennare a “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz, perché era del tutto superfluo. Magari ne rifarà solamente un pezzo, e farà un viaggio sicuramente differente, alla maniera del Viandante, ma con lo stesso spirito che mosse Rumiz quando percorse la colonna vertebrale dell’Italia: scoprire paesi e climax in via d’estinzione.
Sono certo che pure a lui sia venuto in mente quel libro quando ha iniziato a progettare quel viaggio, ma non ho ritenuto necessario accennare esplicitamente al quel volume. La comprensione tra due persone che reciprocamente si stimano non ha bisogno di parole. Il non detto vale più di ciò che è esplicitato.
Coloro che hanno la sua fiducia sono vicini ai suoi valori e al suo modo di concepire un’esistenza dignitosa e moralmente accettabile. Sono a volte su linee temporali differenti – anche molto –, ma hanno un vissuto, un’impostazione di pensiero simile ai suoi. Paolo ha scelto queste persone per coltivare assieme a loro il sistema di valori da cui sono nati i Viandanti delle Nebbie.
Nel farlo non ha cercato proseliti, ma ha aiutato gli altri a ragionare con la propria testa. Non gli interessa convincere, ma confrontarsi, e ciò è possibile solo con un pensiero divergente rispetto al suo.
Credo che le visite a Paolo siano ormai quasi un rito. Se ne sente il bisogno dopo un po’ di privazione, per avere la personale dose di LSD di pensiero. Da ogni incontro sgorga una valanga di idee costruttive, e cambia la percezione dell’agire quotidiano. Si fa un pieno di stimoli che possono tradursi in altri scritti dei Viandanti, o semplicemente ti permettono una visione differente della realtà.
Le dosi di Paolo creano dipendenza? Sì, perché alimentano la voglia di un pensiero divergente. E questo è un bisogno che in molti sentiamo, una necessità quasi vitale per sfuggire all’omologazione.
Se ne potrebbe fare a meno? Certo, prima o poi avverrà. Ma rimarrà chi ha vissuto con lui questo tempo, e le cose che ha scritto alimenteranno ancora altre discussioni, magari in generazioni nuove, nei figli e nei nipoti dei Viandanti di oggi.
Sono sicuro che se Paolo potesse raccoglierli sotto il pergolato del Capanno riuscirebbe ad imporre anche a loro di essere seri, di ragionare con la propria testa, e magari a chiarire loro un po’ le idee, come di frequente succede oggi a noi.

Collezione di licheni bottone

Viaggiare (a piedi e non)

Postilla

di Paolo Repetto, 2013

Per una fertile combinazione di motivi (le cose che ho trovato per caso, quelle che ho ostinatamente cercato e quelle che ho scritto) la letteratura di viaggio ospitata nella parte destra della scaffalatura a tutta parete ha continuato in questi anni a debordare verso sinistra, a conquistare prima nuovi ripiani e poi interi scaffali e a costringermi a periodiche risistemazioni.

Dovessi scriverlo oggi, quindi, il capitoletto sul viaggio occuperebbe almeno il doppio di pagine. Le nuove scoperte, sia per quanto concerne le opere che per i personaggi, riguardano soprattutto la storia delle esplorazioni e dei viaggi scientifici. Provo a rendertene sommariamente conto.

Innanzitutto, i protagonisti. A Humboldt ho dedicato un piccolo saggio biografico (glielo dovevo) e nel frattempo ho acquisito tutto ciò che di suo era reperibile, comprese le edizioni in italiano, in tedesco e in francese del Cosmos. Le lacune ora riguardano solo la corrispondenza: non esiste una raccolta completa in francese, e quella tedesca, in fase di edizione, occupa già oltre dieci volumi: in compenso ho trovato in Francia una scelta abbastanza ampia e significativa delle lettere scambiate con Bonpland, (A. von Humboldt, A. Bonpland – Correspondance 1805-1858, a cura di Nicolas Hossard) e una biografia di Bonpland (Aimè Bonpland, mèdecin, naturaliste, explorateur en Amerique du Sud, dello stesso Hossard), l’unica che conosco e che possiedo A differenza di trent’anni fa, quando è partita la mia humboldt-mania, e quando era praticamente sconosciuto in Italia e dimenticato in patria, oggi lo scienziato-viaggiatore tedesco conosce un piccolo ritorno di popolarità grazie anche a due recenti biografie: Federico Focher ha scritto A. von Humboldt. Abbozzo di una biografia, mentre Andrea Wulf, già autrice de La confraternita dei giardinieri, gli ha dedicato quel volumone dal titolo L’invenzione della natura, sul quale, ti confesso, ho molte riserve. Insomma, anche il mio personalissimo eroe comincia ad essere macinato dall’industria culturale.

Sull’onda delle ricerche dedicate a Humboldt è cresciuta la curiosità per le biografie di altri scienziati-esploratori. Darwin, naturalmente (del Viaggio di un naturalista attorno al mondo possiedo ormai quattro diverse edizioni, e due dell’Autobiografia, oltre alla biografia classica di Desmond e Moore, a quella leggermente più romanzata di Irwing Shaw, L’origine, e ai Taccuini); ma anche, e soprattutto, il suo corrispondente-amico-antagonista Alfred Douglas Wallace, un po’ meno ignoto anche agli italiani da quando il buon Federico Focher ne ha scritto una avvincente storia (L’uomo che gettò nel panico Darwin). Wallace è un personaggio che riserva un sacco di sorprese: oltre che esploratore, cercatore di specie, scienziato autodidatta, era un socialista umanitario, pronto a battersi per ogni causa, soprattutto per quelle perse, e un convinto spiritista, tanto solare e disposto a mettersi in gioco quanto Darwin era riservato e pieno di dubbi. Dei suoi scritti è stato finalmente tradotto L’arcipelago malese, divertente e commovente resoconto di quattro anni di avventure (e soprattutto disavventure) a caccia di nuove specie vegetali nel sud-est asiatico. Lo trovi accanto ai libri di e su Darwin, e a quello sullo spiritismo che ho scaricato dalla rete.

La passione per la montagna mi ha aiutato a scoprirne il miglior interprete e precursore in Déodat de Dolomieu, l’”inventore” delle Dolomiti. Dolomieu ebbe un’esistenza che definire avventurosa è riduttivo. Fece le esperienze più disparate, da un duello mortale (per l’avversario) a sedici anni fino a venti mesi di assoluto isolamento in una fetida e piccolissima cella di un carcere borbonico, poco prima di morire, ma compì soprattutto una ricognizione minuziosa e completa di ogni vallata alpina. Era un camminatore formidabile, capace di sfiancare non solo i compagni di percorso ma anche i muli e i cavalli da soma, e uno spericolato arrampicatore, che tuttavia nei Viaggi sulle Alpi non rivendica alcuna delle innumerevoli vette da lui per primo conquistate. Per conoscerlo mi sono avvalso di una monumentale (ma piuttosto confusa) biografia scritta da Luigi Zanzi (Dolomieu, un avventuriero nella storia della natura) e ho poi ricostruito il resto attraverso la lettura diretta dei suoi resoconti di viaggio.

Del tutto fortuita è sta invece la conoscenza con l’opera e la vita di Guido Boggiani. Attraverso un volume dedicato principalmente alla sua pittura (Guido Boggiani. Pittore, esploratore, etnografo, di Maurizio Leigheb) ho scoperto una seconda esistenza, quella di etnologo e viaggiatore (raccontata da Boggiani stesso nei Viaggi di un artista nell’America meridionale) che lo ha portato a vivere per anni ai margini del Gran Chaco paraguagio e a morirvi, ucciso da un indigeno, prima dei quarant’anni.

Altre storie come la sua, o come quelle di Wallace e di Dolomieu, ho trovato in un paio volumi piuttosto stagionati, I cacciatori di piante di Thaylor Whittle e Scienziati ed esploratori alla scoperta del Sudamerica di Victor von Hagen, e in uno recentissimo, Cercatori di specie, di Richard Conniff. Quella del viaggio a scopo scientifico è una vera e propria epopea, naturalmente poco conosciuta e per niente celebrata nelle nostre scuole, che ha cambiato non solo lo sguardo ma anche la quotidianità della vita dell’Occidente. I libri che ho appena citati offrirebbero ai nostri demotivati studenti, e non solo a loro, ben altri stimoli rispetto alle ricostruzioni politiche e militari alle quali si riduce in genere l’insegnamento della storia, e li aiuterebbero a coltivare un minimo di passione per le scienze e ad acquisire qualche fondamento etico.

Attraverso un gioco di rimandi, di letture di sponda, sono poi arrivato ad alcuni personaggi davvero singolari, avventurieri nel senso più letterale del termine. L’ultimo in ordine di comparsa, ma primo per collocazione storica, è Lodovico de Varthema. Ne ho trovato traccia nei testi di Herrmann e di Brilli di cui parlerò tra breve, ho poi acquisito una sua biografia (Lodovico di Varthema alle Isole della Sonda) e ho scovato infine le recentissime edizioni del suo Itinerario e del Viaggio alla Mecca. De Varthema si trovava già a Calicut quando, nei primissimi anni del ‘500, ci arrivarono i Portoghesi. Dalle mie parti si usa dire che quando Colombo approdò in America ci trovò i mandrogni che già gestivano un ben avviato giro d’affari. Bene, i lusitani trovarono senz’altro un bolognese che già aveva girato tutto il Medio Oriente e visitato le Isole della Sonda, pronto a far fruttare le informazioni accumulate e ad acquisirsi meriti (al ritorno in Europa fu insignito dal re del Portogallo della dignità nobiliare, oltre che di una pensione). Anche se probabilmente molte delle sue avventure sono enfatizzate, soprattutto per il gusto di inserire situazioni boccaccesche delle quali è immancabile protagonista, resta il fatto che quelle terre le aveva realmente visitate e che per esserne tornato vivo e vegeto doveva avere senz’altro la scorza dura.

Non quanto Enrico Tonti, o Henry de Tonti, però. Tonti è stato una vera folgorazione. Non lo avevo mai sentito nominare sino a dieci anni fa, e vengo poi a scoprire che è stato uno dei protagonisti dell’esplorazione nordamericana, al fianco di de La Salle. Non esiste una sua biografia in italiano (che mi risulti, nemmeno in francese), ma le notizie essenziali sulle sue incredibili avventure si possono ricavare da L’Europa alla conquista dell’America, un bellissimo libro di Raymond Cartier che racconta nel dettaglio le guerre indiane sui Grandi Laghi tra Sei e Settecento – quelle de L’Ultimo dei Mohicani, per intenderci, o di Ticonderoga –, o da Mississippi di Mario Maffi. “Mano di ferro”, come lo chiamavano gli indiani, fu uno dei pochi che mise in soggezione persino gli Irochesi, che quanto a ferocia e coraggio non la cedevano a nessuno, e fu determinante per l’esplorazione del bacino del Mississippi, consegnato poi nelle mani della corona francese. Su questo tema e sulla storia di La Salle è invece appassionante La Louisiana per il mio re, di Hans Otto Meissner, mentre interessanti sono alcuni libri di memorie legati alla fase americana della guerra dei Sette Anni: ad esempio il diario anonimo di un soldato francese che ha partecipato a tutte le fasi della campagna e alla caduta di Montreal (Oltre le cascate del Niagara).

Altrettanto singolare, e secondo nemmeno agli Irochesi per determinazione, è il personaggio di Augusto Franzoj. Militare, disertore, giornalista radicale sempre in cerca di rogne e capace di sopravvivere ad oltre cinquanta duelli, Franzoj attraversò nella seconda metà dell’Ottocento mezza Africa centro-orientale per andare a recuperare le spoglie di un esploratore italiano morto nel paese dei Galla. L’Africa fu per lui inizialmente un rifugio, ma divenne poi una vocazione. Sebbene non avesse alcuna necessità di spostarsi per vivere pericolosamente, l’Etiopia gli offrì il teatro ideale per un’avventura che più pazza e disperata è difficile immaginare. Ne uscì, e la raccontò, naturalmente con tutti gli aggiustamenti del caso, in Continente nero, che nella sua ostentata “obiettività” è davvero un resoconto spassosissimo: ma per conoscere anche gli altri particolari della sua vita sempre sopra le righe occorre leggere Un viaggiatore in brache di tela, di Felice Pozzo.

Queste ed altre figure altrettanto avvincenti sono balzate fuori dalle pagine di diverse opere sulla storia generale delle esplorazioni da tempo fuori commercio, alle quali solo recentemente ho potuto arrivare attraverso il mercato on line. Pur restando fermo sulla mia linea di principio, secondo la quale l’eccessiva facilità nel reperire testi ritenuti a lungo introvabili sottrae una buona fetta di piacere al gioco, quella dell’attesa, della ricerca febbrile sulle bancarelle e magari dell’incredula sorpresa di un ritrovamento, devo ammettere che la diffusione di siti dedicati alla compravendita dei libri ha reso accessibili cose che mai mi sarei sognato di poter un giorno possedere. È il caso della fondamentale trilogia di Paul Herrmann (Sulle vie dell’ignoto, Sette sono passate e l’ottava sta passando e Santa vergine di Guadalupa, aiutaci tu) o di La conquista della terra di Giotto Dainelli, opere edite più di mezzo secolo fa. Mentre il libro di Dainelli lo conoscevo (e lo desideravo) da tempo, quelli di Herrmann sono stati un’autentica rivelazione. Soprattutto mi ha stupito il non averne mai sentito parlare in precedenza, il non avere mai colto alcun rimando. Forniscono una messe incredibile di informazioni, ma sono anche di lettura piacevolissima: avrei voluto averli tra le mani a quindici anni, e forse mi avrebbero cambiata la vita.

Ma sarebbe stato probabilmente sufficiente poter disporre per tempo di opere divulgative illustratissime come Il grande libro delle esplorazioni o Le grandi esplorazioni che cambiarono il mondo, che a dispetto dell’apparente destinazione a fare tappezzeria nei salotti forniscono un racconto dettagliato ed esauriente delle grandi imprese di esplorazione. Ne ho fatto incetta, e adesso mi ritrovo a confrontare le diverse narrazioni, a scovare le imprecisioni e a sommare i piccoli tasselli forniti da ciascuna per costruirmi un quadro il più vasto e completo possibile.

In che senso una precoce conoscenza di opere del genere può riuscire determinante? Beh, intanto perché consente di affinare lo sguardo sulle vicende storiche, di sottrarlo ai condizionamenti che le letture ideologiche legate al clima del momento immancabilmente ne danno. Faccio un esempio. Ho amato molto presto la storia e la civiltà del popolo irochese, o meglio, della Società delle Cinque Nazioni, attraverso la lettura di “Dovuto agli irochesi”, di Edmund Wilson, un classico di quello che Pascal Bruckner chiama “il singhiozzo dell’uomo bianco”. Wilson racconta di una cultura avanzatissima sotto il profilo politico e sociale, che non ha nulla da invidiare alle coeve istituzioni occidentali, ed esprime un accorato rimpianto per la sua distruzione da parte degli invasori bianchi. Bene, leggendo i diari di Tonti, di De La Salle e di padre Hennepin, che con gli Irochesi ebbero a trattare direttamente, nonché le testimonianze di quei pochi gesuiti e francescani che riuscirono a sopravvivere ad una caccia spietata, viene fuori un quadro ben diverso, quello di una popolazione dai costumi ferocissimi, che provava un sadico gusto nella lenta tortura dei prigionieri, delle cui carni spesso e volentieri si cibava, e che per un secolo e mezzo costituì un vero e proprio incubo per tutte le altre nazioni indiane dell’area dei grandi laghi. L’accusa di cannibalismo non è affatto pretestuosa, come si è affannata invece a dimostrare nella seconda metà del novecento l’antropologia terzomondista, e lo dimostra il fatto che i nostri testimoni non hanno esitazione a raccontare come questa pratica fosse fatta propria comunemente, nelle situazioni di necessità, anche dagli occidentali. Quanto al diritto sul suolo, gli Irochesi erano degli invasori al pari degli occidentali: arrivavano da un’altra area, non combattevano per difendere le proprie terre, ma per conquistare nuovi territori sterminandone sistematicamente gli abitanti.

Lo stesso vale per la complessa vicenda dello schiavismo. I diari degli esploratori africani ci mettono di fronte alla realtà di una pratica istituzionalizzata da millenni, tanto comune all’interno delle singole popolazioni quanto normale nei confronti di quelle esterne, e a quella di una tratta araba che ebbe sulla demografia del continente un impatto ben più devastante di quella europea, e che per motivi ideologici viene sempre sottaciuta o minimizzata. Certo, i portoghesi prima e poi via via tutti gli altri hanno intensificato questa pratica, hanno incanalato il flusso addirittura verso un altro continente: ma non hanno inventato nulla. Al più hanno fornito armi e incentivi per intensificare una tragedia presente da sempre, in ogni epoca e presso ogni civiltà: e a partire da un certo periodo, almeno dalla prima metà dell’Ottocento, hanno almeno teoricamente combattuto la tratta. Questo non assolve certamente l’occidente dalle sue colpe: spagnoli, inglesi, francesi, olandesi, belgi, tedeschi, e non ultimi gli italiani, si sono resi responsabili di veri e propri genocidi: ma quando Franzoj ci testimonia dal vivo (è arruolato più o meno a forza come osservatore) che nel corso di una delle periodiche campagne di guerra Menelik fa almeno cinquantamila morti e conduce via quasi il doppio di prigionieri, ovvero di schiavi, la storia lascia spazio a sfumature interpretative un po’ diverse.

Queste sfumature sono state volutamente ignorate nell’ultimo settantennio, a causa di un preconcetto ideologico, purtroppo radicato in quella che continua ad autodefinirsi “cultura di sinistra”, che ha condizionato costantemente la narrazione storica. Ti faccio un esempio. Nel 2008 è uscito in Francia il saggio Le génocide voilé (Il genocidio nascosto), di uno studioso di origine senegalese, Tidiane N’Diaye. In esso, con un calcolo certamente approssimato per difetto, N’Diaye dimostra che nel corso di tredici secoli, arrivando praticamente sino ad oggi, sono stati ridotti in schiavitù e deportati verso il Medio Oriente o verso la fascia mediterranea del continente almeno diciassette milioni di abitanti dell’Africa sub-sahariana. Di costoro, ed è questa la cosa che dovrebbe far maggiormente riflettere, non è rimasta praticamente traccia, mentre ad esempio negli Stati Uniti o nell’America del Sud i discendenti dei nove milioni di schiavi deportati tra il cinquecento e l’ottocento sono oggi più di settanta milioni. Ciò si spiega col fatto che gli schiavi deportati dagli arabi venivano castrati o uccisi, e non potevano lasciare alcuna discendenza. Ora, tutto questo non significa affatto che gli schiavi in America fossero trattati umanamente, non diminuisce lo scandalo della tratta: ma mi pare lecito chiedersi come mai si parli solo di quest’ultimo, e non dello schiavismo arabo, e come mai mentre questo scandalo la cultura occidentale lo ha bene o male denunciato ed esecrato, nessuno storico arabo lo abbia mai ammesso a carico del suo popolo. E anche perché questo dato venga costantemente ignorato in qualsiasi dibattito sulle colpe dell’Occidente.

L’altro aspetto, più personale, riguarda un possibile esito professionale che avrebbe potuto scaturire dai miei interessi. C’è stato un momento, al termine degli studi universitari, in cui ho dovuto scegliere tra strade diverse per il mio futuro. Forse non sarebbe cambiato nulla, ma forse una conoscenza di questi argomenti non legata più soltanto alle letture di Salgari e Verne o del vecchissimo Cantù mi avrebbe reso più determinato ad inseguire quella che era già allora una passione profonda (col rischio magari, come accade per ogni passione che diviene professione, di vedere poi spento ogni entusiasmo).

 

Ma torniamo all’oggi. I percorsi di questi ultimi anni mi hanno indotto a rivedere, almeno parzialmente, il giudizio negativo sull’attenzione riservata in Italia alla letteratura di viaggio che avevo espresso in “Perché non esiste una letteratura di viaggio in Italia”. L’assenza di interesse riguarda a quanto pare soprattutto il periodo del secondo dopoguerra (guarda caso, proprio quello della mia formazione). Gli italiani avevano un sacco di altre cose da sistemare e di cui occuparsi, e il clima culturale era tutt’altro che propizio alla rievocazione delle scoperte e delle conseguenti avventure coloniali. Ma nella prima metà del novecento, per le ragioni opposte, questo interesse c’era, e lo testimonia ad esempio una iniziativa editoriale della Paravia dedicata a I grandi viaggi di esplorazione, che contava decine e decine di titoli. Si trattava di operette divulgative, caratterizzate da un marcato taglio agiografico e intrise, soprattutto quelle degli anni trenta, dello sciovinismo di regime: ma avevano comunque il merito di portare all’attenzione degli adolescenti, e anche degli adulti, la storia delle esplorazioni e dei viaggi. E anche quello di proporre, accanto alle storie di Colombo, Magellano e Cook, quelle di Humboldt, Boggiani e Carlo Piaggia, e persino di Lodovico de Varthema. Le sto raccogliendo con cura, e una buona parte le trovi qui.

Sempre nella prima metà del secolo (ma anche nell’immediato dopoguerra) hanno goduto di una certa popolarità i libri di Vittorio G. Rossi (quella G puntata mi ha sempre fatto impazzire: essendo il mio secondo nome Giuseppe, ho continuato per anni a firmarmi Paolo G. Repetto, fino a quando esigenze di “razionalizzazione” dell’anagrafe non mi hanno costretto a tenermi un solo nome). Alcuni titoli sono davvero suggestivi (Pelle d’uomo, L’orso sogna le pere, Il cane abbaia alla luna). Rossi era uno scrittore atipico, almeno per l’epoca: di mestiere faceva altro, era un navigante, e in questa veste ha visitato praticamente tutto il mondo. Poi riversava nei libri (e tra il 1930 e il 1980 ne ha scritti più di due dozzine) quello che aveva visto e quello che aveva provato, dando spesso spazio, soprattutto nell’ultimo periodo, a considerazioni a ruota libera di filosofia spicciola. Per un sacco di tempo è stato lo scrittore di viaggio più venduto e più conosciuto in Italia, poi, complici da un lato una certa ripetitività e dall’altro l’ostracismo decretatogli dopo gli anni sessanta per i suoi trascorsi politici, è stato totalmente rimosso. Anche nel suo caso sto recuperando tutto il possibile. Prova a leggerlo. Non credo ti appassionerà, non è un grande scrittore, ed è chiaro che per me vale l’aura particolare della quale lo rivestivo da ragazzino, una sorta di precursore di Corto Maltese: ma è un ottimo testimone di come l’occidente guardasse al resto del mondo fino almeno alla seconda guerra mondiale, e del fatto che questo sguardo fosse meno velato dall’ipocrisia di quello dei futuri “terzomondisti”.

La riscoperta del piacere e del valore culturale del viaggio, alla quale già accennavo nell’articolo citato poco sopra ma che attribuivo soprattutto ad una moda di importazione, ha invece dato in questi ultimi anni dei frutti notevoli, non inferiori a quelli anglosassoni. Il merito va soprattutto ad autori come Paolo Rumiz, che con La leggenda dei monti naviganti ha toccato le vette della migliore letteratura di viaggio raccontando un fantastico itinerario dalle Alpi marittime alla Sicilia compiuto a bordo di una vecchia Topolino, seguendo a zig zag la dorsale appenninica, quindi la parte più sconosciuta e relativamente intatta della nostra penisola. Rumiz aveva già pubblicato il resoconto di un viaggio attraverso i Balcani in direzione di Costantinopoli (È oriente) ed ha poi proseguito nella riscoperta dell’Italia con Annibale. Un viaggio, una rivisitazione-confronto tra il passato e l’oggi sulle orme del grande condottiero cartaginese, per spostarsi infine nuovamente fuori dell’Italia con Trans-Europa Express, un itinerario che segue il vecchio confine della cortina di ferro dal circolo polare sino all’Adriatico. (In questo è stato preceduto però da Wilhelm Buescher, che in Germania, un viaggio percorre uno stralunato itinerario invernale seguendo l’ormai scomparsa linea di demarcazione tra est ed ovest).

Una traversata latitudinale completa della penisola è raccontata anche da Enrico Brizzi, sia pure con qualche eccessiva concessione al romanzesco, ne Gli Psicoatleti. Brizzi viaggia rigorosamente a piedi, e percorre preferibilmente i vecchi itinerari del pellegrinaggio, quelli per intenderci della via francigena o del Camino di Santiago di Compostela. Non so se ne abbia tratto ispirazione, ma ha dei precedenti illustri: nel 1801 lo scrittore tedesco J. G. Seume (altro bel personaggio: arruolato a forza nelle truppe vendute dal sovrano dell’Hannover agli inglesi per combattere in America, poi disertore, quindi ufficiale nelle truppe russe impegnate in Polonia, curatore di edizioni di classici, libero pensatore), si è fatto a piedi tutta la penisola, diretto a Siracusa, e lo ha poi raccontato in un gustosissimo L’Italia a piedi, ormai quasi introvabile ma che ho fortunosamente rimediato in un’asta mediatica.

Rimanendo nel campo dei camminatori, una scoperta sensazionale è stata quella di Patrick Leight Fermor, scomparso recentemente in tardissima età e protagonista di vicende degne di un Tonti. Nel corso del secondo conflitto mondiale Fermor venne impiegato dagli inglesi, per le sue conoscenze linguistiche e culturali della Grecia, come agente di collegamento con i partigiani ellenici che operavano a Creta. Bene, in quella veste organizzò e condusse a termine personalmente il rapimento del comandante delle truppe tedesche che occupavano l’isola, portandoselo a spasso per settimane in barba a tutti i rastrellamenti. Ma di possedere la stoffa Fermor lo aveva dimostrato già diverso tempo prima, a diciotto anni, quando intraprese da solo un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò dall’Inghilterra a Costantinopoli, lungo la linea del Reno prima e del Danubio poi, attraverso un’Europa che stava appena entrando negli anni oscuri del nazismo. Di questo passaggio e del clima nel quale si stava svolgendo Fermor è un testimone anomalo e interessantissimo in Tempo di regali, dove raccoglie le ultime vestigia di un mondo, soprattutto quello asburgico, che stava ormai rapidamente scomparendo, e avverte tutte le inquietudini e le ombre di ciò che stava arrivando.

Altro formidabile camminatore, questo, come Rumiz, più o meno mio coetaneo, è Bernard Ollivier, un giornalista francese che al momento di andare in pensione si imbarca in un’impresa titanica, la traversata dal Mediterraneo alle porte della Cina attraverso l’Anatolia e il Medio Oriente, in pratica una variante dell’antica via della seta, resa ancor più ardua di quanto non fosse secoli fa dalla situazione politica interna ai diversi paesi. Il percorso è raccontato in una trilogia che comprende La lunga marcia, Il vento delle steppe e Verso Samarcanda.

Stavo però parlando della diffusione della letteratura di viaggio anche in Italia. È indubbia, i viaggiatori-narratori pullulano e le collane nelle quali possono trovare spazio si moltiplicano. Allo stesso tempo è in atto anche una riscoperta e ripubblicazione delle opere del passato che consente di avvicinare cose ormai scomparse addirittura dalla memoria (un caso emblematico è proprio quello di Lodovico di Varthema). A questa rinascita di interesse, a livello storico oltre che di pura evasione, ha dato un fortissimo contributo l’insieme dell’opera di Attilio Brilli, che per certi aspetti può essere considerato l’equivalente italiano di J. Leed, e per altri lo ha sicuramente sopravanzato. Brilli sta sfornando uno dietro l’altro studi avvincenti e documentatissimi sulla storia del viaggio, partendo da quello in Italia, dal Gran Tour sette-ottocentesco (Il viaggio in Italia, Quando viaggiare era un’arte, Un paese di romantici briganti, Il viaggiatore raffinato), per spaziare poi su tutto il globo con Il viaggio in Oriente, Mercanti e avventurieri, Dove finiscono le mappe.

È il segno di un passaggio di interesse, di una raggiunta maturità anche nei confronti di una pratica, quella del viaggio, che dagli italiani è stata sempre considerata piuttosto una costrizione che una scelta. Ma è anche, come tutte le forme di bilancio che si possono fare sulle varie attività umane, il segno di un suggello finale, la manifestazione della coscienza che un’epoca, e un modo di interpretarla, è ormai finita. E che può essere rivissuta, e rimpianta, solo attraverso le tracce lasciate sulla carta.

 

L’asino di Stevenson e altre storie di viaggio non vissute

di Paolo Repetto, 2013

Anni fa, tra la metà e la fine dei settanta, l’esercito italiano decise di darsi un assetto più moderno. I primi ad essere sacrificati alle nuove tecnologie furono i protagonisti della grande guerra, i muli, ancora in forza a migliaia nel corpo degli alpini e nell’artiglieria di montagna. I poveri animali vennero messi all’asta, e venivano via per cifre irrisorie (sarebbe interessante sapere che fine abbiano fatto, probabilmente oggi si dovrebbe aprire un’inchiesta).

In quell’occasione vidi profilarsi la possibilità di realizzare un sogno covato da tempo: quello di un trekking a zig zag sull’Appennino, da fare rigorosamente da solo, in perfetta autonomia, lungo i sentieri meno conosciuti o ormai non più battuti. Si era in piena fase di spopolamento delle campagne e più ancora delle zone montane, e immaginavo quel viaggio come un’immersione in una natura che stava velocemente tornando padrona dell’ambiente. La possibilità di acquisire un mulo per pochi soldi forniva il supporto perfetto: avrei caricato sul suo dorso la tenda e le vettovaglie, e avrei potuto affrontare qualsiasi sentiero, senza l’incombenza di trovare riparo ogni notte e cibo ogni giorno.

Devo confessare che, come per tutte le cose della mia vita, c’era dietro anche una forte suggestione infantile. Attorno ai cinque o sei anni mi aveva entusiasmato al cinema comunale la serie di Francis, il mulo parlante, (quello con Donald O’Connor, che dopo i primi episodi lasciò il set perché il mulo riceveva più lettere di lui), e ne avevo riportato la convinzione (peraltro mai del tutto abbandonata) che i muli siano molto più intelligenti degli uomini. L’ipotesi di acquistare un mulo non era comunque campata per aria, perché disponevo di una stalla e perché riuscivo a giustificarne moralmente il possesso con l’utilizzo per i lavori agricoli. Nulla avrebbe quindi potuto ostare al sogno, se non il fatto che tra gli impegni familiari, quelli del lavoro a scuola e quelli del lavoro in campagna, la ristrutturazione della casa appena acquistata e la collaborazione ad una impresa editoriale ambiziosa, era difficile persino pensare di trovare il tempo per quella fuga. Alla fine, complice anche l’ostilità di mio padre, che ci vedeva un aggravio insensato di preoccupazioni (e non del tutto a torto, perché anche il mulo necessita di cure, e nelle mie condizioni a quel tempo era difficile pensare di potergliele offrire), lasciai perdere. Salvo poi pentirmene per tutto il resto della vita.

All’epoca non avevo ancora letto il Viaggio nelle Cevennes in compagnia di un asino, di Stevenson: un vero peccato, perché se lo avessi conosciuto senz’altro il mulo lo avrei preso, e non starei qui ora a recriminare. Stevenson ha viaggiato esattamente come avrei voluto fare io: in assoluta libertà. O meglio, nella libertà relativa consentitagli da Modestine, l’asina affittata per quell’avventura, che dimostrò nel corso del viaggio di possedere una sua spiccata personalità e di voler partecipare alle decisioni sugli itinerari, sulle soste, sulla distribuzione del carico, ecc. – il che in qualche modo conferma l’idea che mi ero fatta con i film di Francis. Oggi quell’itinerario è offerto in pacchetto turistico, asino compreso, a dimostrazione di come ormai tutto finisca inevitabilmente per diventare merce: ma all’epoca di Stevenson, e ancora anche alla mia, era uno spicchio di avventura tranquilla e quasi domestica, senza adrenaline particolari ma con tutti gli altri ingredienti originali.

Il mancato viaggio con il mulo è solo una delle tante esperienze non vissute per un soffio, e al tempo stesso ripetute con la fantasia innumerevoli volte. Oggi sarebbe difficile da organizzare, e poi mi imbarazzerebbe sapere che non è per nulla originale (ho incontrato un paio d’anni fa una ragazza poco più che ventenne che arrivava direttamente dalla Francia in compagnia di un asinello): ma non mi sono ancora rassegnato. Potrebbe essere un modo per riempire i giorni della pensione, se verranno.

Un altro viaggio quasi fatto, e pensato e studiato tante volte che mi capita di pensare talora di averlo compiuto davvero, è anch’esso legato all’Appennino. Quella dell’Appennino è una fissa facilmente spiegabile. I suoi contrafforti partono subito alle spalle della casa in cui ho sempre vissuto, le sue alture e le sue vette hanno costituito il limite dell’orizzonte dalla finestra della mia camera e del mio studio. Da ragazzo immaginavo, molto prima di aver letto l’Infinito, di superarle a volo, e mi ero costruito mentalmente tutto un paesaggio, e piccoli borghi e vallate al di là, talmente realistici da tornare uguali a popolare i miei sogni per innumerevoli notti. Ancora oggi, se sosto sovrappensiero alla finestra, per un attimo ho la percezione che al di là di quelle creste ci siano le valli e le case e le persone che mi figuravo nell’infanzia.

È comprensibile allora che abbia progettato di cavalcare quelle creste per dritto e per sbieco, attraversando a zig zag la catena, un giorno sul versante tirrenico, l’altro su quello padano. E che per farlo abbia pensato, una volta svanito il sogno del mulo, come mezzo più indicato proprio all’equivalente meccanico di un piccolo mulo, una cinquecento giardinetta rossa che ho posseduto e sfruttato per quindici anni, ma che già al momento dell’acquisto aveva alle spalle dieci anni di onorato servizio. Tecnologicamente ed esteticamente era il mezzo più primitivo e rozzo che si possa immaginare, l’anello di congiunzione tra la carriola e l’auto. Un motore di nemmeno cinquecento centimetri cubici, una velocità massima di ottanta all’ora (da nuova) cambio non sincronizzato, freni a tamburo, sterzo totalmente manuale, e via dicendo. E poi, nelle mie mani aveva finito per perdere il fondo, sostituito da una lastra di metallo saldata alla meglio all’assale, e per lamentare una cronica mancanza d’olio. Ma aveva anche un sacco di qualità: la meccanica era semplicissima, al punto che in una situazione di emergenza ho potuto utilizzare una stringa in sostituzione di un cavo rotto: il raffreddamento era ad aria, per cui non c’era pericolo di fondere il motore per la mia solita sbadataggine; nella parte posteriore, sganciando il sedile, era possibile ricavare uno spazio dove coricarsi, sia pure in posizione fetale. Infine, unico vero lusso, era dotata di un tettuccio apribile in tela incerata, un po’ rabberciato e difficile a richiudersi ma sufficiente a tener fuori il grosso di eventuali piogge, che avrebbe permesso di godere all’interno la libera circolazione dell’aria e del sole (e ce n’era bisogno, dal momento che il motore, anche se posteriore, mandava in cabina una puzza terribile di olio).

Per quel che avevo in testa io era perfetta. Avrei percorso strade secondarie, comunali, vicinali, sterrate, e avrei dovuto comunque viaggiare sempre a ritmi da tartaruga, quasi di passo, godendomi così appieno i panorami e gli ambienti. Non avrei nemmeno dovuto preoccuparmi per il ricovero notturno, perché alla mala parata avrei sempre potuto dormire in macchina.

Questo viaggio, come dicevo, non si è mai realizzato. Ero entrato in una ulteriore fase di impegni che non mi consentiva di liberarmi per più di due o tre giorni di seguito. Ho continuato a rimandarlo a tempi meno convulsi, ma nel frattempo la giardinetta ha chiuso la sua carriera. E tuttavia, anche di questa idea ho trovato una realizzazione altrui, e la relativa testimonianza letteraria. Stavolta però il copyright è mio. Un’esperienza di questo tipo è stata fatta da Paolo Rumiz nel Duemilauno, su una Topolino risalente ai primi anni cinquanta. Rumiz si è spostato esattamente come intendevo fare io, tra l’altro partendo proprio da queste parti, e ha cucito a croce i due versanti dell’Appennino fino all’estrema punta della Calabria, con un supplemento in Sicilia. Ha visto luoghi, conosciuto persone che parevano vivere in un altro tempo, proprio quello che mi attendevo io: è stato ospitato, accolto, ha trovato ritmi completamente diversi da quelli frenetici e insensati di valle. Ha incontrato una dimensione umana che nulla ha a che vedere con quella in cui annaspiamo quotidianamente. Tutto questo lo ha poi narrato in un fantastico resoconto, La leggenda dei monti naviganti, che anziché suscitarmi invidia mi ha reso felice: ho vissuto attraverso i suoi occhi e le sue parole quello che già nella mia immaginazione mi ero centinaia di volte prefigurato, e l’ho vissuto attraverso un racconto totalmente privo di retorica e di concessioni al folklore.

Rumiz ha grosso modo la mia età, forse un paio di anni in meno. Trovo normale che abbia maturato l’idea di questo viaggio: naviga evidentemente sulla mia stessa lunghezza d’onda. Mi ha invece sorpreso trovare una continuità con i miei progetti, e la capacità di portarli anche a termine, in un ragazzo dell’età di mio figlio, Enrico Brizzi, quello che vent’anni era già famoso per Jack Frusciante e che ha fatto del viaggio a piedi la sua cifra di vita e letteraria. Proprio mio figlio mi ha fatto scoprire un suo libro, Nessuno lo saprà, che racconta, magari con qualche punta romanzata, la traversata dello stivale coast to coast, dall’Argentario al Conero, a piedi e in compagnia di un paio di amici. Nulla di particolarmente estremo; lo stesso Brizzi ha percorso qualche anno dopo lo stivale nella sua intera lunghezza, calcando le orme di Seaume, di Belloc e di un sacco d’altri, che questi percorsi li facevano però nell’Ottocento, quando camminare a piedi era la norma, e non una stravaganza. Nulla di trascendentale, dicevo, non fosse che quasi lo stesso itinerario l’ho esplorato in auto una ventina d’anni fa, ripromettendomi di tornare il prima possibile per percorrerlo a piedi. Naturalmente, non ci sono riuscito. Ma la ciliegina è venuta da un altro libro, e da un altro viaggio di Brizzi, quello raccontato ne Il pellegrino dalle braccia tatuate, resoconto anch’esso romanzato di una traversata a piedi delle Alpi, nel corso di un itinerario sulla via Francigena. Ennesimo itinerario più volte covato nella mente e arrivato in fase di progetto, per poi essere eclissato dagli impegni, ma soprattutto dalla pigrizia e dall’età avanzanti.

Per ultimo ho lasciato l’incredibile trekking negli Appalachi di Bill Bryson, quello raccontato in Una passeggiata nei boschi, che mi ha fatto scoprire Bryson, del quale non perdo oggi una riga, e rimpiangere di non aver mai provato a scrivere nulla su questo tema. Un trekking appalachiano non lo avevo mai messo in conto, nemmeno sapevo esistesse questo sentiero lungo quasi tremila chilometri che taglia da nord a sud gli Stati Uniti occidentali, seguendo le creste e le foreste di una catena che sta alle Montagne Rocciose come appunto gli Appennini stanno alle Alpi. E tuttavia, anche senza averne mai sentito parlare, quel sentiero l’ho riconosciuto subito, perché esiste un archetipo di tutti i sentieri, al quale tutti somigliano. L’archetipo è naturalmente nella testa di chi li percorre, nelle motivazioni per le quali lo fa (non mi riferisco naturalmente alle performance affrontate con spirito sportivo, per battere record di velocità o per collezionare chilometri), nel fatto che vede e nota più o meno le stesse cose, soffre gli stessi disagi, si imbatte in avventure simili. Quello di Bryson non l’ho sentito in verità come un viaggio mancato, ma anzi, come il modello ideale del viaggio a piedi contemporaneo, nel quale ho riconosciuto e rivissuto un po’ tutte le mie esperienze.

Perché alla fine la mia storia non è fatta solo di camminate o viaggi rimasti fermi a tavolino: qualche soddisfazione me la sono tolta anch’io. Ho camminato in Corsica e nella Foresta Nera, attorno al Monte Bianco e al Monviso, lungo il sentiero dei Lagorai e sul crinale appenninico sino all’Umbria, in Olanda e nel Parco degli Abruzzi. E nel mio piccolo ho anche viaggiato, con i mezzi più diversi. Non ho alcuna intenzione infatti di lamentarmi: ma al solito, quelle che ci rimangono più impresse sono le cose che non abbiamo fatto, e che realisticamente avremmo potuto fare. È chiaro che quando si tratta di viaggi le possibilità, e quindi le recriminazioni, sono infinite. Una consolazione però c’è: il sapere che qualcuno prima o poi avrà la tua stessa idea, e la metterà in pratica, e la racconterà, dicendo probabilmente le cose che avresti potuto dire tu. E allora, se ti senti parte di una grande spirito, non universale, per carità, ma accomunante almeno quelli che amano guadagnarsi le cose, è come se quel viaggio lo avessi vissuto tu stesso.

 

P.S. Rimane da spiegare perché non ho mai provato a raccontare un’esperienza di viaggio, o una camminata. Me lo sono chiesto, e sono anche arrivato a darmi una risposta: è sempre una questione di tempo. Paradossalmente, per uno che ai temi del viaggio, delle esplorazioni e dell’alpinismo ha dedicato gli ultimi trent’anni del proprio impegno culturale, non ho mai trovato il tempo o la concentrazione per raccontare un qualsiasi mio itinerario o una scalata. Ho tenuto spesso dei piccoli diari dei viaggi fatti, a partire dagli imbarchi di quarantacinque anni fa sino agli ultimi trekking, ma quando li ho poi ripresi in mano non me la sono sentita di farne una trasposizione letteraria. Ho l’impressione che rispecchino un modo di viaggiare mai rilassato, sempre oppresso da tempi limitati, o addirittura dall’idea di rubare quel tempo a più giuste cause, e teso più a raggiungere di volta in volta la meta che a godere ciò che sta in mezzo: un modo che non consente di vedere e apprezzare realmente le cose. Mi tengo dunque i miei diari, immagino con quale sollievo degli amici. Confesso però che, a differenza delle altre cose che scrivo, ogni tanto li rileggo volentieri: per il motivo di cui parlavo sopra raccontano un me che non riconosco, parlano d’altri, e questo mi rende più facile sopportare il rammarico per tante occasioni perdute.

 

Per una storia della letteratura di viaggio in Italia

di Paolo Repetto, 2002

I percorsi e le scoperte (letterari) di questi ultimi anni mi hanno portato a rivedere, almeno parzialmente, il giudizio negativo sull’attenzione riservata in Italia alla letteratura di viaggio. Giudizio che avevo espresso diverso tempo fa e che ho volutamente riportato nel mio precedente articolo.

L’assenza di interesse cui mi riferivo caratterizza soprattutto il periodo del secondo dopoguerra (guarda caso, quello della mia formazione), quando gli italiani avevano un sacco di altre cose da sistemare e di cui occuparsi e il clima culturale era tutt’altro che propizio alla rievocazione delle scoperte e delle conseguenti avventure coloniali.

Ma nella prima metà del Novecento, per ragioni opposte, questo interesse c’era stato, e lo testimonia ad esempio un’iniziativa editoriale della Paravia dedicata a I grandi viaggi di esplorazione, che contava decine e decine di titoli. Si trattava di operette divulgative, caratterizzate da un marcato taglio agiografico e intrise, soprattutto quelle degli anni Trenta, dello sciovinismo di regime: avevano comunque il merito di portare all’attenzione degli adolescenti, ma non solo, la storia delle esplorazioni e dei viaggi. E anche quello di proporre, accanto alle biografie di Colombo, Magellano e Cook, vicende come quelle di Boggiani e Carlo Piaggia, e persino di Ludovico de Varthema. A giudicare da ciò che trovo nei mercatini dovette godere di una certa diffusione, almeno nelle librerie delle case borghesi, ed è l’unico mio motivo di rammarico per non essere nato in una famiglia benestante (in verità ce n’è un altro, legato alle riduzioni a fumetti dei grandi classici della letteratura avventurosa che anni dopo la Magnesia San Pellegrino distribuiva in omaggio ai clienti: a casa mia nessuno aveva problemi di digestione).

Rivista oggi, sotto un’altra luce, e ferme restando le differenze qualitative e quantitative rispetto a tradizioni letterarie come quelle inglese e francese, la letteratura italiana rivela in realtà un rapporto intenso col tema del viaggio, soprattutto fino al XVIII° secolo. Una breve carrellata lo dimostra.

Si può idealmente partire da Dante e da Brunetto Latini (Il tesoretto) per il viaggio allegorico, ma per il resoconto di viaggi reali occorre attendere Petrarca. Quest’ultimo è costantemente a caccia di manoscritti nelle biblioteche europee, e quindi visita Parigi, le Fiandre e i paesi della valle del Reno: ma nel frattempo attraversa anche a cavallo la selva delle Ardenne, e scala il Monte Ventoso (Ventoux). La sua irrequietudine è documentata nelle Epistole Familiari (I, 4 e 5).

È però già possibile ravvisare un atteggiamento tutto italiano nei confronti del viaggio nello stilnovista Guido Cavalcanti, che parte da Firenze nel 1294 per un pellegrinaggio a San Jacopo in Galizia, ma si ferma a Tolosa perché lì ha trovato una bella donna (lo confessa nel Canzoniere). Ed è questo, tra l’altro, l’unico motivo per cui abbiamo notizia del pellegrinaggio.

Il primo resoconto di un viaggio extraeuropeo di qualche interesse è invece quello di Giovanni dal Pian del Carpine, frate francescano inviato nel 1245 dal papa a Karakorum, presso il sovrano dei Tartari, nipote di Gengis Khan (Viaggio ai Tartari). Tira un po’ sul meraviglioso, ma la narrazione è sostanzialmente attendibile. Descrive il clima e l’estensione del paese, il modo di vestire, le abitazioni, la religione, l’alimentazione, l’organizzazione politica e militare dei mongoli, il modo di trattare i popoli sottomessi ecc… Per essere un religioso medioevale, si dimostra assolutamente libero da pregiudizi.

Un quarto di secolo dopo (1271) ha inizio il viaggio di Marco Polo, narrato poi (in francese) nel Livre des merveilles, e oggi conosciuto come Il Milione. Dal momento che il libro non fu scritto da Marco stesso, ma dettato a Rustichello da Pisa, si ha motivo di credere che molti degli elementi favolosi presenti nel racconto siano frutto della fantasia e della cultura di quest’ultimo. Ma il risultato non cambia. È una pietra miliare nel genere, e sorprende un po’ costatare che non ha trovato imitatori (almeno in Italia) per oltre due secoli.

Un piccolo boom della letteratura di viaggio si ha invece nel periodo rinascimentale. Tengono diari minuziosi dei loro spostamenti i diplomatici come Machiavelli e Guicciardini, soprattutto quest’ultimo (Diario del viaggio in Spagna), mentre raccontano viaggi fantastici su e giù per l’Europa e per il vicino oriente i poeti come Boiardo (Orlando innamorato) e Ariosto (Orlando furioso, con un salto anche sulla Luna). Tuttavia quando parla dei suoi viaggi reali (nelle Satire) Ariosto non manifesta grandi entusiasmi.

L’elemento cruciale di novità è però la scoperta di un continente nuovo. Cominciano a fioccare i resoconti dei viaggi oltre oceano, a partire da quelli di Cristoforo Colombo (Diario), di Amerigo Vespucci (Lettera a Pier Soderini, 1506) e di Giovanni Verrazzano (Lettera a Francesco I, re di Francia, 1524), destinati a diventare dei classici del genere. Sono altri però, molto meno noti, a lasciare le tracce più succose e intriganti del nuovo spirito nomade e avventuroso che anima il Cinquecento. Tra questi spicca il già citato Lodovico de Varthema (Itinerario dallo Egypto alla India, 1512), un incredibile avventuriero che arriva in India prima dei Portoghesi stessi, viaggiando per via di terra e attraversando tutto il mondo mussulmano. È difficile distinguere nel racconto di de Varhema la verità dalle millanterie, ma anche queste sono divertenti, di fatto comunque la gran parte delle sue avventure è testimoniata da riconoscimenti ufficiali.

Un secolo dopo il romano Pietro della Valle percorre un itinerario quasi identico (narrato nel Diario di viaggio in Persia), ma reso più complicato dal fatto che buona parte del percorso la fa in compagnia della salma imbalsamata della giovane moglie. Credo sia un’esperienza unica nella storia della letteratura di viaggio.

Il grande coordinatore di quest’ultima è Giovan Battista Ramusio, veneziano, che tra il 1550 e il 1559 pubblica i tre volumi delle Navigazioni e viaggi, dove sono raccolti tutti i materiali editi ed inediti relativi ai viaggi di scoperta del mezzo secolo precedente. Tra questi, la drammatica Relazione del primo viaggio attorno al mondo, scritta dal vicentino Antonio Pigafetta, compagno di Magellano e diarista ufficiale dell’impresa. La circumnavigazione è ripetuta verso la fine del secolo da un fiorentino, Francesco Carletti, che la descrive nei Ragionamenti del mio viaggio attorno al mondo, (editi solo nel 1701), magari meno emozionanti del racconto di Pigafetta ma di grande interesse per le descrizioni dei popoli delle Americhe e dell’Asia e delle loro culture.

Nel Seicento sono soprattutto i Gesuiti a raccontare le missioni evangelizzatrici proprie, come Matteo Ricci (Lettere e Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, 1608)), o altrui, come Daniello Bartoli (Missione al Gran Mogor, 1653). Per il resto, non essendosi sviluppata in Italia una cultura “libertina”, il tema del viaggio è relegato in secondo piano.

Un risveglio si ha nel secolo successivo. Gli stimoli che arrivano dall’Illuminismo, il clima cosmopolita e il desiderio di entrare nel Grand Tour invertendone la direzione inducono nuovamente i letterati italiani a muoversi. Lo fanno animati da un forte spirito critico nei confronti del proprio paese, ma non mancano di esercitarlo anche verso gli altri. E soprattutto lo riversano nei loro diari. A dare l’esempio è Francesco Algarotti, grande divulgatore scientifico e viaggiatore lungo un ventennio per tutti i paesi del Nord-Europa, autore tra l’altro dei Viaggi di Russia. Quasi contemporaneamente Giuseppe Baretti lascia nelle Lettere familiari ai suo’ tre fratelli (1762) delle pungenti annotazioni sui suoi itinerari attraverso Portogallo, Spagna e Francia e sul suo soggiorno in Inghilterra. Baretti quando è in giro non fa sconti a nessuno, ma è evidente che a stargli stretta è proprio l’Italia (e sceglierà infatti di rimanere in Inghilterra). Un altro bello spirito, Vittorio Alfieri, gira l’Europa per cinque anni, tra il 1767 e il 1772, toccando la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, l’Austria, la Prussia, la Danimarca, la Svezia, e ce ne dà conto ne la Vita scritta da esso. Ne ricaviamo poco sulla situazione dei vari paesi, ma del carattere del conte alla fine non ignoriamo più nulla. Così come di Giacomo Casanova, che fa avanti e indietro per tutta la vita, battendo l’intero continente e raccontandolo (nella Storia della mia vita, 1798) da un punto di vista senz’altro singolare.

Meno attento a sé e più a ciò che lo circonda è Luigi Angiolini, che lascia delle interessantissime Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia e Olanda (1790), nelle quali, come avviene per tutti gli altri autori di questo periodo, coglie l’occasione per lamentare il degrado culturale e civile dell’Italia a confronto con i paesi europei del Nord. Altri, come Giovan Battista Malaspina (Relazione del viaggio in Francia e in Spagna, 1786), sono meno esterofili, ma non mancano di sottolineare i ritardi italiani.

Il romanticismo nostrano, a differenza di quello europeo, non segna un ritorno alla grande del viaggio nella letteratura e della letteratura di viaggio. I nostri maggiori romantici magari si spostano all’estero (Foscolo in Francia e in Inghilterra, Manzoni in Francia), ma non reputano importanti queste esperienze. Meno che mai il viaggio costituisce un tema significativo nella narrativa e nella poesia. C’è molto attaccamento al focolare domestico, ai tetti e al campanile. Chi si sposta in genere non è un viaggiatore, ma un esule (Renzo, Jacopo Ortis, Carlino Altoviti ne Le confessioni di un Italiano del Nievo) o un emigrante. E solo nel tardo Ottocento compare qualche accenno a quest’ultimo tema. Edmondo de Amicis è l’unico autore italiano a raccontare, in Sull’oceano, un fenomeno che forza milioni di persone a cambiare latitudine o emisfero. Fioriscono in compenso le pubblicazioni periodiche destinate ad un pubblico di media e bassa cultura (il Giornale illustrato dei viaggi), infarcite di esotismi da salotto e di inverosimili peripezie, ed esplode il viaggio immaginario e popolar-avventuroso nei romanzi d’appendice di Emilio Salgari.

Tra i resoconti genuini di viaggi di esplorazione qualche valore anche letterario hanno La scoperta delle sorgenti del Mississippi di Giacomo Beltrami, Sette anni nel Sudan egiziano di Romolo Gessi, Due anni tra i cannibali di Carlo Piaggia e soprattutto il Viaggio allo Yemen di Renzo Manzoni, quest’ultimo forse l’unico in grado di reggere il confronto con i viaggiatori-narratori anglosassoni e francesi.

Ancora nella prima metà del Novecento il racconto di viaggio rimane confinato in un genere minore. Non mancano letterati che vi si cimentino (a partire da Guido Gozzano con Verso la cuna del mondo, o da Emilio Cecchi con America Amara e Viaggio in Grecia); ma sono soprattutto i giornalisti come Luigi Barzini (Il libro dei viaggi), Bruno Barrili (Il viaggiatore volante), Virgilio Lilli (Penna vagabonda) e Vittorio G. Rossi (Tropici) a produrre le cose migliori. In qualche caso, come per il Viaggio in India (1966) di Alfredo Todisco, sono le profonde trasformazioni intervenute nel frattempo a rendere interessante la fotografia di un mondo scomparso. In altri, come per Un’idea dell’India e Passeggiate africane di Moravia, ma anche L’odore dell’India di Pasolini, riesce fin troppo evidente come spesso nei viaggi si trovi null’altro che ciò che ci si porta.

Solo nell’ultimo scorcio del secolo il rinnovato interesse per l’argomento ha portato alla creazione di veri capolavori (come Danubio, di Claudio Magris), oltre che alla emersione (o in qualche caso, riemersione) di un paio di generazioni di bravi narratori di esperienze di viaggio, da quelle asiatiche di Fosco Maraini (Incontro con l’Asia), Tiziano Terzani (In Asia) e Giorgio Bettinelli (In Vespa), a quelle americane di Pino Cacucci (La polvere del Messico), Cesare Fiumi (La strada è di tutti) e Alessandro Portelli (Taccuini americani), a quelle africane di Carla Perrotti (Deserti), fino a quelle mondiali di Walter Bonatti (In terre lontane).

Si è ridestato anche l’interesse per la storia del viaggio e dei viaggiatori, che ha trovato ottimi narratori in Stefano Malatesta (Il cammello battriano, Il mare di sabbia) e soprattutto in Attilio Brilli (a partire da Quando viaggiare era un’arte). Brilli è il grande maestro della loggia dei viaggiatori “in su le carte”, una enciclopedia ambulante (appunto) della letteratura odeporica, e ha al suo attivo un numero straordinario di titoli.

La riscoperta del piacere e del valore culturale del viaggio, che nell’articolo sopra citato attribuivo soprattutto ad una moda di importazione (e confesso che sostanzialmente ne sono ancora convinto), ha dato nel nuovo secolo frutti notevoli, non inferiori a quelli anglosassoni. Il merito va ad autori del calibro di Paolo Rumiz, che con La leggenda dei monti naviganti ha toccato le vette della migliore letteratura, raccontando un fantastico itinerario dalle Alpi marittime alla Sicilia compiuto a bordo di una vecchia Topolino, seguendo a zig zag la dorsale appenninica, quindi la parte più sconosciuta e relativamente intatta della nostra penisola. Rumiz aveva già pubblicato il resoconto di un viaggio attraverso i Balcani in direzione di Costantinopoli (É oriente) ed ha poi proseguito nella riscoperta dell’Italia con Annibale. Un viaggio, una rivisitazione-confronto tra il passato e l’oggi sulle orme del grande condottiero cartaginese, per spostarsi infine nuovamente fuori dell’Italia con Trans-Europa Express, un itinerario che segue il vecchio confine della cortina di ferro dal circolo polare sino all’Adriatico.

Anche in Italia incontrano infine un crescente successo i “viaggiatori estremi”, in sostanza quelli che si muovono a piedi su lunghe distanze. Una traversata latitudinale completa della penisola è raccontata da Enrico Brizzi, sia pure con qualche eccessiva concessione al romanzesco, ne Gli Psicoatleti. Quella longitudinale, dall’Argentario al Cònero, l’aveva già narrata in Nessuno lo saprà. Brizzi percorre preferibilmente i vecchi itinerari del pellegrinaggio, quelli della Via Francigena o del Camino di Santiago di Compostela. Come Rumiz, e come tutti gli altri citati, sa scrivere bene. E questo è sempre un vantaggio per la letteratura, se non una condizione imprescindibile, ma per quella di viaggio può costituire anche un rischio. Perché chi ama le narrazioni di viaggio in realtà bada molto più alla sostanza che alla forma, vuole identificarsi con i luoghi e con le storie, più che lasciarsi coinvolgere dalla malìa delle parole. Oggi i viaggi vengono intrapresi sempre più solo per poterne poi scrivere, e c’è il rischio che il piacere letterario lasci poco spazio a quello della fantasia. Quando si legge per immaginare noi stessi a compiere il viaggio un racconto troppo perfetto ci esclude, non consente di figurarci qualcosa di diverso da ciò che viene raccontato.

È quanto sembra aver capito molto bene Roberto Giardina, che in due poderosi volumi (L’altra Europa. Itinerari insoliti e fantastici dell’Europa di ieri e di oggi e L’Europa e le vie del mediterraneo ha condensato un repertorio vastissimo di itinerari possibili e di suggestioni storiche da inseguire. Pochissime pagine per ciascuna tappa, descrizioni all’osso, rimandi storici a vicende e personaggi spesso sconosciuti: un liofilizzato di indicazioni che l’autore consegna al lettore come una possibilità, un ricettario con gli ingredienti essenziali: il gusto, sembra dirgli, ora devi mettercelo tu.