di Paolo Repetto, 2012
Chi dice chiaramente il proprio pensiero,
senza cercare applausi e senza temere le collere,
è l’uomo della rivoluzione
Su un’altra “tragica fine”, quella di Camillo Berneri, il piccolo almanacco rosso tagliava secco e pesante: “Vigliaccamente trucidato dagli stalinisti”. Ero un ragazzino, avevo letto I Ragazzi della via Paal e coltivavo come un cavaliere medioevale la repulsione per tutto ciò che puzza di viltà, fisica o psicologica che sia. Quell’avverbio mi indignava: immaginavo Berneri colpito alle spalle, perché se gli si fossero presentati di fronte non avrebbero avuto scampo, come con Modesto o con Cipriani. Ma non c’era verso di trovare altri riscontri: il nome di Berneri pareva cancellato dal libro della storia. Ho dovuto attendere la metà degli anni sessanta e l’ingresso all’università per avere qualche notizia più precisa.
Si è trattato anche allora di una conoscenza di seconda mano, perché Berneri sembrava aver lasciato solo pamphlets polemici occasionali, praticamente irreperibili: ma è stata comunque sufficiente, assieme alla lettura delle opere di Kropotkin, a traghettarmi da una concezione salgariana dell’anarchismo ad una curiosità politica e umana più profonda. Solo di recente però, da quando ho potuto finalmente rintracciare i suoi scritti più significativi, quell’interesse è diventato una vera e propria empatia. Ho scoperto un anticonformismo genuino e ho trovato una incredibile consonanza con mia la visione del mondo e degli uomini. Se non porto Berneri nel cuore, come accade per i maestri della mia gioventù, da Leopardi a Camus, è solo perché sono ormai troppo anziano per i colpi di fulmine: ma lo reputo un “amico”, e di là del rimpianto per non averlo frequentato prima mi viene da lui il conforto di non avere sprecato tutto questo tempo. Temo solo, a questo punto, che le pagine che seguono finiscano per confondere troppo spesso la mia voce con la sua. Non sarebbe una novità.
Camillo Berneri appartiene alla quarta (ed ultima) generazione anarchica. Potremmo definirla la generazione degli antifascisti, dopo quella degli ex-mazziniani o ex-garibaldini, che va in pratica da Pisacane a Cipriani, quella degli insurrezionalisti, Cafiero e Malatesta, e quella dei terroristi, Passanante e Bresci. Con essa, e nella resistenza ai totalitarismi di destra e di sinistra della prima metà del Novecento, l’anarchismo vive le ultime luci del crepuscolo: poi calerà il buio totale.
L’appartenenza di Berneri a questa generazione è in realtà più anagrafica che sostanziale: il nostro è riuscito infatti a farsi considerare un eretico anche da coloro che da sempre sono gli eretici per antonomasia. Questo spiega, perché ancora oggi sia tanto difficile accostare direttamente il suo pensiero: e, di converso, perché mi sembri quanto mai doveroso contribuire a strapparlo a questo oblio1.
Un’adolescenza socialista – Quando Berneri viene al mondo a Lodi, nel 1897, Cipriani sta combattendo (e perdendo) la sua ultima battaglia, mentre Cafiero è già morto da un pezzo e l’anarchismo ha chiuso la sua stagione più significativa. Anche a lui la vocazione libertaria è trasmessa geneticamente, ma nel suo caso il cromosoma più irrequieto è quello materno: Adalgisa Fochi è una scrittrice e insegnante socialista che vanta un padre garibaldino e un nonno carbonaro, e che prima di fermarsi in Emilia si porta appresso il figlio nei suoi continui trasferimenti su e giù per l’Italia. Camillo non scoppia di salute: ha rischiato di morire appena nato e ad ogni spostamento si busca una nuova malattia. Di conseguenza rimarrà cagionevole anche da adulto: ma questo non gli impedirà di essere comunque coriaceo e combattivo.
L’esordio politico è naturalmente precoce. Entra nel partito socialista a quindici anni, a Reggio Emilia, in un ambiente improntato al socialismo “educazionista” di Camillo Prampolini, al quale Berneri continuerà ad ispirarsi anche dopo il passaggio all’anarchismo. A diciassette è redattore della rivista del movimento giovanile e appena scoppia la guerra mondiale riesce a sbatterne fuori il direttore, che si è schierato con Mussolini a favore dell’intervento (in questo frangente ha l’aiuto di Bordiga). È un ragazzo determinato, convinto che ai giovani debba essere riconosciuto uno spazio reale di partecipazione (e capace di conquistarselo: a diciott’anni è già nel Comitato Centrale della federazione emiliana), e radicalmente antimilitarista. La sua posizione è ispirata ai principi del collaborazionismo operaio europeo: non crede affatto che la guerra spalanchi le porte alla rivoluzione, e meno che mai che si possano fare dei distinguo tra i vari imperialismi: il compito delle classi operaie europee è semmai quello di sabotare un conflitto anacronistico e suicida. Su questi temi, come vedremo, non accetta tentennamenti.
Quanto al ruolo del partito, ne ha una concezione più culturale che politica: la sua funzione deve essere in primo luogo educativa. L’innalzamento del livello culturale delle masse è la precondizione necessaria, e forse anche sufficiente, per ogni rivoluzione futura. Su questa posizione influisce senz’altro la lezione di Prampolini, e più ancora la vocazione pedagogica della madre: ma per un diciottenne cresciuto nel clima massimalista dell’anteguerra, quando nella sinistra è più che mai viva l’attesa di un risveglio “dall’interno” delle masse e si confida nel detonatore rivoluzionario della “coscienza proletaria”, è comunque indice di una maturità non comune.
Partendo da queste posizioni è quasi scontato che Berneri intraprenda un percorso diametralmente opposto a quello compiuto da Andrea Costa. Al secondo anno di guerra, in aperto contrasto con l’atteggiamento del partito socialista, che è in pratica quello di un acquiescente “né aderire né sabotare”, e disgustato dalla facilità con la quale un sacco di ex adepti sono passati all’interventismo (oltre a quello di Mussolini c’è ad esempio il caso di Cesare Battisti), esce dal Comitato Centrale. Negli ultimi suoi interventi sulla rivista denuncia il fatto che la cultura italiana, e non solo quella borghese, dopo essersi avvitata su “inutili astruserie metafisiche” ha finito per soggiacere ai miti del superomismo e alle tentazioni imperialistiche. Di lì a poco chiude anche con il partito2.
Berneri ha a questo punto solo diciannove anni. Sulla sua decisione e sul suo futuro orientamento hanno un peso determinante l’amicizia stretta con un coetaneo anarchico, Torquato Gobbi, rilegatore di libri, che gli sembra rappresentare molto meglio che non i compagni di sezione la purezza dell’ideale rivoluzionario, e il rapporto con Giovanna Caleffi, anch’essa anarchica, che sposa quando entrambi sono ancora minorenni e che sarà la compagna non solo della sua vita ma anche delle sue lotte3. Nel 1918 Giovanna gli dà una figlia, ma né questo né il fatto di essere stato riformato ad una prima visita gli risparmiano la chiamata alle armi. Non dà un grande contributo alla vittoria: dopo pochi mesi all’Accademia di Modena viene sbattuto al fronte, dove ha il tempo di farsi notare e denunciare per due volte al tribunale militare, per insubordinazione e per aver fatto propaganda anarchica tra i soldati. Appena congedato, nel 1919, dopo aver soggiornato per qualche mese al confino di Pianosa per la partecipazione ad una manifestazione di piazza, comincia a collaborare con Errico Malatesta e con la stampa anarchica, ed è uno dei fondatori dell’Unione Anarchica Italiana.
La sua posizione, però, risulta “non allineata” persino nel mare magnum dell’anarchismo, dove pure non esiste un canone ufficiale e dove il dibattito è molto più acceso e vivace che non all’interno dei partiti di matrice marxista. La linea che Berneri sposa non è in realtà nuova: è già stata intrapresa da Malatesta, che ne “L’anarchia” teorizzava un “gradualismo” rivoluzionario: la rivoluzione per l’anziano maestro è un percorso a tappe, che conosce sviluppi diversi a seconda delle differenti situazioni socio-economiche di partenza. Dove esistono le condizioni per farlo gli anarchici devono naturalmente attuare il loro programma, ma in altri casi non possono che opporre la massima resistenza alle ricomposizioni post-rivoluzionarie in direzione statalista o capitalistica, fornendo esempi di vita e d’azione che mantengano viva la speranza, e rimandando a tempi migliori la costruzione dalla società totalmente libera. Ciò suppone una distinzione tra “giudizi di fatto”, che concernono la realtà storica e naturale, e “giudizi di valore”, che concernono le idealità; ai secondi si impronta la dimensione politica, ai primi quella economica. Berneri procede nella stessa direzione, ma sposta di molto in avanti i margini del possibilismo “tattico”, senz’altro nella dimensione economica, ma in una certa misura anche in quella politica, mentre per quanto concerne l’imperativo etico rimarrà assolutamente intransigente.
Sin dall’inizio della sua militanza anarchica Berneri si trova dunque ad essere classificato come un “revisionista”, stimato per le capacità operative e per l’incredibile mole di lavoro polemico che riesce a svolgere, ma sempre sospetto di devianza rispetto ai dogmi irrinunciabili del credo anarchico. Il che, peraltro, è vero, se quella anarchica viene vissuta come un’ideologia o come una religione, anziché come una disposizione: e Berneri, anziché respingere sdegnato l’accusa, quasi la rivendica4: “Non temiamo quella parola ‘revisionismo’, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come a dogmi”.
I conti con il leninismo – Motivi di scandalo all’ortodossia anarchica Berneri ne dà parecchi. Le occasioni non gli mancano. Nel momento stesso in cui sta transitando dal socialismo all’anarchismo scoppia la Rivoluzione d’ottobre. Avviene ciò che per decenni era parso irraggiungibile, o si era intravisto solo per un attimo durante la Comune, ed è reso possibile da un progetto politico e da una tattica che non coincidono affatto con quelli dell’anarchismo. Per certi versi, pensa Berneri, è normale che gli anarchici ne diffidino, ma per altri occorre che accettino almeno inizialmente l’accaduto come un risultato positivo.
Il successo ottenuto dai bolscevichi mette infatti in qualche modo fuorigioco l’anarchismo classico, che non appare più adeguato ai nuovi assetti sociali ed economici; ma offre anche l’opportunità per un ripensamento profondo, se non sui fini, almeno sui modi dell’azione rivoluzionaria. Fino a quando quello della rivoluzione è stato un sogno proiettato nel futuro lo si poteva trattare appunto come un sogno, rivestendolo di tutte le intransigenze teoriche e tattiche rispetto all’esistente politico proprie dell’anarchismo; ma adesso che si è tradotto almeno in parte in realtà occorre rivedere le proprie posizioni, per non restarne fuori.
Lo scenario nuovo fa scaturire intanto alcune domande fondamentali. La prima è addirittura: ha ancora senso essere anarchici? Ovvero: si è attesa invano per anni una rivoluzione che rendesse inutile la dialettica politica; ora la rivoluzione c’è stata, ma la dialettica si ripropone anche all’interno di essa. Si può continuare a rifiutarla categoricamente? E poi: se l’anarchismo viene a compromesso con l’esistente, è ancora anarchismo? Vedremo dopo quali risposte Berneri si dà: per intanto le domande se le pone mentre agisce, mentre combatte. I dubbi non gli impediscono di mettersi in gioco comunque. E le realtà che vive di volta in volta, dal momento che con la realtà ha scelto di confrontarsi, lo indurranno in seguito a sfumare le sue posizioni e magari a porsi altre domande.
Insomma, Berneri è esattamente l’opposto di Cipriani, che attraversa sessant’anni di battaglie senza essere scalfito da altro se non dalla stanchezza. Ciò non significa che non sia egualmente sorretto da una fede incrollabile: solo che la sua riguarda più la necessità individuale di un’esistenza eticamente giustificata (il senso del dovere, per capirci) che non la bontà assoluta della causa per cui combatte. E questo spiega la sua disponibilità a rimettere in questione i modi e in qualche misura anche i fini di questa causa.
Per quanto concerne la rivoluzione russa Berneri parte dalla semplice oggettività del fatto che è avvenuta. L’evento assume già di per sé un grande valore, perché se non altro dimostra che una rivoluzione ci può essere. La rivoluzione ha poi portato alcune novità che gli sembrano importantissime, prima tra tutte la nascita dei soviet: una qualche forma spontanea di autorganizzazione risulta dunque possibile. Pur essendo evidente anche a lui che quella russa è una vittoria del socialismo autoritario rispetto a quello libertario, ciò non gli impedisce di pensare che la Russia sia un immenso terreno di sperimentazione, ancora tutto da esplorare5. Di qui la necessità di darsi una mossa, “di adeguare velocemente il programma politico ed economico dell’anarchismo alle necessità strategiche della rivoluzione”: in altre parole, se gli anarchici vogliono che qualcosa accada devono scendere dal regno celeste dei sogni e posare i piedi sul terreno della realtà (anche a rischio di infangarli un po’). “Non si può rimanere abbracciati ai cadaveri dei maestri – dice Berneri – anche se di giganti come Bakunin; bisogna maturare una visione più ampia ed acuta delle nuove situazioni”.
Questa impostazione, della quale è ancora quasi per intero debitore a Malatesta, prende il nome di “attualismo”, e viene appunto sofferta da molti anarchici come “revisionista”. Berneri ne è perfettamente cosciente: “Sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi”. Così come è cosciente che capirlo e seguirlo risulta, per i compagni, piuttosto problematico, soprattutto inizialmente, quando sembra convenire che la “dittatura del proletariato”, sia pure intesa in modi e con funzioni ben diverse da quelle bolsceviche, sia un passaggio legittimo e necessario della rivoluzione. “Io credo che la concezione integrale e ortodossa del comunismo libertario porti, nel campo della realtà, alla dittatura del proletariato, non quale è nel significato che danno a questa formula i comunisti autoritari, ma come formazione storica scaturente dal fatto di una rivoluzione spinta ai limiti estremi” scrive ancora nel 19206. Ma ha già ben chiaro quale piega stiano prendendo le cose: ragion per cui due anni dopo dichiara che “criticare i criteri e i metodi del partito comunista russo, illustrare gli errori e gli orrori del governo bolscevico, è per noi un dovere e un diritto, perché nel fallimento del bolscevismo statolatra vediamo la migliore conferma delle nostre teorie libertarie”7. A sgombrare il campo da eventuali dubbi hanno provveduto le rivelazioni di quei compagni che hanno vissuto in prima persona sia la rivoluzione che la sua rapida deriva autoritaria, e sono stati abbastanza svegli o fortunati da sfuggire alla feroce repressione delle comuni e dei soviet anarchici operata da Trotsky.
È anche convinto che occorra relativizzare, saper leggere i fenomeni nel loro specifico contesto: in fondo, “ogni rivoluzione ha lo sviluppo di cui è capace il popolo che la compie”. Quel modello rivoluzionario, poi, gli appare tanto particolare da fargli scrivere che “non si può giudicare con criteri occidentali una rivoluzione che appartiene più all’Asia che all’Europa”. Questo significa anche che è assurdo guardare ad esso come ad un archetipo; al più, può essere l’esempio di una generica “possibilità” concreta. Per contro, vede il grave pericolo insito in questa speranza di “esportazione”, quando dice che l’idea comunista educa gli italiani (e gli occidentali tutti) ad attendersi quasi una venuta provvidenziale (“verrà Lenin”, diventato poi “verrà Stalin”) invece che ad elaborare una loro via alla rivoluzione e una loro risposta alla crescente reazione.
Molto più tardi, tornando sul tema della dittatura del proletariato nel bel mezzo della contrapposizione politica della guerra di Spagna, si esprimerà in questi termini: “Dittatura del proletariato è una formula equivoca quanto il popolo sovrano: concetto e formula di imperialismo classista, equivoca e assurda. Il proletariato deve sparire, non governare. Il proletariato è proletariato perché dalla culla alla tomba è sotto il peso dell’appartenenza alla classe più povera, meno istruita, meno passibile di individuale emancipazione, meno influente nella vita politica, più esposto alla vecchiaia e alla morte precoce, ecc. redento da queste ingiustizie sociali, il proletariato cessa di essere una classe in sé, poiché tutte le altre classi sono spogliate dei loro privilegi. Cosa permane allo sparire delle classi? Rimangono le categorie umane: intelligenti e stupidi, colti e semi-incolti, sani e malati, onesti e disonesti, belli e brutti, ecc. Il problema sociale, da classista, si farà problema umano. La rivoluzione sociale, classista nella sua genesi, è umanista nei suoi processi evolutivi. Chi non capisce questa verità è un idiota. Chi la nega è un aspirante dittatore”8.Difficile essere più chiari.
Sarebbe dunque ingeneroso, anche dal punto di vista della stretta osservanza anarchica, imputargli un eccessivo entusiasmo iniziale nei confronti della rivoluzione russa. Quando questa scoppia Berneri ha vent’anni, da tre è in corso una carneficina destinata a cambiare le sorti del mondo e ancora le organizzazioni politiche e sindacali tradizionali della sinistra non riescono a uscire dall’impasse del lealismo nazionalista. È più che naturale che saluti ciò che sta accadendo in Russia come un evento epocale, ed è in buona compagnia, perché dello stesso avviso è mezza Europa. Avrà modo sin troppo presto, sulla propria pelle, di rendersi conto di quanto la vittoria del bolscevismo sia stata letale per il futuro delle speranze rivoluzionarie e dell’idea libertaria. Non dimentichiamo che ad altri, ai più, è occorso mezzo secolo per arrivarci, e che qualcuno deve ancora capirlo adesso.
Fenomenologie dell’autoritarismo: il culto del capo – All’inizio degli anni venti Berneri ha ormai due figlie e porta a termine gli studi: si laurea in Filosofia a Firenze con Salvemini ed entra a far parte della cerchia del primissimo antifascismo, conoscendo personaggi come Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei, collaborando a Non Mollare e a numerose altre riviste, tra le quali la Rivoluzione liberale di Gobetti. Di lì a poco deve però lasciare Firenze, perché ormai è nel libro nero dei fascisti: dopo aver subito un paio di aggressioni si ritira perciò ad insegnare a Camerino, senza naturalmente cessare l’opera di propaganda politica e di “revisione” dell’anarchismo.
I modi e i tempi di questa revisione sono imposti dal convulso precipitare di eventi e mutare di situazioni che caratterizza la prima metà degli anni venti, quando sembra possibile tutto e il contrario di tutto: è ancora viva la speranza rivoluzionaria, ma appare già chiara la deriva statalista e totalitaria dell’URSS; si afferma il fascismo, ma ancora sembra destinato ad autoliquidarsi per la sua rozzezza politica; nascono a sinistra del partito socialista nuove forze, ma questo anziché rafforzare il movimento libertario ne esaspera le contrapposizioni interne. Berneri vive quelli che Hobsbawm definisce “tempi interessanti”, nei quali non è facile tenere il passo degli avvenimenti; e la scelta di non perdere di vista quanto realmente accade, e di non sacrificare “i fatti” forzandoli ad ogni costo a rientrare in una costruzione teorica cristallizzata, lo porta ad allargare su più fronti la sua attenzione, a cogliere gli elementi di novità in ogni piega e in ogni risvolto dell’attualità. Per questo lo troviamo instancabilmente impegnato ad analizzare con tutte le armi critiche possibili, compresa la psicanalisi, i fenomeni nuovi che caratterizzano la scena politica, primo tra tutti naturalmente quello dell’irresistibile ascesa di Mussolini.
In un articolo apparso su “L’Ordine Nuovo” nel 1924 Gramsci aveva scritto che Mussolini era in fondo soltanto un buffone, estraneo alla vita nazionale, e che al massimo sarebbe passato alla storia delle maschere italiane. Berneri, che Mussolini lo conosce bene, avendone già ammirato nel 1912 una performance nel congresso socialista di Reggio Emilia, non ne è altrettanto sicuro, e lo ribadisce più volte. Dieci anni dopo, nel 1934, torna in maniera definitiva sul tema con un breve e saporitissimo saggio, Mussolini grande attore, nel quale, usando gli strumenti dell’analisi psicoanalitica oltre a quelli della critica storica, dimostra quanto invece la figura del dittatore sia costruita attraverso l’uso sapiente dei nuovi strumenti di propaganda (la radio e il cinema) e l’assunzione di atteggiamenti plateali ma di grande effetto. Mussolini ha la capacità di “recitare”, più ancora che di interpretare, un ruolo nella storia. È vero, si serve spesso di un apparato e di modi da avanspettacolo, che riflettono l’evidente povertà dei contenuti politici; ma ci sono aspetti, in questa rappresentazione, che non vanno sottovalutati, primo tra tutti quello dell’”educazione delle masse” o, se vogliamo, del loro plagio. È naturale per Berneri, che ha sempre attribuito un valore prioritario all’educazione dei giovani, apprezzare, sia pure in negativo, la capacità di Mussolini di operare direttamente su questi ultimi attraverso la scuola e le altre forme di omologazione e di inquadramento parascolastiche. Non è un caso, dice Berneri, che la prima riforma del fascismo sia stata quella di Gentile.
La promozione dell’immagine e del culto di Mussolini è chiaramente funzionale per Berneri ad un progetto di “normalizzazione” del potere, che passa attraverso l’azzeramento della coscienza critica della massa, e quindi di ogni opposizione. Il ricorso alla rappresaglia fisica, che è stato fondamentale per il fascismo al momento della conquista del potere e nella fase di consolidamento, consentendo di tagliare le teste pensanti più pericolose, ha lasciato il campo da un lato ad una “rappresaglia” istituzionale, legalizzata, dall’altro al condizionamento psicologico: e questo sembra aver funzionato perfettamente.
In realtà infatti non è tanto la figura di Mussolini ad interessare Berneri, anche se ci legge un possibile esito di certe esasperazioni individualistiche riconducibili persino all’anarchismo, quanto invece la reazione (verrebbe da dire: la mancanza di reazione) della massa, pronta a farsi circuire da un imbonitore, per quanto scaltro. “Per essere un grande attore non bastano virtù soggettive, occorre anche comprendere e interpretare le esigenze del pubblico, in un dato luogo, in un momento dato”. Altro che estraneo alla vita nazionale! Berneri consente perfettamente con Rosselli quando questi scrive che il fascismo “esprime i vizi profondi, le debolezze latenti del nostro popolo, del nostro intero popolo. In un certo modo, il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione”. E una parte di responsabilità, nella creazione del “mostro”, Berneri l’attribuisce anche alla sinistra, tutt’altro che immune dal culto della personalità. La sua analisi può quindi essere estesa, al di là dello specifico mussoliniano, anche ad altre situazioni, prima tra tutte quella sovietica; e per taluni aspetti, fatte salve le ovvie differenze, calzerebbe perfettamente a quanto accaduto in Italia negli ultimi due decenni.
L’anarchico più espulso della storia – Dopo il delitto Matteotti il regime, anziché indebolirsi, si consolida e i guai per Berneri e per la sua famiglia si moltiplicano. Intanto Camillo rifiuta di prestare il giuramento di fedeltà alla monarchia (e a questo punto, implicitamente, al fascismo) imposto a tutti i docenti, e viene quindi privato della cattedra: poi, dopo le aggressioni che costeranno la vita a Gobetti e ad altri antifascisti di punta, e dopo essere sfuggito ad un paio di agguati delle squadracce, capisce che il cerchio si sta stringendo e nell’aprile del 1926 si rifugia in Francia. Di lì a poco viene raggiunto da Giovanna e dalle figlie. Ma la vita del fuoruscito non è facile: è costretto ad arrangiarsi con lavoretti saltuari, mentre cerca di mettere assieme i pezzi di una organizzazione che di fatto è allo sfascio, sotto i colpi delle delazioni e degli agenti provocatori. Fa un po’ di tutto, anche lavori che sono assolutamente incompatibili con la gracilità del suo fisico: racconta ad esempio che “fu a Le Pecq, mentre in costume e in fatica da muratore mi aveva sorpreso uno dei “responsabili” comunisti. “Ora la puoi conoscere, Berneri, l’anima proletaria!” Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di sabbia e due secchi di “grossa” riflettei sull’anima proletaria”. 9 Non pretenderà mai, però, a differenza di altri, che il suo temporaneo rapporto con il lavoro manuale ne abbia fatto un “autentico proletario” e lo abbia abilitato a parlare a nome di tutti i lavoratori.
Nel 1928 viene arrestato ed espulso una prima volta dalla Francia come “pericoloso anarchico”. Nel suo ardore polemico ha finito per cadere in una trappola della polizia segreta fascista. Il gioco di quest’ultima consiste nell’alimentare attraverso i suoi agenti infiltrati i dissapori tra fuorusciti di tendenze ideologiche diverse, e anche Berneri è indotto ad attaccare un altro antifascista, il cattolico Giuseppe Donati. Questi è a sua volta manovrato da un secondo provocatore, e ad entrambi vengono fatti arrivare finanziamenti per pubblicare i loro opuscoletti. Il risultato è che i due si scambiano pesanti accuse, offrendo alla polizia il pretesto per stare loro addosso e alla magistratura quello per sbatterli fuori.
L’episodio conferma una debolezza che caratterizza tutti i movimenti di opposizione clandestina in ogni tempo e paese: la costante permeabilità all’infiltrazione di agenti provocatori. È indubbiamente un rischio ineliminabile, che deve essere corso e che è difficile limitare, specie in una situazione aggrovigliata come quella del fuoruscitismo, nella quale i riscontri sulla reale identità, attività e militanza sono molto più difficili: ma in questo caso l’impressione è che l’ambiente anarchico ecceda nell’accordare fiducia a chiunque si professi libertario (cosa che si verifica molto meno nelle formazioni comuniste, dove i filtri hanno maglie più strette), pur restando vero che un’idea come quella anarchica è perseguibile solo se si esclude il sospetto sistematico come procedura di sicurezza. In questo caso poi il fatto paradossale è che Berneri il fenomeno degli infiltrati lo ha studiato e denunciato in un opuscolo documentatissimo, Lo spionaggio fascista all’estero, pubblicato nel 1928, e ciononostante ne cadrà ripetutamente vittima.
Alla prima espulsione fa seguito una serie di peregrinazioni per mezza Europa, dall’Olanda al Lussemburgo, dalla Spagna alla Germania Ovunque arrivi Berneri trova ad attenderlo un paio di agenti che lo trattengono un giorno o due, lo identificano e lo rispediscono al mittente. Racconta lui stesso questi episodi in tono divertito, addirittura ricordando con affetto quei poliziotti che lo hanno trattato umanamente, e rievocando i contradditori improvvisati durante lunghe notti in guardina con quelli meno sensibili. Il vagabondaggio ha improvvisamente termine nel dicembre dell’anno successivo, quando viene arrestato in Belgio con l’accusa pesantissima di avere ordito un complotto per uccidere il ministro italiano Alfredo Rocco (l’autore del nuovo codice penale) durante una visita diplomatica. Nell’ambito della stessa operazione sono arrestati in Francia altri fuoriusciti italiani (tra cui Carlo Rosselli). Berneri è trovato in possesso di una pistola; si assume ogni responsabilità e scagiona gli altri, rimediando per sé una condanna a soli sei mesi di carcere, anche perché durante il processo emergono il ruolo e la reale appartenenza del “mandante”, l’infiltrato trentino Ermanno Menapace (che è a sua volta è condannato in contumacia a due anni). Scontata la pena Berneri è rimandato in Francia, dove subisce un altro processo e si becca un’altra condanna. Viene amnistiato dopo qualche mese e scarcerato nel maggio del 1930.
Ormai non può più essere espulso, perché nessuno degli stati confinanti è disposto ad accoglierlo. Nel giro di tre anni viene ancora arrestato quattro volte, ma tutto sommato la sua vita riprende più tranquilla, limitandosi al proselitismo e alla scrittura. In questo periodo la famiglia tira avanti con i proventi di una piccola drogheria gestita da Giovanna, che non manca di diventare una centrale di accoglienza e riferimento per i fuorusciti italiani.
La ricostruzione di ciò che è avvenuto nel 1929 riesce piuttosto confusa, e nemmeno lo stesso Berneri nelle lettere e nella bozza autobiografica che ha lasciato sembra avere le idee chiare. Nell’agosto del 1929 sono giunti a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, fuggiti in motoscafo dal confino di Lipari. Berneri, che con i Rosselli aveva già stretto amicizia ai tempi di Firenze e della frequentazione del Circolo di Studi Sociali gravitante attorno a Salvemini, vede in questo arrivo una grande occasione. Pochi mesi dopo viene costituito a Parigi il movimento Giustizia e Libertà, i cui orientamenti sono in sintonia con quelli di Berneri e degli anarchici. È soprattutto Lussu a spingere perché si passi immediatamente all’azione, adottando la tecnica terroristica degli attentati individuali, restituendo colpo su colpo ai fascisti e mirando soprattutto a eliminare Mussolini. Per alcuni mesi la collaborazione è aperta, e sull’onda di un entusiasmo un po’ precipitoso vengono progettati diversi attentati. Una nota informativa del dicembre del 1929, basata proprio sull’attività spionistica di Menapace, dettaglia minuziosamente a Mussolini le intenzioni e i movimenti di Berneri: in particolare il progetto di un attentato alla Società delle Nazioni di Ginevra, in collaborazione con altri anarchici e con esponenti di Giustizia e Libertà.
Pur facendo la dovuta tara alle informative dell’OVRA, di norma gonfiate e in qualche caso addirittura inventate di sana pianta dall’ufficio centrale per dimostrare l’efficienza del servizio, o dai singoli agenti per giustificare il proprio stipendio, esiste veramente a cavallo degli anni trenta, nelle fila dell’antifascismo e soprattutto tra i fuorusciti, la fissazione dell’attentato, del passaggio all’azione diretta.
Lo dimostrano i casi degli anarchici Schirru e Sbardellotto10, e l’urgenza di gesti dimostrativi è anche facilmente spiegabile con il sentimento di frustrazione che si va diffondendo tra gli oppositori, una volta constatato che non soltanto il regime non crolla per intrinseca debolezza, come si era sperato in un primo tempo, ma si rafforza e si radica sempre più, e che addirittura, dopo che la crisi del ’29 ha messo in ginocchio le maggiori potenze democratiche, sta guadagnando consensi tra la popolazione. A questo punto l’impressione di molti, e non solo degli anarchici, è che senza un gesto isolato che decapiti il potere non si arriverà a nulla. Mal che vada, l’azione diretta dimostrerà agli italiani e al mondo che il consenso al fascismo non è unanime, e che la resistenza è ancora ben viva.
Questo atteggiamento si intiepidisce poi verso la metà degli anni trenta, anche se i tentativi non cesseranno del tutto: ma essi saranno sempre più frutto di scelte isolate. La sorveglianza poliziesca e la repressione hanno resa impossibile in Italia qualsiasi congiura e, peggio ancora, il regime dimostra di saper utilizzare a proprio vantaggio, attraverso un organizzatissimo ed efficiente lavoro di enfatizzazione e disinformazione, ogni tentativo fallito, fino al punto di arrivare a costruirne di falsi.
Per intanto, con Berneri fuori gioco, non solo perché carcerato, ma anche perché gli arresti e il processo hanno drammaticamente portato alla luce le debolezze della rete anarchica, il sodalizio con Giustizia e Libertà si scioglie. Di lì a poco, nell’autunno del 1931, G.L. aderisce infatti alla Concentrazione Antifascista, un fronte di resistenza che riunisce i fuorusciti politici italiani di ogni colore, ma dal quale gli anarchici si sono autoesclusi.
Berneri come si è detto “gode” di un forzato periodo di riflessione, e come da suo carattere si interessa a varie discipline, dalla psicologia alla storia, dalla filosofia all’arte. Ma è tutt’altro che tranquillo. Scottato dal fallimento dei suoi progetti d’azione, e più ancora dalla caduta di credibilità conseguente l’affare Menapace, scrive nel 1930 dal carcere alla figlia Maria Luisa: “Sono contemporaneamente sereno e disperato: come se fossi rassegnato ad una fatalità e come se io disponessi di una volontà in grado di creare un mondo. La situazione è cambiata tanto da essere per noi tema doloroso; ciò che è grave ed esige una soluzione è che il peso frantuma l’energia dell’animo. Sono alla ricerca precisa di me stesso e devo vincermi. Non è il carcere che mi preoccupa, ma è lo sforzo che devo fare per uscire dalla mia vita di ieri che è una volta di più spezzata e che non spero di poter riprendere a meno che io non riesca a raggiungere un po’ di tranquillità”11 . È questo però il periodo in cui le sue idee sull’anarchismo prendono una forma più compiuta.
Fenomenologie dell’autoritarismo: il culto della massa – Le contraddizioni che a posteriori si vorrebbero – o almeno, che alcuni hanno voluto – cogliere nel percorso teorico di Berneri sono solo apparenti. In realtà esso è sorretto da una tenace coerenza, che non si cristallizza in rigidità dogmatica ma si confronta di volta in volta con una eccezionale capacità di lettura del presente: oltretutto, in questo caso, di un presente caotico, confuso e mutevole, pregno di tutto e del contrario di tutto.
L’assenza dalla sua opera di una “formulazione teorica” strutturata è legata senz’altro alla continua precarietà in cui si trova a vivere, oltre che alla precoce scomparsa, e di questo Berneri si lamenterà spesso: ma è anche dovuta alla sua stessa concezione della militanza intellettuale, che lo mette in sospetto di fronte a tutto ciò che è astrazione ideologica, perché questa impedisce di avere chiara la situazione ed anche la condizione dei soggetti trattati. Fermarsi a teorizzare significa per Berneri perdere di vista quanto sta accadendo. D’altro canto, la sua concezione dell’anarchismo si va sempre più definendo come la definizione di una linea ideale, questa sì fissata una volta per tutte, di comportamento individuale, di responsabilizzazione personale, che non ha bisogno di revisioni: la revisione riguarda semmai il confronto con il mondo, che in questo modo viene liberato dalle pastoie di una teoria prefissata alla luce della quale di debbano leggere gli accadimenti.
Ciò non significa che Berneri non affronti i nodi cruciali della teoria. Lo fa eccome, e senza lasciarsi condizionare da particolari riverenze per le idee e per le formule del canone anarco-socialista. Il suo percorso di svecchiamento, mirato a “spazzar via le foglie morte dell’ideologia” parte dalla considerazione che “la crisi dell’anarchismo è evidente”, e che questa crisi è legata ad una interpretazione sbagliata dell’utopismo. I suoi compagni anarchici, per la stragrande maggioranza, non distinguono tra quello che può essere un modello sociale “ideale” di riferimento e quello che dovrebbe essere un modello “possibile”, da contrapporsi ai fenomeni emergenti o dominanti nella realtà “attuale”, le dittature fasciste e i totalitarismi. “Arriva il momento – scrive Berneri – in cui tutti domandano: cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per fare da capi, ma perché la folla non se li crei…”. Occorre redigere pertanto un programma di previsione per la futura società libera. Per diventare credibile l’anarchismo deve definire e dichiarare apertamente ciò che intende costruire. Si deve parlare di regole, di strutture economiche e di meccanismi decisionali. La lotta contro lo stato deve essere animata da una prospettiva di organizzazione futura.
Ma c’è dell’altro: il modello ideale non solo non è realizzabile, ma quand’anche lo fosse si tradurrebbe a sua volta in totalitarismo, come l’esperienza russa insegna. Non ci si deve illudere che l’anarchismo non corra certi pericoli: è a rischio come qualunque altra ideologia o credenza che ad un certo punto si fossilizzi attorno a dei dogmi. Per questo è necessario che la “revisione” sia sempre aperta, e che abbia il coraggio di arrivare alle radici dei problemi. Partendo proprio da quello, eterno, del rapporto tra libertà individuale e giustizia.
Nell’immediato dopoguerra in seno all’anarchismo si confrontano due diverse tensioni, che sono tanto lo specchio di quanto accade “fuori” quanto il risultato di un’ambiguità originaria del pensiero anarchico. Da un lato c’è il nuovo protagonismo delle masse operaie e contadine, messe in movimento dalla guerra, risvegliate dagli accadimenti russi e tuttavia sempre potenziali prede dell’estremismo demagogico di alcuni capi: dall’altro c’è una tentazione individualistica, giustificata dal mito della libertà assoluta individuale (la linea “nietzschiana”). Nell’anarchismo le due anime, populista e individualistica, hanno fino ad ora convissuto più o meno pacificamente: ma la nuova situazione creata dalla guerra, con la rivoluzione russa e con il fascismo, impone con urgenza e con drammatica necessità di compiere delle scelte. Occorre quindi arrivare ad una definizione chiara delle mete politiche da perseguire e dei percorsi da intraprendere, e va dissolta in primo luogo l’aporia che da sempre caratterizza il pensiero libertario: come conciliare la libertà individuale con la giustizia “egualitaristica” invocata dalle masse?
Berneri parte dal buon senso: la libertà individuale non è mai assoluta, ma sempre condizionata dalla necessità delle contingenze storiche, dal “contesto”. Quindi non si può continuare a parlare di “abolizione” dell’autorità, come recita la dottrina anarchica: l’obiettivo realistico è semmai la riduzione dell’autorità ai termini minimi consentiti dalla necessità. “L’ideologia kropotkiniana ci ha riportati all’ottimismo e all’ evoluzionismo solidarista. Sul terreno dell’ottimismo antropologico, l’individualismo ha perpetuato il processo negativo dell’ideologia anarchica, conciliando arbitrariamente la libertà del singolo con le necessità sociali, confondendo l’associazione con la società, romanticizzando il dualismo libertà e autorità in uno statico e assoluto antagonismo”. Con buona pace di Kropotkin, è inutile illudersi di poter realizzare la società dell’armonia: bisogna invece concentrare gli sforzi sulla società della massima tolleranza. “Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell’aggregato sociale, e forme primitive di società associazioni ebbe troppo presenti per capire l’ubi societas, ibi jus insito alle forme politiche che non siano preistoriche”12.
In pratica Berneri muove dallo stesso assunto di Hobbes, anche se ne ricava poi un esito diverso. Gli uomini non sono angeli, la loro natura e i loro impulsi non sono omogenei, e non convivono in una assoluta assenza di urti, di spigoli e di contrapposizioni. È necessaria una mediazione, e questa mediazione è appunto la politica. “La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un’approssimazione della realtà al sistema reale … non la ripetizione di dottrinari luoghi comuni”.
Come può darsi allora quella valorizzazione e quell’affermazione dell’individualità che l’anarchismo ha sempre perseguito e predicato? Attraverso il ruolo di guida che gli individui possono assolvere nei confronti delle masse, dice Berneri: “Il genio della rivoluzione non è genio di maggioranza, ma di minoranze fattive”. Questa concezione è indubbiamente molto influenzata da quanto è accaduto nella rivoluzione bolscevica, ma non va interpretata nella versione leninista: le “avanguardie” per Berneri non devono trascinarsi dietro il proletariato, ma stimolarlo, smuoverlo, aiutarlo a prendere coscienza: e questo possono farlo attraverso l’esempio personale (come diceva Cipriani), con l’attivazione della prassi insurrezionalista (come la predicavano e la praticavano Cafiero e Malatesta) e con la diffusione della conoscenza (come sostiene Berneri stesso). “La funzione delle élites mi parve chiara: dare l’esempio dell’audacia, del sacrificio, della tenacia; richiamare la massa su se stessa, sull’oppressione politica, sullo sfruttamento economico, ma anche sull’inferiorità morale e intellettuale delle maggioranze”. Il giacobinismo leninista è invece solo populismo demagogico: “Il nemico del popolo è il politicante, il parolaio che esalta il proletariato per esserne la mosca cocchiera, che esalta i calli per dispensarsi dal farseli o dal rifarseli, che denuncia come contro-rivoluzionario chiunque non sia disposto a seguire la corrente popolare nei suoi errori”.
Tutto questo ci conduce al rospo che probabilmente è risultato più indigesto per la sinistra, socialista, anarchica o comunista che fosse, e che rende ragione dell’ostracismo perdurante nei confronti di Berneri: la demitizzazione del proletariato.
Ne L’operaiolatria, un piccolo opuscolo edito nel 1934, come recensione a Socialismo liberale di Rosselli, Berneri afferma: “Non ho mai lucidato le scarpe al proletariato “evoluto e cosciente”, neppure in comizio”. Non c’è da dubitarne. E aggiunge, coerentemente con quanto abbiamo visto sopra, che “il giochetto di chiamare “proletariato” i nuclei di avanguardia e le élites operaie è un giochetto da mettere in soffitta”. Le parole hanno un senso, e quando l’abuso o l’uso improprio le caricano di valenze eccessive o contradditorie è necessario rimettere ordine. È quanto Berneri intende fare, per cui passa a modo suo, senza mezzi termini, a sgomberare il terreno dalle favole e dalla retorica del romanticismo operaista.
Primo ad essere liquidato è l’assunto socialista che dà per scontata l’esistenza di un’“anima proletaria” delle masse, quasi che la coscienza di una appartenenza di classe fosse un portato biologico. Non c’è alcun automatismo, dice, per il quale l’appartenere di fatto ad una particolare classe sociale, in questo caso al proletariato, implichi una “coscienza” in positivo di tale condizione (su quella in negativo non c’è problema: se faccio la fame, me ne rendo senz’altro conto), vale a dire implichi anche la percezione della possibilità e della necessità di una azione collettiva di cambiamento (leggi: rivoluzione).“I primi contatti con il proletariato: era lì che cercavo la materia della mia definizione: l’anima proletaria non la trovai. Poi, entrato nella propaganda e nell’organizzazione, vidi il proletariato, che mi parve nel suo complesso quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per motivi ideali o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti pregiudizi, di grossolane ignoranze, di infantili illusioni”.
In realtà le “masse oppresse” sono un’entità molto disomogenea, frammentata e vulnerabile, oltre che facilmente manipolabile, che può trovare un comune denominatore di resistenza e di attacco solo nella conoscenza sociale, economica e storica, ovvero nell’istruzione. Questo denominatore al momento è ancora ben lontano, a dispetto di “una retorica socialista che è terribilmente ineducativa, e i comunisti contribuiscono, più di qualsiasi altro partito d’avanguardia, a perpetuarla. Non contenti dell’”anima proletaria”, hanno tirato fuori la “cultura proletaria”. La “cultura proletaria” esiste, dice Berneri, ma “è ristretta alle conoscenze professionali e all’infarinatura enciclopedica raffazzonata in disordinate letture …. Una persona colta che si occupi ad esempio di scienze naturali e che non abbia conoscenze di matematica superiore si guarderà bene dal giudicare Einstein. Un autodidatta, in generale, ha in materia di giudizi un fegataccio grosso così. Dirà di Tizio che è un filosofucolo, di Caio che è un “grande scienziato”, …” Il che, al di là della generalizzazione polemica, può non piacere, ma è assolutamente vero.
Ma Berneri non si ferma qui. Arriva al dunque, quello di fronte al quale arretrano tutti gli intellettuali “progressisti”: “La dottrina socialista è una creazione di intellettuali borghesi. Essa non è una dottrina del proletariato, ma una dottrina per il proletariato. I principali teorici e agitatori dell’anarchismo, da Godwin a Bakunin, da Kropotkin a Cafiero, da Mella a Faure, da Covelli a Malatesta, da Fabbri a Galleani, da Gori a Voltarine de Cleyre, uscirono da un ambiente aristocratico o borghese, per andare al popolo. Proudhon, di origine proletaria, è di tutti gli scrittori anarchici il più influenzato dall’ideologia e dai sentimenti della piccola borghesia. Grave, calzolaio, è caduto nello sciovinismo democratico il più borghese”. Questo si chiama chiamare le cose col loro nome: anche perché nella connotazione “borghese” della cultura anarchica che Berneri evidenzia non c’è alcuna valenza negativa. “In tutti i campi il passato ci ha fatto eredi di beni inestimabili che non potrebbero venire attribuiti a questa o a quella classe…. Dei sapienti, degli scrittori e degli artisti borghesi ci hanno dato opere di una importanza emancipatrice; invece, degli intellettuali sedicenti proletari ci cucinano dei piatti spesse volte indigesti”.13 Berneri è insomma una sorta di Gobetti “emiliano”, forse meno brillante nella scrittura, ma non meno lucido nell’analisi e nello sguardo sulla realtà.
Mi permetto a questo punto un inciso. Passi per me, che ero un ragazzotto rozzo e sprovveduto, e Berneri lo conoscevo solo di nome: ma è possibile che in tutta la sinistra, nel sessantotto e dintorni, nessuno abbia avuto la ventura di leggere questo opuscolo, e di trovarci già diagnosticata e dissezionata l’ipocrita idolatria del proletariato che ha riempito per quasi due decenni riviste, salotti, cortei? O ancora: è possibile che quando, nel mezzo di una delle famose assemblee congiunte studenti-operai, un lavoratore dell’Ansaldo tagliava corto dicendo: “ragazzi, qui voi state parlando di rivoluzione, noi di un aumento di cinquanta lire l’ora”, fossi l’unico a pensare che quella era la genuina “coscienza proletaria”?
Amici e compagni di viaggio – Messi in soffitta il populismo e il bolscevismo, Berneri non ha esitazioni a denunciare il pericolo “totalitario” latente nello stesso pensiero anarchico, quello cui si accennava sopra. Totalitario può essere infatti anche il rifiuto radicale di ogni forma politica e di ogni istituzionalizzazione, perché suppone un’umanità composta di individui tutti perfettamente consapevoli e concordi sul significato da attribuire al termine libertà, e sull’etica che ne consegue: e dal momento che le cose non stanno così, finisce per trasformarsi in un’attesa indefinita della palingenesi sociale, che esclude ogni possibilità di agire davvero, con qualche risultato, qui ed ora.
Compito di una politica libertaria concreta e coerente è quindi quello di individuare delle soluzioni immediatamente attuabili, che da un lato salvaguardino il più possibile le libertà individuali e dall’altro consentano di sperimentare modelli inediti di aggregazione sociale. Questa ricerca va condotta nell’ambito dell’esistente, e deve sfociare nella continua costruzione dal basso di nuove forme politiche ed istituzionali. Dove non è possibile farlo al di fuori del sistema, si debbono cercare gli interstizi per operare dall’interno, senza esserne fagocitati.
Se vuoi costruire una società libera e giusta, dice Berneri, devi prevedere anche norme, diritti, istituzioni che difendano tale libertà. Questo significa, ad esempio, che va mantenuto un minimo di legislazione penale, e che per far rispettare quest’ultima sono indispensabili anche le carceri e i tribunali. “Un minimo di diritto penale è necessario, così come un minimo i autorità … Credo che l’idea di giustizia sia nel popolo, ma non credo alla giustizia popolare, intesa come giustizia di folle”14 . Semmai “gli anarchici mostrerebbero più intelligenza politica spingendo il popolo a conservare indipendenti dagli organi centrali governativi la polizia e la magistratura comunali”. Allo stesso modo, è certo fondamentale educare ad una concezione “ludica” del lavoro, conferendo a quest’ultimo una “dignità” che non sia puramente ed hegelianamente nominale, ma venga sostanziata da condizioni ambientali, corrispondenza alle attitudini, democraticità di rapporti, gratificazioni economiche e spirituali adeguate: ma va anche contemplata la necessità di una disciplina che integri, dove necessario, il senso individuale di responsabilità.
Ora, nell’esistente ciò che più si avvicina a questo modello è costituito da tutta la tradizione del liberalismo classico, che per un verso, certo, è responsabile di una falsa declinazione della libertà, quella che addirittura ha portato alle degenerazioni nazionalistiche, capitalistiche, colonialistiche, imperialistiche, e da ultimo totalitarie, ma per un altro almeno offre contro lo stesso totalitarismo qualche garanzia, con la difesa radicale della libertà individuale, ad esempio, o con il liberismo in economia. Non si può negare che alcune conquiste, sia pure soltanto sul piano teorico del diritto, sono state rese possibili dal liberalismo. E allora con il liberalismo, quantomeno con la sua versione “rivoluzionaria” (quella propugnata da Gobetti) o con quella “socialista” di Rosselli, è necessario confrontarsi (d’altro canto, “nell’Internazionale gli anarchici furono i liberali del socialismo”).
Per Berneri è pertanto assurdo accomunare nello stesso rifiuto la democrazia, per debole e fittizia che essa sia, con i fascismi e con il totalitarismo, come fanno molti suoi compagni e gli stalinisti ortodossi: prova ne sia il fatto che le batoste maggiori l’anarchismo le sta ricevendo, là dove era più radicato e contava maggiori forze numeriche e culturali, proprio per il crollo dei regimi liberal-democratici.
Partendo dal gradualismo di Malatesta Berneri distingue quindi in fasi il processo rivoluzionario. Questo può realizzarsi passando per un governo autoritario (è il caso bolscevico), e abbiamo già visto come va a finire, oppure attraverso un patto di convivenza tra quelle forze che, ciascuna a suo modo, sostengono la democrazia diretta.
La democrazia diretta non è ancora il compimento dell’anarchismo, ma gli prepara la strada. In questa fase il ruolo degli anarchici è quello di garanti della conservazione del “[…] carattere spontaneo, autonomo, extrastatale…” del regime consiliare, per evitarne le derive autoritarie: ma per farlo devono partecipare. E questo è in fondo è il compito che Berneri immagina per loro anche a rivoluzione compiuta, sia pure in posizione defilata: “Io non concepisco la vittoria degli anarchici nella rivoluzione come predominio politico, bensì come impossibilità di qualsiasi dittatura politica, non solo, ma anche dell’affermarsi di un ordine sociale in cui, pur non essendo soppresso l’antagonismo tra i partiti, prevalga un sistema di rappresentanze di carattere esecutivo prevalentemente tecnico […] In questa negazione della dittatura politica di qualsiasi partito, gli anarchici possono affermarsi non come forza di predominio egemonico, ma forza di equilibrio e di potenziamento. La vittoria sarà nostra a questa condizione, e sarà tanto più nostra quanto meno sarà appariscente la nostra partecipazione agli organi direttivi del nuovo ordine sociale”.
In sostanza, Berneri ipotizza come formula politica cui tendere una democrazia diretta che contempli anche un minimo di rappresentanza, sotto forma di una delega alla gestione di problemi e aspetti “tecnici”, revocabile in qualsiasi momento. In seno a questa democrazia compiuta la partecipazione non andrebbe più a confliggere con la militanza anarchica, ma ne sarebbe anzi il corretto esito, dal momento che l’anarchismo non è il fine, ma lo strumento. E anche lungo il cammino che a questa democrazia deve condurre possono darsi situazioni nelle quali, proprio per evitare arresti o retromarce, partecipare è un dovere.
La democrazia diretta non è però di per sé sufficiente a creare le condizioni per una società realmente libertaria. Deve combinarsi con il federalismo integrale, e solo da esso, anche su un piano prettamente tecnico, è resa possibile. L’avversario ultimo e più pervicace della società libertaria è infatti per Berneri la burocrazia. Tanto nelle “democrazie” borghesi come nei regimi autoritari la burocrazia è lo strumento di oppressione usato dallo stato accentratore – e lo è tanto più in quegli stati che si autodefiniscono “senza classi”. La salvezza dalla burocrazia – e quindi dallo Stato – può venire solo dal federalismo; e non da quello amministrativo, imposto dall’alto, ma da quello frutto di una rivoluzione sociale che produca comuni indipendenti, liberamente federati. Per federalismo integrale Berneri intende quindi un vero e proprio “comunalismo”15, che pone alla base gruppi corporativi come i consigli operai, contadini, professionali, ecc… e al centro un consiglio comunale elettivo, con potere esecutivo: via via poi ci saranno organismi di raccordo, come i consigli provinciali e regionali, sino ad arrivare a quello nazionale, ma con una struttura a piramide rovesciata e con deleghe sempre più ristrette e specifiche16 . Ogni altro tentativo di delegare il potere ad una rappresentanza eletta degenera per Berneri nel dispotismo. L’Anarchia è dunque “un sistema politico in cui al governo degli uomini subentra l’amministrazione delle cose”17.
Le “cose” sono tutto ciò che attiene all’ambito economico. Come abbiamo già visto, per Berneri “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti, mentre sul terreno politico sono intransigenti al cento per cento”. Se dunque la critica allo stato e la negazione del principio di autorità rimangono postulati irrinunciabili, la formula economica anarchica deve essere invece aperta e sperimentale. Guardando a ciò che è accaduto in Russia pensa si debba lasciar agire la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione può funzionare se nasce da una libera scelta, ma non ha alcuna chanche ed è anche profondamente anti-libertaria qualora venga imposta dall’alto. Berneri è un cooperativista, piuttosto che un collettivista: le aggregazioni devono essere spontanee, aperte alla risoluzione e vincolanti solo per quel che concerne alcuni patti e prestazioni fondamentali: per il resto agli individui deve essere lasciata la massima autonomia decisionale rispetto ai tempi, ai modi e alla destinazione delle proprie attività.18 È quindi per il mantenimento della piccola proprietà, per un’imprenditoria privata contenuta entro limiti di scala familiare, che può benissimo convivere e interagire, soprattutto in alcuni settori e non soltanto nel periodo della transizione rivoluzionaria, con un’economia comunitaria: in particolare, non deve essere attuata alcuna requisizione forzata delle produzioni agricole in funzione delle esigenze della città o dell’industria, né alcuna “nazionalizzazione” delle terre. Sarà sufficiente costringere entro regole antispeculative l’economia di mercato. Un regime di concorrenza pulita e di competizione escluderà magari che si possa parlare di una società perfettamente armonica, ma non impedirà di realizzare una società della tolleranza.
In questa opzione almeno parzialmente “ruralista” non bisogna però leggere una qualche nostalgia per la purezza dottrinale originaria dell’anarchismo, anche se è vero che la tradizione anarchica ha sempre avuto un forte radicamento nella cultura contadina e artigiana. Berneri avverte piuttosto la necessità di difendere con coerenza estrema tutti i diritti individuali, compreso quello alla proprietà, ma soprattutto quella di porre dei contrappesi ad una possibile deriva del sindacalismo operaio, che rischia di creare nuove élites e di sfociare in un autoritarismo tecnocratico, oltre che burocratico. Si sottrae insomma a quel mito dell’industrialismo che sta a fondamento di tutto il socialismo moderno, marxista e non, e che ha finito per contagiare anche i suoi stessi compagni anarchici. Il che ancora una volta, e paradossalmente proprio quando si attiene ad una qualche “ortodossia” anarchica, sia pure reinterpretata, ne fa un “eterodosso”.
Giustizia e/o Libertà? – All’atto pratico però, e a dispetto come vedremo anche di una posizione possibilista in contingenze storiche eccezionali, il rifiuto della democrazia rappresentativa rimane uno scoglio sul quale si infrange ogni politica delle alleanze. Esso è all’origine del rapporto conflittuale che oppone il movimento anarchico anche alle organizzazioni antifasciste di natura liberal-socialista, primo tra tutte il gruppo di Giustizia e Libertà creato da Carlo Rosselli. In un primo tempo Berneri ha davvero creduto che GL potesse costituire l’alleato perfetto, tanto contro il fascismo quanto contro il totalitarismo bolscevico. Ma poi, come abbiamo visto, il “realismo politico” che ha condotto i giellisti ad entrare nella Concentrazione Antifascista si è rivelato qualcosa di diverso dal suo “attualismo”, e ne ha portato allo scoperto il carattere essenzialmente moderato e legalitario.
Berneri dà per scontato che le forze rappresentate nell’Alleanza nazionale antifascista, un movimento di tipo allargato, costituzionalista, filo-monarchico e cattolico, o magari anche nella stessa Concentrazione antifascista, che raccoglie un po’ di tutto, con l’unico collante di un nemico comune e della pregiudiziale repubblicana, abbiano un carattere fortemente moderato e temano la rivoluzione quasi quanto, o forse più, del fascismo. Ma attribuisce questo atteggiamento anche a Giustizia e Libertà, ritenendo che in sostanza aspiri a costituire una repubblica conservatrice. Ne La tattica fumogena, del 1932, scritto immediatamente dopo l’adesione di GL alla Concentrazione, dice: “La paura della rivoluzione sociale è, dunque, il principale fattore di successo dell’Alleanza nazionale. Ma tale paura è ugualmente evidente nel programma di Giustizia e Libertà”.
Il rapporto di amore-odio con Rosselli si riapre nel 1935, dopo il lungo periodo di gelo seguito alla vicenda Menapace. È Berneri a rompere il ghiaccio, con una lettera pubblicata su Giustizia e Libertà del 6 dicembre 1935 in risposta ad un ex anarchico passato nelle fila gielline. Il tono è naturalmente polemico, ma gli argomenti risultano un po’ forzati: “L’anarchismo contemporaneo ha nella propria breve storia San Martino e San Francesco in Cafiero e in Fromentin, milionari prodighi di tutta la loro fortuna; principi passati dalla reggia al tugurio e al carcere, come Kropotkin e Bakunin, scienziati insigni non disdegnanti le più umili attività propagandistiche, come i fratelli Réclus, […]”; il senso finale è: “Gli anarchici non sono disposti a fare, in seno a G.L., la parte che il rosmarino fa nell’arrosto. Essi hanno un programma proprio, un movimento proprio, e tra i giellisti non possono cercare e trovare che scambi d’idee, impostazioni di problemi, riesame di teorie”. In parole povere: non avete nulla da insegnarci, anzi, avete imparato tutto da noi.
Rosselli risponde a stretto giro di posta, sullo stesso numero della rivista: dà atto dei meriti dell’anarchismo, ma gli rinfaccia di faticare a prendere contatto con le nuove realtà, e la nuova realtà sono i problemi della lotta antifascista. Che intenzioni hanno gli anarchici? Mantenersi fedeli all’assoluto libertario, rimanendo una setta a parte, o concorrere prima alla lotta contro la dittatura e poi alla costruzione di un nuovo grande libero movimento italiano? Questo è il vostro problema, socialisti anarchici, scrive Rosselli: ma poi lancia ancora un appello: “La futura possibile linea di frattura delle forze rivoluzionarie … avverrà presumibilmente in relazione alle antitesi: autorità-libertà; dittatura-autonomie; socialismo o comunismo dispotico o centralizzatore-socialismo o comunismo democratico federalista liberale. L’esperienza russa è lì a dimostrarci che … può riuscire facile ad una minoranza armata impadronirsi dello Stato mettendo a tacere tutte le altre correnti. Guai se i fautori di un socialismo liberale e libertario saranno divisi in dieci gruppi e sottogruppi […] Mentre noi staremo a disputarci entro che limiti debba contenersi un potere centrale, altri faranno di questo potere centrale la macchina inesorabile che tutti ci schiaccerà”. In sostanza Rosselli sostiene che contro il nemico del presente è necessario un percorso unitario, che questo percorso deve creare le premesse antiautoritarie per il futuro della rivoluzione e che le discussioni sul dettaglio istituzionale debbono essere rimandate semmai a dopo la vittoria.
La controreplica di Berneri compare su Giustizia e Libertà il 27 dello stesso mese di dicembre, ed usa toni più concilianti. Inizia proprio sottolineando come si tratti di un “nostro” problema, ovvero rivendicando la libertà della scelta isolazionista e possibilistica dell’anarchismo: e giustifica questa scelta alla luce delle recenti disillusioni venute dalla rivoluzione russa, del superamento del determinismo storico di origine marxista, della rilettura “attualistica” dei maestri dell’anarchismo. Scrive: “L’ortodossia stessa non è, nel campo nostro, che la cristallizzazione del revisionismo. Malatesta, ad esempio, si è sempre differenziato da Kropotkin su moltissime questioni pratiche e moltissime impostazioni teoriche. E Fabbri mi diceva, un giorno: ‘É necessario che noi, vecchi, moriamo perché l’anarchismo possa rinnovarsi’. L’anarchismo è più che mai fermentato da impulsi novatori, e alla propaganda generica, tradizionalista, prevalentemente dottrinaria sta subentrando ovunque un problemismo salveminiano precursore e nuncio di programmi aderenti a questa e a quella soluzione rivoluzionaria”. Un modo per dire che il vecchio anarchismo delle grandi barbe e dei dogmi irrinunciabili è finito.
I nuovi anarchici non sono però “possibilisti” al punto di tapparsi il naso e fare causa comune con chiunque avversi il fascismo: sanno cosa vogliono, e sanno che per ottenerlo devono preservare la loro diversità. Quindi si riservano un percorso autonomo, che consenta loro di mantenere il ruolo di garanti contro le tentazioni totalitarie del giacobinismo, ma anche contro quelle stataliste dei liberal-democratici. La possibilità di un’azione unitaria con GL è pertanto subordinata all’adesione di quest’ultima ad un progetto autenticamente federalista. In caso contrario gli anarchici sarebbero chiamati ad un certo punto a svolgere un ruolo governativo assolutamente antitetico con gli interessi del movimento rivoluzionario, bruciandosi ogni possibilità e ogni credenziale di baluardo anti-stato.
Proprio perché questa è la discriminante per una possibile alleanza, Berneri ritiene di dover tornare una volta per tutte sull’idea anarchica di federalismo. Il federalismo libertario differisce da quello autonomista-legalitario di un Ferrari o di Cattaneo, al quale Rosselli fa riferimento nella sua risposta, perché il secondo propone una concezione democratica dello Stato. Il federalismo libertario, quello di Bakunin, di Cafiero, di Malatesta, l’esistenza di uno Stato, democratico o no, non la contempla: ne sono state date diverse interpretazioni, da quella “sindacalista” a quella sovietica, ma la più compiuta e anarchicamente coerente rimane quella comunalista di Kropotkin. Su questa base, e solo su questa, si può parlare di alleanze.
L’ultima parola spetta naturalmente a Rosselli: la rivista in fondo è sua.
Mi sono soffermato a lungo su questo dibattito perché mi sembra riassumere efficacemente le conclusioni cui Berneri perviene, in un momento cruciale del suo percorso, rispetto al problema della collocazione “tattica” dell’anarchismo. Tornerà a più riprese sul tema nel corso della guerra civile spagnola, ma allora sarà l’urgenza a dettare di volta in volta, convulsamente e in mezzo a mille contraddizioni, gli atteggiamenti da assumere. Qui invece ci dà l’occasione per tirare un po’ le somme di un percorso che in effetti può apparire tortuoso, pur nella sua coerenza.
Abbiamo visto che Berneri insiste sulla necessità per gli anarchici di passare alla concretezza e di tenersi pronti a cogliere ogni evenienza storica. Questo significa che nella fase rivoluzionaria, laddove non sia possibile gestirla in toto (e nella realtà questa evenienza non è mai data), occorre tener conto di potenziali alleati e della necessità di passaggi graduali. Il che può apparire logico e scontato per chiunque, ma per gli anarchici, a partire dalla rottura del 1872 con l’Internazionale, non lo era affatto. Le alleanze “naturali” indirizzano infatti verso movimenti che in parte perseguono gli stessi fini, ma nella sostanza viaggiano in direzioni ben diverse. La lezione russa ha insegnato che il totalitarismo può anche vestire panni rivoluzionari, e si annida in ogni richiamo demagogico ad un presunto “spontaneismo popolare”. Il campo di scelta delle alleanze si restringe quindi ai movimenti che garantiscano la salvaguardia di un certo livello di libertà individuale, in sostanza quelli eredi del liberalismo democratico.
A questo punto il problema diventa quello di come tradurre in pratica le alleanze: procedere ad una azione congiunta, partecipando in prima persona a tutte le fasi della dialettica politica, o agire come fiancheggiatori, tenendosi fuori dal gioco e riservandosi un ruolo di vigilanza contro possibili involuzioni? La prima possibilità si dà solo in presenza di una comunità di intenti in direzione di un federalismo autenticamente libertario, quindi non si dà, perché non si capisce dove starebbe la differenza degli altri movimenti dall’anarchismo; la seconda è quella che Berneri ritiene praticabile, a certe condizioni. C’è infatti un limite nella discesa al compromesso, al di sotto del quale l’idealità anarchica non ha più ragione d’esistere, e quel limite Berneri non lo vuole passare. Un programma anarchico, per quanto adattato alle circostanze e ridotto all’osso, non può contemplare la scelta tra diversi modelli di stato, ma deve necessariamente perseguire la riduzione della presenza dello stato al minimo indispensabile.
Berneri non è però, come abbiamo visto e come vedremo ancora, a proposito della vicenda spagnola, un amante degli steccati e dei confini tracciati a tavolino. Ogni situazione ha le sue peculiarità, impone velocità, ritmi, a volte anche percorsi diversi. Non esiste quindi “una” tattica, esiste un atteggiamento tattico, fondato sulla concretezza delle situazioni e mirante alla concretezza delle realizzazioni. Ciò che deve rimanere invariato è la direzione, e quella ha da essere ben chiara.
A Berneri è stato contestato dalla storiografia dell’anarchismo, e soprattutto da Giampietro Berti, un eccesso di disinvoltura nell’applicazione del suo “attualismo”. Non solo. La domanda implicita è se, arrivato alla fine del suo processo di revisione, Berneri possa ancora essere considerato a tutti gli effetti un anarchico. Berti sottolinea inoltre, e direi giustamente, come Berneri spesso non abbia colto le cause profonde dei fenomeni (ad esempio, quando fa discendere direttamente il regime fascista dal liberalismo giolittiano, definendo Giolitti come levatrice del fascismo, mentre per Berti la politica rinunciataria di Giolitti è dettata dalla debolezza del sistema, non da una congenita spinta all’autoritarismo). Sono rilievi leciti: è probabile che Berneri abbia azzardato o forzato alcune interpretazioni storiche, ferma restando la scusante di una situazione che non gli garantiva la lucidità e il distacco necessari per leggere correttamente situazioni tanto complesse: oppure che il suo “attualismo”, pur nella intrinseca coerenza, risultasse difficile da capire per compagni intellettualmente molto meno duttili: ed è infine anche vero che in qualche caso il difetto stava già a monte, nel punto di vista adottato.
Credo però che rispetto ad una figura e ad una vita come quelle di Berneri ci si debba porre in modo diverso. Non sono la capacità di cogliere il dato storico o la coerenza della teorizzazione politica il metro col quale lo si può giudicare (senza peraltro dimenticare che nella lettura dei fenomeni e degli accadimenti dell’epoca la gran parte dei suoi contemporanei andò incontro ad abbagli ben più gravi). Berneri va preso per quello che è, una figura moralmente diversa, eccezionale. Il suo lascito non è quello dell’analisi storica o politica (anche se, a mio giudizio, il suo contributo è tutt’altro che trascurabile): è quello dell’esemplarità etica. Ed è di questo che mi preme davvero parlare.
Un agnosticismo programmatico – Torniamo così alla questione di fondo che ha continuato ad emergere di volta in volta sotto l’attualismo e il pragmatismo tattico professato da Berneri: se ci si deve adeguare alle contingenze storiche, ciò significa che anche la morale deve essere relativizzata?
No, certamente, dice Berneri. Esiste un’istanza che si esprime sempre e comunque, al di là dei tempi e delle situazioni (in questo senso è molto kantiano): essa si declina e si accresce storicamente, nel senso che di volta in volta prenderà le forme relative ai problemi più urgenti, ma è presente comunque al di là della storia, è universale. L’istanza è quella del dovere, fondata su una coscienza che ci suggerisce cosa è giusto e cosa è sbagliato e ci impone di comportarci in modo tale da promuovere il bene massimo per l’umanità. Il bene massimo è quello della libertà, il dovere è quello di rivendicare la propria nel rispetto e nella salvaguardia di quella altrui. Ogni vera morale si fonda su questa innata e insopprimibile esigenza, anche quando non ne riconosca l’origine autonomamente umana. E questo ci porta al rapporto con la religione, che è uno degli aspetti più controversi del pensiero di Berneri.
La religione non è per Berneri né oppio dei popoli né puro strumento di dominio: è una delle forme in cui l’istanza morale si esprime: anzi, è la forma più universalmente diffusa. E questa forma non la si può ignorare, o liquidare sprezzantemente come superstizione. Con essa ci si deve confrontare. Egli sottolinea giustamente come l’ateismo assoluto non sia in sostanza che un teismo di segno rovesciato. Se secolarizzo tutto e traduco l’idea di Dio in una immanenza storica, non faccio che trasferire sulla terra il dogmatismo che prima rapportavo ad una presenza ultraterrena. In questo vede lontano: il materialismo consumistico in fondo genera altri rituali, altre liturgie, altre pressioni comportamentali. Non solo: la rivendicazione di laicità, nelle forme nelle quali è stata comunemente avanzata, rischia di ridursi ad un accanimento sulla necessità di dimostrare la non esistenza del presupposto fondamentale della religiosità. Questo significa in realtà automaticamente evocare il divino, facendolo esistere quanto meno come non-essere. Quindi, con grande scandalo degli anarchici “puri”, Berneri si professa non ateo, ma agnostico: e forza il paradosso, condannando anche l’anticlericalismo.
L’occasione per riflettere sul tema è offerta dalla firma dei Patti Lateranensi. Berneri naturalmente condanna l’accordo, ma vuole chiarire che lo fa da una posizione che non è quella genericamente e pregiudizialmente anticlericale. I patti non gli piacciono perché non riguardano il rapporto dello stato con la libera associazione dei cattolici, ma quello con una sorta di monarchia assoluta. La libertà di associazione non consiste, per lui, semplicemente nella possibilità di costituire un gruppo con una struttura propria: implica la libertà di seguire e professare determinati principi, che permettano di realizzare per quanto possibile e compatibile con le istanze di altri gli scopi del gruppo.
La Chiesa è appunto un’associazione e va rispettata come tale, anche nella libertà del suo culto e delle sue istituzioni culturali ed educative. Soprattutto in Italia la laicità di tutte le istituzioni nazionali appare illiberale, dal momento che i cattolici sono nel paese la maggioranza. Non solo: nel momento in cui si attua una netta separazione dello Stato dalla Chiesa e si riconosce a quest’ultima una struttura “statale”, la si disconosce in quanto associazione. La Chiesa finisce quindi per essere considerata come una istituzione autonoma: un vero e proprio Stato, con una sua autorità temporale (territoriale, giudiziaria, monetaria, ecc.), un governo, una monarchia elettiva: e in quanto Stato per Berneri è naturalmente intollerabile.
La Chiesa però non è soltanto il clero, è anche e soprattutto la “comunità” dei cattolici: e a questi, mentre sono da un lato soggetti a tutti gli obblighi e tributi imposti dallo Stato laico, viene poi in pratica negato il diritto associativo. Paradossalmente la laicità, che dovrebbe essere garante di libertà, si risolve nella negazione parziale dei diritti di una maggioranza del paese, ed è proprio lo Stato “democratico” a perpetrare questa negazione.
Senza arrogarsi alcun ruolo di riformatore religioso, semplicemente applicando alla Chiesa le proprie idee politiche e sociali, Berneri prova a leggerne e valorizzarne le valenze “libertarie”. Sulla base dei propri principi fondanti la chiesa potrebbe organizzarsi come una democrazia con delega rappresentativa: i fedeli nominano i vescovi, questi scelgono i cardinali, i cardinali eleggono il papa, riconoscendolo non come sovrano ma come capo dell’associazione.
Una repubblica davvero democratica non dovrebbe poi esercitare alcun controllo sui beni ecclesiastici e sulle nomine vescovili: ma non deve nemmeno cadere nell’errore opposto, quello di difendere la Chiesa come Stato e proprietà. Piuttosto, sarebbero semmai da liquidare, da parte dei cattolici stessi, tutte le proprietà ecclesiastiche per realizzare opere di benessere sociale, come la costruzione di scuole e ospedali. In definitiva, se i cattolici riconoscessero il Papa come loro capo e non come re la Chiesa potrebbe essere considerata una associazione rivoluzionaria: ma finché conserveranno la Chiesa-Stato dietro la facciata della Chiesa-associazione, saranno combattuti dai veri rivoluzionari.
Ben oltre l’”attualismo” – Accanto a quello sulla religione Berneri sforna un’incredibile serie di altri scritti, dedicati a tematiche che potrebbero sembrare marginali, per l’apparente occasionalità e per la distanza dall’ambito più propriamente “politico”. Si occupa delle cose più lontane tra loro, dal giovanile Le menzogne del vecchio testamento a Il peccato originale o Il Leonardo di Sigmund Freud, e c’è da chiedersi quando trovi il tempo, se non nei periodi di detenzione, per documentarsi. Non c’è fenomeno o argomento che non lo interessi e rispetto al quale, nei limiti della condizione sempre precaria nella quale si trova a lavorare, non senta la necessità di un approfondimento. Chi lo ha conosciuto parla di una curiosità onnivora unita ad un’impressionante capacità e sistematicità di ricerca19 . Ai compagni che gli si rivolgono per informazioni sui temi più disparati chiede un paio di giorni, poi fornisce loro dei dossier incredibilmente corposi, messi assieme con ritagli e documenti di ogni genere20. Una delle tante occupazioni con cui sbarca il lunario è in effetti per diversi anni quella di raccogliere e organizzare degli archivi documentali per Gaetano Salvemini.
Non si tratta comunque solo di curiosità: nell’interpretazione di Berneri tutto si tiene, in un quadro d’insieme che gli fornisce un terreno d’analisi ben più ampio e solido di quello della pura teoria politica. Non si possono tirare somme del presente o praticare ricognizioni storiche senza mettere in conto tutti i fenomeni culturali e sociali più significativi. L’uomo non è un animale puramente politico: prima che politico è un animale, oltre che politico è un uomo. E nemmeno è solo un soggetto economico: le sue azioni, le sue speranze e le sue paure non sono dettate unicamente dalla ricerca dell’utile o dall’urgenza del bisogno. Non rendersi conto di questo è miopia, non accettarlo a dispetto di ogni evidenza è criminoso.
La rapidità con la quale si succedono gli eventi (la crisi economica, l’ascesa di Hitler, l’esplosione del razzismo antisemita) offre un’infinità di spunti e materiali per questa ricognizione a tutto campo. La crisi è letta ad esempio da Berneri, a differenza di altri pensatori che ci vedono il crollo del capitalismo, come una forma di assestamento, una malattia di passaggio del capitalismo da una sua modalità ad un’altra. Le contraddizioni interne al sistema esplodono, ma solo per sgomberare il terreno e fare spazio ad un modello nuovo. Nel frattempo creano macerie, non solo economiche ma anche, e soprattutto, culturali.
Nel 1934 Berneri dà, ne La frenesia razzista, un’interpretazione dell’hitlerismo alla luce della sua esperienza con il fascismo. Non lo considera un momento di distrazione della razionalità (secondo la formula di Croce), isolato e localizzato in una nazione colpita dopo la sconfitta da una serie di tracolli economici: ci vede invece la reificazione di una insensatezza collettiva (Berneri parla di “pazzia”) che sta dilagando in tutto il vecchio continente. Aveva già denunciato il fenomeno nell’immediato dopoguerra, mettendo sotto accusa un mondo intellettuale, anche di sinistra, che giocava col fuoco dell’irrazionalismo: ora l’incendio appiccato è sfuggito al controllo e fa strage del libero pensiero, annunciando una tragedia immane21. Tutti quei principi morali che stavano a fondamento della libera convivenza tra i popoli sono tranquillamente ripudiati, e monta anche a livello delle masse una pulsione razzista, segregazionista, autoritaria, senza che si scorga alcun indizio di una qualsiasi capacità collettiva di reazione. Ciò che accade in Germania, dove esponenti del pensiero libertario come Musham e Lessing sono stati tra i primissimi a pagare con la vita la loro opposizione, è terrificante, ma anche le notizie dall’Italia sono sconfortanti. Più che mai, di fronte alla marea devastante del nazionalismo, Berneri sente la necessità di cancellare ogni appartenenza nazionale e di affermare il valore di una cittadinanza universale per ogni individuo.
Il precipitare degli eventi lo induce l’anno successivo ad affrontare un’altra fondamentale ed attualissima tematica, in genere sottaciuta dalla sinistra, che in proposito continua ancora oggi a vivere un ambiguo imbarazzo: quella dell’antisemitismo. Ne Le Juif antisemite, opera del 1935, Berneri distingue tra anti-ebraismo e anti-semitismo. L’anti-ebraismo è un atteggiamento teologico e filosofico, di matrice cristiana, diffuso dai primi secoli della nuova era sino a tutto il medioevo, e va distinto dall’antisemitismo, che è invece una teoria razziale, frutto della modernità. È vero che spesso, ad esempio nell’atteggiamento cristiano moderno, le due cose vengono confuse; ma la repulsione antisemita veicola qualcosa che va ben oltre l’odio verso una tradizione religiosa. Ad essere odiato è un simbolo, prima ancora che una razza, o meglio è una razza che simboleggia un modo di essere, una possibilità diversa di esistenza. Per dimostrare questo Berneri analizza innanzitutto il fenomeno dell’odio di sé che ha caratterizzato molti ebrei e parte della cultura ebraica dopo l’emancipazione22. Dopo aver passato in rassegna i convertiti e gli apostati che hanno servito in ogni tempo e in ogni luogo l’antisemitismo, dalla Spagna di Isabella alla Germania e alla Russia zarista, si sofferma sulle peculiarità di questo atteggiamento nel Novecento, in personaggi come Paul Ree, Arthur Trebitsch, Max Steiner, lo stesso Walter Rathenau (il quale ha pubblicato nel 1897 un Hore Israel (Ascolta Israele, che è un vero manifesto antisemita) e soprattutto Weininger.23 Attraverso quest’ultimo ha modo di mettere in relazione l’antisemitismo e la misoginia, come due espressioni analoghe e coincidenti di condanna e di discriminazione verso il debole. Attacca anche Marx, per la sua posizione liquidatoria sulla questione ebraica. Precorrendo i tempi della Shoà Berneri scrive che “se non si presterà attenzione l’antisemitismo sarà ancora per lungo tempo all’ordine del giorno della stupidità umana”. La cosa più triste è che il suo Le Juif antisémite viene attaccato nel 1937 dalla rivista fascista La Nostra Bandiera, degli ebrei di Torino, che solo un anno più tardi saranno bruscamente svegliati dall’introduzione delle leggi razziali anche in Italia.
Berneri chiude il suo saggio con un Hore Israel di tono ben diverso da quello di Rathenau. Il suo appoggio al mondo ebraico è dovuto al fascino che per prova per i senza patria: “sono i senza patria i più adatti a formare le basi della grande famiglia umana”. Il suo modello ideale è quello di un ebreo cosmopolita capace superare l’impasse tra assimilazione e ortodossia, tra l’assimilazione e nazionalismo. Esiste una terza possibilità, quella della missione. Il popolo ebraico, proprio perché privo di una terra e perseguitato dall’antisemitismo nazista, oltre che dagli altri regimi che stanno adottando il razzismo tra i propri principi, può diventare l’emblema della lotta di ogni popolo per la difesa della propria identità e al tempo stesso fare da tessuto connettivo per la realizzazione di un mondo senza confini.
Il percorso che dovrebbe condurre a tale obiettivo, passando anzitutto per il superamento da parte degli ebrei stessi della propria condizione d’inferiorità psicologica, è quello del riscatto individuale. È questo, alla fin fine, il punto di approdo di tutte le analisi di Berneri, e quello di partenza per le sue utopie.
Lo stesso discorso vale infatti anche per l’altra categoria discriminata e “razzialmente” vilipesa. Berneri analizza ne “La garçonne e la madre” quello che considera una sorta di odio di sé femminile: e lo fa alla sua maniera schietta e sbrigativa (“la coscienza di aver compiuto una buona azione, mi ha permesso di vincere la riluttanza a pillolizzare una trattazione che sarei stato portato a condurre con larghezza” scrive nella prefazione). Certamente, il suo opuscolo non rischia di diventare un classico dell’emancipazione: prende lo spunto dai diversi modelli di “liberazione” e di “parificazione” femminile, sul piano sessuale, su quello lavorativo, ecc…, per concludere che il ruolo della donna è quello di custode del focolare e della serenità familiare, nonché di prima e fondamentale educatrice dei figli. Non risparmia gli stereotipi, compresi quelli pseudo-scientifici relativi alla maggiore o minore intensità del desiderio sessuale femminile, e porta a testimonianza persino Lombroso e Neera. Ma… è comunque Berneri: e non parla a vanvera. In primis, attacca l’idea che l’emancipazione possa passare per la “libertà” sessuale, anche perché, sottolinea, “nella donna l’istinto sessuale è vivo, ma fuso e confuso con l’istinto della maternità. Questa fusione ha una base anatomica e nessi fisiologici evidenti. Al carattere sperperatore della vita sessuale maschile corrisponde la funzione prettamente sociale dell’uomo, mentre al carattere economizzatore della vita sessuale femminile corrisponde la funzione prevalentemente biologica e familiare della donna”. Semmai, non di una conquista della “libertà”, termine che nell’ambito sessuale assume significati ambigui, occorre parlare, quanto piuttosto di quella del rispetto da parte maschile; e questo è possibile solo attraverso una crescita culturale che non può realizzarsi disgiuntamente. Liquida poi il concetto di una parità raggiungibile attraverso l’espletamento delle stesse funzioni lavorative dell’uomo: tutt’altro, dice Berneri. Farsi simile all’uomo è solo un modo per rinnegare la propria specificità: e comunque il lavoro, quando si svolga nelle attuali condizioni di dipendenza, costrizione e alienazione non libera nessuno.
Ciò che colpisce è che le sue posizioni nascono da un senso reale e sentitissimo di pietà e di rabbia per la condizione femminile (c’è un pezzo bellissimo sulle zitelle), ma hanno poi un fondamento proprio nell’idea di società anarchica, che deve avere come suo fulcro la famiglia. Berneri si rende conto che la disgregazione di quest’ultima è in realtà funzionale solo alla logica del lavoro “coatto” e alle esigenze di una società produttivistica e consumistica.
La dignità del lavoro – Proprio alla concezione del lavoro sono dedicati altri due scritti di questo periodo, Il cristianesimo e il lavoro, del 1931, e Il lavoro attraente, del 1934. Al solito, Berneri non ha né il tempo né la tranquillità necessaria per una trattazione approfondita, ma riversa nelle sue pagine una marea di spunti e di riferimenti. Nel primo ripercorre il rapporto tra la religione occidentale e il lavoro, e ne ricostruisce le trasformazioni a partire dalla Bibbia. Quello più interessante è però il secondo, che mette a fuoco una concezione del lavoro ispirata ad un senso “protestante” della dignità. Parte di lontano: “Le antiche mitologie presentano il coltivatore come un reprobo scontante un peccato di ribellione. Adamo, universale progenitore, è l’angelo caduto dal paradiso dell’ozio all’inferno del lavoro”, ma dieci righe dopo è già al dunque: “Per la morale cristiana il lavoro è imposto da Dio all’uomo come conseguente pena del peccato originale. Il Cattolicismo antico e quello medioevale nobilitano il lavoro specialmente come espiazione. Anche per la Riforma il lavoro fu «remedium peccati», benché Lutero e Calvino superassero San Tommaso, preannunciando la concezione moderna del lavoro come dignità, concezione abbozzata dai maggiori pensatori del Rinascimento”. Senonché “il moralismo borghese trasferì nel campo della morale civica il principio del dovere del lavoro, ed inventò una mistica nella quale lo sfruttato servile veniva monumentato come «cavaliere del lavoro», come «fedele servitore», come «operaio modello», ecc.” e questo a fronte del progressivo peggioramento delle condizioni dello sfruttamento nel passaggio dalla società artigiana e contadina a quella industriale, col prevalere del fordismo e della logica capitalistica. Evidentemente, non di una mistica si tratta, ma una mistificazione.
I principi del dovere del lavoro e della dignità ad esso connessa rimangono tuttavia per Berneri una conquista della civiltà, un esito della progressiva “umanizzazione” della storia. Tutto sta ad intendersi. Stiamo parlando infatti di qualcosa che ha nulla a che vedere con l’umiliazione e lo sfruttamento regnanti nell’attuale rapporto di lavoro: “Se l’officina aspira ad essere non soltanto il luogo del lavoro fisico, ma il luogo della dignità, dell’orgoglio e della felicità, si comprende che essa debba perdere qualsiasi somiglianza con quello che chiamiamo officina nei nostri paesi”. E fin qui siamo nel solco di una lunghissima tradizione che in misura e in modi diversi ha auspicato un riscatto della fatica da pena a fonte di soddisfazione.
La possibilità di un “lavoro attraente” è già espressa infatti nella cultura antica, a partire da Esiodo, e torna in epoca moderna, nella versione estremizzata di Rabelais, che pone ai Telemiti la regola “fai quello che vuoi”, ripresa poi in quasi tutte le utopie letterarie e sociali24. Fourier, ad esempio, sviluppa il principio del lavoro attraente indicandone le condizioni nella varietà e nella breve durata, mentre il lavoro gradevole e senza fatica è una delle realizzazioni socialiste preannunciate nel Voyage en Icarie (1840) di Etienne Cabet. Un po’ più abbottonato è Marx, che parla di lavoro non alienato, ma non arriva a pensare che possa diventare una ricreazione, una gioia, un vero piacere, come sosteneva invece Zola, e come affermeranno gli anarchici, Kropotkin in testa.
L’eterodossia di Berneri viene fuori a questo punto, quando ponendo il problema in termini apparentemente teorici, rapportandolo cioè ad una ipotetica futura società “liberata”, il lodigiano va poi a sollevare una questione attorno alla quale gli anarchici e gli utopisti in generale hanno sempre glissato: siamo così sicuri che in tale società “nessuno si crederà dispensato da un lavoro che l’unanime concorso degli sforzi renderà attraente e vario?” Che detto in termini molto più diretti, suona: siamo sicuri che non ci siano dei pelandroni tali per natura? E nel caso, come ci comportiamo con loro?
È una domanda che va posta, e non solo in vista di una società liberata, che pare piuttosto lontana a venire, ma da subito, mentre se ne gettano le fondamenta. Berneri si chiede: “Si può anche essere convinti che verrà un tempo in cui nessuna coazione sia necessaria per far sì che tutti lavorino; ma il problema attuale è questo, per noi; caduto il regime borghese, la produzione deve essere del tutto libera, ossia affidata alla volontà di lavorare della popolazione?” Ovvero, nella fase di transizione, che non si sa quanto lunga (proprio per la sua concezione dell’anarchismo Berneri tende a considerarla a tempo indeterminato), in attesa che il nuovo ordine vada a regime, quanti saranno disposti ancora a lavorare? “Uno dei pericoli della rivoluzione sarà appunto l’odio per il lavoro che essa erediterà dalla società attuale. Noi ce ne siamo accorti nei brevi momenti in cui parve che la rivoluzione battesse alle porte. Troppa gente, fra la povera gente, troppi lavoratori credevano sul serio che stesse per venire il momento di non lavorare o di far lavorare unicamente i signori”.
Pensare di non dover più lavorare è ben diverso dal credere che ogni lavoro diverrà un’occupazione piacevole e varia. Il fatto è che quando Kropotkin parla di lavoro piacevole dice: “Nel lavoro collettivo compiuto con gaiezza di cuore per raggiungere lo scopo desiderato – libro, opera d’arte, od oggetto di lusso – ognuno troverà lo stimolante, il sollievo necessario per rendere la vita gradevole”, ma non cita come prodotti di questo lavoro pezzi meccanici, oggetti di stretta necessità, materie prime magari maleodoranti, zolfi o carboni di miniera, ecc. Berneri parla invece di qualcosa che ben conosce: “Mi alzo alle cinque, rientro alle sette di sera, ceno e vado a letto. Il lavoro (manovale muratore) mi fiacca talmente che persino tenere la penna in mano mi costa sforzo e pena”25.
È evidente che già oggi ci sono uomini che lavorano di continuo senza pena, anzi con un senso di soddisfazione, e sono gli scienziati, i pensatori, gli artisti: ma gli altri? “Nella società attuale basata sulla lotta e sulla concorrenza, il lavoro è nella maggior parte dei casi una servitù, per molti addirittura (specie pel lavoro manuale) un segno di inferiorità. La maggioranza lavora perché vi è costretta dal bisogno e dal ricatto della fame”.
È difficile credere che questa immagine negativa del lavoro possa essere immediatamente ribaltata. Si può auspicare che i lavoratori siano sempre più sollevati dalla fatica, dal disagio e dalla noia con lo sviluppo della tecnica, ma per il momento “[…] che cosa sostituirà la spinta del bisogno e il desiderio del guadagno, in una società che assicuri a tutti almeno la soddisfazione dei più elementari bisogni, in cui lo spettro della miseria e della fame non sia più un pungolo per alcuno, in cui la rimunerazione individuale sia sostituita dalla distribuzione dei prodotti a seconda dei bisogni, indipendentemente dal lavoro compiuto?” In verità, pensa Berneri, anche quando il lavoro diventerà meno pesante e meno pericoloso e cesserà di essere nocivo e penoso, tarderà comunque a diventare attraente, e non sarà mai tanto attraente da fare sparire gli oziosi. Quindi occorre accettare il fatto che i pigri esistono, e che “la regola del comunismo integrale – da ciascuno secondo le sue forze, a ciascuno secondo i suoi bisogni – non vale che per coloro che l’accettano, accettandone naturalmente le condizioni che la rendono praticabile”.
Ecco come conclude Berneri, citando quasi integralmente uno scritto di Malatesta: “Una rivoluzione di gente che non avesse voglia di lavorare, o anche solo che pretendesse di riposarsi per un po’ di tempo o di lavorar di meno, sarebbe una rivoluzione destinata alla sconfitta. Sotto l’aculeo della necessità si formerebbero al più presto degli organismi di coercizione che, in mancanza del lavoro libero, ci ricondurrebbero ad un regime di lavoro forzato e, per conseguenza, sfruttato.
Una società anarchica vi sarà non solo quando saranno stati vinti dalla rivoluzione i nemici della libertà ed abbattuti gli istituti che rendono impossibile ogni realizzazione libertaria, ma anche quando vi sarà un numero di individui (che vogliano vivere e organizzarsi anarchicamente) sufficiente a tenere in piedi una loro società, che possa bastare economicamente a se stessa ed abbia forza di reggersi e difendere la sua esistenza. L’esistenza di individui che «vogliono vivere anarchicamente» presuppone che essi «abbiano voglia di lavorare»; altrimenti non vi sarebbe alcuna anarchia possibile.
Il lavoro, anche in anarchia, dovrà quindi rispondere alle necessità della produzione, per soddisfare tutti i bisogni individuali e sociali della vita comune; dovrà essere organizzato cioè secondo le richieste di prodotti da parte di tutti, e non certo al semplice scopo di esercitare i muscoli ed il cervello dei produttori. Può darsi che in molti casi l’utile possa coincidere col dilettevole; ma ciò non è possibile sempre; e dove tale coincidenza non vi sarà, l’utile sociale dovrà avere il sopravvento.
Di qui la necessità di una disciplina del lavoro. Se questa disciplina sarà concordata e liberamente accettata, senza bisogno di coercizione, da un numero tale di individui, sopra un territorio abbastanza esteso, da costituire una società, questa sarà una società «anarchica»”.
Siamo ben lontani da quel “rifiuto del lavoro” che nelle formulazioni più disparate ha caratterizzato la contestazione degli anni sessanta, sposandosi peraltro in maniera contraddittoria con la rivendicazione del diritto all’occupazione, e che ancora rimane una bandiera di tutti gli pseudo-anarchismi odierni (il che spiega la scarsa considerazione odierna per Berneri in quegli ambienti). Soprattutto, non c’è traccia del giustificazionismo ad oltranza nei confronti di coloro che dietro la facciata della guerra al sistema mascherano un sostanziale e asociale egoismo, e che sono stati invece tollerati e incoraggiati, o almeno difesi, da una sinistra politica e sindacale sempre più attenta alle tessere e ai voti che non ai principi.
Queste cose Berneri le ha scritte a metà degli anni trenta. Per chi ha respirato per tutta la seconda metà del ‘900 la retorica del “santo lavoratore”, costruita in genere proprio da quelli e su quelli che a lavorare non ci pensavano proprio, e che in una società autenticamente anarchica sarebbero stati buttati fuori a calci, suonano politicamente molto scorrette. Probabilmente lo erano già allora, anche se, a dispetto delle condizioni in cui lo si svolgeva, in quegli anni il lavoro era forse affrontato con un senso di responsabilità e di identificazione diverso. Berneri soffriva con largo anticipo un disagio che molti oggi, a sinistra, conoscono. E aveva il coraggio di esprimerlo, di dargli voce, a costo di essere mal sopportato. Se lo poteva permettere, proprio perché incarnava l’esempio vivente di come si deve lavorare e ci si deve comportare per essere veramente “rivoluzionari”.
Spagna: l’ultimo sogno – E torniamo alla vicenda umana di Berneri, che sta viaggiando velocemente e tragicamente verso l’epilogo.
Il 17 Luglio 1936, a seguito di un alzamiento26, scoppia in Spagna la guerra civile. Il piano dei golpisti riesce solo in parte, soprattutto per la pronta reazione dei volontari anarco-sindacalisti (già il 23 luglio a Barcellona si costituisce il Comitato centrale delle Milizie antifasciste). Nelle mani degli insorti ci sono comunque quasi tutto il nord (con Pamplona, Saragozza, Burgos e Salamanca) e il Marocco: di lì a poco cadranno anche Siviglia e Cadice. Madrid e Barcellona rimangono invece sotto il controllo della repubblica.
La notizia del colpo di stato arriva in Francia due giorni dopo. Berneri è tra i primi a mobilitarsi: il 29 luglio è già in Catalogna con un carico di fucili e munizioni e organizza una colonna anarchica italiana inquadrata nella divisione di Francisco Ascaso. Quando arriva anche Rosselli i giellisti, insieme ai socialisti e ai repubblicani, si aggregano alla formazione, a dispetto di qualche resistenza della frangia anarchica più chiusa ad ogni ipotesi di alleanza. Il 19 agosto Berneri lascia Barcellona per andare a combattere sul fronte aragonese e quattro giorni dopo partecipa agli scontri durissimi sul “Monte Pelato”, dove l’attacco fascista viene respinto, ma cadono diversi suoi compagni anarchici. Il suo fisico però si ribella; non è in grado di sopportare le fatiche del fronte e subisce un forte calo della vista e dell’udito, in seguito al quale deve essere fatto rientrare a Barcellona.
Da questo momento la città catalana rimane il centro della sua attività. L’intera Spagna costituisce per Berneri un terreno di prova ideale per il dibattito teorico precedente, ma è in Catalogna, dove gli anarco-sindacalisti hanno quale naturale alleato l’autonomismo, e sono in pratica la prima forza politica, che si può davvero giocare la carta di una compiuta democrazia federalista. La guerra è diventata infatti un’occasione per la rivoluzione sociale: gli operai collettivizzano le fabbriche, i contadini occupano le terre, le milizie popolari si organizzano autonomamente. Accade tutto sin troppo in fretta, e Berneri si trova quasi schiacciato dal precipitare degli eventi: da un lato teme le accelerazioni eccessive dei compagni, e le paure conseguenti che possono diffondersi tra le masse, dall’altro sa che ogni cedimento alla burocratizzazione significherà, oltre che il fallimento della rivoluzione, la sconfitta nella guerra civile.
La sua guerra prosegue pertanto con le armi della polemica e della propaganda. Fonda un bollettino, “Guerra di classe”, che redige in pratica da solo e dalle cui pagine non cessa di spronare il governo di Madrid ad una conduzione più decisa della guerra, arrivando a invocare anche misure drastiche. Ma il suo fronte non è solo a destra. Assiste infatti con sempre maggiore preoccupazione al ripetersi dello schema già sperimentato in Russia. Nel governo centrale sta assumendo un peso determinante la componente comunista di stretta osservanza moscovita, che peraltro all’atto della ribellione di Franco contava poche migliaia di aderenti (contro il milione e mezzo di iscritti alla CNT, il sindacato anarchico). Madrid sembra più interessata a riportare sotto il proprio controllo tutte le forze dello schieramento repubblicano, disarmando progressivamente quelle più riottose, a fermare le collettivizzazioni e ad eliminare l’autonomia catalana, che ad arginare l’avanzata dei falangisti. Berneri sente che l’entusiasmo iniziale della popolazione si va smorzando, di fronte alle rivalità nella sinistra e al venir meno di una ragione concreta, ovvero di una rivoluzione sociale radicale, per la quale combattere. Ciò non gli impedisce però di sostenere, in nome del realismo e sia pure con molte riserve, l’ingresso della CNT nel governo della Generalitat Catalana.
Sulla partecipazione degli anarchici spagnoli prima alle elezioni e poi al governo Berneri era già intervenuto prima dello scoppio della guerra civile, in occasione delle elezioni del febbraio del ’36, che avevano appunto visto la vittoria delle sinistre e determinato la reazione delle forze conservatrici. L’astensionismo, scriveva Berneri in quell’occasione, è per gli anarchici una sorta di dogma: è corretto come questione di principio, perché gli anarchici devono educare le masse all’azione diretta, e non a delegare le responsabilità e i poteri: è ineccepibile come strategia di fondo, perché sarebbe assurdo partecipare alla consacrazione elettorale di istituzioni che si vogliono eliminare. Ma a livello tattico può anche rivelarsi un suicidio. Se la partecipazione in questo momento mi evita di ritrovarmi sul collo un regime che una volta instauratosi non riuscirei più a demolire, posso chiamarmi fuori? Berneri accusa di semplicismo chi sostiene questa posizione. Apprezza quindi il fatto che la CNT abbia lasciato liberi i lavoratori di partecipare alla competizione elettorale (mentre la FAI – la Federaciòn Arquista Iberica – ha continuato a propagandare l’astensionismo). Fino a quando non verrà instaurata una democrazia reale, che preveda le deleghe minime e la revocabilità immediata di cui sopra, la particolare situazione storica esige l’uso degli strumenti del potere legittimo.
Ma ora le cose stanno cambiando, e riesplodono ben presto anche le divergenze con GL e con Rosselli. C’è una causa contingente, legata a un rovescio militare, ma i dissensi hanno origini più profonde. Rosselli ha avuto il comando della colonna italiana, e per ragioni di opportunità politica ha scelto nel suo stato maggiore collaboratori vicini al partito comunista. Dopo una battaglia conclusasi disastrosamente, anche per la scarsa efficacia del settore comunista dello schieramento, gli anarchici si ribellano e in pratica lo cacciano, provocando tra l’altro una dura reazione del comandante della divisione Ascaso. È l’inizio di una faida fratricida che avrà conseguenze tragiche, ma che si preannunciava già dall’inizio inevitabile. Mentre Rosselli ribadisce infatti anche in questa occasione, e soprattutto in questa, la necessità primaria di far fronte comune al nemico, Berneri ritiene che la guerra abbia una probabilità di successo solo se mantiene la doppia valenza antifascista e rivoluzionaria, se riesce cioè a coinvolgere veramente i contadini e gli operai facendo loro intravvedere un’organizzazione sociale ed economica futura ben diversa. Per questo motivo ritiene compito suo e degli anarchici denunciare tutti quegli atti del governo che lasciano intuire una svolta statalista ed autoritaria dietro il paravento delle urgenze strategiche e militari.
Nel governo centrale guidato da Largo Caballero sono entrati nel frattempo, nel novembre del 1936, anche quattro ministri anarchici. I dubbi di Berneri questa volta diventano certezze, anche perché appare subito chiaro che il coinvolgimento della componente anarchica è strumentale ad una sua neutralizzazione. Con la formazione dell’Esercito popolare e delle Brigate Internazionali, che vengono inquadrate in una organizzazione rigida e gerarchica, è partita infatti la militarizzazione delle milizie: i comunisti mantengono il controllo delle armi provenienti dalla Russia, con le quali equipaggiano soltanto le formazioni da loro controllate, lasciando le altre allo sbaraglio, quasi disarmate, sul fronte. La conseguenza è che alla fine del ’36 le forze di Franco occupano ormai più della metà del territorio spagnolo. Madrid è praticamente sotto assedio, l’iniziale neutralità dei paesi Europei è sostituita da un sempre più incisivo interventismo dei regimi fascisti, mentre i governi “democratici” stanno a guardare. La dimensione del conflitto, dopo la fase dell’entusiasmo internazionalistico, che ha visto la partecipazione solidale di tutti i gruppi antifascisti europei, si internazionalizza in altro modo, entrando nel gioco degli opposti imperialismi continentali. L’atmosfera, anche nell’anarchica Catalogna, è quella magistralmente descritta da Orwell nel suo diario spagnolo27.
Berneri naturalmente non può tacere: critica la decisione della CNT e della FAI di continuare a far parte della compagine governativa quando il rapporto di fiducia è ormai venuto meno, si affanna a suggerire diversivi militari, come l’apertura di un nuovo fronte alle spalle dei rivoltosi, concedendo l’indipendenza al Marocco, invoca la rottura diplomatica col Portogallo, che fiancheggia i rivoltosi, chiede il sequestro dei beni dei cittadini di nazioni fasciste che dimorano in Spagna e l’azzeramento del vecchio corpo diplomatico spagnolo, tutto colluso con la cospirazione. Soprattutto si ribella ai tentativi di inquadramento delle milizie anarchiche (propone anzi la costituzione di corpi di sicurezza anarco-sindacalisti, sul modello di quelli stalinisti) e al rallentamento della rivoluzione in nome della guerra.
Le avvisaglie della tragedia incombente si hanno già con la morte in novembre di Buenaventura Durruti, che molti attribuiscono ad un killer stalinista. A Mosca si annuncia che “in Catalogna è già cominciata la pulizia dai trotzkisti e dagli anarco-sindacalisti. Essa verrà condotta con la stessa energia che nell’Unione Sovietica”28. E anche con gli stessi sistemi. Il Partito Comunista Spagnolo inizia, dietro pressione degli agenti moscoviti sul territorio iberico (tra i quali si distinguono gli italiani Togliatti, Longo, Vidali, ecc…), l’operazione di screditamento del POUM (Partido Obrero de Unification Marxista, che non ha nulla a che vedere con Trotzkij, ma viene accusato di “deviazionismo trotzkista” perché non si allinea alle direttive sovietiche), portata avanti con accuse assurde e infamanti, secondo il modello classico usato per le purghe staliniane. Berneri denuncia l’infamia di queste operazioni e rinnova in ogni numero di “Guerra di Classe” l’invito ai ministri anarchici a dimettersi e a non rendersi complici di tanta infamia. “Gli anarchici sono entrati nel governo per impedire che la rivoluzione deviasse e per continuarla al di là della guerra ed altresì per opporsi ad ogni eventuale tentativo dittatoriale che sia. Oggi […], siamo in una situazione nella quale avvengono gravi fatti e se ne profilano dei peggiori”. Non viene ascoltato, e la sua voce diventa anzi fastidiosa anche per alcuni leaders sindacali anarchici, che Berneri accusa di tradimento. La CNT gli taglia pertanto i finanziamenti per il bollettino, che continua ad essere pubblicato con mezzi di fortuna ma incontra grossi ostacoli nella distribuzione. L’anarchico italiano non cede, ma ormai è un isolato, e ha iscritto di suo pugno il proprio nome nella lista di proscrizione degli stalinisti. Dopo la pubblicazione di una Lettera aperta alla compagna Federica Montseny, una dei quattro ministri anarchici del governo Caballero, nella quale definisce i filosovietici “politicanti trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della ‘repubblica di tutte le classi’”, viene ammonito che sta rischiando grosso, e capisce di essere al capolinea (infatti avverte i suoi amici parigini).
Quando ai primi di maggio del 1937 scoppia a Barcellona lo scontro aperto tra anarchici e trotzkisti da un lato e filosovietici dall’altro, l’abitazione dove vive con altri compagni viene immediatamente presa di mira. Berneri è ormai qualificato come “controrivoluzionario”; viene disarmato, privato dei documenti e diffidato a mettere il naso fuori casa. Ma il mattino del 5 Maggio arriva dall’Italia la notizia della morte in carcere di Antonio Gramsci: Camillo esce e si dirige a Radio Barcellona per pronunciare un discorso commemorativo. Prima di muoversi ha scritto l’ultima lettera all’adorata figlia Maria Luisa. Sarà il suo testamento spirituale.
Quello stesso pomeriggio è prelevato dalla sua abitazione, insieme a Francesco Barbieri, da alcuni sicari comunisti che si qualificano come agenti di polizia. I cadaveri dei due anarchici vengono ritrovati il giorno successivo nella piazza vicina, freddati con diversi colpi di pistola alla schiena.
Come avevo immaginato. Solo così potevano fermare Berneri.
Tra eretici – In queste pagine ho ripetuto sino alla nausea che Berneri era un eretico. Non è una mia fissazione, abbiamo visto che lui per primo si fregiava di questa qualifica. In una lettera a Libero Battistelli scriveva: “I dissensi vertono su due punti: la generalità degli anarchici è atea, e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali), è antiautoritaria in modo individualista e io sono semplicemente autonomista federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal sovietismo)”29. Intanto i punti sono almeno tre, e comunque a monte c’è ben altro. Ciò che intendo dire è che Berneri non era eretico nei confronti di una qualsivoglia ortodossia: era un eretico nei confronti della vita, e non perché non gli piacesse, quanto piuttosto perché, come tutti gli eretici veri, pretendeva di ricondurla alla sua purezza. In altre parole era uno di quelli che, come scriveva Novalis, “cercano l’infinito, e trovano solo cose”. Lui la declinava così: “Noi avremmo voluto un socialismo ardente e puro: ci saremmo accontentati di un socialismo combattivo: ed era la grande epoca del riformismo”. Viveva insomma il contrasto tra il sogno utopico e la costante disillusione realistica: ma anziché cercare in questa disillusione degli alibi, ne traeva invece lo stimolo a dare ancora di più. Era platonico nel pensare, aristotelico nell’agire. A differenza dei Romantici, infatti, era capace di riconoscere che le “cose” esistono, e che con esse occorre fare i conti.
Piuttosto, una volta resosi conto che dagli altri non poteva aspettarsi né pretendere granché, ha preteso da se stesso, fino in fondo. Berneri credeva nel valore dell’esemplarità (il popolo ha bisogno di vedere dei martiri, dopo che ha tanto udito parlare di martiri) e al di là dei toni alla Jacopo Ortis pensava davvero, e ne rimase sempre convinto, che il modello umano e sociale proposto dal socialismo della sua epoca fosse fuorviante, perché faceva leva sul diritto anziché sul dovere, così come aberrante gli sembrava quello sovietico, che sacrificava la libertà e la dignità individuale ad un indefinito e strumentale (al potere delle burocrazie rivoluzionarie) interesse collettivo. Il suo impegno politico era prima di tutto il modo per assolvere ad un obbligo morale (Cosa sarebbe l’uomo senza questo senso del dovere, senza questa commozione di sentirsi unito a quelli che furono, ai lontani ignoti, e ai venturi?)30. Ciò che gli importava, in definitiva, era il rinnovamento morale della società: sapeva che non può prescindere da quello politico, ma sapeva anche che quest’ultimo può essere una conseguenza del primo, e non la premessa. Per questo motivo non solo la presa del potere non rivestiva per lui alcuna priorità, ma addirittura la considerava, anziché “il fine”, “la fine” della rivoluzione. La rivoluzione non è una fase “storica” di passaggio: è una condizione di vita, individuale e sociale, permanente. “La funzione storica dell’anarchismo – scriveva – è inconciliabile per molti lati con la necessità di un attuale successo politico”; dove quel attuale è riferibile a qualsiasi tempo. Togliamo un paio di parole e arriveremo alla sostanza: l’anarchismo è inconciliabile con il successo politico. È una militanza a prescindere.
Berneri viveva dunque la sindrome dell’esemplarità. È una sindrome che nasce da una presunzione di tipo particolare: non quella, sin troppo diffusa, di essere costantemente in credito con la vita, ma piuttosto quella di essere in debito. Chi pensa di essere in debito nei confronti della vita ritiene che questa gli abbia dato molto, più che agli altri. E allora deve fare qualcosa di più rispetto agli altri, deve essere l’ultimo a cedere, perché di questa responsabilità è stato investito: “Mi sono offerto di stare alzato per lasciare andare gli altri a dormire, e tutti hanno riso dicendo che non udirei nemmeno il cannone; ma poi, ad uno ad uno sono andati a nanna, ed io veglio per tutti, lavorando per coloro che verranno. È l’unica cosa bella interamente”31. Questo, è vero, significa che sotto sotto degli altri si fida poco, o meglio, preferisce non avere bisogno: ma in questo atteggiamento non c’è malevolenza. Solo, considera normale che gli altri non siano tenuti a fare ciò che lui fa.Al limite può sperare che siano moralmente stimolati dal suo esempio a darsi da fare a loro volta, e che si possa quindi trasmettere un po’ di senso di responsabilità.
È il principio che governa tutti i sodalizi volontaristici: alcuni membri, e non sono necessariamente i leader, si sentono tenuti a dare comunque, e altri ritengono essere già molto quello che danno. Si badi bene: coi primi non c’entra nulla lo stakanovismo. Sto parlando di associazioni volontarie e spontanee, non di collettivizzazione: di senso del dovere, non di competitività. Infatti non è necessario che questo maggiore sforzo sia riconosciuto ufficialmente o produca delle investiture di potere: anzi, ogni riconoscimento sarebbe controproducente, perché le investiture sono in fondo delle deleghe, e deresponsabilizzano il delegante, invece di spronarlo.
Dietro l’atteggiamento di Berneri c’è una disposizione che ho già definita “protestante”. Culturalmente questa disposizione è testimoniata dall’interesse continuativo per un mondo e per una tradizione morale che datano dalla riforma, lo stesso che accomuna la parte più sana dell’ambiente intellettuale, soprattutto di quello torinese, nel primo trentennio del secolo. In pratica, c’è l’idea che se la grazia l’hai avuta te la devi poi meritare tutta, non attraverso l’autoaffermazione, ma attraverso l’esemplarità. È una forma di protestantesimo più luterana che calvinista. Fausto Nitti e altri fuorusciti chiamavano scherzosamente Berneri “il santo”, ma non scherzavano poi più di tanto: erano davvero stupiti dal suo ascetismo, e ci ricamavano sopra vere leggende. Berneri stesso, d’altro canto, scriveva dal carcere alle figlie: “In questo sforzo sta tutto l’amore per la vostra mamma e per voi, la compensazione di sacrifici morali enormi che mi sono imposto e che nessuno oltre a me conoscerà mai; c’è in me un bisogno smisurato di prendere coscienza del mio valore e della mia missione personale nella vita”32. E alla madre: “Se vengono meno le ragioni morali, in me più mistiche che razionali, della lotta, io non vedo altro che fini personali”33. Forse, a ripensarci, non è nemmeno una disposizione luterana. Da buon libertario Berneri non si sente un eletto: si elegge, autonomamente.
All’inizio di questo breve saggio ho detto di provare nei confronti di Berneri una profonda consonanza. Spero di non essere frainteso. Non presumo di partecipare del suo stato: io non sono stato toccato dalla grazia, al più ne sono stato sfiorato, e non essendo né protestante né cattolico non mi aspetto pentecosti né individuali né collettive. Sono quindi rimasto nella condizione di chi sa che la grazia esiste, ma non è cosa per lui, e oltretutto si becca il debito, perché in sostanza conosce la via, ma non ha le forze, la capacità, soprattutto la volontà per percorrerla. A questo punto, a quelli destinati al Limbo rimangono solo due strade: o si incattiviscono per l’occasione perduta, o diventano particolarmente ironici con se stessi. Spero solo di non essere diventato troppo cattivo. (D’altro canto, non so nemmeno se essere toccato dalla grazia sia una fortuna oppure no.)
Questa malinconica condizione mi ha comunque messo in grado di capire, e senz’altro di ammirare, Berneri e gli altri come lui (che non sono poi tantissimi): di sentirmi con loro solidale, se non compagno, e di compiacermi della condivisione di qualche particolare attitudine.
Ne condivido senza dubbio la concezione (che non è necessariamente padronanza) enciclopedica della conoscenza. Berneri non è, per necessità ma in fondo credo anche per scelta, uno specialista. È un onnivoro, curioso di tutto e informato di tutto. Sa benissimo di trattare gli argomenti ad un livello superficiale (anche se è vero, come abbiamo visto, che raccoglieva incredibili dossier su tutto quel che lo interessava), ma ha il coraggio di tentare delle sintesi, e questo gli dà l’opportunità di cogliere legami e collegamenti tra le sfere e tra i fenomeni più diversi. Gli specialisti sono necessari, sono fondamentali, ma gli input veri alla comprensione e alla lettura innovativa dei fenomeni vengono sempre dai non specialisti. E ciò vale anche in politica: anzi, nella concezione di politica propria di Berneri, che al di là delle contingenze e delle alleanze e delle opportunità è essenzialmente educazione, questa attitudine risulta imprescindibile. Berneri è quindi cosciente del suo “dilettantismo” e dei limiti che può comportare, ma ne ribalta la funzione. Altri avrebbero potuto o potrebbero fare meglio, ma non lo fanno: e allora, buttiamo là la provocazione, e vediamo se si svegliano34.
Non è solo questione di modalità d’approccio: sono anche i contenuti, gli esiti, ad accomunarci. Forse perché quella modalità porta a quegli esiti. Ad esempio, ad una considerazione realistica della natura umana. Berneri non si fa eccessive illusioni: sembra paradossale, per un anarchico, ma è così. Vuol considerare gli uomini per quello che sono, soprattutto se presi in gruppo: la sua insistenza sulla libertà individuale nasce da una diffidenza profonda nei confronti della massa, più che dalla fiducia nei singoli. Non è individualismo: Berneri applica delle evidenze che sono tali da sempre, e che gli studi socio-antropologici della seconda metà del ‘900 hanno confermato anche a livello statistico. L’appartenenza ad un gruppo è correttamente sentita e vissuta dal singolo, e ne esalta le potenzialità e il senso di responsabilità e di partecipazione, solo entro i limiti di una stretta interrelazione, quella consentita dal villaggio o dalla piccola comunità (il gruppo ideale va dalle cento alle duecento persone). Oltre queste dimensioni vengono meno il collante e il denominatore comune sul quale giocare attivamente i rapporti, quello della conoscenza diretta.
La consapevolezza delle differenze tra gli uomini, tra le loro speranze, le loro aspettative, le loro finalità, porta quindi Berneri ad un’altra consapevolezza, quella che senza regole ben precise il gioco non può andare avanti. Questo vale rispetto al lavoro e ai comportamenti politici, ma vale poi in generale in tutti gli ambiti. Quindi la libertà va intesa come responsabilità, i doveri come fondamento e garanzia dei diritti. E a proposito di doveri, il primo dovere è per Berneri quello di fare bene le cose che si fanno: il che significa portarle fino in fondo, crederci davvero, mantenendo vigile la capacità di correggersi di fronte al cambiare delle situazioni o all’evidente inadeguatezza delle soluzioni proposte.
Il terzo fattore di condivisione (ma in fondo si tratta di un corollario dei primi due) riguarda il tema della dignità, declinato in ogni sua variabile. La dignità per Berneri non è un valore eteronomo, conferito a persone, attività o cose da una qualsivoglia entità o autorità esterna. La dignità è quella che ci si costruisce dall’interno. Siamo noi responsabili della nostra dignità, di conferirla a ciò che siamo o che facciamo, e poi di difenderla. Berneri esplicita la cosa quando parla di lavoro, ma la sottende ad ogni altro suo discorso, da quello sulla religione a quello sulla emancipazione femminile. Non ci si può attendere una liberazione, ci si deve rendere liberi, e questo è possibile anche in un contesto non favorevole. Oserei dire che forse è ancora più possibile, perché l’esistenza di ostacoli e difficoltà costringe a concentrarsi su ciò che si vuole ottenere.
Infine, Berneri non rinnega affatto l’appartenenza ad una certa aristocrazia spirituale (ed è questo che soprattutto non viene capito e gli viene rimproverato dai suoi compagni). Gli ripugna l’ipocrisia di chi si traveste di una “cultura proletaria” che in realtà non gli è propria (e che secondo lui nemmeno esiste), e disprezza quelli che lo fanno in malafede, per opportunità politica; ma non manca di stigmatizzare anche coloro che lo fanno in buona fede, che abbracciano una filosofia penitenziale per la quale occorre mortificare la propria reale natura o le proprie radici e sdraiarsi sulla linea altrui. È consapevole di quanto il proprio sogno possa essere diverso da quello degli altri, del fatto che in fondo non si vogliono davvero le stesse cose e per gli stessi motivi. Sa di poter fare un pezzo di strada in comune, ma vuole poter lasciare la compagnia quando i discorsi che si fanno lungo il cammino indicano un’altra meta. È aristocratico nel sentire, democratico nell’agire, ma soprattutto libero nell’essere e nel pensare.
Berneri fa dunque parte di un circolo ideale di anime elette, da Gobetti a Camus, da Leopardi a Micotto e a Modesto, che in ogni epoca hanno saputo opporre resistenza a qualsiasi forma di omologazione. Indipendentemente dai livelli di cultura e dai risultati raggiunti, è gente che ha preteso di vivere e di pensare autonomamente. Ha pagata cara questa pretesa, con l’isolamento, con l’incomprensione, in molti casi, come in quello di Berneri, anche con la vita: ma, accidenti, non mi si venga a dire che non c’è riuscita.
1 Negli ultimi tempi il velo di rimozione che sembrava avvolgere Berneri è stato in realtà più volte strappato. Giampiero Berti ha tracciato ne Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento (Lacaita, 1998) un bilancio “politico” esauriente della singolare esperienza berneriana (che sotto questo profilo viene considerata, forse non a torto, “irrisolta”), mentre Stefano d’Errico ha redatto una sorta di biografia intellettuale di Berneri basata sulle sue stesse parole, attraverso una scelta copiosa dalle lettere e dagli scritti polemici o saggistici. Mi ha soprattutto colpito, però, il breve saggio dedicato all’anarchico lodigiano da Renzo Ronconi e compreso ne L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (Jaka Book,2010). La vicenda di Berneri è qui colta con particolare finezza nella sua globalità, non solo quindi nelle sue valenze politiche, ma anche, e soprattutto, in quelle “umane” e più genericamente filosofiche. Come dirò più oltre, questo mio scritto in qualche maniera è condizionato dalla recentissima lettura delle pagine di Ronconi, e si propone pertanto di puntualizzare o sottolineare alcuni aspetti che in esse sono stati trattati solo marginalmente.
2 Così racconta il commiato da Prampolini: “Mi mandò a chiamare, lui che non mi aveva mai parlato, per dirmi: “Dunque ci lascia”. Ma soggiunse: “Ma resta sempre nel socialismo”. E questa parola mi fu di sollievo, ché mi pareva triste di veder allontanarsi quello che allora ero: l’unico studente militante della città socialistissima”. (Pensieri e Battaglie, Parigi 1938).
3 Di lei Camillo scrive all’amico e maestro Gaetano Salvemini: «Non è anarchica nel senso di essere una militante, però accetta le mie idee e le condivide in gran parte». In realtà, dopo la morte di Berneri Giovanna Caleffi comincia ad occuparsi attivamente di anarchismo, collaborando alla stampa libertaria. Viene arrestata nel 1940 e consegnata alle autorità italiane, che la inviano alo confino. Sfuggita alla sorveglianza, entra nella Resistenza. Dopo la guerra concretizza il suo impegno anarchico nella fondazione di una colonia intitolata alla memoria della figlia, Maria Luisa Berneri, che costituirà uno straordinario esempio di pedagogia innovativa.
4 Per un programma d’azione comunalista (1926)
5 “In Russia il bolscevismo ha rinnovato, in modo radicale e sistematico, i sistemi rappresentativi. Il valore di tali riforme sorpassa i confini della rivoluzione russa e per l’influenza che esse hanno sul pensiero politico delle altre nazioni e per le loro origini ideologiche. Il regime dei Soviet è una derivazione dell’autonomia federalista ed è in antitesi con la tendenza accentratrice del socialismo di Stato: non è che un sistema politico le cui linee generali e fondamentali si trovano nei disegni politico-filosofici dei principali pensatori della Francia rivoluzionaria e democratica” (L’autodemocrazia, 1919).
6 Da “L’autodemocrazia” su Volontà (Ancona) del 1/6/1919
7 A proposito delle nostre critiche al bolscevismo (1922)
8 Umanesimo e anarchismo
9 L’operaiolatria, Brest 1934
10 L’anarchico sardo Michele Schirru, giunto dall’America nel 1931 per attentare alla vita di Mussolini, è arrestato e fucilato, con l’accusa di aver progettato l’uccisione del capo del governo. Un altro anarchico, Angelo Pellegrino Sbardellotto, proveniente dal Belgio, viene trovato in possesso di un passaporto falso, di una pistola e di un ordigno, e confessa l’intenzione di uccidere Mussolini. Anche lui è condannato a morte e fucilato nel 1932.
11 Epistolario inedito
12 Per un programma d’azione comunalista, 1926
13 Koestler parlerà di ‘autocastrazione intellettuale. “Un intellettuale non poteva mai diventare un vero proletario, ma il suo dovere era di assomigliargli il più possibile… Il modo giusto era non scrivere, non dire e soprattutto non pensare niente che non fosse comprensibile anche per uno spazzino (Il Dio che è fallito)
14 Il diritto penale nella rivoluzione, in “Umanità Nova”, agosto 1921
15 “I comuni non devono essere più degli organi dell’amministrazione centrale, del potere governativo, ma degli organi di sintesi amministrativa locale e di cooperazione, regionale e nazionale. Occorre […] coordinare tutte le amministrazioni locali in una Confederazione di amministrazioni autonome, collegate strettamente con le organizzazioni di produzione”.
16 Il federalismo comunalista di Berneri, e i presupposti civici sui quali si basa, saranno fatti propri anche da un liberale puro come Luigi Einaudi: ”L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche”; e quanto alla politica “perché vi sia un governo libero occorre che gli uomini sentano di essere un qualcosa di diverso dagli altri uomini, che abbiano l’orgoglio di appartenere ad un ampio ventaglio di corpi intermedi, quali la famiglia, la vicinanza, il comune la comunità, la regione, l’associazione di mestiere, la fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa”; per concludere: “Occorre partire dal basso, dai corpi locali vivi di vita propria originaria, come il comune, per ricostruire un ordine politico ispirato al federalismo e generare una democrazia prossima al cittadino” (L’Italia e il secondo Risorgimento, 1944).
17 Il primo atto con il quale lo Stato si manifesta realmente come rappresentante di tutta la società, cioè la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società, è in pari tempo l’ultimo atto proprio dello Stato. L’intervento dello Stato negli affari della società diventa superfluo in tutti i campi uno dopo l’altro e poi cessa da sé stesso. Al governo delle persone si sostituiscono l’amministrazione delle cose e la direzione del processo di produzione. Lo stato non è «abolito»; esso muore.
18 Cfr. “Il lavoro attraente”
19 Scrive di lui Salvemini: “Aveva il gusto per i fatti precisi. In lui l’immaginazione disciolta da ogni legame con il presente, in fatto di possibilità sociali, si associavano a una cura meticolosa per i particolari immediati nello studio e nella pratica di ogni giorno. S’interessava di tutto con avidità insaziabile. Mentre molti anarchici sono come le case le cui finestre sulla strada sono tutte murate, lui teneva aperte tutte le finestre” (Salvemini 1952a; 1952b)
20 “Il suo sistema di lavoro era una cosa curiosa. Cercatore d’istinto, era capace di chiudersi in biblioteca per giorni e giorni, a sfogliare, a leggere, a prendere note. Ritagliava pagine, sfaceva un libro per ricavarne alcune pagine: quando non poteva sfarlo, copiava. Si interessava a tutto, dalle malattie dei bambini ai problemi delle razze, dai giocattoli alle ultime teorie sull’universo. E ogni annotazione era classificata. La sua biblioteca si componeva così, in gran parte di un enorme schedario e di fasci, di casse, di carta stampata o manoscritta”.
21 È da sottolineare come il successo del nazismo si accompagni ad un enorme interesse per il paranormale e per i culti parascientifici più strampalati, tanto che si arriva a teorie della terra cava ed altre simili demenze, che avevano un grosso credito nelle alte sfere del nazionalsocialismo e che generano un’antropologia razzista criminale.
22 Lo stesso tema era stato affrontato pochi anni prima, nel 1930, da Theodor Lessing ne Der Judischer Selbsthass. Lessing, ucciso in una “spedizione punitiva” nel 1933, era anche stato una delle prime vittime dei nazisti.
23 Cfr. Otto Weininger, Das Judentum (L’odio di sé ebraico), da Sesso e carattere.
24 Anche Fénélon, nel III libro del Télémaque (1699), applica quella formula al lavoro. Morelly, nella Basiliade, scriveva: “Ammettiamo che la libera attività dell’uomo versi nel fondo comune più di quanto in esso possano attingere i bisogni, è chiaro che le leggi, i regolamenti divengono quasi inutili, poiché ad ogni funzione necessaria risponde negli individui un gusto naturale, una ben spiccata vocazione”.
25 Epistolario inedito
26 È l’insurrezione congiunta delle truppe d’oltremare (il Tercio, la legione straniera spagnola) sotto la guida di Francisco Franco, delle guarnigioni navarresi comandate da Emilio Mola e delle milizie carliste e falangiste.
27 “La situazione era abbastanza chiara: da una parte la CNT, dall’altra la polizia: Non ho alcun amore particolare per il “lavoratore” idealizzato quale si presenta alla fantasia del borghese comunista: ma quando vedo un vero e proprio operaio, in carne ed ossa,in lotta col suo nemico naturale, il poliziotto, allora non ho più da chiedermi da quale parte debbo schierarmi”. (Omaggio alla Catalogna)
28 Sulla “Pravda” del 17 dicembre
29 Epistolario inedito
30 Epistolario inedito
31 Epistolario inedito (settembre 1936)
32 Epistolario inedito, giugno 1930
33 Epistolario inedito, febbraio 1930
34 “Lo studio che segue non è che una specie di introduzione al tema: il lavoro attraente; tema sul quale vorrei vedere attratta l’attenzione di quanti potrebbero apportare idee, esperienze personali, particolari conoscenze tecniche. Un competente avrebbe fatto di più e di meglio; ma dato che i competenti sono restii a utilizzare la propria preparazione, tocca ai più disinvolti il ruolo di sollevare i problemi e di imporli all’attenzione dei compagni”. (Il lavoro attraente)