di Paolo Repetto, 2012
La mia patria è il mondo e io andrò
ovunque ci sia un despota da abbattere,
un abuso da sopprimere, un oppresso da difendere
Io ci provo a raccontare la vita di Amilcare Cipriani. Ma premetto già che non è possibile riassumerla in quattro o cinque pagine, anche limitandosi solo all’essenziale: non è una vita, è un romanzo d’avventure.
Cipriani ha l’irrequietudine nel DNA: nasce nel 1843 ad Anzio da un padre romagnolo e dichiaratamente antipapista (in una biografia si dice che lo abbia battezzato con una manciata di polvere da sparo), che per motivi politici è rispedito, quando Amilcare ha solo quindici mesi, a Rimini. Studia con scarsa convinzione in un collegio religioso, dove la sua esuberanza non è molto apprezzata. È il tipico studente da dieci in educazione fisica e sei in condotta, che più che all’imitazione di Cristo aspira a quella di Pisacane. Quando scoppia la seconda guerra d’indipendenza ha sedici anni: scappa immediatamente di casa – sembra che nessuno abbia tentato di fermarlo, meno che mai i suoi insegnanti – per raggiungere a piedi il Piemonte ed arruolarsi. Si spaccia per diciottenne e gli credono subito, perché è grande e grosso e perché gli arruolatori non vanno troppo per il sottile. È già in prima linea a San Martino, dove si guadagna una promozione sul campo per l’ardore con cui combatte. La guerra finisce in tre mesi, e lui di tornare a casa non ne ha per l’anima, per cui conferma l’arruolamento; ma appena viene a sapere che Garibaldi sta preparando una spedizione molla tutto e cerca di raggiungerlo. Non ci riesce al primo colpo e parte quindi con il secondo scaglione, nel battaglione Medici. Si distingue subito negli scontri, tanto da essere nominato ufficiale. Quando la campagna termina ha diciassette anni, il grado di tenente e un’accusa di diserzione sulla testa.
Scansa la condanna (avrebbe potuto essere fucilato), viene riammesso nell’esercito e inviato a reprimere il brigantaggio in Abruzzo. È un compito che gli ripugna, e infatti dura poco. Nel ’62 Garibaldi è di nuovo in moto, al grido di o Roma, o morte, e Amilcare pianta tutto un’altra volta per unirsi a lui. Dopo lo scontro dell’Aspromonte però le cose si mettono male. Stavolta la condanna per diserzione non gliela toglie nessuno, e Cipriani è costretto a prendere il largo prima che lo becchino. Fa parte di un gruppetto di disertori che vagano per la montagna calabra, e assiste di lontano alla fucilazione dei suoi compagni catturati. Finalmente trova un imbarco clandestino sulla costa, su uno scafo in rotta per la Grecia. Naturalmente la nave fa naufragio davanti al Pireo. Sopravvivono solo lui e il comandante, che guadagnano la terra nuotando per diverse ore.
È difficile dire se sia Cipriani ad avere un fiuto speciale per i guai, o se sia la sua presenza a provocarli: sta di fatto che ad Atene finisce subito in mezzo ad una rivolta animata dagli studenti e ne diventa un capo. Da ex-ufficiale che non ha perso il suo tempo insegna ai rivoltosi come si adopera un cannone, e li esercita bombardando la banca Rothschild e guidandoli all’assalto del palazzo reale. Va da sé che una volta tornata la calma debba filarsela alla spicciolata, questa volta in direzione dell’Egitto. Qui conosce un periodo di pausa che deve parergli un’eternità, perché per tre mesi fa un lavoro normale. Ma da Alessandria parte una spedizione che vuol trovare le sorgenti del Nilo, ed è logico che non possa partire senza Amilcare. Quando la spedizione si sfascia lui torna a piedi attraverso il deserto, arrivando ad Alessandria in condizioni pietose1. Ricomincia a fare il magazziniere, e nel frattempo annoda contatti con Mazzini, esule anche lui a Londra, lavorando nel variopinto sottobosco dei fuorusciti per fare proseliti. Fonda non una, ma addirittura due associazioni patriottiche, la Società Democratica Italiana e la Sacra Falange. Nel 1865 in tutto il nordafrica scoppia il colera: Cipriani organizza un comitato di assistenza, ed è in prima fila nel prestare i soccorsi. Per non perdere l’allenamento costituisce nel frattempo un terzo sodalizio, la Legione Egiziana, pronta all’azione qualora l’Italia chiamasse; ma quando questo avviene, in occasione della terza guerra d’indipendenza, prende su da solo e si arruola come soldato semplice nei Cacciatori delle Alpi, partecipando agli unici scontri vinti dagli Italiani. Non può fare a meno di distinguersi, e questo è un guaio, perché viene fuori la storia della doppia diserzione, e gli lasciano giusto il tempo per sparire di nuovo.
Questa volta la destinazione è Creta, e qui fa un incontro decisivo, perché conosce Gustave Flourens, una singolare figura di internazionalista.2 I due si battono fianco a fianco per la libertà dell’isola, che nel frattempo, manco a dirlo, è insorta contro i Turchi. Flourens è strabiliato dal coraggio di questo giovane, ma si rende anche conto di quanto sia confuso, e lo induce per la prima volta a riflettere sul senso da dare a tanta energia. Cipriani comincia a dubitare che tutto possa esaurirsi nella causa italiana. Da Creta torna poi, e siamo nel 1867, in Alessandria. Ormai è famosissimo tra i connazionali, e a qualcuno fa anche ombra: soprattutto perché è lui a gestire i soldi raccolti per la causa mazziniana. Una sera, nel corso di un banchetto patriottico, un certo Santini e alcuni suoi compari prendono a insultarlo pesantemente, passando anche alle mani. Cipriani non è tipo da porgere l’altra guancia, possibilmente nemmeno la prima: sfodera un coltello e si fa strada, fuggendo in un vicolo buio. Lì viene nuovamente assalito, e nuovamente si difende. uesta è la sua versione: altre non ne esistono, perchè Questa, almeno, è la sua versione: altre non ne esistono, perché il mattino dopo Santini viene trovato ammazzato nel vicolo, e con lui due guardie egiziane. Non è il caso di sperimentare la giustizia del kedivè: Cipriani ne è consapevole, e parte direttamente per Londra.
Mi fermo un attimo, perché mi gira la testa e ho bisogno di riprendere fiato. Mi sta accadendo spesso, ogni volta che racconto una vita “interessante”. Pare che fino a un secolo fa la gente, consapevole che l’aspettativa di vita era bassa, si affannasse a fare precocemente tutte le esperienze possibili. Amilcare a questo punto ha ventiquattro anni. Ha combattuto in due guerre, nella spedizione dei Mille, nel primo tentativo di Garibaldi su Roma, nella rivoluzione greca e nell’insurrezione di Creta; nei tempi morti ha partecipato a una spedizione esplorativa e ha tessuto fila per la cospirazione mazziniana. È ora di ritagliarsi un po’ di tempo per sé.
A Londra Cipriani è preso sotto l’ala da Mazzini. Vittorio Emiliani scrive3 che quando Cipriani va a bussare alla porta del grande esule questi gli batte la mano ossuta sulla spalla dicendogli semplicemente: So tutto. Tramite Mazzini è assunto in uno studio fotografico italiano, e diventa anche bravo, al punto che sarà chiamato a fare il ritratto fotografico della regina Vittoria. Racconterà in seguito di averla strapazzata perché non riusciva a star ferma in posa. Capacissimo di averlo fatto davvero. Tra l’altro, è suo anche il ritratto più famoso di Mazzini, quello malinconico e pensoso che una volta compariva in tutti i manuali di storia (oggi un po’ meno). Ha persino una storia sentimentale con una ragazza francese, Adolphine Rouet, dalla quale nasce una bambina. Nello stesso tempo frequenta gli ambienti della Prima Internazionale, di cui conosce tutti gli esponenti di spicco. Scriverà in seguito: “Bakunin, Marx, Engels che io conobbi in Svizzera e a Londra, le letture di opere socialiste, fecero di me ciò che io sono da quarant’anni: socialista ateo, rivoluzionario, comunista ed internazionalista”. Sotto la loro influenza matura infatti gradualmente nuove convinzioni, più congeniali al suo carattere. La causa italiana non può essere l’unico obiettivo: quello ultimo deve diventare l’instaurazione della giustizia sociale, e questa può essere rivendicata solo attraverso un’azione rivoluzionaria. Il suo dissenso da Mazzini sulle finalità e sui modi della rivoluzione si fa sempre più marcato, anche se l’amicizia tra i due non si raffredda.
Per il momento, quando il maestro gli dà notizia di fermenti di rivolta nella zona della Garfagnana non ha esitazioni: molla lavoro, casa e famiglia e riparte per l’Italia. Ormai però è famoso anche negli uffici di polizia, temutissimo e sorvegliato, per cui appena messo piede in Francia viene arrestato con l’accusa di cospirazione contro Napoleone III, in attesa di essere espulso. Non lo conoscono però abbastanza: alla prima distrazione è già uccel di bosco, in viaggio per la Svizzera, dove prende contatto col mondo dei rifugiati anarchici. Di lì, con un giro largo torna in Inghilterra: giusto il tempo per raccontarla, perché dopo pochi mesi Napoleone III è umiliato a Sedan, e in Francia viene proclamata la repubblica. Il 5 settembre è già a Parigi dove ritrova il vecchio commilitone Flourens. Il nuovo regime non è granché diverso da quello precedente: a fine novembre Flourens è arrestato e a metà dicembre tocca a Cipriani. Rimane in carcere quindici giorni, poi viene liberato e parte subito con un commando all’assalto della prigione dove è rinchiuso Flourens, tirandolo fuori a forza. Nel frattempo la situazione è precipitata: i Prussiani sono quasi alle porte di Parigi, e uomini come Cipriani sono preziosi. Viene arruolato nella Guardia Nazionale e combatte come una belva, guadagnandosi addirittura la Legion d’Onore (che, coerentemente con le sue convinzioni, rifiuta: “Grazie dell’onore. Non accetto la croce: prima di tutto perché l’accettarla sarebbe contrario alle mie idee, e poi perché i garibaldini non accettano simili onori se non quando piantano le tende nel campo nemico”). Quando il governo ufficiale si arrende, Cipriani non molla: è ancora una volta ricercato dalla polizia, e raggiunge la legione garibaldina che continua a combattere nei Vosgi. Lì lo raggiunge però l’appello di Flourens: Parigi è insorta contro il governo, è nata, nel marzo del 1871, la Comune.
Cipriani è nominato colonnello dello stato maggiore rivoluzionario. Con quello che ha a disposizione fa mirabilie, ma ai primi di aprile l’esercito di Versailles, appoggiato dai Prussiani, riprende la città; Flourens viene immediatamente giustiziato, mentre Cipriani, arrestato con lui, viene imprigionato, sottoposto a torture, sommariamente giudicato e condannato a morte. Ma nemmeno questa volta è giunta la sua ora: mentre quasi tutti i suoi compagni vengono fucilati (alla fine del primo bagno di sangue i fucilati saranno trentacinquemila, ma il bilancio totale della repressione è di oltre centomila) lui è lasciato tra gli ultimi, non si sa se per prolungare la tortura psicologica o perché anche la reazione ha nei suoi confronti un certo timore reverenziale. Lo legano persino un paio di volte al palo dell’esecuzione, ma alla fine si vede commutare la pena nel bagno penale a vita. Finisce imbarcato sulla Danae, insieme a quattrocento altri disgraziati, per essere deportato in Nuova Caledonia (un’isola del Pacifico, ad est dell’Australia, tra Nuova Zelanda e Nuova Guinea). Nemmeno in questa situazione riesce a darsi una calmata: appena a bordo si mette in urto con il capitano, Rion de Kerprigeant, un reazionario della peggior lega, che intende gestire il trasporto come un carico negriero. Il risultato è che finisce ai ferri (nel senso proprio che viene incatenato mani e piedi in un cubicolo grande una cuccia per cani) nella stiva e vi rimane per quarantacinque giorni, arrivando praticamente in fin di vita. Il comandante è costretto a sottrarlo a quell’inferno dalla minaccia di rivolta dei suoi compagni, ma quando arriva all’isola Cipriani è praticamente un morto che cammina.
E tuttavia, si tratta di Amilcare Cipriani: si riprende, e trascorre in Nuova Caledonia quasi nove anni, buona parte dei quali passati in isolamento, perché non sta zitto neppure ad ammazzarlo, e si ribella ad ogni sopruso: l’ultimo anno e mezzo lo passa a spaccar pietre come forzato. Sembra di leggere la vita di Papillon o di assistere ad uno di quei film sulle carceri americane, Nick mano fredda o Brubaker, con la differenza che Cipriani dalla Nuova Caledonia non può nemmeno tentare la fuga. Attorno ci sono solo migliaia di chilometri di oceano, pieni di pescecani.
Nel 1880 il governo repubblicano promulga un’amnistia, e Cipriani torna in Francia. Si mette immediatamente alla ricerca di Rion de Kerprigeant, il suo aguzzino. Quando viene a sapere che è già morto scoppia a piangere per la rabbia: aveva vissuto quei nove anni e sopportato tutto con un solo pensiero in testa, quello della soddisfazione che avrebbe provato nel torcergli il collo. Comunque, non perde tempo: i reduci dalla Caledonia vengono accolti da grandi manifestazioni degli anarchici francesi, e durante una di queste Cipriani interviene in difesa di una donna aggredita da un poliziotto, spedendo quest’ultimo all’ospedale: nuovo arresto, due mesi di reclusione ed espulsione dalla Francia.
Cipriani intende stavolta far ritorno in Italia; ma non vuole farlo clandestinamente. Per intanto ai primi del gennaio 1881 va in Svizzera ad incontrare Carlo Cafiero, anche lui esule. Contemporaneamente lancia insieme ad altri internazionalisti un manifesto, Agli oppressi d’Italia, in cui si annunciano prossime iniziative insurrezionali: “La nostra risoluzione è presa, e la venuta nostra sarà una protesta armata contro tutte le forme del dispotismo dinastico, aristocratico e capitalista… Tregua adunque alle parole dottrinarie quando è tempo d’agire, silenzio ai sobillatori di pace quando tutto annunzia la guerra: guerra di classe e di plebi scatenate. Fine una volta alle dissenzioni e ai personali rancori: anarchici, collettivisti e internazionalisti, tutti s’uniscano in un sol pensiero e formino il gran partito della rivoluzione”.
Con questo biglietto da visita è naturale che le associazioni operaie gli preparino un’accoglienza trionfale, ma anche che ad aspettarlo ci sia tutta la polizia italiana. A Rimini, dove si è diretto per rivedere il padre morente, non lo lasciano neppure scendere dal treno. Viene anzi arrestato e trasferito a Milano, con l’accusa di aver cospirato insieme a Cafiero, Malatesta e altri (tutti latitanti) contro l’ordine e la sicurezza del paese. Quando giornali e organizzazioni cominciano a gridare allo scandalo, l’accusa viene cambiata: si rispolvera la vicenda di Alessandria d’Egitto di quindici anni prima. Comunque rimane in carcere per un anno in attesa di giudizio.
Il processo si tiene ad Ancona agli inizi dell’82. Naturalmente è una farsa, che si chiude con una condanna a venticinque anni. All’uscita dal tribunale scoppia una mezza rivolta, e in pratica gli viene data dalla polizia l’opportunità di fuggire: è una patata bollente che nessuno vuole maneggiare. Ma Cipriani è stanco: rifiuta di scappare e si appella alla Cassazione. La pena è ridotta a vent’anni.
Ne sconta sei, in una cella larga un metro e lunga tre, con la catena ai piedi. Si sforza di sopravvivere alla forzata immobilità, all’umidità, alla sporcizia, alla mancanza di luce, al cibo spesso ributtante, alle angherie dei secondini. Scrive ad un amico: “Sono quindici anni, fra Caledonia e Italia che lotto contro lo spietato sistema dei pretesi domatori d’uomini. A quale prezzo lotto! Se ho salvato il carattere e l’onore, questo grazie agli amici, ho però perduto la salute, la gioventù, la forza, l’intelligenza”. La campagna in suo favore, per la quale scendono in campo in Italia personaggi del calibro di Carducci, Rapisardi, Saffi, e in Francia di Victor Hugo, Benoit Malon e Clemenceau, non ottiene alcun risultato. Anche perché il governo subordina l’indulto alla richiesta di grazia, e Cipriani naturalmente rifiuta. A Carducci che gli scrive supplicandolo di presentare questa cavolo di domanda, risponde: “Mi si mette fra il bagno e la libertá imbrigliata. Senza esitare, scelgo il bagno. Io mi sento più onorato, ora che sono perseguitato dal loro odio, che se fossi protetto dalla loro clemenza; voi curvate la testa, proponendomi una viltà”.
Viene persino candidato alla Camera dai gruppi radicali, ed eletto, ma la commissione della Camera invalida l’elezione. Esce dall’ergastolo di Portolongone solo per un calcolo propagandistico di Crispi4: ma giusto in tempo per essere trasferito a Milano e processato per la famosa doppia diserzione. I giudici questa volta non se la sentono di infierire, anche perché la cosa potrebbe diventare pericolosa per l’ordine pubblico: lo condannano, ma ritengono che abbia già espiato a sufficienza. È finalmente libero.
Torna in Francia, dove ormai si sente di casa. Fa il giornalista, e intanto è impegnatissimo ad organizzare congressi e sezioni socialrivoluzionarie. Il periodo di ferro parrebbe finito.
Non è così. Nel 1891 Cipriani si fa convincere a rientrare in Italia per celebrare il primo di maggio. Si porta dietro la sua maledizione. Durante il comizio (non autorizzato) a Roma scoppiano degli incidenti tra i dimostranti e l’esercito, schierato a contenimento. Ci sono cariche di cavalleria con la sciabola sguainata, e ad un certo punto un poliziotto, che sta per fare fuoco su Cipriani, viene ucciso da uno dei dimostranti. In galera ci va naturalmente Cipriani, che trascorre quindici mesi a Regina Coeli in attesa del processo e altri due anni nel carcere di Perugia.
Esce dalla prigione per l’ennesima volta nel 1894. A questo punto ha cinquant’anni, e il tempo trascorso dietro le sbarre, a partire dalla sua fuga da casa, è più di quello vissuto in libertà. Ha bisogno di tregua. A Parigi riprende la vita “borghese”, da giornalista, fotografo, animatore di sezioni politiche: ma con una certa cautela.
Nel 1897 scoppia l’ennesima (la sesta) rivolta di Creta contro i Turchi. La Grecia interviene e l’impero ottomano invade la Tessaglia, costringendo alla fine Atene alla resa. Tra i difensori della “libertà” greca c’è naturalmente Cipriani. Creta è una sua vecchia passione, dai tempi del sodalizio con Flourens: e poi, tre anni di riposo per uno come lui bastano e avanzano. Ad Atene raccoglie una brigata italiana di duecentocinquanta uomini, della quale è il comandante naturale. Le cose non si mettono bene: malgrado si battano come leoni, gli italiani sono travolti dalla disfatta greca e Cipriani stesso ha una gamba spezzata da un colpo di cannone. Prima che lo becchino i Turchi riesce a farsi trasbordare in Italia, per essere curato. Gli viene proposto di sostituire alla Camera un suo compagno caduto proprio in Grecia, per poter usufruire dell’immunità parlamentare, ma naturalmente non ne vuol sentir parlare (e comunque la commissione della Camera gliela negherebbe). Deve quindi riparare ancora in Francia, dove riprende, stavolta per un periodo più lungo, la vita normale. Non è solo l’età a calmarlo: le conseguenze della ferita di Creta sono gravi, e per diversi anni sarà costretto a camminare con le stampelle.
Da questo momento comunque le acque si chetano. Ha persino la gioia di ritrovare la figlia Fulvia, quella nata in Inghilterra dalla sua relazione con Adolphine Rouet. Per quasi quarant’anni Cipriani si era praticamente dimenticato di lei. Era occupato in altro. Ora ha tempo. Sembra ripetersi la storia di Foscolo, con la differenza che in questo caso sarà la figlia ad appoggiarsi a lui.
Nel frattempo in Italia continuano a candidarlo al Parlamento, e lui continua ad essere eletto. Ma non potrà mai sedere a Montecitorio: coerentemente, rifiuta di prestare il giuramento al re. Ciò non toglie che continui ad occuparsi delle cose italiane. Segue ad esempio l’ascesa di Mussolini all’interno del partito socialista e, confermando l’eccesso di fiducia negli uomini e la scarsa capacità di giudicarli, ne trae un’ottima impressione. Viene ripagato dall’altro romagnolo con un vero e proprio culto. In un discorso pronunciato nel gennaio del 1913, durante la campagna per l’elezione di Cipriani a deputato, Mussolini lo dipinge così: “Prima del ‘70 egli offre braccio e anima alla causa della Patria, dopo il ‘70 a quello dell’Umanità. Ci dicono che il nostro grande compagno è vecchio; ma c’è senilità e senilità. C’è quella dell’impotenza, della stanchezza, del rammollimento fisico e intellettuale. Per questa noi chiediamo il riposo e il silenzio. Ma per Cipriani la cosa è diversa. Se dopo tanti eroismi, tanti sacrifici, tante lotte, egli è ancora vivo di corpo, di cervello e di fede, ciò vuol dire che la sua vecchiaia è migliore della nostra giovinezza”.
Anche rispetto alla prima guerra mondiale finiscono per trovarsi sulle stesse posizioni, avendo Cipriani firmato verso la fine del 1914 un appello lanciato da alcuni anarchici, tra i quali Hervé, Kropotkin e Hyndmann, per la difesa della Francia contro l’aggressione degli imperi Centrali. La guerra ribalta molte posizioni e convinzioni, ma non le sue. Continua ad essere un comunista e un rivoluzionario5, ma anche un fervente patriota. Ormai è però sempre più solo: i vecchi compagni sono tutti andati, quelli nuovi a malapena lo conoscono. Muore in una casa di riposo prima che la guerra finisca, nel maggio del 1918, poverissimo come era sempre stato. Vorrebbe che ceneri fossero sparse al vento: viene invece sepolto al Père Lachaise. A seguire i suoi funerali sono solo pochi amici. L’uomo che era stato leggenda è entrato nel processo di rimozione. Non è più tempo di eroi del proletariato, ma di funzionari di partito.
Adesso, dopo aver preso un bel respiro, vorrei rubare il tempo per un paio di considerazioni: una di carattere umano, l’altra di ordine politico. Cominciamo dalla seconda. Cipriani è il perfetto esempio del passaggio dall’idea nazionale, garibaldina e mazziniana, a quella internazionalista, bakuniniana. Non è uno sbocco obbligato: altri garibaldini, primo tra tutti Crispi, vanno in direzione completamente opposta. Cipriani lo dice chiaro: Al vostro re e a voi non devo nulla, non ho mai nulla domandato. Mentre che quelli fra voi che hanno reso qualche servizio al paese si sono affrettati di presentare la nota da pagare: e quale nota!
Nel suo caso non c’è in realtà altro possibile esito. La ribellione ce l’ha nel sangue, gli arriva da suo padre, che non gli ha trasmesso solo i geni, ma anche un esempio di coerente irriverenza nei confronti del potere. Mezzo secolo prima sarebbe stato un giacobino: a metà ottocento non può essere che un garibaldino. Il primo riferimento teorico è Mazzini, col quale si creerà a Londra anche un forte legame affettivo; ma è proprio a Londra, con la frequentazione dell’ambiente internazionalista e dei fuorusciti, che Cipriani scopre il limite della causa nazionale alla quale Mazzini si ferma. Il rapporto che si crea tra i due è molto bello, perché non comporta nessuna sudditanza psicologica: “L’affezione di cui il Mazzini mi dava prova era addirittura paterna: ma egli non riuscì mai a fare di me un proselite. Spesso mi diceva: fra tanti giovanotti che conosco non ho mai trovata un’intelligenza più ribelle della vostra ad accettare certe idee. Ma mi amava perché sapeva che io soprattutto desideravo una cosa, lo splendore dell’Italia, la libertà ed il bene degli oppressi. E però quando mi udiva esaltar le dottrine del Cabet, egli diceva ridendo: tutti i giovani passano di là, ma quando sono uomini vengono a noi”. È amicizia, un sentimento che paradossalmente nel modo degli esuli e dei rivoluzionari viene in subordine rispetto alla professione ideologica, e quindi trova poco spazio. Si raffredderà notevolmente dopo il 1871, perché Mazzini valuta negativamente l’esperienza della Comune parigina, che per Cipriani rimarrà invece sempre centrale, l’unica occasione in cui le sue “poche, semplici ma ferme idee” hanno trovato per un attimo realizzazione.
Il suo avvicinamento al socialismo, nella versione anarchico-utopistica, non lo porta comunque a ripudiare gli entusiasmi per il garibaldinismo, inteso come azione insurrezionale subito, ovunque ci sia una causa di oppressi da difendere, lasciando a dopo i distinguo. Quando parla di giustizia sociale Cipriani pensa alla libertà prima che all’eguaglianza: è vero che l’una non può esistere senza l’altra, ma non pretendiamo troppo da uno che della mancanza assoluta di libertà ha fatto esperienza sulla propria pelle per almeno metà della sua vita. Nell’accezione elementare è un ideale più prossimo, meno ambiguo, realizzabile da subito attraverso l’azione.
Sotto il profilo intellettuale Cipriani è un uomo semplice: non ci sono molte sfumature di grigio nella sua visione dei problemi. Parla in nome del proletariato, ma pensa in termini di individui. Le classi sociali subalterne prenderanno coscienza, ma per risvegliare questa coscienza occorrono uomini decisi, pronti a qualsiasi sacrificio, che sappiano tirarsi da parte al momento giusto in caso di vittoria, e dare esempio di ferma resistenza nella sconfitta. Le “avanguardie rivoluzionarie” per Cipriani non hanno il compito di “guidare” il proletariato, ma quello di fornirgli degli esempi. Ed è sull’esemplarità rivoluzionaria che si fonda, e in sostanza anche si esaurisce, la sua prassi politica. Ne è consapevole, non vorrà mai assumere il ruolo di teorico, non sente il bisogno di raccogliere sulla carta le sue idee. Devono essere le sue azioni a parlare, e quindi occorre sfruttare ogni occasione per agire, costi quel che costi.
Il linguaggio dell’azione deve però raccontare di uomini e di un mondo eticamente superiori. La lealtà e il coraggio sono l’unica garanzia di una società giusta, e gli unici fondamenti su cui può nascere. Per questo Cipriani non ammette l’azione terroristica. Insieme a Malatesta condanna la campagna di attentati che scuote l’Europa di fine Ottocento, con il solo risultato di isolare il movimento anarchico in seno alla sinistra e di offrire alla reazione pretesti per colpire le organizzazioni dei lavoratori. Ma mentre in Malatesta la condanna nasce da considerazioni di opportunità politica, in Cipriani c’è il rifiuto di una pratica che considera vile e sleale. Anche la violenza ha le sue regole, non basta la bontà dello scopo a giustificarla: e detto da Cipriani, che in mezzo alla violenza ha trascorso un’intera vita, c’è da crederlo.
Questo spiega anche la posizione nei confronti della guerra, già assunta nel caso della rivolta di Creta e ribadita poi allo scoppio del conflitto mondiale. Vale per lui quello che valeva per Garibaldi: “Lo schiavo ha il diritto di fare la guerra al tiranno. Gli è il solo caso in cui credo che la guerra sia permessa”. Su questo tema si trova in contrasto con Malatesta, che critica aspramente la partecipazione della brigata di volontari italiani alla guerra greco-turca. Malatesta è contrario alle guerre di liberazione puramente nazionaliste: ritiene che siano solo uno strumento ulteriore di profitto per il capitalismo, e che sarà semmai la lotta rivoluzionaria dell’ internazionalismo operaio a risolvere anche il problema delle cause nazionali. Cipriani non ha molti argomenti teorici per rispondere: si limita a giustificarsi dicendo: “noi difendiamo i greci, non la monarchia: noi non siamo al soldo di questa ma al soldo del comitato rivoluzionario che ci ha armati e pagati. Siamo vestiti in borghese, con la camicia rossa”. Che non è una risposta accettabile sul piano del dibattito teorico, ma è perfettamente comprensibile su quello della passione umana.
L’altra considerazione è ormai la solita che mi trovo a fare quando racconto la vita dei personaggi che mi hanno affascinato: ma che razza di uomini erano? Parlo di uno che rifiuta un lascito di cinquantamila lire (all’epoca una piccola fortuna) destinatogli da una vecchia ammiratrice, e accetta solo una poltrona consunta a ricordo dell’amica; e penso ai guru odierni della disobbedienza, che quella cifra (opportunamente rivalutata) la percepiscono per ogni comparsa in pubblico. Di uno che piuttosto che abbassarsi a chiedere la grazia marcisce letteralmente nell’ergastolo di Portolongone, e mi corre la mente a quei miei coetanei che hanno abbracciato la lotta armata, e che una volta braccati facevano la corsa a chi denunciava per primo i compagni, per ottenere qualche sconto. Certo, anche l’ambiente anarchico e internazionalista nel quale si muoveva Cipriani era pieno di profittatori, di spie, di delatori, di venduti: c’è tutta una letteratura, da Dostoevskji a Conrad, a raccontarne le sfumature più ambigue, e soprattutto ci sono montagne di documenti delle prefetture e della magistratura a testimoniarlo. Ma in mezzo a costoro c’erano uomini capaci di sacrificare tutto ai loro ideali, alle loro convinzioni. E sia chiaro, non mi riferisco solo ai rivoluzionari “professionisti”, come Malatesta, Bakunin, Cafiero e Cipriani: parlo di scienziati, di esploratori, persino di artisti. E soprattutto parlo di artigiani come Modesto, di operai o contadini come lo zio Micotto, capaci di opporre comunque resistenza, con la loro determinazione fisica o con la loro ferma mitezza. Sono questi che oggi mancano alla conta.
Mi rendo conto che la mia sta diventando sempre più una laudatio temporis acti, e rischia di scadere nel patetico. Sarà un problema di età. Ma qui non è questione di mitizzare né un’epoca né gli uomini che l’hanno vissuta. È una presa d’atto che le pagine che precedono, nelle quali non si è raccontata che una minima parte delle peripezie di Cipriani, impongono.
Secondo i parametri odierni di normalità Cipriani era un uomo pieno di difetti: il suo rapporto con la figlia è emblematico. La dimentica per quarant’anni, e non è certo lui a cercarla: è lei che si fa timidamente avanti, mandando in avanscoperta il marito. Campolongo, un amico intimo di Cipriani, racconta che al primo incontro il vecchio anarchico abbia subito detto ai due: badate che non ho una lira. Venti anni di galera (e che galera!) non possono non indurire l’animo, rendere diffidenti persino nei confronti del proprio sangue. Ma non è solo questo. C’è un problema di scelte a monte, anche se nel caso di Cipriani verrebbe quasi spontaneo arrischiare la parola destino. La scelta di vivere per un ideale non comporta necessariamente sacrificare affetti e sentimenti, quando l’ideale è tenuto sotto controllo, rapportato alla realtà: questa è anzi la condizione vera all’interno della quale coltivare l’idealità. Ma il confine è sottile, e rispetto alla coltivazione di un ideale la scelta degli affetti può diventare a volte castrante. Per Cipriani il problema non si pone nemmeno: quando arriva all’età in cui si pensa all’amore o a una famiglia ha già un passato che non gli consente cedimenti, pena il trascinarsi appresso nelle sue sventure degli incolpevoli.
Cipriani è anche una persona dal carattere forte, che a parlare senza ipocrisia potremmo definire violento (lo ammetto per dovere di cronaca, perché l’eccesso in questo senso è negativo: ma nel tipo di violenza intrinseca al carattere di Cipriani, quella di cui si parlava sopra, non posso non riconoscermi). Ha individuato, sia pure un po’ confusamente, uno scopo, e non indietreggia di fronte a nulla per raggiungerlo. Si lascia alle spalle dei morti, e non mi riferisco solo all’episodio di Alessandria. Durante le settimane della Comune si ritrova a dare anche ordini spietati. Ma è uno che rischia e paga sempre in prima persona, e che a cinquant’anni combatte in prima linea e si fa maciullare una gamba perché è tornato indietro a raccogliere un suo uomo ferito. Certo, è in mezzo a una battaglia, e lo ha voluto lui: ma c’è perché la ritiene una lotta di oppressi contro oppressori, e lui combatte per gli oppressi. Sarà elementare quanto si vuole, ma è un’etica della responsabilità.
Ad un certo punto Cipriani è probabilmente anche un uomo innamorato della sua immagine, non tanto per la gratificazione personale che può dargli la costruzione del suo mito, ma per la forza di esemplarità che può trasmettere. Se resiste imperterrito al carcere è anche perché non può smentire il personaggio che si è cucito e che gli hanno modellato addosso. Se racconta le cose a suo modo (dell’episodio di Alessandria diceva: io volevo solo andarmene tranquillamente, ma quelli si sono messi in mezzo…) è perché così lui le ha vissute, ma anche per dare coerenza ad un comportamento che ha ormai una rilevanza pubblica.
Tutto questo non toglie che sia un uomo eccezionale. Lo avvertono anche i suoi tardi contemporanei, quelli che lo conoscono nella vecchiaia. Al termine della sua intervista ad un Cipriani ormai settantenne Prezzolini commenta: Si tratta di due generazioni a confronto: la nostra fu tutto pensiero, la loro tutta azione. Noi li comprendiamo: essi ci guardano da lontano, non possono pensare bene di noi. Lo so, Cipriani, lo so anche se non lo dite: siamo degenerati per voi, siamo effeminati, cresciuti nella pace, nutriti di tranquillità, senza le costole che fanno arco nella pelle dei fianchi, senza cicatrici ai ginocchi e sulla faccia e sulle mani; uomini che hanno usato gli occhi fino alla miopia sui libri, e non posero mai in mano il fucile; e non hanno mai veduto né una rivoluzione né una guerra”. Ora, lasciando perdere le mani sul fucile e la guerra, di cui possiamo fare tranquillamente a meno, c’è qualcosa di vero nelle costole che fanno arco nella pelle dei fianchi. La fame non ti fa vedere più chiare le cose, anzi, è più probabile che ti appanni la vista: ma il bisogno, quando non è assoluta miseria, ti obbliga almeno a capire cosa è essenziale e cosa no, e ti porta a desiderare ciò che potrebbe aiutarti a superarlo. La cultura, ad esempio. O i valori per i quali vale la pena spendere una vita, dall’amicizia alla libertà, all’equità sociale.
Cipriani fa ancora parte di un mondo nel quale erano i bisogni a generare il modello produttivo, e non viceversa. Quando parliamo di rivoluzione industriale le date e le statistiche ci portano a pensare che a metà dell’800 il modo di produzione capitalistico, con tutto il suo indotto di consumi, fosse ormai ovunque affermato: ma non è affatto così. Io stesso ho conosciuto una vita di paese nella quale intere famiglie riuscivano a sopravvivere con quello che producevano in un fazzoletto di terra o che ricavavano da una mucca, un maiale, quattro galline. Non era certo l’Eden, la vita la strappavano con i denti, non erano liberi perché il minimo soffio di vento, una malattia, un cattivo raccolto, poteva spazzarli via: e tuttavia ciò che è rimasto vivo nel mio ricordo è un senso altissimo della dignità, o almeno la capacità di riconoscerla e di apprezzarla, e di conseguenza di stigmatizzare ciò che dignitoso non era. I “furbetti” c’erano come ci sono oggi: solo, li si chiamava mascalzoni.
In quel mondo una vita come quella di Cipriani aveva senso, perché era consacrata a consentire a ciascuno di essere dignitoso. Alla luce del poi, il disegno suo e in generale quello degli anarchici era il più ingenuo ma anche il più pulito, perché non prevedeva l’instaurazione di un “ordine nuovo”, socialista, fascista o capitalistico che si voglia, ma di un “uomo nuovo”. Tutto può essere imputato agli anarchici, ma non certo di aver contribuito alla creazione dei modelli sociali, economici e politici, e conseguentemente mentali e comportamentali, odierni (meno che mai a quelli di coloro che oggi all’anarchismo si richiamano); mentre un loro ruolo nella demolizione di quanto c’era di stantio in quelli vecchi lo possono rivendicare.
Cipriani è una figura eccezionale perché ha potuto credere fino in fondo, senza dover ricorrere a compromessi e senza chiudere gli occhi, a ciò che stava facendo: non c’era pericolo che la società da lui vagheggiata si rivelasse poi ingannevole. È allora possibile capire come un uomo potesse, credendoci seriamente, lasciare nel suo testamento questo mandato agli amici e ai compagni: “Quando sarò morto verrete sulla bara […] a dirmi che tutti questi giovani non sono morti invano, e che non vi sono più popoli oppressi sulla terra. Verrete a dirmi che non vi sono più imperatori né re a Vienna né a Berlino: che il mondo è davvero in marcia, questa volta verso la Pace e la Giustizia Internazionale”.
Appendice uno – Carlo Prosperi, da storico vero qual è, al sentir nominare Cipriani ha subito drizzato le antenne e mi ha scovato questo curioso documento. Sia il personaggio che il clima che lo circonda risultano particolari, soprattutto per l’insistenza sull’antisemitismo. Varrebbe la pena tornare sull’argomento. E magari, varrebbe la pena lo facesse uno serio, come Carlo stesso.
Amilcare Cipriani ad Acqui – Nell’autunno 1897 capitò alle Vecchie Terme un noto e coraggiosissimo rivoluzionario, il romagnolo Amilcare Cipriani. Proprio qui voglio e godo confermare le mie impressioni anteriori. L’ho veduto nel volto puro e dal candido cuore: a me parve l’erede vero di Giuseppe Garibaldi. Altissimo di statura, non grosso ma non allampanato, veniva nella città termale per guarire della ferita avuta sul campo di Domokos, quand’era alla testa della sua legione, condotta contro i Turchi. Il nodo del ginocchio venne spezzato da palla nemica. Ma quel violento, quel bevitore di sangue … comandò il fuoco, inerme; e cioè con un frustino in mano! Epperciò le Vecchie Terme, coi loro fanghi, saldarono il ginocchio al vecchio rivoluzionario, combattente spontaneo, disinteressato, per la libertà della Grecia. In gruppo di giovani e vecchi acquesi andammo incontro alla figura grande e mite del Romagnolo. Cipriani volle convocarci in un pittoresco albergo chiamato: Isolabella. Per la verità cronistica devo affermare che dalla sua bocca, in quel tempo, non ho udito il nome di Carlo Marx, né proposizioni anticlericali. Nel lucido e conciso discorso disse belle parole auguranti ad un sano rinnovamento d’Italia. E, se ebbe qualche accesa parola la espresse per detestare gli «spavaldi chiacchieroni» ancorché fossero venuti a noi come rivoluzionarî! Nell’abside della celebre Abbazia [di San Pietro] quell’accolta nostra entrò dopo che era stata la «Società Filarmonica»; e là vi fu anche un magazzeno di carbone … In quel luogo, istituimmo per suo ricordo un Circolo, intitolato: Amilcare Cipriani. Il caso o altro volle che alle pareti non fosse appesa neanche un’icona … sovversiva. Una lunga adunanza dei compagni … ha bocciata la proposta di comprare un quadro di Marx, poco tedesco e moltissimo semita. L’antisemitismo, allora, era così naturale fra il popolo, tanto che alcuni ebrei chiedenti l’ammissione al Circolo, non furono ammessi nel gruppo rivoluzionario. Uno scrittore non ben informato sull’avvenimento della fine dell’altro secolo, ebbe a dire una cosa non vera: e cioè che il Circolo A. Cipriani aveva profanato quelle antiche e religiose mura. Le conferenze nostre giovanili erano rivolte, tutte, preferibilmente, all’educazione politica degli operai; educazione poi mirante ad alcune oneste rivendicazioni economiche. Quei buoni propositi si mantennero, nell’incipiente movimento rivoluzionario italiano, fino al momento che nel partito rivoluzionario non comparvero i massoni e gli ebrei. (G. Reggio, Nella strada, La Staziella, MI 1940).
1 Su questa vicenda ci sono molte nebbie. Dovunque, persino nel dizionario biografico Treccani, si parla di una partecipazione di Cipriani alla spedizione di Giovanni Miani (altro bel personaggio). In realtà, le spedizioni di Miani furono tre, una nel 1858, una nel 1862 e l’ultima nel 1871: nel periodo in cui Cipriani risiede in Egitto non ne risulta alcuna. Quindi: o si tratta di un’altra spedizione, della quale non sono riuscito a trovare traccia, o è un’invenzione dello stesso Cipriani – che una certa tendenza a esagerare, o almeno a raccontarla alla maniera sua, l’aveva – oppure fa parte di quella costruzione del mito che il movimento rivoluzionario avviò sulla figura di Cipriani molto precocemente.
2 Gustave Flourens insegna storia naturale al Collège de France, fino a quando non lo cacciano perché materialista e repubblicano. Combatte a Creta in rivolta, ed è ripagato dal governo greco con l’espulsione. Nel 1869 viene quasi ucciso in un duello di matrice politica e deve nuovamente lasciare la Francia. Rientrato dopo la caduta di Napoleone III, per otto giorni nel 1871 è comandante della piazza di Parigi “liberata”. Viene ucciso nel corso della prima offensiva dei versigliesi.
3 Vittorio Emiliani, “Libertari di Romagna – Vite di Costa, Cipriani, Borghi”, Longo Ed., Ravenna
4 Lui naturalmente rivendicherà di essere stato scarcerato per volontà popolare: “I miei nemici, dopo aver esaurito contro di me il loro dizionario di ingiurie vili e di lordure, per aver detto che la morte di re Umberto non mi aveva né sorpreso né afflitto, aggiungono che la mia uscita dal bagno la devo alla sua bontà. Menzogna. Al bagno vi fui inviato nel nome del re e ne uscii per volontà di popolo, soprattutto dei due collegi elettorali di Forlj e Ravenna, ove fui eletto deputato nove volte come protesta contro la mia condanna ingiusta ed infame. Fu l’opinione pubblica che forzò il re a firmare la mia grazia, grazia che disprezzai di domandare e che mi sarei creduto disonorato se l’avessi fatto”.
5 “È proprio lui, tutto nero vestito. Il viso è quello della sua età, segnato dalla pace dei vecchi, il pelo s’accresce sulla faccia e sulle falangi delle dita e sul dorso della mano, tradisce la forza di quel corpo; il pelo non s’è fatto ancor bianco, non è tutto bianco, nella testa covano ancora molte strisce nere. Come è magro, Dio mio quel corpo! Come regge il peso di sessantotto anni, di cui venti di guerre, quattordici di bagno e lavori forzati, cinquantatré di vagabondaggio, di povertà, di indipendenza”. Da un’intervista di Giuseppe Prezzolini ad Amilcare Cipriani a Parigi, pubblicata sull’“Avanti” il 3 gennaio 1914