Il tramonto all’alba del nuovo millennio
di Giuseppe Schepis, da Sottotiro review n. 9, novembre 2002
Questo scritto ha la precisa intenzione di ripetere considerazioni ovvie e solcare percorsi già battuti da pensatori ben più preparati ed acuti del proprio redattore. La necessità che il redattore sente come impellente è quella di unire le tessere conosciute e abusate che descrivono la realtà contemporanea, soprattutto economica, sociale e politica, e tentare di abbozzare un mosaico capace di fornire un quadro completo della situazione. Questo serve soprattutto, come spesso accade, a chiarire le idee di chi scrive, nel forse vano tentativo di prevedere, dall’analisi dell’esistente, almeno un abbozzo del futuro che ci attende.
È oramai un dato di fatto che la realtà sociale ed economica, espressione diretta del sistema capitalista, è soggetta a velocità di cambiamento sempre più alte; questo movimento esponenzialmente accelerato lascia immancabilmente indietro colui che, nel tentativo di eseguire un’analisi, è costretto a fermarsi a riflettere. Così il lavoro scientifico, legato a procedure fisse che in genere vedono una raccolta di dati sperimentali significativi, l’analisi di questi con differenti teorie ben collaudate, la eventuale formulazione di un possibile nuovo modello teorico e la sua valutazione mediante riscontro sperimentale, risulta troppo lento per poter studiare un organismo instabile e mutante come il sistema socioeconomico attuale. I dati raccolti diventano obsoleti nello spazio temporale necessariamente occupato dall’analisi, la considerazione sul presente diventa subito storia del passato, la fantascienza attualità.
Il tentativo qui in atto è quello di cogliere una visione globale del sistema prima che questo muti profondamente. Più difficile è prospettare la forma del tutto dopo la prossima, rapida quanto probabile, mutazione.
Libera volpe in libero pollaio
Partendo dalla convinzione che il sistema economico alla base dei rapporti sociali sia la variabile principale dalla quale dipendono la quasi totalità delle leggi che regolano le società umane, è necessario porre un primo punto fermo sul quale nessuno potrà obiettare: l’unico sistema economico che regna – oggi – sull’intero pianeta è quello liberale (capitalista), vanno quindi attribuite ad esso tutte le colpe e tutti i meriti intrinseci alle società umane organizzate. Per onestà intellettuale chi scrive dichiara subito di riuscire a vedere ben pochi meriti e moltissime colpe.
Fino a qualche decennio fa, al modello capitalista era contrapposto ideologicamente un modello socialista o comunista; questo faceva intravedere la possibilità di organizzare in maniera completamente diversa i rapporti economici e i conseguenti patti sociali. Il crollo dei paesi socialisti ha trascinato con sé sotto le macerie anche le idee di contrapposizione e cambiamento rispetto alla società liberale, senza preoccuparsi del fatto che queste fossero realmente o no alla base dei fallimenti cui tutti – in verità – abbiamo assistito.
Il dato principale che va sottolineato è che il mercato non ha più alcun confine geografico o filosofico: il libero commercio e le sue regole – o meglio la sua assenza di regole – hanno conquistato l’intero pianeta. Ora il capitale è realmente libero di spostarsi quasi istantaneamente da un capo all’altro del mondo, da una borsa ad un’altra. Gli investimenti e con essi le strutture produttive sono liberi di ricercare il massimo profitto in ogni luogo fisico e metafisico.
La vittoria del capitale sul piano materiale ha fatto tacere anche gli oppositori filosofici, sia che questi fossero sostenitori di una giustizia sociale nata dalla logica che di rivendicazioni aristocratiche antiliberali o di altro genere. Il libero mercato è in grado, anche grazie all’abbattimento del costo dei trasporti, di mettere in diretta competizione il lavoratore europeo con quello indiano, di sfruttare a proprio vantaggio ogni tipo di materia prima o di risorsa presente in qualunque angolo del pianeta; può decidere di utilizzare un paese solo per la produzione mantenendo bassi i costi legati all’impiego di manodopera e di esportare i prodotti in altri paesi dove la stessa merce acquista un valore infinitamente più elevato ottenendo così margini di guadagno prima impensabili. Un esempio abusato ma emblematico è quello del pallone da calcio prodotto da un bambino indiano, che riceve per questo una paga capace di mantenerlo in vita e poco più, venduto ad un prezzo cento volte superiore ad un bambino europeo: il guadagno è palesemente altissimo, al pari dello sfruttamento intrinseco degli esseri umani.
Non più frontiere
Quello che una volta era il sogno degli oppositori del mercato è stato realizzato, in maniera completamente distorta, dal mercato stesso! Le frontiere cadute, inoltre, non sono solo di tipo geografico, ma anche di tipo sociale, etico, fisico.
In merito alle frontiere geografiche, il processo di abbattimento risulta già avanzato: il capitale è da lungo tempo internazionale. Le multinazionali statunitensi hanno iniziato a colonizzare l’Europa al termine della seconda guerra mondiale con il New Deal, imponendo regole e merci, così come l’Europa da tempo guarda ai paesi ex socialisti per investimenti molto remunerativi: la Fiat ha fabbriche in Polonia, in Russia o in Sud America da diversi decenni, mentre è recente l’acquisto di una consistente fetta della Fiat stessa da parte di una grossa multinazionale statunitense. I rivoli del potere economico si stanno intrecciando per sfruttare ogni nicchia ancora libera. Così l’Africa è un ottimo mercato per le industrie occidentali produttrici di armamenti, l’India un paese del bengodi per chi vuole produrre a bassissimi costi sfruttando anche la manodopera infantile e senza regole di sorta per ciò che concerne le norme di sicurezza (Bohpal insegna).
Il nuovo ordine mondiale vede le multinazionali statunitensi padrone incontrastate del mondo, capaci di dettare legge con imposizioni di forza sia di tipo economico, attraverso il controllo quasi egemonico di settori chiave quali quello energetico, sia di tipo militare, sfruttando la macchina bellica più potente del mondo. I mercati vengono conquistati con guerre commerciali che sfruttano opportunamente anche opposti quali il protezionismo economico e la competizione spinta oppure con guerre reali, che vedono sempre una lucrosa fase di ricostruzione dopo una pur sofferta fase di distruzione: molte delle guerre-lampo cui abbiamo assistito negli ultimi anni hanno permesso all’economia dei paesi partecipanti –primi tra tutti gli Stati Uniti – di avere consistenti boccate di ossigeno, anche a scapito del benessere di interi popoli e spesso con l’egida dell’Onu, sotto la falsa bandiera della missione umanitaria.
All’abbattimento delle frontiere geografiche è seguito un abbattimento delle frontiere sociali, con la dissoluzione di ogni contrapposizione di classe e l’uniformazione ai “valori deboli” borghesi da parte di tutti i ceti presenti sia nella pur variegata società occidentale sia nelle società del terzo e quarto mondo, versione enormemente più povera ma in gran parte culturalmente assimilata della società dei consumi. Anche le frontiere etiche sono cadute sotto i colpi del mercato: oggi tutto si può comprare o vendere, senza esclusioni di sorta; è possibile acquistare organi umani per trapianti o bambini da utilizzare come figli o schiavi (a seconda che questi ultimi siano più o meno fortunati), si discute della legalizzazione delle droghe leggere, di quella della prostituzione (su proposta di un ministro donna che si dichiara di sinistra, con buona pace alla memoria della senatrice Merlin). Presto si dirà che il traffico di organi o di bambini su cui si compiono abusi sessuali sono mali incurabili, e si tenterà di far riemergere alla legalità anche questi, regolamentandoli con leggi appropriate.
Il mercato ha così trasformato in merce vendibile ogni cosa, che si tratti di eroina, corpi umani, ore di lavoro prestate da minori o quant’altro. Ha pervaso i corpi, le menti, le case e i sogni. È così invasivo da essere presente in ogni angolo del pianeta, che sia la periferia di una megalopoli del terzo mondo oppure il centro ricco di una città europea.
Il lavoro e il frutto del lavoro
Il cavallo di Troia che è penetrato all’interno della cultura di sinistra, aprendo le porte ad altri attacchi ed al suo progressivo snaturamento, è l’attribuzione di un valore etico al lavoro; svincolati oramai dal fine ultimo di soddisfare i bisogni fisici e culturali dell’uomo, il lavoro e la produzione diventano essi stessi il fulcro attorno a cui edificare le società umane: mezzi che si mutano in fini senza logica alcuna.
La rotta che porta alla progressiva liberazione dell’uomo dal lavoro è stata definitivamente abbandonata, tramutando il progresso tecnologico in aumento della produzione, dei consumi e del profitto.
Il frutto del lavoro, lungi dall’andare a chi lavora, viene indirizzato verso l’investimento a più alto guadagno, mentre ogni forma di redistribuzione della ricchezza, dai salari reali dei lavoratori dipendenti all’assistenza sociale e sanitaria, dai servizi pubblici alla salvaguardia dei beni ambientali e culturali, viene via via contratta cedendo all’idea liberista.
Democrazia
Contrapposizione tra forma democratica esteriore dello stato liberale e organizzazione sociale di tipo feudale all’interno dei luoghi di lavoro.