Critica della ragione informatica

di Paolo Repetto, 2013

Le molte ore trascorse davanti al computer per realizzare questo libretto mi hanno costretto a rimeditare il mio rapporto con la tecnologia. Ne sono scaturite alcune elementari considerazioni, che sarà il caso magari di sviluppare e argomentare meglio in altra sede, ma che vorrei già qui proporre come stimolo, per me e per gli amici, a proseguire lungo il cammino intrapreso. Questo lavoro è stato reso possibile da un supporto tecnologico che è ormai alla portata di chiunque, ma che solo dieci anni fa sarebbe apparso (almeno a noi) fantascientifico. In questo frattempo non è caduto solo il muro di Berlino, sono crollate ben altre barriere. Oggi chiunque è in grado, con un po’ di buona volontà, di far circolare le proprie idee in una veste dignitosa. La stampa e l’impaginazione non hanno nulla da invidiare a quelle dell’editoria professionale, e il risultato non è solo l’appagamento di uno sfizio estetico, ma una leggibilità che si traduce in rispetto per il lettore e incentivazione alla lettura.

Non dobbiamo illuderci, naturalmente, che tutto questo non abbia dei costi, e non mi riferisco a quelli materiali per l’acquisto, la gestione e il ricambio degli strumenti. Mi riferisco a due aspetti, due rovesci di medaglia connessi a questa nuova potenzialità. Il primo concerne proprio la qualità del prodotto. Ciò che ciascuno di noi è in grado di produrre oggi ha sì un aspetto dignitoso, ma si tratta di una dignità conquistata con l’omologazione ad uno standard: ogni nostro discorso sembra acquisire credibilità ed autorevolezza nella misura in cui si allinea, almeno nell’incarto della confezione, al linguaggio ufficiale del sistema. La potenziale diversità dei contenuti viene mimetizzata dalla conformità dell’etichetta, e forse davvero già in parte disinnescata dall’atteggiamento, o meglio dal tipo di attenzione, che induce nel lettore. Per capirci, quando ci si trova di fronte a caratteri e forme del tutto simili a quelli con cui viene confezionata ogni velina del sistema si finisce per rapportarsi al testo con attitudine non molto dissimile.

Ma non è tutto. Una forma di condizionamento viene esercitata dalla informatizzazione del testo anche alla fonte, nel momento in cui abbiamo la possibilità di tradurre in tempo reale i nostri concetti nel formato stampa, cioè in qualche modo di ufficializzarli, e di leggerli in una veste che almeno graficamente ha già le caratteristiche del prodotto finito. La sensazione di precarietà, di soggettività, e quindi lo stimolo al ripensamento implicito nella scrittura manuale, vengono meno quando le nostre parole si allineano in perfetto ordine sul monitor, e prefigurano l’impeccabile schieramento sulla pagina: uno schieramento più adatto allo spettacolo della parata che al caos della battaglia, che finisce per condizionare fortemente anche la manovra dei concetti. Paradossalmente, proprio la possibilità di intervenire infinite volte sul testo in tempi brevissimi, di integrarlo e modificarlo senza scomporne l’ordine visivo, possibilità che così bene si attaglia all’andamento spezzato e cumulativo del nostro pensiero, disattiva le barriere critiche e i filtri di una meditata rilettura.

Di questo dobbiamo essere consapevoli. E tuttavia questa consapevolezza non può andare disgiunta da un’altra, quella che la tecnologia primitiva del ciclostyle, rozza ibridazione tra la manualità e la riproduzione a stampa celebrata come alternativa alla sofisticazione degli strumenti del potere, si alimentava in realtà di un falso mito, gratificava solo chi i testi li produceva (se era di bocca buona) ma non ha mai incoraggiato nessuno a leggerli.

La seconda obiezione attiene invece all’aspetto quantitativo. L’enorme massa di prodotti culturali messi in circolazione sia dalle reti sia dalla produzione editoriale personalizzata vanifica in realtà l’apparente democratizzazione comunicativa. Le voci che prima erano escluse dal coro ora si perdono nella infinita folla dei coristi. Forse era davvero più facile trovare un uditorio minimo ma attento quando gli strumenti di cui si disponeva non erano accordati, e il loro suono risaltava proprio per la distonia. E ancora: perché dovrebbe importarci di giungere virtualmente a milioni di interlocutori, quando ciò che abbiamo da comunicare non attiene più alle idealità universali di liberazione ma ad un riscatto quotidiano e singolare dalla miseria dell’esistenza, ed è in verità condivisibile solo con pochi intimi?

Forse tutto questo è vero, e forse il lavoro che sto facendo è solo una povera compensazione di quel che è andato perduto. Ma questa consapevolezza non riesce comunque a rovinarmi il piacere che ne ho tratto e quello che ancora me ne attendo. Ho realizzato un piccolo sogno, governandone ogni passo, decidendone le sequenze, i tempi, il colore e persino il numero e la qualità dei destinatari. Mi è stato possibile grazie ad una particolare tecnologia, e gliene sono grato. Non mi sono arreso alle sirene dell’utopia tecnologica e non mi sono convertito al suo credo: ho semplicemente sfruttato qualcosa che bene o male avevo a disposizione. Ora me ne stacco, e lo lascio lì, spento e inerte. Sino alla prossima volta.

 

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