di Lordo de Cetus, 30 ottobre 2021
elementi di leviatanologia
Qualche riga di presentazione (Paolo Repetto)
La bestia vista dal di dentro: come trovare un perché
A fiutarne le orme: descrizione di alcuni animali strani
Con la pancia nel fango. Ovvero, mostro ciò che ero o ciò che sarò?
In certi laghi del Messico, da milioni di anni. Ovvero, siamo tutti neotenici
Una situazione nuova. Ovvero, mi difendo legittimamente?
Prima e al di là di qualsiasi parola. Ovvero, il suono del mostro
Un cencio. Ovvero, malattia in aspetto di mostro
Uccidere Chimere. Ovvero, uomini d’un tempo mostruoso
Un sogno nel sangue: la tensione profonda verso l’altro
Il morso nella carne, il verme del pensiero: soma e psiche
Vedere dalle orecchie, sentire nelle mani, toccare con gli occhi
Conclusione inconcludente: mostrando-mi-nascondo
Appendice(ctomia): due punti di vista, o di fuga
Qualche riga di presentazione
(sperando non guasti il piacere)
di Paolo Repetto, 28 ottobre 2021
Questo “Trattato di Leviatanologia” probabilmente vi sorprenderà. Può infatti sembrare non in linea con l’atteggiamento “neo-illuministico” (definiamolo così, anche se ci va un po’ stretto) che i Viandanti hanno sino ad oggi praticato. Io sono invece convinto del contrario, credo anzi valga la pena cogliere l’occasione per ribadire un paio di concetti. Ogni tanto è opportuno ricordare anche a noi stessi perché esiste il sito e cosa intendiamo per coerenza.
A proposito di quest’ultima, pare persino superfluo sottolineare che nel nostro caso essa non può riguardare una qualsivoglia “linea”, dal momento che i Viandanti non se ne sono mai data una: nel senso almeno che non hanno mai definito una qualche “ortodossia”, né in merito allo specifico degli argomenti né per quanto concerne angoli prospettici preferenziali dai quali affrontarli o eventuali criteri formali da rispettare. Naturalmente, a farci incontrare e a tenerci assieme da almeno un quarto secolo è stata la comune adesione ad alcuni valori di fondo, quelli dichiarati nella presentazione del sodalizio e rimasti tali nel tempo (e che sono esplicitati in apertura del sito, nella finestra “Chi siamo”). A questi valori siamo tuttora attaccati, e continueremo a propugnarli. Ma ciò significa solo che abbiamo un’idea più o meno concorde di come gira il mondo e una mezza idea altrettanto condivisa di come vorremmo girasse. Non neghiamo l’esistenza o la possibilità di altri valori, altre idealità, altri stili di vita: solo che alcuni li riteniamo degni di rispetto e di una considerazione curiosa, altri di un’attenzione puramente difensiva. In questo secondo caso la linea diventa visibile, si traccia da sola: è il muro di resistenza da opporre all’imbecillità. Tutto qui.
Pertanto: non siamo “moderni”, nel senso che non ci riconosciamo in alcuna ideologia, ma nemmeno siamo “post-moderni”, nel senso che continuiamo a coltivare delle idealità, pur rimanendo consapevoli che di idealità si tratta (ovvero di linee guida per un progetto di vita, e non del suo disegno esecutivo), e che non crediamo che tutto possa essere recuperato e giustificato alla stessa stregua.
Quanto al sito, in questi venticinque anni i Viandanti hanno ospitato, e continuano a farlo, prima sulla rivista cartacea e poi nel loro spazio web, i contributi più diversi sugli argomenti più disparati. Ma non in maniera indiscriminata. Questi contributi devono rispondere ad alcune condizioni che, pur non essendo mai state “codificate” in maniera esplicita, discendono in automatico dallo spirito del sodalizio. Sono condizioni molto semplici: il sito non è un ricovero per aspirazioni autoriali frustrate dal mancato apprezzamento, quindi non è aperto alle “prose d’arte”, alla “fiction”, a una qualsivoglia concezione “mercantile” della letteratura. Non è insomma una vetrina per le ambizioni di chi aspira ad entrare nel “giro buono” (e d’altro canto, stante l’irrilevanza della nostra voce, comparirvi sarebbe comunque una perdita di tempo). Il che non vuol dire che chi scrive per i Viandanti non possa aspirare comunque ad un pubblico più vasto, ma semplicemente che non può essere questa la sua principale motivazione.
E arriviamo allora al testo di cui parlavo. Che considero esemplare, perché non è stato composto per il sito, ma ha tutti i requisiti per trovarvi spazio. È perfettamente “allineato” sulla non-esistenza di una “linea” dei Viandanti, per almeno tre motivi. Per ciò che tratta, per come l’argomento è trattato e per chi lo ha trattato.
Il tema del mostro marino intanto non è così peregrino: è già stato toccato ad esempio non molto tempo fa da Fabrizio (cfr. Mai oramai, ma ora!). A cambiare è la prospettiva nella quale l’argomento viene inquadrato. Sono invece del tutto originali i modi della trattazione, che entra ed esce disinvoltamente da pagine poco frequentate e scopre al loro interno percorsi di lettura inediti. Infine, l’autore. Ho conosciuto poche persone che incarnino lo spirito dei Viandanti più di chi ha redatto questo “trattato”. Condivide con un’umiltà che a qualcuno di noi (mi riferisco soprattutto a me stesso) senz’altro manca i valori semplici e solidi cui accennavo prima, lo fa in maniera trasparente e discreta ed è coerente nella loro pratica. Lo dimostra il fatto che questo scritto, così come le poesie in idioma genovese che pubblicheremo a breve, ho dovuto quasi estorcerglieli: e alla condizione che l’uno e le altre comparissero sotto uno pseudonimo. Non per snobismo o per falsa modestia, ma per un pudore autentico e capace di autoironia: ciò che del resto si può immediatamente verificare leggendo “Balene nella pancia”.
Infine. Anche le poesie di “Cö-o dindõ” chiedono due righe a parte. La poesia era assente da qualche tempo dalle pubblicazioni dei Viandanti, ma anche prima non vi aveva trovato grande spazio. Non si tratta di scelte o di preclusioni “editoriali”: semplicemente riesce molto più difficile (e questo è senz’altro un limite nostro, ma è anche oggettivamente vero) il rapporto con una modalità espressiva che è a metà tra quella letteraria e quella musicale, e suppone quindi una sintonia “immediata”, che preceda cioè la mediazione della comprensione razionale (così almeno la vedo io). Ora, la scrittura dei Viandanti è volta in linea di massima a capire qualcosa del mondo, mentre la poesia, anche quando è davvero tale (ovvero quando non è solo una scorciatoia ), proprio per la sua natura simbolica ed evocativa il mondo aiuta piuttosto a “sentirlo” che a spiegarlo. E noi “sentiamo” più facilmente, siamo naturalmente più partecipi e coinvolti in esperienze che già ci appartengono, nelle quali ci rispecchiamo. Per farla breve: attraverso il ragionamento in prosa conosciamo il mondo e lo raccontiamo, nella evocazione poetica ci riconosciamo.
Bene. È quanto accade anche con i versi di questo piccolo canzoniere. Anzi, la scelta del dialetto parrebbe accentuare ancor più il particolarismo identitario, restringere il campo dei possibili utenti ed escluderne tutti coloro che quell’idioma non lo masticano. Invece non è così. Certo, nella musicalità scabra ed essenziale del dialetto genovese (che in realtà non è un dialetto, ma una sorta di pidgin) noi semi-liguri riconosciamo il profilo delle creste appenniniche che abbiamo tanto spesso cavalcato, e immediatamente siamo rimandati ad ambienti, situazioni, personaggi, giochi, emozioni che nel loro assieme, comprensivo anche degli aspetti più mesti o dolorosi, ci parlano di un mondo che abbiamo conosciuto: ma questi versi vanno oltre, e con un leggero sforzo di decrittazione (perché non è sufficiente accontentarsi della traduzione a fronte, le versioni vanno confrontate e la sonorità dialettale va recuperata e assaporata) possono parlare a chiunque. Possono dirgli che questo mondo lo stiamo attraversando un po’ troppo in fretta, e che prima di affannarci a cambiarlo dovremmo avere almeno la pazienza di guardarci attorno, per goderne e per vedere cosa davvero varrebbe la pena salvare.
A me hanno parlato. E comincio a salvare proprio loro.
Vi era un grande drago e i Babilonesi lo veneravano. Il re disse a Daniele: “Non potrai dire che questo non è un dio vivente; adoralo, dunque”. Daniele rispose: “Io adoro il Signore, mio Dio, perché egli è il Dio vivente; se tu me lo permetti, o re, io, senza spada e senza bastone, ucciderò il drago”. Soggiunse il re: “Te lo permetto”. Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi preparò delle polpette e le gettò in bocca al drago che le inghiottì e scoppiò; quindi soggiunse: “Ecco che cosa adoravate!”. (Dn 14,23-27)
Cercando-mi-mostro
un impresentabile inseguimento
…quand’ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.
Pinocchio inghiottito dal Pescecane. Giona nel ventre della Balena, come Cristo, anche lui tre giorni e tre notti, nelle viscere più profonde. Decine di personaggi, dalla mitologia alla fantascienza, dalle fiabe ai testi sacri, esseri umani minacciati, aggrediti, fagocitati, da creature inimmaginabili, abnormi, terrificanti. Sono io, eccomi qua, inabissato nella mia Paura. Sei tu, anima divorata dal Mostro che ti rincorre, Corpo avvoltolato nel Morbo che ti rosicchia. Il terribile Drago che più ci minaccia, il Serpente sepolto fin dalle Origini, dentro di noi. La grande Bestia che esce dal mare, ci spaventa e sottomette, l’Ossessione archetipica profonda dell’Oceano della mia preistorica Mente/Coscienza. Eccomi qua. Sempre io, sono. La Minaccia ungulata, le Fauci spalancate, l’enorme Massa ignorante e ricoperta di alghe e conchiglie, il Bestione cornuto e ululante. Arcaico Cervello di Rettile sepolto nella mia evolutissima Neocorteccia. Io, ancora qua, a divorarmi, a scavarmi, da dentro. La Bestia più atroce, ce l’ho in fondo al Ventre, annidata nei recessi del mio personalissimo Essere, cellula Uovo feconda di ogni paradossale inquietudine di specie, annidata irrimediabilmente nella nutriente mucosa dell’utero della mia incerta esistenza…
– E sapete chi era quel mostro marino? Quel mostro marino era, né più né meno, quel gigantesco Pescecane ricordato più volte in questa storia, e che, per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato l’Attila dei pesci e dei pescatori.
Chi è, il Mostro, cos’è? Che mi rappresenta? Come mi si presenta? Perché me lo trovo sempre davanti, dentro, piantato lì, come Chiodo di Croce, inabissato nel mio esserci, maligno Granchio intanato? Che Diavolo cerchiamo, davvero, noi, andando a frugare così il Male nel mare? Che tormento brutale ci spinge, quale fascinosa Sirena ci attira laggiù? Cosa, in fondo, vorremmo trovare, nella pancia del Mostro? Ma non siamo noi, poi, i mostri più minacciosi, non è nella nostra pancia, inquietissimo mare, che dobbiamo pescare il male di noi? La mia Malattia, la mia Bianca Balena naviga sovrana sul fondo dell’Oceano di me. Sono forse io, il Creatore del Mostro, divorato da ciò a cui ha dato la vita…?
Perché, chiedo, occuparsi di Mostri? Perché preoccuparsene? Magari, proprio per questo: perché siamo noi, i nostri più mostruosi nemici; sono io, l’invincibile Pescecane, l’Attila vorace, affamato di me stesso. Frugarci, allora, ci serva a capire qualcosa, della nostra Storia e Materia, delle nostre più intime Malattie.
Da sempre, l’uomo prende tutte le sue più inconfessabili e incomprensibili fobie, le riforgia in terrificanti figure, dà loro improbabili forme e dimensioni, le arricchisce di inverosimili attributi, le storpia vieppiù con atavici terrori o con avveniristiche improbabilità, le gonfia, le deforma e le sporca ben bene, e poi le sbatte, quasi a dimenticarle, sul fondo del mare. E quelle lì se ne stanno, nuotando tranquille e inguardabili, nei silenzi profondissimi, nelle oscurità abissali. Soltanto, qualcuna, di tanto in tanto, senza troppi apparenti motivi, se ne ritorna a galla, butta fuori l’orrendo capino. Fa bella e ricca mostranza di sé.
Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di cambiare strada, cercò di fuggire; ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.
Queste inorganiche e parzialissime riflessioni sull’argomento, nella forma sciocca dell’accumulo di materiali per la fondazione di una Scienza del Leviatano, sono in realtà il tentativo di rispondere ad un’unica domanda: perché Dio, nel quinto giorno della Creazione, dopo aver preparato l’ambiente, con gli astri, il sole, la luna, le acque, la terra, la meravigliosa varietà del mondo vegetale, come primo essere animale vivente, mette nel mare il tannin, il ‘mostro marino’? (Gn 1,21). Una curiosa questione, mi pare. Soprattutto se la mettiamo accanto al fatto che più o meno tutte le culture antiche prevedono nei loro miti fondativi, divinità o mostruosità acquatiche, con cui o contro cui l’Ordine cosmico ha ragione sul Caos primordiale.
La mia risposta alla domanda è semplicemente questa: il Mostro marino è Necessario.
Questa incomprensibile Presenza risulta indispensabile, all’equilibrio globale della Natura. Quindi all’Uomo. È come se Dio mettesse l’uomo, non a caso l’ultimo animale posato nell’esistenza dal Creatore, davanti allo Specchio: “Questo, tu sei. Da questo tu vieni, questo puoi diventare”. Eccolo lì, il padrone del mondo: il Gran Leviatano di se stesso, davanti al suo Segno. “Persino l’Abnorme, l’Incredibile, l’Inconfigurabile, è dentro il Mio Ordine. Devi, dunque, imparare a convivere con il Disordinato Animale nascosto nel fondo di te…”.
– Affrettati, Pinocchio, per carità! – gridava belando le bella Caprettina. E Pinocchio notava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi. – Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina! E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa. – Bada, Pinocchio!… il mostro ti raggiunge!… Eccolo…! eccolo!… Affrettati per carità, o sei perduto! E Pinocchio a notar più lesto che mai, e via e via e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso allo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine per aiutarlo a uscire dall’acqua…
Questa, dunque, la tesi. L’inevitabilità del Mostruoso, in specie di quello marino, come altra faccia dell’incapacità dell’uomo di rimanere dentro l’Ordine, della sua diabolica tendenza a non comprendere in sé ciò che gli appare Diverso da sé. Tesi che, con buone probabilità, non riuscirò davvero a dimostrare. Però è divertente lo stesso, averla immaginata…
Partirò, come si è intuito, dalla Bibbia, perché è il Libro che leggo più spesso. Ma credo che potremmo portare avanti le stesse considerazioni anche avendo come punto d’avvio altra letteratura sapienziale del Vicino Oriente Antico, oppure Omero, o le Favole Popolari, o ancora i Veda e altri Testi Sacri d’ogni religione e paese. E financo la Letteratura o la storia del Cinema. Faremo comunque in questi ambiti qualche scorribanda, con la nostra barchetta. Un’ultima considerazione preliminare. Da un rispolvero anche molto sommario di riferimenti al tema sepolti nella mia tremolante memoria, mi pare di poter dire che la figura mostruosa marina ha due grandi rimandi simbolici. Da una parte è personificazione, incanalamento di Forze Negative, più o meno assimilabili all’idea di Male, insomma. Ossessione, Malattia, Minaccia, e universi collegati. Ma in altri, per quanto certo meno numerosi casi, essa può invece rappresentare l’Essere Luminoso, una forza asservita al Bene, Segno (premonitore, ammonitore, rammemoratore) dell’Essenza Divina; Elemento decisamente Salvifico, in buona sostanza. Credo che, nello sviluppo di queste riflessioni, dovremo tenere presente e far emergere questi due poli tematici dell’argomento.
Ma ormai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino come avrebbe bevuto un uovo di gallina; e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pescecane, batté il colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.
La bestia vista dal di dentro:
come trovare un perché
Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona.
Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.
Qualche giorno fa passando davanti ad un televisore acceso, ho assistito a questo interessante scambio di battute: dopo aver descritto le eccezionali caratteristiche di uno stranissimo enorme animale acquatico, un uomo, apparentemente uno scienziato, concludeva dicendo entusiasta: “Un Dio, un Dio a tutti gli effetti!”. Il giovane di fronte a lui, che lo aveva ascoltato con mimica via via sempre più preoccupata, ribatteva, con intonazione conclusiva e disperata: “Un mostro!”. Mi ha incuriosito e stupito molto, quest’accostamento spericolato, Dio/Mostro, enfatizzato dal contrasto nel timbro di voce dei due personaggi, tra l’entusiasmo vivissimo dell’uno e il funereo sconforto dell’altro. Non ho potuto vedere tutto il film, ma di un’altra sequenza sono riuscito ad annotare ancora una frase. Sempre quello lo scienziato, cercando di spiegare la sua teoria su quell’essere sconosciuto e abnorme, diceva: “La Natura ha un Ordine, e il potere di ristabilire l’equilibrio. Io credo che sia Lui quel potere!”. Mi ha fatto pensare molto, questa immagine. La mia visione del Dio ‘Pantocrator’, Colui che Tutto regge nelle mani e tiene al suo posto ogni cosa, non è molto lontana dalla descrizione che lo scienziato dava del Bestione. Il film, naturalmente, si chiama Godzilla, una produzione del 2014, che nella mia pressoché totale ignoranza della recente cinematografia, non conoscevo. Ho cercato di tradurre il titolo-nome, e ho scritto qualcosa come: ‘le Branchie di Dio’, o forse ‘il Dio con le branchie’, o ancora meglio, “Colui che respira sotto l’acqua” (viene in mente lo Spirito che alla Creazione aleggia sopra le acque, in Gn 1,2).
Apriamo la Bibbia, dunque.
È facilmente immaginabile che la cultura ebraica antica avesse un concetto del “mostro” parecchio lontano dal nostro. Senza entrare troppo nel dettaglio, pensiamo anche solo al fatto banale della quantità e qualità della conoscenza. Essendo una componente dell’idea del mostruoso anche ciò che è difficilmente spiegabile secondo le competenze scientifiche del tempo in cui quell’idea è elaborata, un grande numero di animali di cui oggi possiamo ammirare vita e abitudini, raccontati in documentari dettagliatissimi, sette o ottomila anni fa facevano invece parte della categoria dei mostri più misteriosi e spaventevoli, oppure erano adorati e temuti come divinità buone o cattive.
La Scrittura, comunque, intorno al tema del “mostruoso”, in specie di quello marino, ha una posizione decisamente articolata, sia nella terminologia che nei significati, e direi anche nella considerazione, negli atteggiamenti di fronte al mostro.
Cominciamo dall’analisi lessicale. Sono tre i termini che il Libro usa per dire il ‘Mostro del Caos’, l’Essere primordiale, la personificazione mitica della forza che si oppone alla Signoria creatrice di YHWH: Raab (p.e. Gb 9,13 e 26,12); Leviatàn (p.e. Gb 3,8 e 26,13); e, appunto, Tannin (oltre a Gn 1,21, p.e. Gb 7,12).
Dicevo della varietà di interpretazione. Raab, per esempio, è usato come personificazione mitica delle acque primordiali, essere potente fatto a pezzi da YHWH (Is 51,9), o ancora, in contesto storico, personificazione del Mar Rosso e dell’Egitto (il ‘domato’ di Is 30,7).
Il Leviatàn, drago, gran serpe che fugge, ripreso dalla mitologia fenicia, pure esso mostro del caos primitivo, ritenuto anche responsabile delle eclissi quando, ridestato da maledizioni efficaci di stregoni nemici della luce, inghiottiva momentaneamente il sole. Isaia 27,1 riprende pressoché testualmente un poema di Ras-Samra (sec. XIV a.C.) che dice: “Tu schiaccerai Leviatàn, serpente fuggiasco, tu consumerai il serpente tortuoso, il potente dalle sette teste”. Il profeta Amos ne parla come di un’arma nelle mani di Dio: tra i vari annunci di castigo ai popoli, fa dichiarare al Signore: “Anche se si nascondessero al mio sguardo in fondo al mare, laggiù ordinerei al Serpente di morderli…” (9,2). E curioso, rispetto al Leviatàn è anche il doppio registro che si ritrova nel Salterio: il Salmo 104,26 lo presenta come un Bestione pacifico e giocherellone, plasmato nel mare “perché in esso si diverta”; il Salmo 74,16 invece ricorda a YHWH: “gli hai spezzato la testa e lo hai dato in pasto ai mostri marini”, trattandolo quindi come minaccioso pericolo.
Anche il termine Tannin viene applicato a tipologie di bestie differenti. Secondo la versione CEI 2008 della Bibbia di Gerusalemme, le 14 occorrenze del termine sono rese così: mostri marini (Gn 1,21; Gb 7,12; Sl 148,7); serpenti (Es 7,9.10.12; Dt 32,33); draghi (Sl 74,13; Sl 91,13; Is 27,1; Is 51,9; Ger 51,34); coccodrillo (Ez 29,3; 32,2, in entrambi personificazione del Faraone e dell’Egitto).
Ma torniamo, arricchiti dalla consapevolezza terminologica, al nostro enigma di partenza.
L’altro ieri ho posto la mia domanda (“perché Dio crea il mostro marino”) a un biblista (laico). Purtroppo il canale comunicativo era decisamente limitato (un sms!), quindi non potevo aspettarmi grandi rivelazioni. Però la sua risposta, per quanto sostanzialmente corretta, non mi convince fino in fondo. Mi ha detto, più o meno: per sottolineare il potere ordinativo di YHWH sul creato, anche sulle più infime creature degli abissi (corsivo mio). Ora, questo è sicuramente vero, e parte non trascurabile della questione. Resta però la posizione assolutamente preminente – il primo essere vivente creato; ventunesimo versetto del primo Libro! – che sembra sottolinearne un’importanza particolare. Più che di ‘infime creature’, sembrerebbe trattarsi di abitatori degnissimi e importantissimi dell’Universo in via di ordinazione. Senza contare, poi, che solo il Tannin è individuato nominalmente, mentre per tutti gli altri esseri viventi si usano categorie molto varie, uccelli, esseri che guizzano e brulicano nell’acqua, e nel giorno successivo, bestiame, rettili, animali selvatici. Aggiungo, per completare il quadro, che all’atto creativo che pone nell’essere i tanninim, con tutti i pesci del mare e gli uccelli del cielo, Dio vede che è ‘cosa buona’, e li benedice con la formula: ‘siate fecondi e moltiplicatevi’! Il mostro non è, quindi, un errore, un difetto di fabbricazione, qualcosa venuto male o sfuggito al controllo della Mente Ordinatrice. No, è un essere voluto, e voluto proprio così, il primo a prendere il suo posto nel Cosmo, originariamente buono, e destinato anch’esso, come tutte le altre creature, a far prole, a riprodursi per popolare di sé il mondo. Non ho detto questo, per messaggino, al biblista, ma so che nel suo modo scanzonato e ironico mi darebbe quasi ragione.
Anche perché c’è dell’altro. Come abbiamo visto, il Mostro ritorna, più e più volte, in modi e forme diverse, nell’intero corpo della Scrittura. Ed è presente nelle due ‘ricapitolazioni cosmiche’, che spesso si ripropongono anche nella Liturgia delle Ore, di Daniele 3,52-90: “Benedite, mostri marini e quanto si muove nell’acqua, il Signore” (v.79) e del già citato Salmo 148: “Lodate il Signore dalla terra / mostri marini e voi tutti abissi” (v.7). Anche questo deve avere la sua rilevanza.
Riassumendo (riprendo queste considerazioni da alcune note della Bibbia di Gerusalemme), possiamo ricostruire l’evoluzione ‘sapienziale’ della ‘presenza mostruosa’ di cui abbiamo visto l’origine in Genesi 1 in questo modo. Recuperando elementi dalla cosmologia babilonese, a YHWH si attribuisce la vittoria, anteriore all’organizzazione del Caos, sul Mare (Tiamat) e sui mostri suoi ospiti, e il loro perdurante assoggettamento. Leviatàn, in particolare, che l’immaginazione popolare e poetica raffigura dormiente, e di cui sempre si teme il risveglio distruttivo e catastrofico per l’ordine esistente.
Ancora BJ suggerisce che il Drago di Apocalisse 12 (enorme, rosso, con sette teste e dieci corna, e la coda che trascina un terzo delle stelle del cielo), incarnazione della resistenza della potenza del male contro Dio, è per certi versi assimilabile a quel Serpente del Caos descritto sopra. Ricordiamo anche che il Drago, sconfitto in cielo e precipitato sulla terra (12, 7-9), va ad appostarsi sulla spiaggia del mare. E dal mare sale una Bestia, anch’essa con sette teste e dieci corna, “simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone” (13,2). A lei il Drago dà la sua forza e il suo potere. Entrambi, personaggi mostruosi di figura e ruolo decisamente negativi, nell’ultimo combattimento escatologico, finiranno nello stagno di fuoco e zolfo.
Ma chiudiamo questa carrellata biblica con un’immagine decisamente più simpatica. Del Leviatàn occorre segnalare ancora lo stupendo encomio di Gb 40,25-41,26, a mia memoria la descrizione più estesa e dettagliata di un essere vivente nella Sacra Scrittura. Qui il mostro prende un po’ le caratteristiche del coccodrillo, ma certo rimane il riferimento simbolico alla potenza primordiale ostile al Principio Ordinatore, e soltanto da Lui soggiogata. Siamo, direi, al punto più alto della Scienza del Mostruoso in campo biblico. È Dio stesso che descrive a Giobbe la perfezione e la potenza della creatura mostruosa. Questa diretta testimonianza della Voce Divina, questa ‘Parola di Dio’ espressamente dedicata all’Essere abnorme, conferma, credo, quell’importanza particolare, di cui sopra parlavo. Possiamo stralciarne alcuni frammenti, come squame preziose di un variopinto mantello, unico per bellezza e intensità lirica (brani tratti da Gb 40,31-41,26):
“Crivellerai tu di dardi la sua pelle / e con la fiocina la sua testa? / Prova a mettere su di lui la tua mano: / al solo ricordo della lotta, non ci riproverai! / Ecco, davanti a lui ogni sicurezza viene meno, / al solo vederlo si resta abbattuti. / […] / Non passerò sotto silenzio la forza delle sue membra, / né la sua potenza né la sua imponente struttura. / […] / Il suo dorso è formato da file di squame, / saldate con tenace suggello: / l’una è così unita all’altra / che l’aria fra di esse non passa. / […] / Il suo starnuto irradia luce, / i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. / Dalla sua bocca erompono vampate, / sprizzano scintille di fuoco. / Dalle sue narici esce fumo / come da caldaia infuocata e bollente. / […] / Compatta è la massa della sua carne, / ben salda su di lui e non si muove. / Il suo cuore è duro come pietra, / duro come la macina inferiore. / Quando si alza si spaventano gli dei / e per il terrore restano smarriti. / […] / La sua pancia è fatta di cocci aguzzi / e striscia sul fango come trebbia. / Fa ribollire come pentola il fondo marino, / fa gorgogliare il mare come un vaso caldo di unguenti. / Dietro di sé produce una scia lucente / e l’abisso appare canuto. / Nessuno sulla terra è pari a lui, / creato per non aver paura. / Egli domina tutto ciò che superbo s’innalza, / è sovrano su tutte le bestie feroci”.
A fiutarne le orme:
descrizione di alcuni animali strani
Puoi tu pescare il Leviatàn con l’amo
e tenere ferma la sua lingua con una corda…?
Se spostiamo lo sguardo dalla letteratura sacra a quella profana, credo che potremmo mettere insieme davvero un’infinità di tessere per arricchire il nostro mosaico che tenta di rappresentare l’Essere Mostruoso, in specie quello di ambiente o provenienza marina. Direi che scrittori e poeti di tutti i tempi hanno preso il mare e le sue più imprevedibili e improbabili creature, come campo di ricerca estetico-narrativo o etico-filosofico, come costruzione e disvelamento di simboli e del mistero dell’esistenza, o semplicemente come esercizio di stile e di fantasia. Del racconto di Omero, per esempio, che raccoglie tutta la favolistica e le mitologie precedenti e dischiude gran parte della letteratura a venire, leggo: “Un viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella sfera marina, è come se fosse, il suo, un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, allucinazioni, perdite tremende, fino alla solitudine, all’assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita”. È la descrizione della mia vita, della nostra vita, precisamente, la vita di ognuno di noi, nel grande mare dell’esistenza, le prove mostruose che prima o poi ci troviamo davanti. E ancora: “Il romanzo di Ulisse non poteva svolgersi che in mare, perché il mare, cammino fluido e mutevole, sconfinato e monotono, è il luogo dove il concreto, il reale si sfalda, vanifica, e insorge l’irreale, s’installa il sogno, l’allucinazione: il generatore dei mostri, che sono le immagini delle nostre paure, dei nostri rimorsi” (Vincenzo Consolo, L’isola dei mostri, in Letture Omeriche a cura di S. Colmagro).
Difficile orientarsi, in un oceano sconfinato così, intere biblioteche di riferimenti e citazioni. Però, proprio per l’abbondanza di materiale a disposizione, direi che in tale mare, ovunque si pesca, si pesca bene … Abbandono quindi volontariamente qualsiasi pretesa di ricerca metodica o criterio di scelta. Mi affido a pochi esempi, significativi perché scelti pressoché random, testi che stanno sulle dita di una mano (esadattila, naturalmente …), che posso afferrare soltanto allungando un braccio (appena appena, naturalmente, telescopico …).Ci daranno comunque senz’altro qualche apertura panoramica interessante.
Consigliabile, ovviamente, la lettura preventiva del testo a cui il commento fa riferimento[1].
I riferimenti sono:
allegato 1. Lo zio acquatico, da Le Cosmicomiche di Italo Calvino (1965);
allegato 2. Angelica farfalla, da I Racconti di Primo Levi (1966);
allegato 3. L’uomo che vide la lucertola mangiare suo figlio, da Vietate le sedie di Ignacio de Loyola Brandao (1981);
allegato 4. Il mostro, da L’orrore del mare di William Hope Hodgson (1914);
allegato 5. Il mostro, da I lavoratori del mare (parte II, libro IV, cap. II) di Victor Hugo (1866);
allegato 6. La Chimera, da Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1947);
allegato 7. Il cancro come simbolo di una partenogenesi inconscia, da Cancro perché di A. Caddeo, D. Marafante, R. Morelli, A. Setton (Riza Scienze n.5, settembre 1984);
allegato 8. Freaks – Miti e immagini dell’io segreto, di Leslie Fiedler (1978) (Garzanti 1981).
Inoltre:
Vincenzo Consolo, L’isola dei mostri, in Letture omeriche a cura di Stefano Colmagro. – Venezia : Marsilio, 1994).
Allegato 1.
Con la pancia nel fango. Ovvero, mostro ciò che ero o ciò che sarò?
Vogliamo partire dai progenitori preistorici? Ecco qua. Un gustosissimo racconto di Italo Calvino, in cui, con maestria, si descrive, in una ironica condensazione temporale, il passaggio evolutivo dalla vita acquatica alla terrestre, con le problematiche e i traumi collegati. L’invenzione ‘cosmicomica’ ci insegna che a volte quello che ci sembra mostruoso è ciò che di noi non vogliamo più accettare, di cui vogliamo, magari con troppa fretta e impazienza, liberarci. Così è mostruosa la sapienza degli anziani, tutta la tradizione che si vuole superare. Vediamo mostruoso ciò che pensiamo ci impedisca di guardare avanti, di progredire, di essere più ‘nuovi’. Si chiarifica qui bene il contrasto tra il bisogno ‘evolutivo’ dell’andare oltre, della ricerca verso territori inesplorati, e la sicurezza del conosciuto, la saldezza delle radici, nel nostro testo rappresentato dall’opposizione tra le trasformazioni continue imposte dalle necessità di adattamento alla variabilità della terraferma e invece l’immutabilità, il costante equilibrio di una vita ‘senza metamorfosi’, nella quale soltanto possono essere mantenute ‘le ragioni per cui è bello vivere’, e si può ‘arrivare all’essenza di sé e di ogni cosa’. “Va là, girino, che appena torni a bagno torni a casa!” è una battuta geniale, che dovremmo tenere presente, nella nostra ansia ‘mostruosa’ di proiettarci nel non ancora conosciuto. Lo sviluppo della storia ci dice che è lecito anche tornare indietro, che ‘solitudine’ è anche incapacità di essere in sintonia col proprio tempo. Che la mostruosità di essere ‘uno che è uno’, è un destino come un altro.
Allegato 2.
In certi laghi del Messico, da milioni di anni. Ovvero, siamo tutti neotenici.
Cambiamo cornice storica, torniamo più vicini a noi, trattando però ancora un’epoca tormentata, ‘di passaggio’. E trasferiamoci dal genere comico-cosmologico a quello tragistorico. ‘Tempi propizi alla teoria’, li definisce l’autore. Tempi di mortificazione, di mostrificazione dell’uomo, direi io. Ci facciamo guidare da un altro scrittore italiano, contemporaneo di Calvino, che ha attraversato con il proprio corpo e conosciuta nella propria carne la mostruosità come Barbarie della belva umana. Il racconto che leggiamo, come tutta la narrativa di Primo Levi, ci ricorda che quando il Mostro è l’uomo a cui si è addormentata la ragione, facilmente esso tende a generare altri mostri. Un processo a cascata, potremmo definirlo. In effetti, in questa breve storia, tutti i protagonisti sono o diventano mostruosamente inumani, come contagiati da un’epidemia inarrestabile. La vera “eresia della Natura”! Tutti mostri: lo scienziato pazzo, e le gerarchie militari che gli permettono gli esperimenti; i poveri uomini mutanti e anche chi, affamato fino alla disumanità, rosicchia le loro ossa; il guardiano, infermiere che si fa carnefice, e chi dice: meglio voltarsi dall’altra parte. E, in fondo, pure noi, mostri curiosi, che leggiamo magari sorridendo o ammirando la ‘fantasia’ dell’autore, senza chiederci troppo a fondo o troppo a lungo come mai cose simili, magari con dettagli solo leggermente diversi, possano essere accadute in tempi non molto lontani da noi, accadano in luoghi non molto distanti dai nostri, e probabilmente ancora accadranno, a persone non molto diverse da noi… Anche l’ambiente in cui la storia si svolge, è adeguatamente ‘mostrificato’. Citando solo dall’incipit: selciato sconnesso, colate di macerie, crateri di bombe, acque melmose, bolle vischiose. Persino gli orti, sono rachitici. Tutto, ovviamente, in esplosivo contrasto con il morbido e paradisiaco titolo, che ci fa sognare candore di serafini e svolazzar d’ali variopinte! E, invece, ancora: il campanello non funziona, la porta è sfondata, all’interno polvere, ragnatele, odore di muffa, fughe di topi nel buio, immondizia, macchie di sangue, pullulare di vermi… ossa di origine indefinibile. I sentimenti degli uomini: ‘ribrezzo, odio, curiosità’. Eccoci ancora qua, davanti a quel dannato specchio: mostri che guardano mostri.
(Tra i Racconti di Levi ce ne sono diversi altri, che potrebbero proficuamente entrare nella nostra analisi. Ricordo soltanto, almeno: il curioso L’amico dell’uomo; il bellissimo Quaestio de Centauris, con la geniale descrizione introduttiva della ‘panspermìa’, post-diluvio, “un tempo mai più ripetuto di fecondità delirante, furibonda, in cui l’universo intero sentì amore, tanto che per poco non ritornò in caos… giorni in cui la terra stessa fornicava col cielo, in cui tutto germinava, dava frutto” (stupenda l’immagine dell’origine delle grandi balene, i leviatani, dal connubio tra il fango primordiale e la chiglia femminea dell’arca…); e ancora le inquietanti pagine di Vilmy e di Ottima è l’acqua).
Allegato 3.
Una situazione nuova. Ovvero, mi difendo legittimamente?
Fulminante, come il guizzo d’una vipera che scompare tra i sassi, il perturbante, surreale racconto di Ignàcio de Loyola Brandão. Cosa dirne, non so. Riesco solo ad arruffare lì una sfilza di domande, stupide e senza risposta. Cosa facciamo, di fronte a ciò che ci accade, quand’esso ha dell’inaspettato, del sorprendente, del mostruoso? Sappiamo reagire? E come? C’è la paralisi? O riusciamo ancora a usare l’intelligenza, la sensibilità, la volontà? Le nostre paure, sono reali? Oppure sono fantasie ossessive? O forse, meno razionalmente, mi chiedo: gridare? prendere il coltello, avere una pistola? O, più semplicemente, girarsi dall’altra parte, e continuare a dormire… Si può ‘comprendere’ la Diversità, nel suo violento manifestarsi? In fondo, quelle due paginette senza senso mi strappano fuori la domanda vera. La Domanda delle domande: qual è la Bestia che mi divorerà? Di che Mostro devo morire, che Bandito sta per assalirmi, quale Malattia mi sto costruendo, nella mia fantasia cellulare?
Mah, comunque sarà meglio andare a vedere se abbiamo chiuso bene la porta di casa. Che non entri davvero qualcuno, a rubarci tutto… Posso dirlo? Sento già un peso sul petto… mio Dio, sembra proprio una brutta zampaccia pelosa …
Allegato 4.
Prima e al di là di qualsiasi parola. Ovvero, il suono del mostro.
Un’altra ‘orrenda creatura’ ce la regala Hodgson, scrittore inglese di fine Ottocento, morto soldato nella prima guerra mondiale. Di lui qualcuno ha scritto: “Pochi lo eguagliano nell’adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose entità attraverso accenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel comunicare le sensazioni dello spettrale e dell’anormale legati ai luoghi”. Ma in questo racconto, che traggo da una raccoltina ‘millelire’ intitolata ‘L’orrore del mare’, il mostruoso, l’orrorifico, l’abnorme, più che adombrato, è dispiegato in tutta la sua dirompente spaventosa teatralità, distruttiva e terrificante. A differenza del brano precedente, qui tutto l’impianto è realistico, cronachistico direi. L’ambientazione, le reazioni degli uomini, i movimenti delle cose, i dettagli dei rumori, delle forme e dei colori, tutto è dipinto naturalisticamente, ci è messo davanti in tutta la sua reale crudeltà e oggettività, e questo ci costringe alla partecipazione, siamo lì, su quella nave invasa, a tremare per il terrore, ad assistere allo spettacolo del Mostro che ci sgomenta, lentamente ci annienta. Forse è proprio la precisione di quel realismo descrittivo ambientale e psicologico, che ci costringe a considerare reale anche l’orrenda ‘Cosa’ che minaccia e divora tutto e tutti. Più d’ogni altra cosa, impressiona quello sgranocchiare di mascelle, ‘odioso suono di mandibole’, e quei muggiti bestiali, ‘infernali’, di rabbia, di dolore, di sazietà, che danno il ritmo all’azione, cadenzano la progressiva inarrestabile solitudine del protagonista. Nella quasi totale assenza di dialoghi, la ‘colonna sonora’ del racconto costruisce intorno a noi la gabbia della paura, della disperazione, dell’incubo. Cosa c’è, dietro l’invenzione letteraria? Dove va a scavare l’autore? Fino a dove arriva quel suo artiglio a tenaglia, che sfonda l’oblò della nostra coscienza e ci fruga le viscere? Cosa mastica, rumorosamente, il Mostro, di noi?
Allegato 5.
Un cencio. Ovvero, malattia in aspetto di mostro.
Victor Hugo ci dà esempi altissimi di indagine su cosa è mostro e su come l’uomo ci si pone e trova davanti, soprattutto in campo sociale e relazionale-sentimentale. Almeno due suoi romanzi sono interamente costruiti intorno a queste tematiche, (1831) e Notre-Dame de Paris L’Homme qui rit (1869). Ma c’è un altro romanzo, forse meno conosciuto, Les Travailleurs de la Mer (1866), tutto di ambiente marino, in cui ad un certo punto della vicenda l’uomo si trova davvero solo davanti, anzi tra le braccia, del Mostro. Nella sua stupenda prosa descrittivo-catalogatoria, enciclopedica ma tendente al meditativo, lo scrittore francese ci conduce passo passo per mano, dal ritratto realistico dell’animale inquadrato, fino alle sue più profonde significazioni simboliche. Hugo ci spiega bene, credo, che il mostro non è qualcosa che si trova ‘fuori’ della Realtà, non è invenzione, fantascienza, costruzione di una mente – seppur perversa – umana. No. Come già dalla Bibbia, ancora capiamo che esso è parte della Creazione, parte di noi, zona magari oscura, certo inspiegabile per la nostra ragione, ma componente integrante della Natura, parte viva e realissima di ciò che biologicamente e ontologicamente siamo. Qualcosa che ci spaventa, che ci attacca, ci disgusta e distrugge. Ma la modalità dell’Incontro tra l’uomo e la sua Ossessione Tentacolare, e il Significato Ultimo di questa Presenza Orripilante, questo ci interessa e ci tocca molto da vicino. “L’artiglio è niente, a paragone della ventosa. L’artiglio è la bestia che penetra nella vostra carne; la ventosa siete voi che entrate nella bestia”. L’idra si incorpora nell’uomo; l’uomo si amalgama con l’idra. Forma con essa un solo essere. Le ipotesi filosofiche di ‘lettura’ delle creature ‘ripugnanti’ non riescono comunque a rispondere all’eterna domanda: “A qual fine? A che serve ciò?”. Il punto di approdo della meditazione filosofica di Hugo, quindi, è lo sconfinamento nel campo del demoniaco. “Il demonio è la tigre dell’invisibile”. Se i cerchi d’ombra continuano indefinitamente, se questa catena esiste, è certo che l’esistenza della piovra ad una estremità prova l’esistenza di Satana all’altra. Si ripropone il terribile enigma del male. Ma di questo, semmai, in un altro capitolo.
Allegato 6.
Uccidere Chimere. Ovvero, uomini d’un tempo mostruoso.
Ho aperto questa piccola rassegna letteraria con un tuffo nel mare della preistoria ‘evoluzionistica’; la chiudo con un volo nei cieli di quella ‘mitologica’. Ritorno, in conclusione, ad un autore ‘nostrano’. Un libro stupendo, in cui i miti classici diventano strumenti di lettura della storia intima, personale dello scrittore e del lettore e collettiva del nostro tempo, di tutti i tempi. Nei suoi ‘dialoghetti’, Pavese recupera alcuni dei personaggi delle storie omeriche, della tragedia greca, delle Metamorfosi ovidiane. La classicità greco-latina, i miti ellenici, scelti perché “il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere”, dice l’autore stesso, nella sua ‘Avvertenza’. Dei, Titani, Mostri, Semi-Dei, Eroi, Uomini, nel loro complicato esistere e succedersi, incontrarsi, scontrarsi e sopprimersi, amarsi, odiarsi o ignorarsi, durare o scomparire. Tutto questo e altro, nei temi base di tutta la mitologia e la poesia di ogni tempo: la vita e la morte; la sessualità e il sangue; la ‘comprensibilità’ della Natura; la ‘irragionevolezza’ dell’Esistenza… “Non c’è dubbio che Pavese in questi dialoghi sia partito alla ricerca di una simbologia inconscia e dei tramiti in cui poteva avverarsi il passaggio dal proprio ‘caso’ personale, dal proprio orrore di esistere al mito sottostante, all’immensa, brulicante naturalità degli archetipi” (dalla nota introduttiva, di Roberto Cantini). Il dialogo che ho scelto ricorda Bellerofonte, figlio di Sisifo, l’uccisore di Chimera, il mostro della Licia, metà leonessa e metà drago, dal fiato di fuoco. Bellerofonte fu uomo ‘giusto e pietoso’ ma, divenuto vecchio, si sente abbandonato dagli dei. Sembrerebbe la semplice sorte di tutti gli uomini, ma in lui la cosa assume una misura ulteriore: non è soltanto triste, vecchio e solo, lui ‘sconta la Chimera’, cioè il suo destino di essere uccisore di mostro. “Chi una volta affrontò la Chimera, come può rassegnarsi a morire?”. A che serve uccidere l’Essere Mostruoso, se per l’uomo ‘trionfatore’ la conseguenza è, comunque, la vecchiaia, il deperimento e la perdita delle forze, la solitudine, la morte? È la sfida, la possibilità del combattimento, che dà la vita, sapere che una Chimera ti aspetta, da qualche parte tra le rupi. Una volta uccisa, tutto finisce, con lei. Spunto interessante di riflessione, sulla ‘necessità’ dei mostri, e la conseguente impossibilità della loro soppressione, sulla nostra relazione con loro, sulle nostre illusioni di ‘supremazia’… Questo ci insegna colui che “non è più nulla e sa ogni cosa”, e ci mostra la Verità, il nostro ‘Destino’.
In riferimento alla ‘problematicità’ dell’uccisione del mostro, anche Ovidio, parlando dell’Idra (Met. IX,70-73), ci ricorda: “Vulneribus fecunda suis erat illa, nec ullum / de centum numero caput est impune recisum, / quin gemino cervix herede valentior esset”. Anche questa è una lezione del mostro che dovremmo far nostra: la capacità di rigenerarsi dalle proprie ferite.
Altri Dialoghi si potrebbero leggere, tutti molto ricchi e stimolanti per le nostre riflessioni. Ne riporto solo un secondo, senza commento, il bellissimo ‘La rupe’, che lo stesso autore introduce così: “(nell’era titanica) qualcuno anzi pensa che non ci fossero che mostri – vale a dire intelligenze chiuse in un corpo deforme e bestiale. Di qui il sospetto che molti degli uccisori di mostri versassero sangue fraterno”.
A proposito, comunque, del destino di uccisore del mostro, apriamo un nuovo capitolo.
Un sogno nel sangue:
la tensione profonda verso l’altro
…ha incrociato una volta
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e.ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia…
La bella poesia di Pavese (I mari del Sud) porta il fuoco della nostra lente d’indagine sopra un’opera unica, ci dischiude un nuovo universo da esplorare. Non a caso, fu proprio lui, lo scrittore piemontese a portare in Italia e a tradurre per primo il capolavoro di Melville.
In effetti, uno degli aspetti positivi di tutto questo frugare tra mostri, per me, è stata proprio la ‘discesa’ nel Moby Dick. Uno dei libri che da tutta la vita mi porto dietro nei miei traslochi esistenziali, ma che mai avevo letto integralmente e seriamente. Anche di questo, ringrazio chi mi ha ‘stimolato’ a questa apparentemente insensata indagine. Perché il libro di cui parliamo è molto bello, uno di quelli che vale la pena di aver letto, uno dei pochi di cui è bene fare tesoro, prima di morire.
Ora, ovviamente, non faccio qui l’analisi del ‘romanzo’, chiamiamolo così (“un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano”, lo definì Pavese stesso). Come tutti i veri capolavori, se ne può dire tutto, ma è bene dirne il meno possibile. Lascio agli studiosi, ai critici il loro mestiere. Vorrei riuscire soltanto a capire cosa può insegnare a me questa storia, col girotondo apocalittico dei suoi personaggi, a me, intorno alle questioni su cui sto riflettendo.
Ma non è cosa facile: significa voler classificare, né più né meno, gli elementi del caos.
Il vocabolario mi suggerisce che il latino Ballaena descriveva un animale fantastico che appariva e scompariva improvvisamente. Da questo, il nostro ‘balenare’, lampeggiare, brillare e subito scomparire. Interessante anche l’etimo di ‘cetaceo’, dal latino coetus, di derivazione greca Ketos: mostro marino. Ecco perché qualche traduzione della Bibbia traduce effettivamente il termine di Genesi 1,21 con ‘cetacei’.
Oggi, di questi animali meravigliosi sappiamo quasi tutto. Misticeti (balene) e odontoceti (delfini) sono mammiferi a tutti gli effetti, e specializzatissimi, respirano con polmoni, hanno sangue caldo, ghiandole mammarie con cui allattano i piccoli; alcune specie possiedono un cervello grande all’incirca come quello dei primati. Soprattutto le dimensioni, sono impressionanti: un capodoglio può arrivare ad una lunghezza di 20 metri e a un peso di 60 tonnellate!
Chi sono io, per presumere di pigliare all’amo il naso del Leviatano?
Quindi la Balena, scelta come biblico ‘Leviatano’ dallo scrittore americano è decisamente affascinante. Vero simbolo animale di ciò che è strutturalmente e fisiologicamente vicino e assimilabile a noi (sistema respiratorio, circolatorio, nervoso, riproduttivo), e di ciò che rispetto a noi è anatomicamente e morfologicamente totalmente sproporzionato (dimensioni, habitat, comportamento, vita sociale). Melville, se vogliamo, come Genesi, mette uno di fronte all’altro, l’uomo e il suo mostro. Ma, vorrei dire, lui va oltre questo: ci invita a prendere in considerazione l’ipotesi più ardita. Tra le tante simbologie che possono essere attribuite alla Balena Bianca, non credo sia da escludere il riferimento all’Essere in assoluto, cioè a Dio.
E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo.
“Moby Dick è per ognuno ciò che ognuno lo crede”, dice con molta ragione Nemi d’Agostino nell’introduzione alla mia edizione del romanzo. Per Padre Mapple è il mostro biblico, strumento misterioso di Dio, di cui bisogna soltanto accettare l’operato, e dunque inseguirla per vendetta è blasfemia; per Achab è “il cancro che aveva nell’anima”, incarnazione del male metafisico, orrore della natura che deve essere estirpato; per Quequeg è un demone contro cui i suoi fratelli selvaggi da sempre hanno lottato; per Stubb e Flask un semplice sorcio d’acqua ingigantito… e per qualcuno può perfino non esistere. Mi pare che siamo decisamente nel campo della ricerca teologica. “Solo per Ismaele essa è tutto questo e più”: l’io narrante raccogliendo in sé tutte le convinzioni individuali dei vari personaggi, e riuscendo a fonderle nella sua visione empatica e onnicomprensiva, ci propone l’unico modo ‘sensato’ di porsi di fronte all’Altro: la comprensione rispettosa, l’inchino davanti al Mistero, quel tentativo di incontro e conoscenza profondo, che potremmo definire: ‘Relazione d’Amore’.
… e sventolando nell’aria la coda ammonitrice come una bandiera, il gran dio si mostrò, si tuffò e scomparve.
Ancora citando d’Agostino: “Ambigua come la natura … benigna e malvagia, vulnerabile e immortale … la balena leggendaria comprende in sé l’essere e il non-essere … In quel bizzarro abbozzo di sistema cetologico che Ismaele si rimugina in testa durante gli ozi di bordo (e che è manuale scientifico-pratico e inchiesta sul Profondo, rassegna delle meraviglie del mare e trattato sull’altra faccia delle apparenze, tentativo di classificazione del Caos e allegoria della ricerca del Vero) più si indaga sulla balena e più si scoprono solo misteri. Associata fin dall’inizio al mistero stesso dell’Essere, al Caos e alla Divinità, essa è anche l’altro da noi che è parte di noi. Evitarla vuol dire evitare noi stessi, volerla distruggere volerci distruggere…”. Solo una buona disposizione, quindi, davanti all’altro da me che è parte di me, solo l’Accettazione, il Rispetto, la Benevolenza consapevole, la sana Curiosità, l’intelligente riconoscimento d’essere parte d’un Unico Tutto, può salvare, cioè restituire il senso vero all’esistenza: Ismaele, disponibile a “riverire il mistero delle cose”, è l’unico personaggio della storia capace di sopravvivenza e rinascita, e l’unico a poter testimoniare tutto questo. “E sono scampato io solo per informartene”, scrive, citando ancora Giobbe, nell’ultima pagina l’autore del Moby Dick. Quell’Amore, che è rispettosa disponibilità alla conoscenza dell’Alterità, ci propone Melville nel suo capolavoro. Strappo una decina di righe dal libro, come esemplificazione narrativa dell’Amore di cui parlo.
Ma del grande capodoglio, quell’alta e possente dignità divina che inerisce alla fronte è così immensamente ampliata, che se lo guardate bene di fronte sentite la divinità e le tremende potenze più fortemente che alla vista di qualsiasi altra cosa viva nella natura. Perché non vedete nessun singolo punto, nessun tratto distinto, né naso né occhi né orecchi né bocca, nessuna faccia perché il capodoglio non ne ha, nulla tranne quell’unico vasto firmamento della fronte, pieghettato di enigmi, silenziosamente gravato del destino di navi, lance e uomini. Né di profilo questa fronte meravigliosa appare più piccola. […] Di profilo vedete benissimo quella depressione orizzontale, a forma di semiluna spezzata, che per Lavater è nell’uomo il segno del genio. Ma come, genio in un capodoglio? Ha mai scritto un libro o pronunciato un discorso, il capodoglio? No, il suo grande genio si rivela in questo, che egli non fa nulla di speciale per provarlo. E inoltre è dichiarato nel suo silenzio da piramide. […] Come può sperare questo ignorante Ismaele di leggere il tremendo caldaico della fronte del capodoglio? Non posso che mettervela davanti. Leggetela voi se potete.
Ismaele si pone così, davanti alla Balena bianca. Sono capace, io, di mettermi in questa posizione di prossemica relazionale amorosa, di fronte a ciò che mi appare infinitamente diverso dalla norma a cui sono abituato? Ognuno di noi, ha questo terribile compito. Guardare la fronte del Capodoglio. Provare a leggere quelle enigmatiche rughe, ascoltare quel misterioso impenetrabile silenzio…
Il baleniere è solo in acque così solitarie.
Il morso nella carne, il verme del pensiero:
soma e psiche
Moby Dick non ti cerca.
Sei tu, che pazzamente lo insegui.
A. Del mostrarsi del Diavolo.
Qualche pagina indietro abbiamo lasciato scivolar via Victor Hugo mentre sconfinava nel ‘demoniaco’. Proviamo a riacciuffare per la coda la bestiaccia… Anni fa dentro una sacca di libri che un amico mi ha portato trovai pure un ‘Trattato di Demonologia e Manuale dell’Esorcista’, dall’inquietante titolo: “Summa Daemoniaca”. Confesso di non averlo mai aperto, ma ora mi pare il momento di dargli una sfogliata. L’autore è un sacerdote teologo spagnolo, naturalmente specializzato in demonologia ed esorcista. Scorrendo il libro capisco perché istintivamente l’ho un po’ ignorato. La materia è decisamente lontana dalla mia sensibilità, in più è organizzata e presentata in una forma per me di difficile penetrazione. La struttura del libro, il tipo di linguaggio usato, perfino la veste grafica, tutto impedisce che questo libro mi risulti simpatico. Ma ho solo questo sull’argomento, quindi cercherò di raccogliervi qualcosa, nonostante tutto. Nella ‘Questione 51’, “Che forma hanno i demoni quando si manifestano agli uomini?”, trovo un’osservazione che mi sembra interessante per l’apertura di orizzonte di questo capitolo: “Quando diciamo che Satana è un drago o un serpente, quello a cui in realtà ci riferiamo è il suo carattere mostruoso, fiero, velenoso e astuto, tipico di questi esseri. Ma non ci riferiamo ad un’immagine concreta, dato che Satana continua ad avere l’aspetto di un bellissimo angelo nonostante la ripugnanza del suo aspetto morale. Ha sofferto una deformazione solo nella sua persona, ma non nella sua natura. Il suo essere personale si è deformato, ma la sua natura resta e resterà intatta, faccia quel che faccia. Dato che entrambe le cose sono inseparabili, egli in verità è un mostro, un essere deforme, qualcuno che causa ripugnanza e avversione”. Direi che questo è condivisibile, ad ogni livello, al di là di ciò che pensiamo sull’esistenza ‘personale’ di Satana. Il Mostro non sempre si presenta vestito da mostro, a volte il mostruoso è invisibile allo sguardo, si nasconde dietro un’apparenza ‘angelica’, e magari allora è anche più pericoloso e devastante. Ognuno potrebbe ricordare nella propria vita incontri e accadimenti del genere, maligne mostruosità mascherate da eventi luminosi, con i danni che magari ne sono conseguiti.
- Nel Mare della Psiche, i Mostri dell’Inconscio.
Non mi allontano troppo. Leggevo in questi giorni un tomo d’una collana di studi sulla psicologia del profondo: “Colpa. Considerazioni su rimorso, vendetta e responsabilità”. Un bel polpettone, ma parecchio interessante. Nel bel mezzo delle sue ‘analisi’, l’autore inserisce uno strano ‘interludio’, dal titolo: ‘Il diavolo con le mammelle’, sul significato psicanalitico dei demoni, indagato attraverso lo loro raffigurazione e il loro sesso. Il punto di partenza, direi, è il ‘bisogno di creare demoni’ in tutte le popolazioni e religioni antiche, come intermediari, mediatori tra l’uomo e la divinità. Questi spiriti possono essere benigni o maligni, e le loro raffigurazioni e interpretazioni variano da cultura a cultura. Il Serpente, ad esempio, simbolo fallico per eccellenza, in ambiente biblico è archetipo del ‘tentatore’, nella cultura cinese diventa il Drago, simbolo del Verbo creatore; nella saga sumerica di Gilgamesh è il nemico che induce al male, mentre nella tradizione cretese allude alla capacità di curare, di guarire, metafora quindi di rinascita dopo la malattia (la capacità di ‘cambiare pelle’), da cui anche il mito di Asclepio e il serpente simbolo della Medicina.
Altre figure apparentemente terrifiche del buddhismo cinese o giapponese, sono in realtà protettori di individui e luoghi sacri, difendendoli da influssi malefici. Interessante questo passaggio: “Nel momento in cui perde la sua funzione di intermediario, il demoniaco sembra predisporsi a divenire il ricettacolo delle proiezioni di tutto ciò che gli esseri umani non possono tollerare in se stessi e nella vita. O più semplicemente: non vogliono o non possono conoscere pienamente”.
- La Malattia come Disordine.
Arriviamo così a uno dei risvolti per me più interessante del ‘mostruoso argomento’. La riflessione sulla Malattia come concretizzazione della Paura, il Male fisico o psicologico come trasformazione neuro-organica, fisio-patologica, dei fantasmi e dei simboli del pensiero. Il Mostro che diventa la ‘confusione’ delle mie cellule, il panico della mia memoria immunitaria, l’ingarbugliarsi delle mie strategie biologiche difensive. Raccolgo un paio di stimoli da una raccolta di saggi di diversi autori (Il Male, a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica).
Innanzitutto la conferma che il Male può arrivare dall’esterno, ma anche dall’interno di noi, più precisamente: “L’oscura consapevolezza di essere esposti non solo al male che bisogna subire da parte degli altri ma anche a quello che può nascere, in particolari circostanze, dal fondo melmoso e oscuro di ciascuna esistenza”. L’uomo mente a se stesso, e piuttosto che riconoscere il male dentro di sé, lo rimuove, lo rinnega, lo proietta all’esterno. Questo “ci fa individuare come nemici coloro che sono diversi, combattere le idee che non abbiamo pensato, rifiutare la realtà che non riusciamo a possedere e a manipolare”. E soprattutto non ci permette di difenderci dall’attacco distruttivo di quel male interiore che abbiamo infantilmente ignorato o scaraventato altrove.
Ancora: l’organizzazione delle strategie terapeutiche nel rapporto dell’uomo con il male. “Con la malattia il disordine irrompe nella vita del soggetto e della società, ne altera gli equilibri. Il ruolo del medico e della medicina ha sempre avuto attinenza con la capacità di ripristinare un ordine, un equilibrio alterati. Ruolo che l’etimologia conferma: il latino medeor (guarire) e il greco mèdomai (prendere cura di) derivano dalla radice indoeuropea med– che implica il senso di ‘misura’, ma non con il significato di misurazione, bensì con quello di moderazione (latino modus, modestus), quella moderazione necessaria a ristabilire un ordine perturbato”. ‘Guarire’, quindi, non è tanto ‘far passare un malato allo stato di salute’, ma piuttosto ‘sottomettere un organismo turbato a regole previste, riportare l’ordine in una perturbazione’. Da questo concetto deriva quello di ‘incurabilità’, la ‘forza’ che si oppone con ogni mezzo al ristabilimento dell’ordine “ancorandosi con determinazione assoluta alla malattia e alla sofferenza. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente” (Freud). La domanda conseguente è: come mettersi davanti all’incurabile? Cioè, come aver cura della sofferenza altrui se essa appare immodificabile? È possibile curare, senza pretendere di trionfare, di modificare, di cercare di mettere ostinatamente in ordine ciò che è definitivamente fuori quadro? “Di fronte alle apparenti contraddizioni presenti in queste domande sarà utile fare riferimento al pensiero junghiano, che proprio nella contrapposizione degli opposti apparentemente inconciliabili riconosce il principale aspetto dinamico della vita psichica. […] È indubbio che nella sua visione della psiche e dell’esistenza umana il male, il negativo svolgono un ruolo attivo, inducendo un’integrazione e un allargamento dell’orizzonte di coscienza. Nel pensiero junghiano il confronto con il male contiene un’intrinseca possibilità di rovesciamento nell’opposto: da un massimo di negatività può emergere la possibilità di una trasformazione positiva, che si sviluppa attraverso un’esperienza simbolica in grado di conciliare le componenti della personalità che fino a quel momento si escludevano reciprocamente”. Davanti alla ‘incurabilità’, il primo passo è l’accettazione dell’incurabilità stessa, per arrivare con pazienza alla consapevolezza che ciò che può essere utilmente trasformato non è il disturbo, che in quanto incurabile rimarrà immodificato, ma il ruolo che esso svolge nell’economia psichica complessiva del soggetto. Questo, in sostanza, il ‘rovesciamento nell’opposto’ junghiano: “rinunciare a una volontà trasformatrice può essere talvolta la sola via che rende possibile la trasformazione”. Che poi non è altro che il principio che sta alla base della mia personale dolorosa esperienza di morte/risurrezione e della mia attuale esistenza cristiana.
D. Nel segno del Cancro. La poesia in un guscio di noce.
Per molto tempo, la “metafora privilegiata dell’incurabilità” era identificata con il cancro. Esso è anche uno dei mostri che più ci spaventano: cosa c’è di più abnorme e allucinante, infatti, di un Essere che nasce e cresce dentro di me, ospite indesiderato e imprevisto, ingombrante, invadente, inarrestabile, che mi occupa, mi consuma, mi deforma, mi prosciuga la vita da dentro? Ho davanti uno dei libri che più ho amato da giovane: “Di cancro si vive”, di Luigi Oreste Speciani. Leggo che l’antico nome egizio di granchio (tradotto in greco karkinos e in latino cancer) viene dall’aspetto osservato dagli imbalsamatori che aprivano l’addome del cadavere, simile a un crostaceo, con una massa centrale e gettate radiali periferiche. Perché ne scrivo qui? Cosa c’entra questo mostro con la mia vita? Quanto la minaccia? Quanto lo temo, o lo desidero? Lo combatto o lo invoco. Non lo so. Nessuno, probabilmente, lo sa. Io, però, ricordo. Era l’ottobre dell’83, avevo dunque 23 anni, e per tre giorni partii da Mornese al mattino alle cinque, un treno da Arquata, verso Milano. Il congresso si intitolava “cancro perché”, così, tutto minuscolo e senza punto interrogativo, organizzato dalla Società di Medicina Psicosomatica e dall’Istituto di Medicina Integrata. Ho tra le mani, 35 anni dopo, gli atti di quel congresso. Se mi chiedo cosa mi portava là, solo, in un ambiente in cui non c’entravo davvero nulla, proprio non so rispondere. Eppure, credo, la mia vita doveva passare anche attraverso quella grande sala da conferenze. Qualcosa deve essersi piantato, dentro di me, di quell’esperienza. Niente è rimasto, nella mia memoria consapevole, dei discorsi che ora rileggo su queste ultradatate pagine. Ma piango, ripensando al dolcissimo volto di una ragazza, che nelle pause leggeva Castaneda. Scrissi per lei una poesiola (sicuramente impresentabile!), la chiusi in un guscio di noce, e pensai che se riuscivo a fargliene dono, se avessi saputo chiamare per nome la Bellezza, guardarla negli occhi, in qualche modo avrei allontanato per sempre da me il Mostro Maligno. Oggi penso: il gheriglio ha la forma del cervello, il sentimento poetico è il cuore: era il mio modo goffo di mettere l’Amore al posto della Ragione, una terapia ‘alternativa’ nella prevenzione del Male. Non so dire nulla di più di queste poche stupide banalità. Se non che, ovviamente, non fui capace di far arrivare quel bigliettino a quella mano. Mi consolai però, quando sentii dire che i pazzi hanno una probabilità molto bassa di ammalarsi di cancro…
Torniamo all’oggetto. Mi piace questa definizione: “Il cancro è una crisi esistenziale, primitivamente emozionale e sentimentale, che solo successivamente si somatizza nella nostra architettura fisica e cellulare”. Chi dice questo, conclude così il suo intervento: “In rigorosi termini probabilistico-statistici ed entropici, la crescita tumorale identifica il comportamento autonomo della cellula normale nei suoi stadi precoci di sviluppo (disgenesia regressiva). Siamo invece noi, gli organizzati, ad essere straordinariamente improbabili, e costretti a reinventare questo equilibrio psico-morfo-funzionale, matematicamente impossibile, ad ogni istante della nostra vita come organismi. A rischio, se si turba o si infrange, di regredire (biologicamente!) a uno stato cellulare entropicamente più probabile, quale una coltura non-organizzata di amebe, limitata solo dall’esaurimento del pabulum”. Ecco, dunque, la verità. Il mostro sono io, non la mia malattia. Io sono, l’Improbabile, il complicatissimo marchingegno, l’esagerato divoratore di energia. La minaccia più grande, per me e per tutto, sono io. Che quel Principio Ordinatore, capace di tenere insieme l’universo di 60 trilioni di cellule del mio corpo, che muoiono e si rigenerano al folle numero di 18 biliardi al minuto, continui ad occuparsi con benevolenza di me…
Rimando ad uno degli articoli della rivista che raccoglie gli atti del convegno (allegato 7), che affronta il panorama simbolico contenuto e scatenato dalla malattia. In fondo, il mostro che mi cresce dentro, la balena che mi rosicchia dalla pancia, non è altro, forse, che un estremo tentativo di ri-creazione di me, confusa e male orientata certamente, ma spinta vitale, comunque, energia novella che vuole prendere forma, il figlio a cui ‘dare la vita’, ribelle, malefico, magari assassino, come di frequente i figli sono, ma che non posso non amare, perché è parte di me. Spesso, la parte più preziosa, più personale, più intima, inconfessabile, di me.
E. ‘Quel che ho inteso dall’esempio dei semi’.
Ho parlato di Amore risanante. Mi viene in mente il suo opposto. La declinazione della ‘mostruosità dell’amore’. Eros strettamente congiunto con Tànatos. Conosco un luogo, dove questo si fa carne viva, pagine in cui quel tema prende dolorosamente Corpo. Il Teatro di Pier Paolo Pasolini. Dovremmo leggere una ad una le sue sei tragedie, per vedere rappresentato in tutta la sua esplosiva drammatica problematicità il nodo della ‘Diversità’ nella relazione d’amore, come metafora della dialettica persona/società, o meglio del rapporto ‘incurabile’ tra individuo e Potere. Calderon (diverse variazioni oniriche sull’Incesto mitico), Orgia (l’inutile e distruttiva evasione-fuga sadomasochistica nella coppia piccolo-borghese), Affabulazione (il difficile rapporto tra un Padre e il Figlio, in una reinvenzione dei miti di Crono divoratore della prole e di Edipo parricida), Pilade (diversità incarnata, come Disadattamento, bestemmia alla Religione della Ragione), Porcile (la zoorastia, abominevole commercio carnale con i maiali del figlio ribelle, come il più infimo oggetto di passione amorosa, per contrastare la più infima abiezione del Potere paterno assassino), Bestia da Stile (l’autobiografica esposizione ‘definitiva’ del poeta, che si offre sull’Altare dell’Impotenza). Questo il campo di battaglia in cui lo scontro avviene, il campionario di ogni possibile inquadratura del tema: “l’analisi delle pulsioni oscure e violente che agiscono dal profondo dentro di noi, fra noi e intorno a noi” (Aurelio Roncaglia). Il corpo umano si sperimenta come il luogo del sacrificio, la vittima sacrificale e, in un certo senso, anche il sacerdote officiante, in un terrificante Rito dell’Essere se stesso nell’Essere Altro.
Da un saggio che indaga l’articolata posizione di Pasolini rispetto al Sacro mi piace raccogliere questa osservazione: “Con la soppressione delle culture popolari, soprattutto nel loro carattere religioso, si è perduto un momento che risultava fenomenologicamente essenziale alla cognizione del diverso, all’avvertimento del mistero, di ciò che si svela come ‘completamente altro’”. Con lo smarrimento del sentimento del sacro, l’alterità si muta in diversità, si perde la capacità di aprirsi ad accogliere l’altro in quanto irriducibile altro. Citando Baudrillard: “Non esiste razzismo finché l’Altro è Altro, finché lo straniero resta estraneo. Il razzismo comincia ad esistere non appena l’altro diventa diverso, cioè pericolosamente prossimo. È a questo punto che si sveglia la velleità di tenerlo a distanza”. La democratica frase: “siamo tutti uguali”, cioè, significa in realtà: “l’altro deve essere uguale a me”. Ciò che si identifica come ‘diverso’ diventa un ostacolo, da rimuovere, da sopprimere o, se questo non è possibile, da ‘tollerare’. Nel Prologo di Orgia Pasolini fa dire al suo personaggio, l’Uomo, morto da poco: “Cos’è insomma la Diversità / se non un puro termine di negazione della norma? / E quindi parte della norma stessa? / E, quel che importa, che cosa deve fare chi è Diverso? / Negro, Ebreo, mostro, cosa sei tenuto a fare?”. Pasolini, nel testo citato come nel drammatico compiersi della sua esistenza (morirà ad Ostia, ricordo, dal latino hostia, vittima espiatoria!), sembra concludere che il Diverso è costretto ad accettare un destino di Sacrificio: solo andando incontro alla Santità può riaffermare la propria sacralità e quindi quella del mondo[2]. “‘Luogo’ dove solo il poeta può accedere e da cui, nello scoprire il senso dell’irriducibilità degli opposti, può denunciare come un’illusione mortifera la pretesa universalistica della cultura dominante che, nella ‘certezza’ di poter riconciliare, finisce al contrario col distruggere tutto ciò che è altro da sé”.
F. Io sono te. La Lezione del Corpo Deforme.
Il piano sociale, il piano morale. Il piano fisico. La ‘difformità’, come condanna, come destino, come scelta, come antagonismo, come vocazione… C’è ancora una sezione che dobbiamo almeno citare. Il sottotitolo del testo che prendo come riferimento recita: “Mostri o mutanti, scherzi di natura, incubi viventi, incarnazione delle nostre paure, caricatura delle nostre illusioni”. Si tratta di una ricerca approfondita che parte dalla teratologia per arrivare alla rivoluzione culturale degli anni 60-70 del Novecento, dalla teologia al ‘Baraccone dei Fenomeni’. Dalle tavolette babilonesi a Plinio, dai trattati medievali al film di Browning.
Credo che la cosa migliore sia allegare direttamente e integralmente il libro, così da permetterne la sua più approfondita fruizione. Si tratta, ovviamente, di Freaks, di Leslie Fiedler. Buona lettura e proficuo utilizzo! (allegato 8).
Segnalo soltanto alcuni spunti, raccolti dall’introduzione al saggio, che potrebbero essere approfonditi e arricchiti da altre riflessioni e testimonianze.
In primo luogo la questione del ‘nome’: come chiamare ciò che si manifesta come diverso?
Ricordando anche l’etimologia del termine ‘mostro’, che ci dà informazioni interessanti: da moneo, ammonisco, o monstro, esibisco, entrambi i significati dicono che l’oggetto mostruoso non è soltanto qualcosa da guardare con disgusto o paura, da allontanare o sopprimere, o peggio, da ignorare, ma è qualcosa che ci serve, è messo lì, davanti a noi, per insegnarci, ricordarci qualcosa, mostrarcela, appunto. L’Anormalità fisica, psicologica, esistenziale, non è un capriccio, un errore della Natura, ma fa parte a pieno titolo del Disegno della Provvidenza (come anche Genesi ci ha suggerito).
L’autore ci spiega bene il “senso di sgomento quasi religioso” di fronte all’essere ‘strano’. Uno spavento irrazionale, davanti a qualcosa che ‘ci guarda’, ci riguarda, ci chiama, come dicendoci: “Noi ti conosciamo. Noi siamo te!”. Un’ansia profonda, un timore atavico, perché il ‘deforme’ raccoglie in sé tutte le nostre paure primordiali: la violazione dell’armonia e delle proporzioni organiche; la sfera della sicurezza e della funzionalità sessuale; il confronto ‘presuntuoso’ con le altre specie animali e l’angoscia per la nostra componente ‘bestiale’; il territorio, i confini, la precisa definizione della nostra identità. Da qui l’analisi della Psicologia del Profondo, soprattutto a partire dalla letteratura per l’infanzia.
Dalle più antiche testimonianze dell’inspiegabile deformità teratologica ai nani e buffoni di corte, dalle esibizioni nei ‘Freaks Show’ ottocenteschi agli stati mentali alterati da sostanze allucinogene degli anni 60, fino all’ostentazione parossistica di tatuaggi e piercing e alla ricerca estrema, ai limiti e oltre i limiti dell’autolesionismo, della Body Art, la recezione del ‘Fenomeno della Ripugnanza’ oscilla, dal vertice del sublime all’abisso dell’orrido. Sbagli o punizioni di Dio, oppure premonizioni, auspici di sorte favorevole? Perversione dell’ordine naturale, oppure rivelazioni dell’Io più segreto? Segno, dono, arricchimento, oppure macchia, nemico, colpa del genere umano? Colui che mi porta ciò che mi manca, che mi insegna ciò che non so, oppure insolente, inutile, comico aborto di me?
Vedere dalle orecchie, sentire nelle mani,
toccare con gli occhi
Appunti per la lettura teologica di un film
In lui era la vita…
Bene. Ho già scritto tante bestialità. Ora butterò giù la più grossa. Sto per mostrare tutta la mia mostruosità concettuale. Cammino sul filo della Bestemmia, e sento che sto per scivolar giù. Perciò, chi è troppo sensibile d’animo o troppo dogmatico di mente, chi ha cuore debole o cervello raffinato, può tralasciare la lettura di questa pagina. Ma, per chi ha ancora curiosità e coraggio d’ascoltare, voglio dire da ultimo questo. Se davvero il Mostro è colui che ci ammonisce, ciò che attraverso lo Stupore ci racconta qualcosa, attraverso il suo Essere fuori norma ci fa conoscere la Norma, se è il Portatore di Novità, il bizzarro, paradossale Educatore, l’Insegnante esagerato di Tutto, allora… per me, il mostro più mostruoso, il vero Mostro Maestro, è Lui, l’uomo Gesù Cristo. Riflettiamo: una nascita a dir poco misteriosa; una vita fatta di gesti stravaganti (uno su tutti? camminare sull’acqua…); l’ostinata propensione alla provocazione; la sua soppressione ‘scandalosa’, vera e insostituibile e consapevole Vittima Sacrificale; la ‘discesa nel ventre della terra’, il suo ‘durare’, oltre la morte, oltre ogni morte, ucciso infinite volte, ogni giorno, sempre Vivente, e continuamente risacrificato per la liberazione dell’Uomo. Colui che era, che ancora verrà. Il sempre Presente. Conoscete un essere più mostruoso di questo? Lo conferma il Catechismo: una sola persona, due nature, l’umana e la divina (Concilio di Calcedonia, 451). Doppia natura, come detto, caratteristica fondamentale dell’Essere Altro.
Questo bizzarro cappello introduttivo mi serve per affrontare l’ultimo compito: organizzare alcune riflessioni intorno ad un film. Mi hanno regalato un dvd, e ho promesso di vederlo. Non so nulla della storia, non conosco l’autore. Quindi sono completamente libero da qualsiasi preconcetto d’analisi, posso godermi la visione, e lasciar correre il pensiero e la fantasia.
Guardo La forma dell’acqua (di Guillermo del Toro, Premio Oscar come miglior film, 2017) nel giorno della memoria di Maria Maddalena, la donna che seppe così amare il Cristo, da incontrarlo per prima dopo la sua morte. Uno dei primi pensieri, finita la visione, è se questo non è un Vangelo. Mi chiedo: che differenza c’è fra l’Essere descritto e Gesù Cristo? Anche alcuni Evangelisti terminano la loro narrazione con la constatazione: “Tu sei un Dio!”, ultima battuta del ‘cattivo’ persecutore morente, sovrapponibile al: “Davvero quest’uomo era figlio di Dio” pronunciato dal centurione, dopo la morte di Cristo, in Marco 15,39. Del resto, cos’è il Messia, se non il Maestro, il Profeta dell’Amore, che è direi anche il senso globale dell’Essere descritto nel film: Colui che spalanca nuove possibilità alla relazione d’Amore. Tra l’altro, fin dall’inizio si dice di lui che da alcuni (i ‘Primitivi’ del luogo da cui è stato prelevato, un fiume in Amazzonia) viene creduto un Dio. Questa ‘ipotesi’ torna nel corso del film, ad esempio nell’episodio dell’incontro tra la ‘creatura’ e il gatto. La poesia finale, poi, non lascia troppi dubbi e conferma l’indirizzo di lettura che sto proponendo: il film è, anche, una parabola ‘teologica’, si parla della Relazione con Dio. O meglio, ma è lo stesso, della possibilità di una relazione d’Amore ‘Ulteriore’ con l’Essere Altro. Trascrivo gli ultimi versi che la voce fuori campo dell’amico della protagonista recita sulla scena finale del film, nella fusione totale dell’Essere nell’ambiente originario che lo accoglie:
Incapace di percepire la Tua Forma / Ti trovo ovunque intorno a me / la Tua Presenza mi riempie gli occhi / e con il Tuo Amore / il mio cuore si fa piccolo / perché Tu sei ovunque…
Un sonetto di Shakespeare? Una canzone di John Donne? Un frammento della Dickinson? Non so. Sant’Agostino, praticamente. Per alcuni aspetti, direi che tutto il racconto del film ha qualcosa del Cantico dei Cantici, il Libro della Bibbia in cui si cerca di descrivere l’esperienza unitiva tra uomo e Dio, attraverso le parole dell’Amore umano, anche nella sua dimensione più fisica.
Tra l’altro, sempre a conferma di quel che sto dicendo, notiamo che i rimandi biblici sono diversi, e importanti: ricordo qui solo l’episodio di Sansone, interamente raccontato in due puntate, come collegamento e rimando tra l’inizio (la presentazione dei personaggi buoni e cattivi, col riferimento all’amica di nome Dalila) e la fine (col ‘tradimento’, la delazione che, attraverso la pur incolpevole stessa Dalila, introduce la catastrofe finale). In effetti è probabile che questa citazione del personaggio biblico sia usata proprio per contrasto, a dimostrazione che l’amore cercato nell’esclusiva dimensione umana, senza il necessario fondamento divino, non può che portare alla rovina definitiva dell’esistenza.
Riassumendo all’osso la trama: come spesso accade nei film di ambientazione e tematica più o meno fantascientifica, si tratta della lotta tra il Bene e il Male. Ma qui non sul piano politico, sociale o morale, ma nel suo significato più alto, Religioso. La contrapposizione è tra ciò che sembra capace di provare Amore, e chi invece, tetragono, ne risulta impermeabile, come vetro su cui scorrono gocce di pioggia.
Annoto, in ordine sparso e senza svilupparli, alcuni spunti tematici, su cui si potrebbe riflettere (lo confesso: sono troppo pigro per sistemarli e approfondirli…).
. perché la Maddalena/Elisa ‘sente’, è ‘capace di riconoscere e incontrare’ l’Essere sommerso nella sua materia fluida?
. c’è una ‘predisposizione’ alla ‘chiamata’e all’incontro? (la ragazza ha già prima una sua relazione ‘erotica’ con l’acqua, se ogni mattina si masturba immersa nella vasca piena!)
. perché è muta? C’è un Silenzio che è necessario all’Incontro? La diversità, la ‘menomazione’ dispone al ‘sentire’? Le Diversità si attraggono?
. perché il primo ‘Contatto’ avviene attraverso l’Uovo (simbolo dei simboli, riferimento creazionale, che dice Inizio, Fecondità, Nascita, Vita, Riproduzione; anch’esso già anticipato dal timer della colazione).
. qual è il significato profondo dell’offerta rituale del cibo?
. il senso, anch’esso mistico e cultuale, della Musica e della Danza.
. anche il Male, la forma assoluta del Negativo, si costruisce e propone come un dio. Il dio dell’Autosufficienza, dell’Autoimposizione, dell’uomo Artefice di sé e Capace di Tutto. Il Grande-Estimatore-di-Se-Stesso. Anche questo dio perverso chiede il Silenzio, ne è attratto, eccitato. L’Amore, a qualunque livello, sembra non abbia proprio bisogno di parole umane.
. episodi di Guarigione miracolosa (la ferita al braccio; la crescita dei capelli; anche i muti parlano!). L’importanza dell’Imposizione delle Mani, gesto sacro per eccellenza, usato qui sia come atto risanante, sia come Benedizione finale al momento della separazione.
. cosa sono, invece, le due dita strappate, (le Colonne del Tempio), e perché sono rigettate?
. la ridicola e disastrosa autostima dell’uomo sempre votato al male: “Io non fallisco, io risolvo”, davanti all’inarrestabile e salvifico Disegno Superiore dell’Amore.
. la ‘Risurrezione’ dell’Essere. E la ‘Partecipazione’ alla sua Vita Ulteriore: apparentemente Elisa, nell’Unione Sponsale marina definitiva ritorna alla vita: nell’Abbraccio e dopo il Bacio dello Sposo, in lei torna il Respiro.
. la ‘doppia natura’ dell’Essere: Acqua/Aria; somma potenza e libertà vs prigionia, sottomissione, debolezza. L’Essere è in grado di respirare e sopravvivere in due ambienti, ma quello ‘umano’ è soffocante, opprimente, avvilente; quello ‘immerso nell’Alterità’ invece è liberante e rivitalizzante nel modo più pieno e totale.
. il genere ‘Parabola’: ricercata ingenuità, irrealismo e parossismo come cifra narrativa, sforamento e contaminazione di generi (spy-noir-fantasy-horror-love-musical), con il gusto per il rovesciamento spiazzante (fantascienza proiettata nel passato, il russo buono, ecc.), che ambienta e facilita la considerazione del ‘Diverso’ come migliore del ‘Normale’; il finale nell’inevitabile proiezione favolistica di felicità e contentezza senza fine.
. il discorso sulla ‘Solitudine’: tutti i personaggi sono infinitamente, irrimediabilmente, definitivamente soli. L’unico farmaco contro la Solitudine pare essere questo: credere, praticare, ‘salvare’ l’Alterità.
. da dove viene l’Essere? (dal Fango! è un nuovo Adamo?). A cosa serve? (è salvifico? come? individualmente, per la ragazza, probabilmente sì, ma la dimensione Universale e Cosmica della Salvezza? Come siamo coinvolti nella sua Presenza? dalla sua Sopravvivenza? dal suo Ritorno alla Vita?).
. cosa è l’Altro. Chi è. La ‘Banalità’ certo voluta della Descrizione della Mostruosità. Il ‘Mostro’, il Diverso, l’Altro, non è avere un po’ di membrana tra le dita o le orecchie che si gonfiano… ‘Diversità’, forse, si dà tra chi ha ‘Sentimenti Umani’ e chi non li ha… (su criteri, cioè, di sensibilità, delicatezza, rispetto, disponibilità al sacrificio di sé, ecc.).
. l’Altro come l’Abitatore di un diverso Elemento. Vivere sulla (e venire dalla) Terra; Respirare Aria; Essere fatti d’Acqua; Avere dentro il Fuoco. Colui che usa e combina gli Elementi in modo ‘Diverso’ (ancora nel riferimento a Cristo: calma la tempesta di vento, porta sulla terra il fuoco, cambia la natura dell’acqua, fa tremare la terra alla sua morte).
. il 10 pioverà. Il Divino è padrone degli eventi atmosferici (v., p.e., il profeta Elia e la sua relazione con gli elementi).
. l’Essere ‘Primordiale’ coincide con l’Essere ‘Ultimo’. Il Primo e il Secondo Adamo.
. l’apice del paradossale: il Gesto Sessuale come atto ‘ricreativo’ d’una realtà ‘altra’, diversa, dagli elementi capovolti, appunto (la stanza piena d’acqua!). Ma cosa vuol dire, davvero? E perché l’Acqua, ‘realtà Altra’, invade il Cinema?
. la dolcezza del sentimento, nel canto di Elisa, altro momento di forte ‘tensione religiosa’: “Sei andato via, e il mio cuore ti ha seguito. Dico il Tuo Nome in ogni mia Preghiera…”.
. la Storia di Ruth. Un film di Henry Koster, del 1960 (lo registro con simpatia, per ragioni anagrafiche personali… anche se fa una certa impressione essere coetanei di un kolossal che pare così datato. Ma mi consolo, in quell’anno qualcuno girava Come in uno specchio). Anche il film dentro il film, dunque, è biblico. Perché? E perché l’Essere ci si incanta, ci si perde davanti? Rut è il racconto dell’apertura, dell’Universalismo, dell’Amore verso la Straniera. E insieme la Promessa della Discendenza: dall’Amore tra Rut e Booz nascerà Davide, da cui verrà il Cristo. L’inseminazione della sala cinematografica può farci immaginare una ‘discendenza’ al rapporto tra la ragazza e l’Essere. In qualche profondità oceanica, un Uovo si schiuderà, forse… Di quella citazione cinematografico-scritturistica, degna di nota mi pare anche la prima battuta: “Ho peccato, ho dubitato della necessità del sacrificio…”, che direi distribuisce una certa luce interpretativa sull’intero film, e sulla ‘messianicità’ della mostruosa creatura protagonista.
È poco, lo so. Si può fare meglio. “Non si traggono profitti dal pesce della settimana prima”, per citare il malcitato Lenin! Non sono un critico cinematografico, tanto meno un buon teologo. E anche, il mio cervellino è limitato, e dopo un po’ fuma e puzza come pesce marcio… Però il film mi è piaciuto, non so dire cosa, ma qualcosa mi ha dato. E sicuramente, ci può anche aiutare a considerare la Vita non “il naufragio dei nostri piani”, ma una splendida nuotata nel mare dell’Amore, del piano di Dio.
Conclusione inconcludente:
mostrando-mi-nascondo
A quanti però lo hanno accolto
ha dato il potere di diventare figli di Dio…
Dall’Incontro con l’Altro ci sono tanti modi di ‘venirne fuori’. Si può far finta di niente. Si può farsi toccare, o cercare di rendersi intoccabili, si può perdere o trovare Tutto; soccombere o tornare alla Vita. Sfiorare il Cielo, farsi avvolgere dal mare o sprofondare sottoterra.
Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pescecane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
Da ragazzino giocavo a pallanuoto. Passavo cinque o sei ore al giorno pucciato nell’acqua. Per un po’ di tempo ho pensato che quello era il mio vero elemento; qualcuno già mi diceva che le mani mi stavano diventando palmate (a proposito di membrane tra le dita), come le zampe di un’anatra! Sì, stavo decisamente meglio a mollo, nell’acqua, che con i piedi per terra e la testa per aria, tra le nuvole… Poi è finita: un altro fuoco è venuto a strapparmi via da quella miaimmersione nei primordi. Falò della Passione. Innamoramenti, Ribellioni. Partenze come Fughe. Distanze come Rifiuti. Abbandoni come Alterità. La mia generazione si nutriva soprattutto di ri-sentimenti poetico-estetico-politici: l’Avversario, il Nemico, il Diverso era colui che leggeva altri libri, vestiva altri abiti, conteneva in sé idee diverse dalle tue. Una generazione che potremmo riassumere nel titolo di un film: “Sbatti il mostro in prima pagina”… Ma bando all’autobiografia. (Comunque, a pensarci bene, anche i titoli dei giornali, sono pieni di ‘mostri’, più o meno reali o ‘costruiti’, intercambiabili a seconda dei bisogni: terroristi, dittatori genocidi, serial killers, pedofili, le folle di migranti, mostro collettivo più alla moda e, ultimi arrivati, femminicidi).
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto, che gli pareva d’essere a mezza quaresima.
Della Cosa Politica, dunque. Lo ‘Stato Sociale’ non è un gruppetto easy-rock che vince Sanremo. Bensì uno dei mostri più indagati e temuti, corteggiati e combattuti. Nel 1651, a Londra, Thomas Hobbes dà alle stampe Leviathan, la sua opera più importante e famosa. Essa ci ammaestra intorno al ‘mostro sociale’, collettivo, creato dall’uomo per limitare la sua innata e insopprimibile tendenza/necessità di essere ‘mostro’ al suo simile. Un Leviatano gigantesco e onnicomprensivo dove si raccolgono e soffocano tutte le mostruosità individuali. Gli uomini, per sopravvivere al loro individualismo distruttivo, si uniscono in società, e istituiscono lo Stato, il potere politico, ‘volontà comune’ che diventa sovrano assoluto delle volontà dei singoli. Il terribile mostro biblico è quindi la metafora del Contratto Sociale, quel Patto che, in definitiva, libera e insieme sottomette tutti gli uomini: “Per parlarne con più reverenza, il Dio mortale al quale dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”, poiché “col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna e al mutuo aiuto contro i nemici esterni”. Ma anche i mostri più terribili, a lungo andare, si addomesticano, e finiscono col perdere gran parte delle mirabili e funzionali caratteristiche originarie…
E più andava avanti e più il chiarore si faceva rilucente e distinto; finché, cammina cammina, alla fine arrivò, e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte, mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
Discorsi stantii, d’altri tempi. Qui bisogna, piuttosto, trovare il modo di sgattaiolar fuori da questi fogli. Come fare, dove andare, a finire? Tirare le somme, è sempre stata una delle mie più insormontabili difficoltà…
Intanto, dichiaro che sono consapevole di non aver detto nulla. Di sensato e di nuovo.
Si sa, non riesco mai a dimostrare tesi, io, ho semmai solamente pensieri da dispensare.
Ma non è colpa mia: io sono l’Altro, questo l’abbiamo capito. Quindi, prendetevela con Lui!
Del resto, bibliografie sconfinate s’occupano di mostri, li raccontano, li descrivono, li spiegano e documentano, li sezionano e analizzano: potrei forse io immaginare, aggiungere qualcosa, che non sia già stato detto?
Non ho parlato di Storia dell’Arte, ad esempio. Un’iconografia abbondante: i draghi di san Giorgio, i pazzi di Gericault, per dirne solo un paio, i primi che mi vengono in mente.
E poi, fantasie e fantasmi di tutti i tempi, per tutte le età: dinosauri, sirenette, orchi, squali d’ogni tipo e mostriciattoli d’ogni forma… dovunque ti giri, un essere informe in agguato!
Il solito monitor gracchiante giusto iersera ha sputacchiato maligne sequenze di un’Hydra, francamente imbarazzante, per qualità e contenuti. Un mostro decisamente di serie B, ma l’immaginario umano è pieno pure di quelli. Eccome!
Mostruosi anche, a volte, i più dolci gesti d’affetto. Mi hanno recapitato pochi giorni fa una bella cartolina di saluti: un angolo di palazzo con portico immagino medioevale, in Salita Motta al Lago d’Orta: sulla facciata l’affresco (uno stemma?) che riproduce un serpentone antropofago incoronato, con tanto di ometto tra le fauci! (quale, il messaggio? Chi sono io, il divorato, o il divoratore? Ed è più mostruosamente spaventevole quel blu profondo di lago che si spalanca accanto alla piazza, o la folla di turisti, che gli stanno inconsciamente seduti davanti, sul bordo dell’inquieta liquida materia?)
I laghi, già. Proprio all’inizio di questa mia esplorazione, mi si era messo davanti, civettuolo, un cartone di Lock Ness; tutto giocato sul filo della realtà/finzione, esistenza/inesistenza del Mostro. Queste, le ultime parole con cui la storia si conclude:
“Ma credo che alcuni misteri, debbano rimanere insoluti!”.
E questa, potremmo davvero prenderla come provvisoria ultima stazione del nostro viaggio.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e, spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare: – Oh, babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!
Ho finito le idee. Eppure, almeno una cosa bisogna ancora dirla, faticosamente pensarla. Pinocchio nel ventre del Pescecane ritrova e riabbraccia Geppetto. Giona, nella pancia della sua Balena, prega, e rincontra Dio Padre. Anche questo, dovrà pur insegnarci qualcosa. Monstrum, ciò che ammonisce, fa riflettere. Ci ricorda ciò che siamo, che siamo stati, ci fa vedere quello che possiamo o non possiamo diventare. Ci aiuta a non dimenticare ciò che è accaduto, a non temere, o a temere ‘con giusta misura’, ciò che dovrà accadere. L’Essere inghiottito dal Mostro ci apre al tema del ‘Ritorno’, dell’Incontro, della Riappacificazione (interiore, generazionale, transnazionale, ultraterrena). Giona, nel punto più profondo della sua Discesa, innalza un Inno al Dio che salva. Questo, per lui, l’Inizio della Nuova Vita.
Il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia.
Il pesce della storia, nella lingua ebraica originaria, è di genere femminile: essere inghiottiti dal pesce come rientrare nell’Utero materno, essere risputati a terra come essere nuovamente partoriti. È, dunque, davvero un riappropriarsi delle Origini, la risistemazione della propria biografia; Ricapitolazione di Tutto, il riconoscimento del necessario Ricongiungimento: un Essere mancante, che si completa nell’Infinità. Non è qualcosa del genere, la Risurrezione?
Questo, anche, ci dice il mostro: che non può esserci fine.
Appendice(ctomia):
due punti di vista, o di fuga
Come in tutti i percorsi, come nella vita, anche nel ‘comprendere’ il Mostro, c’è un doppio movimento: dapprima si scende e poi si risale.
dell’Affondare, una favola[3]
mi son caduto dentro! non so com’è successo, devo essere scivolato sullo scendiletto dell’identità, precipitando giù a capofitto, nello scantinato profondo ventre della mia persona vana. è stato come un perdersi, nell’abissale rintrovarsi, o il c’ostruirsi vis cerico d’un m’isterico in cavarsi. roba da matti, chi me l’avesse detto! ora passeggio, le braccia ciò ndoloni nel puzzo antico di budella molli. raccolgo ingenuo pezzi rimasti cati di ciò che m’hanu trito, ritr’ovo quasi tutto quello che avido mi sono divo rato, son come di lavato dal passato di sventura. la chiamo in digestione di esistenza, mi sporgo su ogni ansa che sparge vecchia ansia. mi guardo intorno, nell’interno: sono una cosa flaccida, in movimento ipocrita, insulsa bava di bolo, spiaccicosa poltigliola, stravagante arabesco imputridente, divertimenticolo accecato di sé. dunque, niente di che. eppure è lì, nel buio indigerito d’un me finora inconosciuto, che – lo credereste? – ho incontrato il Bestino. la chiamo così, l’anima letta, che mi è parente rale, quel quid del m’io me stesso, chissà da dov’è uscito, colui che, polso fermo, d’un tratto chiaroscuro, disegna precisissimo la mia d’estinazione, il filo di equilibrio del cammino, nel bene e male, l’univoco, l’inestinguibile mio stretto vasto Vaso Destino. Bestino è d’una forma strana, poco mprensibile, misura men d’un mignolo micragno, tendente all’infinito, è amorfo con propaggini e senza cartilagini, non ha occhi, ma sente, tutto riceve e mèmora, senza nessuna remora. e sempre dice il vero, a volte dolce mente lenta ma avvolta lenta mente. sostengono, qui attorno, che sappia l’ora, il modo, il luogo del Ritorno, sia lui, una specie speciale di Semenza-Sostanza-Sentenza, della durata, della sensatezza di tutta l’esistenza. chissà s’è vero, sembra un innocuo vermiciattolo, che schiacci con un dito, invece è il Senso Unico della tua carreggiata. Fino all’ultima, sospirata espiatoria scoreggia ben tirata. davanti a quest’ameba di mia sincera malattia, ho dunque ancora una speranza. io, disarmato e nudo così, involtolato d’escremento, precipitato dentro, incrementato di fecalica ospitalità, fracico di villi e di bacilli, davanti a questa tenace tenia di me mòria, io, una cosa, credo, la comprendo. io sono ancora io, in quest’antro d’Assenza, stanza di me nticanza, ancora tengo, dentro di me, nel fondo della pancia, un’oncia del mio Ben essere. è un minuscolissimo microbino di me, mostriciattolo inverosimile inimmaginabile. Lui, Bestino del mio in Testino, sono sicuro, che Lui mi salverà.
del Riemergere, una preghiera.
vedi?, sono confuso, Dio, sono pieno di me,
colmo d’ogni stranezza, obbrobrio, alterità
un’informe sgraziata accozzaglia di rozzi pezzi
impazzita proliferazione di cellule ingorde
cicatrici mal cucite, rammendi di cadute
cisti e ricordi, escrescenze dell’impossibilità.
Aiutami Tu, Sistematore delle Cose Strane,
mettimi a posto, sanami, insegnami il mio posto
nella Semplicità, nel placido coesistere di Tutto.
dammelo, l’Ordine, comandami ch’io sia
qualcosa in mezzo a qualcos’altro, ben combinato
con i giusti rapporti, di scambio e di distanza,
omeostasi felice, ordinami che sia, soltanto,
mostruosa cosa, Tua
briciola in equilibrio, bestiolina che nuota,
capace di nuotare, nel mare malato dell’Amore.
(E naufragare ci sia dolce).
alla parte insana, distorta di noi
tra s.Olga e Maria Regina, 2018
dalla Rocchetta, con intenzione
[1] *(n.d.e.) Non tutti i brani e i racconti commentati dall’autore sono facilmente reperibili. Si era pensato in un primo momento di allegarli direttamente, così da agevolare il percorso del lettore: ma l’allegato sarebbe diventato a questo punto più corposo della trattazione stessa e avrebbe comportato difficoltà per la stampa D’altro canto, un testo del genere, che è stato redatto senza alcun ausilio informatico, chiede e merita un piccolo sforzo anche da parte di chi lo affronta: ambisce a qualcosa di più di una lettura veloce e distratta, vuole incuriosire il lettore, fornirgli indizi e spingerlo a investigare in proprio. Se riuscirà a trasmettervi questo stimolo, la ricerca di questi pezzi costituirà un piacere aggiuntivo.
[2] Sul Destino del Sacrificio. Oggi è san Lorenzo. Leggendo una pagina di Agostino sul senso del Martirio come partecipazione all’Offerta di Cristo (“Lui ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la nostra vita per gli altri”, 1 Gv 3,16), penso che spesso anche il Mostro ‘deve’ essere sacrificato per la salvezza dell’Uomo e del Mondo. Possiamo dunque, nel paradosso delle nostre riflessioni, immaginare un’ ‘Imitatio Monstri’: il Mostro è tale se porta la sua Diversità fino all’Offerta Espiatoria, e io devo ‘partecipare’ della Mostruosità, fino a far passare attraverso di me la necessità del suo destino sacrificale…
[3] (chiedo scusa per il lessico singhiozzante, al limite del dislessico, ma qui dentro non si vede un fico secco, e poi con tutti questi scossoni peristaltici, non è mica facile scrivere correttamente, con tutt’i puntini sugl’i).