Endogenesi delle cause o eterogenesi dei fini

di Nicola Parodi, 21 dicembre 2020

Ho letto le riflessioni di Carlo Prosperi esposte ne “La luce fredda dell’Utopia”. Condivido in gran parte le sue osservazioni, in particolare quando parla delle “aberrazioni della cancel culture, quella che, per political correctness, pretende di correggere la storia”. Per una sorta di reazione istintiva mi sento tuttavia in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza. Carlo sostiene che quelle aberrazioni sono i frutti perversi dell’Aufklärung. E aggiunge: “È ben vero che il sonno della ragione produce mostri, ma non meno mostruosi sono i parti dell’insonnia della ragione”. Qui non riesco a seguirlo, e mi sembra strano che ci arrivi per un percorso che in realtà almeno fino ad un certo punto è esattamente il mio, quando ad esempio afferma: “La razionalità non può sostituirsi a ciò che è frutto, in gran parte inconscio, di millenni di tentativi, per prove ed errori; non può impunemente sovvertire la tradizione (che non è un fossile) e pretendere di fare tabula rasa dell’esistente nella presunzione di costruire un mondo perfetto”. Sono d’accordo su tutto, tranne che sul soggetto iniziale della frase, o meglio, sull’uso che Carlo fa dei termini “ragione” e “razionalità”: quindi, mentre faccio mio il drastico giudizio sul sorgere di una nuova religione laica, che come le altre religioni ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male, vorrei chiarire che le aberrazioni cui giungono gli adepti di questa neo-religione non sono il frutto di una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma sono generati e guidati dalle emozioni e dai sentimenti,  e soprattutto sono condizionati dalle mode culturali.

Vorrei partire da alcune idee proposte da Richard Dawkins[1] (*). Prendendo spunto dalla convinzione di Lorenz che un modello di comportamento può essere trattato come un organo anatomico, Dawkins propone la teoria del fenotipo esteso. Con il termine fenotipo si intende la forma che assume un organismo sviluppato; in questa accezione il concetto di fenotipo viene esteso, oltre che alla forma dell’organismo, anche ai prodotti delle sue azioni nell’ambiente esterno (azioni che sono indotte dai geni).

Faccio un esempio. La trappola a forma di buca conica scavata dal formicaleone[2] è l’espressione di un comportamento determinato geneticamente, così come lo sono tutte le varie tipologie delle ragnatele. Tutto questo lo diamo ormai per scontato, perché quando esaminiamo il comportamento degli insetti sociali siamo psicologicamente disponibili a riconoscere che è determinato geneticamente. Allo stesso modo, con un minimo sforzo intellettuale in più realizziamo che anche le dighe costruite non da un singolo castoro, ma da un gruppo, rispondono ad analoghi criteri e quindi rientrano nella definizione di fenotipo esteso (*).

Continuando a salire di livello nella scala della complessità animale, riusciamo ancora ad accettare, sia pure con un po’ di difficoltà, che persino la “cultura” e l’organizzazione sociale dei primati possa rientrare nella definizione di “fenotipo esteso”. Ma quando facciamo un passo ulteriore, saliamo di un altro gradino, ecco che nasce il problema. L’idea di considerare la cultura umana e le sue realizzazioni tecnologiche ed artistiche come fenomeni rientranti nel concetto di “fenotipo esteso” urta la sensibilità di quanti ritengono l’uomo qualcosa di speciale. Diciamo che di primo acchito la reazione è comprensibile: in fondo sembra esserci una bella differenza tra chi è riuscito ad andare sulla luna e chi continua a salire e scendere dagli alberi. Eppure, se accettiamo come valida la definizione di cultura data da Luigi Luca Cavalli Sforza, per il quale “la cultura va intesa come insieme di conoscenze che acquisiamo e comportamenti che sviluppiamo durante la nostra vita; questi due elementi (conoscenze e comportamenti) creano la cultura sulla base dell’azione congiunta della nostra eredità biologica, cioè il programma genetico di istruzioni del DNA che dirige il nostro sviluppo, e dei numerosissimi contatti individuali e sociali di qualunque natura vissuti da qualunque gruppo sociale”, dovrebbe essere più facile accettare le realizzazioni della società umane come espressioni del “fenotipo esteso”[3].

Anche se Cavalli Sforza non è affatto entusiasta della cosa, ultimamente in assonanza al termine “gene” è stato coniato (*) il termine “meme”, che sta ad indicare un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. Nelle società umane la diffusione dei memi è molto rapida, in virtù delle molteplici modalità di trasmissione che abbiamo escogitato, e con l’avvento di internet si rischia addirittura che la loro trasmissione, pressoché immediata, sfugga a quella sorta di selezione naturale che ne misura la capacità di funzionare positivamente per la sopravvivenza della società in cui si diffondono. Vale a dire che tendono a circolare liberamente, fuori controllo, sia gli input positivi che le stupidaggini e le bufale: il che comporta una gran confusione, e il rischio (molto concreto, per quanto è dato vedere oggi) che le false informazioni, in genere più facilmente “digeribili” da spiriti pigri, finiscano per prevalere e mettere a repentaglio tutto ciò di buono che sino ad oggi si è costruito.

Vedo di spiegarmi meglio. Il fatto che le culture evolvano comporta l’esistenza un qualche meccanismo di selezione darwiniana. Questo permette la sopravvivenza delle culture (e quindi delle società che quella determinate culture esprimono) che meglio rispondono alle esigenze di riproduzione degli individui che ne fanno parte, in determinati luoghi e periodi; inoltre ci costringe a prendere atto che il “valore” che attribuiamo al modello culturale a cui apparteniamo è, nelle migliori delle ipotesi, valido per un più o meno breve lasso di tempo.  Ora, ogni cervello animale tratta le informazioni servendosi di moduli mentali che sono frutto di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni: ha insomma un programma di risposte già pronte, adattabili alle singole situazioni, e in questo modo risolve i problemi che l’individuo si trova ad affrontare, aumentando le sue probabilità di sopravvivere e riprodursi. In questa operazione la rapidità nella risposta agli stimoli esterni è un requisito essenziale, anche se va a scapito della precisione. I moduli mentali che utilizziamo noi umani sono dunque quelli che si sono dimostrati più efficaci alla luce dei meccanismi evolutivi, anche se, in base al principio di precauzione, a volte ci facevano fuggire di fronte a un pericolo non concreto.

Il discrimine sta qui. Per una serie di processi che non possono essere approfonditi in questa sede i membri della specie Homo sapiens sapiens hanno finito per ritrovarsi dotati, oltre che di moduli cognitivi automatici, anche di un processo cognitivo più lento ma più riflessivo[4]. Ovvero, noi non reagiamo in base al puro istinto, ma a seguito di una ponderata riflessione. Questa modalità di trattare le informazioni implica naturalmente la possibilità di errori di sistema, e anche il nostro modello riflessivo può essere soggetto a condizionamenti emozionali e culturali. Quindi la cautela è d’obbligo. Se è vero che, come abbiamo visto sostenere da Cavalli Sforza, gli aspetti più importanti del nostro sviluppo risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, per capire qualcosa di come ci comportiamo e come funzionano le società di cui facciamo parte è indispensabile una analisi razionale di questi aspetti. L’eterogenesi dei fini di cui parla Carlo è solo frutto, a mio parere, di una nostra insufficiente capacità di condurre a fondo questa analisi.

Proviamo a trasporre tutto questo sul piano dell’agire sociale e politico. Giustamente diffidiamo delle pretese di chi vuol costruire un mondo migliore sulla base di convinzioni religiose o ideologiche, al fondo delle quali c’è la certezza dell’esistenza di un vero e di un giusto assoluti. Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”.

È pur vero però che se in un gruppo di cacciatori-raccoglitori non è necessario intervenire per modificare ciò che regola i rapporti fra gli individui,  stante la sostanziale “immobilità” sociale, in una società complessa, le cui principali regole non sono ormai più quelle selezionate dall’evoluzione e codificate geneticamente, ma quelle di origine culturale definite storicamente, di fronte a modifiche dell’equilibrio sociale,  per degrado intrinseco o al presentarsi di condizioni socio/economiche nuove,  si rendono indispensabili interventi che modifichino l’organizzazione tradizionale. E dovendo agire è necessario farlo con la maggiore razionalità possibile, che consiste anche nel cercare di modificare il minimo indispensabile. Soprattutto, nessuna riforma può funzionare se le regole nuove contrastano con i dettami morali codificati geneticamente.

Insomma, voglio dire che se alcuni grandi riformatori del passato sono riusciti (magari solo parzialmente) nel loro intento, sono sicuramente molti di più i tentativi di riforma che non hanno funzionato. E i fallimenti sono venuti di norma da una voluta o colpevole ignoranza degli effetti di quella complessa interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura di cui parla Cavalli Sforza.  Ovvero dal fatto che quei progetti non erano sufficientemente razionali. Sarebbe semmai poi da aprire un dibattito su ciò che intendiamo per “razionale”, perché troppo spesso trovo l’aggettivo è usato nella sola valenza di “efficace, efficiente, capace di produrre risultati”, ma il suo significato non può certo esaurirsi in questo. Se così fosse, Himmler avrebbe realizzato una delle operazioni più razionali della storia. Per quanto mi riguarda, è razionale ciò che “funziona” tanto nella prospettiva individuale che in quella della specie (e non sempre le due cose coincidono: posso fare un sacco di soldi e moltiplicare le mie possibilità di sopravvivere e riprodurmi producendo scorie inquinanti, ma per la specie sono solo un danno): ciò quindi che riesce a mantenere un equilibrio tra le mie pulsioni egoistiche istintuali e la mia disposizione altruistica acquisita. Sono d’accordo con Carlo quando rievoca i Terrori generati dall’idolatria della Ragione, dai sogni degli utopisti, dalla forzatura radicale di Marx, ma mi sembra dimentichi quali altri terrori sono stati ingenerati da chi ad esempio si è fatto “interprete” monopolistico e ufficiale dell’insegnamento cristiano. Ora, la lettera del Vangelo detta ben altro che le stragi degli eretici o degli infedeli, allo stesso modo in cui la Ragione non prevede i campi di sterminio e la ghigliottina. La Ragione è uno strumento, come lo è la Religione: e come ogni strumento può capitare nelle mani sbagliate, ed essere usato malamente.  Ma questo può valere anche per una padella, o una forchetta: significa che dovremmo mangiare cibi crudi, e con le mani?

Per il resto, sono d’accordo (almeno in parte) sulla lettura in negativo delle rivoluzioni. Diciamo che sono piuttosto un tiepido riformista, anche se può sembrare una brutta cosa, perché “Occorre fare le riforme” è purtroppo lo slogan di moda fra la classe dirigente attuale. Non sono pregiudizialmente contrario alle riforme se e quando necessarie, ma mi  piace  ricordare quanto sostiene Montesquieu nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:   “Quando il governo ha una forma stabilita da tempo e le cose sono disposte in un certo modo, è quasi sempre prudente lasciarle come sono, perché le ragioni, spesso complicate e ignote, per cui una tale situazione si è mantenuta, fanno si che essa duri ancora; ma quando si cambia il sistema totale, si può rimediare soltanto agli inconvenienti che si presentano nella teoria, tralasciandone altri che solo la pratica può far scoprire”.

NOTE

[1] (*) Richard Dawkins, Il fenotipo esteso, Zanichelli 1986 – Il gene egoista, Mondadori 2017

[2]Per il formicaleone scavare trappole è ovviamente un adattamento per catturare le prede. I formicaleoni sono insetti, larve neuroptere, con l’aspetto e il comportamento di mostri spaziali. Sono predatori pazienti che scavano nella sabbia soffice trappole con le quali catturano formiche e altri insetti terricoli. La trappola ha una forma quasi perfettamente conica, con le pareti talmente inclinate che la preda non può arrampicarsi per uscire, una volta caduta dentro. Tutto quello che fa il formicaleone è di stare sul fondo della trappola, dove con le sue mandibole stritola, come in un film dell’orrore, qualsiasi cosa gli capiti a tiro” da Richard Dawkins, Il fenotipo esteso

[3] Cavalli Sforza aggiunge anche “Purtroppo nella maggior parte dei quotidiani e dei settimanali le pagine dedicate alla cultura limitano il loro interesse quasi esclusivamente a film, romanzi e in genere agli spettacoli. Intendiamoci, sono anche loro importanti, in quanto contribuiscono in modo non indifferente ai piaceri della vita, ma vi sono molti aspetti del nostro sviluppo che sono ancora più importanti e che risultano da una complicata interazione fra il nostro DNA e la nostra cultura, intesa nel senso più vasto su cui quest’opera è basata” (Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice ed. 2010)

[4] Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori 2020

Sul buon uso dei gatti (e delle illusioni)

di Paolo Repetto, 2013

Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso”.

Erwin Schrödinger, premio Nobel per la Fisica 1933

L’idea di cacciare un gatto dentro un simile marchingegno poteva venire solo al Vil Coyote o ad un Nobel austriaco. Capisco che si tratti di un paradosso, e che il buon Schrödinger voleva solo dimostrare come nello stesso istante una particella elementare possa trovarsi in posizioni diverse e possedere una diversa quantità d’energia, per cui a livello di quanti le leggi classiche non reggono: ma anche i paradossi andrebbero trattati con un po’ di serietà (soprattutto se si dicono queste cose nel 1935, e c’è il rischio che qualche connazionale le prenda sul serio, e tenti l’esperimento su scala industriale, magari non con i gatti).

Per essere seri con un paradosso bisogna intanto formularlo in maniera tale che soddisfi ad alcuni requisiti fondamentali. Deve reggere a dispetto della apparente insensatezza e deve contenere un elemento di verità, ma non basta: deve soprattutto superare la prova bambino.

Vediamo cosa opporrebbe un bambino al nostro Schrödinger. Supponiamo sia un bambino intelligente, di quelli che rompono le scatole quando racconti loro una fiaba, che esigono precisione, risposte chiare, una certa consequenzialità logica anche nell’irrazionale. La prima domanda, dopo quelle immancabili sul perché non un cane o un topo o il cugino Mirco, e la richiesta di specificare di chi è il gatto, e se è nero o rosso, o maculato o striato, potrebbe essere: ma il gatto se ne sta di rimanere chiuso al buio nella scatola? Non è che si ribelli, e che la sua agitazione alteri il funzionamento del meccanismo e provochi la rottura della fialetta, e quindi il gatto la faccia finita subito, senza aspettare i sadici comodi dello sperimentatore? Ha voglia Schrödinger di precisare che non deve avere la possibilità di afferrare il meccanismo: ma vuoi mettere, un gatto furioso?

Ammettiamo però che il gatto sia sedato, o che sia particolarmente pigro: non avrà sete? Come, cosa c’entra? Provate a uscire con vostro nipote per una breve passeggiata: a cento metri da casa comincerà a morire di sete. È normale che si preoccupi per il gatto. Dunque, è necessario che nella scatola ci sia una ciotolina. Non parliamo poi della pipì. Un gatto spaventato, chiuso al buio, come si può pretendere che non gli scappi? Ci vuole una lettiera di sabbia.

E ancora: diamo per scontato che l’esperimento sia (felicemente) riuscito, e che il gatto dopo un’ora sia morto (non di sete): lo si dovrà seppellire? E dove?

A questo punto direi che il paradosso è già bello che smontato. Non regge, paradossalmente, perché non è nemmeno un paradosso. Un paradosso è qualcosa che si pone fuori da ciò che è comunemente pensato, dalla doxa corrente. Ora, se avessimo chiesto a mio zio Micotto, che nulla sapeva di meccanica quantistica e poco anche delle altre scienze, ma era un uomo sensato, avrebbe detto: il gatto potrebbe essere sia morto che vivo, e in quest’ultimo caso senz’altro molto incazzato, né più né meno come pensava Schrödinger, ma avrebbe aggiunto: e adesso per favore tiratelo fuori di lì, povera bestia. Voglio dire che un paradosso è qualcosa che riesce difficile pensare di primo acchito, che spiazza, mentre l’incertezza sulla sorte del gatto (non quella sull’opportunità dell’esperimento) si impone al senso comune. Paradossale è semmai in questo caso tutto ciò che ci sta dietro, e cioè la meccanica quantistica: che è come l’amore, nel senso che tanto io come la stragrande maggioranza ci capiamo un accidente.

Per questo non del gatto di Schrödinger voglio parlare, ma di quello con gli stivali. Dell’immaginario infantile, delle semplici regole che lo caratterizzano e di come sarebbe opportuno che le facessimo anche nostre.

Non sono un esperto di psicologia infantile, e a dirla tutta nemmeno di quella adulta. Ma due o tre cose, maneggiando figli e nipoti, credo di averle capite. La prima è che l’immaginazione infantile viaggia sul terreno aperto e sconfinato della possibilità, non sul calcolo limitante delle probabilità. È un’idea di possibilità radicalmente diversa da quella di Schrödinger, ed è ciò che fa la differenza tra il mondo della quantistica, ma più in generale tutto il mondo adulto, e quello del bambino. Nel primo le possibilità sono due, il gatto o è vivo o è morto. Per il bambino sono infinite: è riuscito a scappare, finge di essere morto, si è reso invisibile, ha trattenuto il respiro per un’ora, ecc…. Nella fantasia infantile non esiste il paradosso: ciò che riesce paradossale rispetto ad un’attitudine per la quale una cosa è o non è, risulta perfettamente normale se accetto che le diverse possibilità non siano alternative, ma possano coesistere. Se il Vil Coyote dipinge su una parete rocciosa l’ingresso di una galleria noi cominciamo a sorridere, perché già pregustiamo il momento in cui da quella galleria sbucherà un treno che lo centrerà in pieno: ma il bambino non ride nell’attesa, ride semmai dopo, e non per il nonsenso, ma solo perché il Vil Coyote non riesce a beccare il Beep Beep. Anzi, se è un bambino sensibile non ride affatto, perché prova un’istintiva simpatia per il perdente. Il fatto che il treno sbuchi da una finta galleria non lo stupisce. I bambini sono hegheliani: tutto ciò che accade ha senso.

Questo vale appunto anche per i gatti delle fiabe. Nel dominio del signore di Carpentras infatti gli animali parlano e ragionano, in genere molto meglio dei cristiani (il gatto di Schrödinger avrebbe un sacco di cose da dire in proposito). A volte lo fanno anche le piante o le cose, ma in questo caso si va già nel difficile e nel sofisticato (vedi il mago di Oz). È pur vero che le fiabe con gli animali parlanti le hanno scritte gli adulti, e che se le racconti al bambino di cui sopra puoi cacciarti nei guai: ma è altrettanto vero che mentre gli adulti per leggerle devono traslarsi in una dimensione diversa, dove vigono regole fisiche e biologiche, o anche sociali e morali, differenti, per i bambini normali, quelli che non ti chiedono se gli stivali erano due o quattro, i gatti parlanti rientrano tranquillamente in quella dimensione unica e indistinta che non concepisce nemmeno l’idea di un dentro o di un fuori. Ci sta tutto.

Un’altra cosa che ho imparato è che i bambini, a differenza degli adulti, sono coerenti. Quando scelgono di entrare in una parte la recitano fino in fondo (ma dire recitano è limitativo: la vivono): non certo nel senso che la portino avanti a lungo, perché da un momento all’altro possono decidere di cambiare gioco, quanto piuttosto perché sin che giocano quel gioco è la realtà. Se fingo con mio nipote di entrare in uno spazio chiuso, e apro un’invisibile porta, devo poi stare ben attento a riaprire la stessa porta e ad attraversarla per uscirne, pena il mandare all’aria tutto. Allo stesso modo, per citare un classico, e ammettendo che qualche bambino ancora cavalchi il vecchio manico di scopa, sottrarglielo sarebbe come rubare il dromedario ad un tuareg, motivo sufficiente per una sanguinosa rappresaglia. A nulla varrebbe dargli un manico sostitutivo: perché quello, in quel momento, non è un manico di scopa che simboleggia un cavallo, è il suo cavallo. Questo non significa che non sappia distinguere un cavallo da un manico di scopa: è un bambino, non un cretino. All’interno della sua onnicomprensiva dimensione, però, lo scambio avviene per analogie, a volte spicciole ma a volte imperscrutabili, tra oggetti ai quali la dignità è conferita dalla momentanea funzione, e non dalla banale destinazione d’uso.

La terza cosa che ho capito è che non si deve mai fingere di condividere appieno questa dimensione. I bambini, come i cani, fiutano il falso ad un chilometro di distanza (i gatti sono ancora più sospettosi, degli umani non si fidano proprio: e alla luce di Schrödinger non è facile dargli torto). Istintivamente percepiscono che hai i piedi dentro e la testa fuori, e che prima o poi finirai per piegare il gioco a logiche che a loro non appartengono: sono quindi risoluti ad opporre mille resistenze, e a portarti all’esasperazione. Preferiscono chi gioca allo scoperto: non importa se non capiscono tutto, non ne fanno un problema, reinterpretano a modo loro e si adattano tranquillamente. Devono solo avvertire che stai facendo sul serio, che non sei lì per farli giocare, ma per divertirti, anche loro malgrado. L’altro ieri giocavo ai soldatini con mio nipote. Ci siamo equamente divisi il suo esercito di crociati (in verità, quando si è accorto che me ne ero tenuti di più si è incavolato, e dato che erano in numero dispari abbiamo dovuto farne morire uno subito), dopodiché lui ha ingaggiato una sua guerra contro i pigmei (che sono i soldatini più piccoli, quelli brutti, di plastica) e contro i Fantastici Quattro, mentre io ho condotto il mio drappello in una spedizione punitiva contro una tribù berbera. Ha funzionato perfettamente: per dieci minuti ha sterminato pigmei, sbirciando ogni tanto le mie mosse, poi ha risparmiato i pochi sopravvissuti nascosti nell’erba e si è fatto assorbire dalla missione nel deserto, intervenendo ogni tanto per prestarmi qualcuno dei suoi (“facciamo che c’era un altro esercito che aveva sconfitto i pigmei e veniva in aiuto?”) quando i miei ranghi si assottigliavano (i berberi sono tosti). Ora vuole solo guerre contro i beduini, il che potrebbe essere un antidoto contro future conversioni all’islamismo radicale.

L’ultima cosa l’ho imparata direttamente sulla mia pelle (per cui è anche la più importante: le altre in fondo sono soltanto psicologia da giardino pubblico). Penso che a rigor di termini l’illusione abiti solo il mondo degli adulti. Illudere, o illudersi, ha infatti radice in ludus, in una idea di gioco consapevole che non può essere applicata al mondo infantile, checché ne pensino gli specialisti dell’età evolutiva. Sarebbe come dire che il bambino vive una sessualità consapevole perché si tocca le parti intime (sorvoliamo per il momento sul fatto che questa consapevolezza, del gioco come della sessualità, non è presente nella gran parte dei casi nemmeno negli adulti). Il bambino si limita a fare tutto quello che istintivamente gli procura piacere, e non è il caso di attribuire significati libidici al fatto che si gratti il sedere. Allo stesso modo, quando gioca non crea dal nulla un mondo alternativo dal quale entrare o uscire: sposta semplicemente lo sguardo sugli altri possibili e infiniti aspetti del mondo nel quale vive. Volendo schematizzare al massimo, si potrebbe addirittura affermare che non gioca mai. Tutto ciò che gli accade o che è da lui agito è egualmente serio ed egualmente leggero.

Quindi il bambino non si illude. Il momento in cui il termine illusione può essere correttamente utilizzato è semmai proprio quello di confine, quello dell’adolescenza. È qui che entra (letteralmente) in gioco, quando ci entra, la consapevolezza. La perdita dell’innocenza (o meglio, dell’incoscienza) corrisponde alla scoperta che le scope non consentono di volare o di cavalcare. Quando ti accorgi di non riuscire più a decollare, per quanta rincorsa tu prenda, la pacchia è finita. È una scoperta drammatica, e infatti in genere gli adolescenti sono parecchio incazzati, e noi ci chiediamo il perché, e ripetiamo loro che hanno tutta una vita davanti. Appunto. È proprio questo il problema. Una vita intera senza poter decollare, o potendolo fare solo con prenotazione, pagando un biglietto e lasciando guidare gli altri.

Il bisogno di illudersi nasce quindi per compensare una perdita, nel momento in cui si percepisce la differenza tra i due piani, quello della realtà e quello della fantasia; o la si istituisce, a seconda dei punti di vista. Anche se non sempre si è poi capaci di tenerli distinti, e soprattutto non se ne ha alcuna voglia. Come scriveva Foscolo, anche una volta realizzato che le illusioni sono autoinganni non possiamo fare a meno di crearcene altre, e la prima è proprio quella di poter conservare il completo dominio sulle illusioni consapevoli, magari chiamandole miti. L’illusione è insomma lo sforzo di mantenere uno sguardo infantile su un mondo che si rivela prosaicamente adulto.

A questo punto, visto che la riflessione su come si divertono in Austria mi ha preso mano e ha fatto una strada tutta sua, mi converrebbe forse chiudere il discorso. Ma ho l’impressione che un filo sotterraneo tra Schrödinger e il gatto con gli stivali esista, e mi piacerebbe trovarlo; per cui provo ad andare avanti. Senza una traccia precisa e senza garantire nulla.

Vorrei rendere più chiara la questione della perdita dell’innocenza (o dell’acquisto di coscienza, dipende da come la vogliamo mettere) con un’altra immagine classica, quello dello specchio infranto. Per tutta la vita noi guardiamo in uno specchio. Questo è vero anche fuor di metafora, in quanto ciò che conosciamo ci arriva attraverso la mediazione dei sensi e dell’intelletto (per Kant, attraverso le categorie), che funzionano come un otturatore fotografico: quindi in realtà cogliamo solo il riflesso delle cose nella nostra mente. Col tempo naturalmente vediamo riflesse cose diverse, e soprattutto impariamo a guardare da nuove angolature e a mettere a fuoco particolari o assiemi differenti. Certo, questo avviene in qualche modo anche nell’infanzia, ma in quel periodo la storia della separazione dei piani, tra ciò che è e ciò che vediamo, non è ancora affatto chiara.

Un bambino che si guarda allo specchio realizza infatti che quello che gli sta rimandando lo sguardo è lui stesso, o quantomeno che quella è la sua reale immagine. La prima volta trova magari la cosa un po’ strana, se non è particolarmente sveglio ci mette un po’ a capirlo e torna più volte a guardare dietro lo specchio, ma poi se ne fa una ragione. In genere considera la faccenda della duplicazione piuttosto divertente, e non credo si ponga tanti problemi rispetto a quale sia la realtà. Per lui è reale tutto, di qua e di là dalla superfice riflettente. Semmai al di là può immaginare possibilità ulteriori, come racconta Lewis Carroll, che di bambini se ne intendeva (Oltre lo specchio): resta comunque il fatto che quello specchio è la testimonianza inoppugnabile di una esistenza, e la veridicità di quanto racconta è confermata al bambino dal fatto che lo specchio riflette anche gli altri, o le altre cose, mostrandoglieli esattamente quali appaiono “fuori”. È come se gli dicesse: tutto quello che vedi attorno a te è vero, ed anch’io lo vedo così.

Col tempo le cose si complicano. Succede, come abbiamo visto, quando il manico di scopa non ci stacca più da terra, perché una volta usciti dall’infanzia non ci vediamo altro che un bastone, e a specchiarci a cavalcioni ci troviamo ridicoli. Mentre il bambino che si guarda può farsi le boccacce, o fingere il pianto o il riso, cercando di cogliersi in situazioni diverse, curioso di come potrebbe apparire “se”, e si diverte, noi pur continuando a farlo ci vergogniamo. Soprattutto lo sguardo lo rivolgiamo all’interno, e qui nasce il problema, perché ci rimiriamo in uno specchio rotto. I nostri personalissimi specchi interiori sono infatti molto fragili: hanno la scadenza come il burro, e vanno facilmente in pezzi. Di questa fragilità gli umani sono consapevoli da quel dì, e non a caso nella cultura popolare la rottura di uno specchio è sempre stata considerata un evento particolarmente funesto; un tempo magari perché gli specchi erano preziosissimi e non era facile procurarsene altri, oggi solo per un residuo superstizioso, che non manca però di alludere a un reale disagio psicologico. Quando la rottura non avviene significa che il meccanismo era programmato male, e la conseguenza si chiama narcisismo. Se al contrario lo specchio per qualche motivo si rompe anzitempo, il bambino magari per un po’ si diverte, vedendosi moltiplicato, ma rischia poi seriamente di scivolare in quello stato patologico che è la schizofrenia.

Quando invece le cose funzionano come da programma diventiamo semplicemente adulti. Le mille immagini di noi che lo specchio infranto ci rimanda corrispondono a quelle che scopriamo esserci rimandate dagli altri, di mano in mano che si acuisce la nostra coscienza del mondo. A differenza del bambino, che è sicuro di essere “quello” e che come tale gli altri lo vedano, l’adulto questa sicurezza la perde, perché scopre la molteplicità dei “punti di vista”, propri e altrui (i centomila di Pirandello). E comincia a dubitare che la realtà esista, o meglio, che esista una sola realtà (ma se le realtà sono tante, nessuna è quella reale).

Noi cominciamo dunque a dubitare della realtà quando cominciamo a dubitare di noi stessi. E cominciamo a dubitare di noi stessi quando realizziamo che “fuori” esistono di noi molteplici immagini, ma soprattutto che non siamo il centro del mondo e che tantomeno siamo immortali. Di qui nascono i miti di foscoliana memoria, di qui l’illusione consapevole. Possiamo sopravvivere alla scoperta della nostra insignificanza solo inventandoci significati altri, religiosi, politici, sociali, affettivi, ognuno secondo le sue possibilità e i suoi bisogni. Ciò avviene attraverso la proiezione della nostra breve e sempre incompiuta esistenza in una prospettiva temporale senza limiti, ponendoci in continuità con gli ideali di chi ci ha preceduto e aspirando ad essere riferimento, o almeno tramite, per coloro che verranno.

Alla base di tale proiezione c’è un processo assolutamente naturale: in fondo, se invece che in termini di individui ragioniamo in termini di geni, tutto il vivente punta ad una sia pur relativa eternità. Solo che l’egoismo genetico, invece di riproporsi nudo e crudo generazione dopo generazione, come avviene per tutti gli altri animali, nell’uomo cerca di darsi una giustificazione e un senso. E per poterlo fare l’uomo deve trovare una spiegazione anche della realtà entro la quale agisce: o meglio, “delle” realtà, quella naturale e quella culturale. Muovendosi nella prima, non assecondandola passivamente ma cercando di addomesticarla, di manipolarla, di piegarla ai suoi fini, produce la seconda. Possiamo girarla come vogliamo, ma ogni tassello di cultura, ogni tentativo di dare o trovare un senso, inteso come scopo e come direzione, alla nostra esistenza, è un atto di ribellione o di dominio nei confronti della natura. E non è nemmeno il caso di discutere se questo sia un bene o un male: le cose stanno così, e siamo uomini e non oranghi proprio per il diverso rapporto che abbiamo instaurato con la natura.

In sostanza, accade che per un complicatissimo concorso di fattori intervenuti nel percorso evolutivo noi umani nasciamo inadeguati (alcuni senza dubbio più inadeguati di altri) rispetto alla condizione naturale, e dopo un breve periodo di beata incoscienza prendiamo drammaticamente atto della nostra inadeguatezza (non tutti, come ho già detto, ma la maggior parte si). Siamo fisicamente limitati, nello spazio e nel tempo, rispetto alle potenzialità e alle aspettative del nostro cervello, e dobbiamo pertanto consentirgli di correre nelle praterie sconfinate della fantasia, di costruirci vite immaginarie, esistenze parallele, surrogati di senso. Il vero paradosso è che la nostra specificità sta proprio in questo, in una debolezza di fondo che diventa l’arma vincente (almeno momentaneamente) perché produce fantasia, immaginazione, illusione. Ora, questa illusione non può essere del tutto consapevole, perché in tal caso rimane assolutamente infeconda, ma nemmeno ha da essere del tutto inconsapevole, perché in quest’altro caso, quando viene scambiata per realtà, diventa estremamente pericolosa. Soprattutto se condivisa da altri. La Storia, quella marchiata come nostro prodotto doc dalla maiuscola, è in primo luogo la vicenda della nascita e del tramonto di grandi illusioni collettive, di utopie religiose o laiche sfuggite al controllo, o peggio, finite sotto il controllo interessato e spietato di alcuni per sfruttare, sottomettere o distruggere altri.

È una storia che conosciamo. Così come conosciamo quella che ogni cultura del globo in ogni epoca ha narrato a suo modo, mettendo in campo pesciolini d’oro, geni della lampada, maghi, fate e gatti ruffiani, e che ancora oggi ci viene raccontata dalla cultura unica della globalizzazione attraverso le lotterie miliardarie, i concorsi a premi e le officine della fama televisiva. É il sogno individuale di un cambiamento improvviso nella nostra vita, della possibilità di vedere mutata la nostra condizione, esaudito ogni nostro desiderio. Con la differenza magari che un tempo il racconto dichiarava apertamente la sua funzione consolatoria, rimanendo confinato nella dimensione fantastica, mentre oggi siamo educati a crederci e a scambiarlo per realtà, a viverlo come fossimo bambini.

L’illusione è dunque fondamentale come stimolo alla creatività umana, in quanto alimenta la capacità di pensare “altro” rispetto all’esistente, e di desiderarlo. Ma è difficile da governare, perché cammina in equilibrio sempre precario su una cresta ripidissima e pericolosa: e dal momento che viaggiamo bene o male sempre in cordata, se degenera o cade rischia di trascinare anche gli altri. Pertanto, se vi regalano un gatto non fateci su troppi progetti, è improbabile che vi procuri un regno; ma nemmeno addestratelo per lanci spaziali, o più semplicemente per esperimenti di volo dal terrazzo. È un gatto, ha altre aspirazioni.

E questo ci riporta a Schrödinger. Perché anche la scienza è il prodotto di una nostra illusione collettiva, di un’utopia, senz’altro la più potente e duratura e universalmente condivisa, e per molti aspetti la più nobile: l’illusione di sottrarci al condizionamento naturale. Questa illusione ci è congenita. È la risposta alla drammatica consapevolezza del nostro essere “inadeguati”. Ma l’umanità non l’ha sempre vissuta alla stessa maniera. Un tempo, quando ancora la natura era “sacralizzata”, ogni gesto di ribellione nei suoi confronti era accompagnato da un senso di colpa, ogni intervento a modificarla era considerato una profanazione. La gran parte degli antichi rituali erano cerimonie di espiazione collettiva, di riconciliazione con l’ordine naturale o di riconsacrazione di luoghi. Magari in quella “bella età, cui la sciagura e l’atra / face del ver consunse / innanzi tempo” non funzionava proprio tutto come dice Leopardi, ma c’era senz’altro coscienza che un certo equilibrio andava salvaguardato, che certi piani dovevano essere mantenuti distinti. Non a caso lungo tutta l’età classica, e almeno fino a tutto il Rinascimento, non si parla di progresso, se non qualche volta in termini etici e morali; l’opinione diffusa era piuttosto quella di un regresso, di una decadenza. Ciò non toglie tuttavia che già si puntasse ad una qualche forma di mediazione, di condizionamento delle forze naturali, ad esempio attraverso l’elaborazione di una mitologia. In fondo anche Leopardi, quando parla delle favole antiche, racconta di illusioni, pacifiche quanto si vuole nei confronti della natura, ma pur sempre autoinganni.

Oggi le cose stanno diversamente. Dell’autoinganno nemmeno più ci accorgiamo, perché in realtà i due piani hanno finito per coincidere: traducendo la scienza in tecnologia abbiamo costruito una seconda natura e la stiamo velocemente sostituendo alla prima (o almeno, ci illudiamo di farlo: salvo poi trovarci col sedere per terra ad ogni sbadiglio della natura prima). In quanto artefici siamo convinti di avere il controllo totale su quello che abbiamo creato, e per ricaduta su quanto abbiamo trovato: e malgrado questa convinzione ultimamente abbia cominciato a traballare proseguiamo per la stessa strada, sia pure senza eccessivo entusiasmo, quasi per inerzia.

Ora, non vorrei che questa fosse scambiata per una filippica eco-integralista o animalista contro la scienza. Se scrivo su un computer invece che su una tavoletta d’argilla – cosa che peraltro, vista la pregnanza degli argomenti, sarebbe stata decisamente improbabile –, se posso curarmi i denti o un braccio rotto anziché perderli, se ho ragionevoli speranze di non morire di tubercolosi, se ho una vita tutto sommato comoda e sicura, lo devo alla scienza. Ho vissuta la prima fase della mia esistenza in una situazione di relativa precarietà e in una società quasi medioevale, e non coltivo certo nostalgie per i bei tempi in cui eravamo poveri ma felici (soprattutto poveri). Sto semplicemente seguendo il filo di un pensiero nato da un paradosso, che mi porta a chiedermi come mai, per capire come funziona il creato, dobbiamo immaginare di gasare un povero gatto. E credo che una spiegazione, sia pure molto all’ingrosso, la si possa dare.

Come ogni altra utopia, quella scientifica ha diversi possibili esiti e risvolti. Se lo studio della natura è finalizzato ad una conoscenza non dico solo contemplativa, ma almeno minimamente intrusiva, che ne indaghi le leggi e le proprietà per meglio assecondarla da un lato e per garantire alla specie le opportune difese dall’altro, l’illusione rimane sotto controllo: nel senso, ad esempio, di non pretendere per questa specie un ruolo di centralità assoluta. Se invece questo studio è volto solo a manipolare la natura, piegarla ai fini della produzione, della crescita e della perpetuazione di un supposto dominio, evidentemente non può produrre che guai. E uno tra i primi è proprio legato alla forma mentis che un atteggiamento del genere induce. Il problema è che un confine tra i due approcci è difficile da definire, e forse nemmeno esiste. Quando Bacone proclamava che “sapere è potere”, quale che fosse la sua interpretazione (che era comunque del secondo tipo) asseriva una verità indipendente dai fini, e peraltro da sempre conosciuta e temuta. Giustamente presso i pellerossa il vero nome di un guerriero doveva rimanere segreto, perché il solo conoscerlo poteva diventare un’arma nelle mani di eventuali nemici. (ma anche Ulisse si guarda bene dal rivelarlo al Ciclope, e così facendo lo frega). Per la natura vale lo stesso: conoscerne i meccanismi, disvelarne le leggi equivale a metterla alla mercé di chiunque intenda sottometterla. È l’ambiguità congenita alla scienza, che si rivela anche quando quest’ultima sembra votata alle migliori intenzioni.

Schrödinger, per esempio, non era affatto una cattiva persona. Nello stesso anno in cui Hitler saliva al potere lui riceveva il premio Nobel per la Fisica, per un’equazione che rimane a tutt’oggi un caposaldo della meccanica quantistica (datele un’occhiata, per avere un’idea di dove arrivi la capacità di astrazione simbolica dell’uomo). Dovette anche andarsene da Vienna, dopo l’anschluss, in quanto poco gradito al nazismo: e nell’immediato dopoguerra rifiutò di partecipare agli studi sulle applicazioni militari e civili del nucleare. Quindi era un uomo al di sopra di ogni sospetto. In Che cos’è la vita? (1944), un saggio di biologia molecolare nel quale da fisico cercava di spiegare, dieci anni prima della scoperta del DNA, la natura del materiale genetico, scriveva: “Il progredire, sia in larghezza che in profondità, dei molteplici rami della conoscenza ci ha messi di fronte ad uno strano dilemma. Noi percepiamo chiaramente che soltanto ora incominciamo a raccogliere materiale attendibile per saldare insieme, in un unico complesso, la somma di tutte le nostre conoscenze; ma, d’altro lato, è diventato quasi impossibile per una sola mente il dominare più di un piccolo settore specializzato di tutto ciò. Io non so vedere altra via di uscita da questo dilemma (a meno di non rinunciare per sempre al nostro scopo) all’infuori di quella che qualcuno di noi si avventuri a tentare una di fatti e teorie, pur con una conoscenza di seconda mano e incompleta di alcune di esse, e correre il rischio di farsi rider dietro”. Oltre che un uomo retto era dunque anche uno scienziato coraggioso, disposto ad assumersi dei rischi, a cominciare “a pensare al problema della vita e al come gli organismi si comportano e funzionano, chiedendo a se stesso, coscienziosamente, se egli, con ciò che ha imparato dal punto di vista della sua umile scienza relativamente semplice e chiara, possa portare un qualche notevole contributo al problema”.

In un altro saggio, nel quale si chiedeva Che cosa è reale1?, arrivava a queste conclusioni: “Se eliminiamo la metafisica, arte e scienza si riducono a miseri oggetti senz’anima, incapaci d’ogni evoluzione ulteriore. E tuttavia la metafisica è superata e minata nelle sue fondamenta. Il parere di Kant è in questo senso una sentenza inappellabile. Nella prospettiva dello scienziato il compito della filosofia post-kantiana mi sembra possa consistere nel cercare di ridurre l’influsso della metafisica sui modi di rappresentazione dei dati effettuali ritenuti veri nei vari settori specifici; al tempo stesso, però, nel conservare la metafisica attribuendo a essa valore e funzione di sostegno indispensabile delle nostre conoscenze, di quelle generali così come di quelle specifiche. Potremmo dire, con un’immagine, che dell’armata della conoscenza la metafisica è la punta, l’estremo avamposto nel territorio nemico e nell’ignoto: un’avanguardia indispensabile ma, tutti sanno, esposta a grandi pericoli. La metafisica non appartiene cioè all’edificio della conoscenza: è piuttosto il ponteggio di cui non si può assolutamente fare a meno, volendo seguirne la costruzione. È forse persino lecito affermare che la metafisica si trasforma nel corso dell’evoluzione in fisica, ma certo non come poteva apparire prima di Kant; cioè non grazie alla graduale convalida di opinioni inizialmente incerte, bensì tramite la chiarificazione e lo spostamento del punto di vista della riflessione filosofica”.

Mi sono dilungato nelle citazioni perché queste parole dimostrano come Schrödinger fosse tutt’altro che un cuore arido, e avesse anzi una chiara coscienza di quanto sia fondamentale l’immaginazione, o se vogliamo l’illusione, per aiutare a costruire la conoscenza. Proprio per questo però l’allegra disinvoltura con la quale ipotizzava, sia pure in forma paradossale, la possibilità di cacciare un micio in una scatola mortale ci dice qualcosa di inquietante. Ripeto: non vorrei essere frainteso. Non si tratta di fare le pulci alle parole. Se c’è una persona politicamente scorretta in questo senso quella sono io, che parlo tranquillamente di punizioni corporali e campi di lavoro coatto per gli studenti, e non solo per scherzo. Allo stesso modo, non sono un gattaro; anzi, non ho animali per casa, neppure pesci rossi. Mi bastano e avanzano quelli a due zampe coi quali tratto quotidianamente. E tuttavia l’immagine mi ha infastidito.

Credo che in questo caso abbia pesato molto il contesto. Il sapere ad esempio che, sia pure al culmine di una deriva folle e criminale alla quale il fisico austriaco rimase estraneo, questi esperimenti sono stati poi davvero realizzati nei campi di sterminio, e non solo in quelli nazisti, e che la loro applicazione più riuscita è quella con la quale Himmler e soci hanno pianificato l’eliminazione “scientifica” di parte dell’umanità.

Io non sono convinto che questa deriva sia inevitabile: certo è però che l’uso improprio della fantasia e dell’illusione la rendono possibile. In fondo la scienza si avvale per la sua ricerca di atrocità ben maggiori di quella ipotizzata da Schrödinger, il quale magari aveva in casa un gatto (forse proprio per questo ha pensato a lui) e coltivava sentimenti tutt’altro che sadici. E anche prescindendo dal paradosso (questo si, autentico) che lo stesso Himmler era profondamente ammirato per l’attenzione prestata dai monaci buddisti ad ogni forma di vita (“Si cingono le caviglie con campanellini per evitare agli insetti di farsi calpestare!” scriveva nel suo diario) e che Hitler era vegetariano, rimane il fatto che quando entra in ballo la scienza ogni tabù sembra cadere.

Ciò che troppo spesso viene meno in questa particolare forma di illusione (ma la cosa vale anche per quelle politiche o sociali) è la coscienza che il senso della ricerca è già implicito nel modo, nell’atteggiamento col quale la si intraprende: anzi, che il senso è la ricerca stessa, e che nessuna ricerca ha senso quando suppone altro sacrificio che non sia il proprio. Lo sterminio dei gatti, anche se certe notti lo invoco, quando il giardino si riempie di felini semiselvatici in ambasce amorose, non farà fare alcun passo innanzi all’umanità. Quelli di ebrei, zingari e disabili e di milioni di altri innocenti, che hanno costellato da sempre la storia ma che ultimamente sono stati perseguiti con rigoroso metodo scientifico, ne hanno fatti fare parecchi indietro.

Allora, come avrebbe detto Micotto, apriamo ‘sta benedetta scatola e facciamo uscire una volta per tutte la povera bestia.

1 Compreso nella raccolta La mia visione del mondo (1964)