di Fabrizio Rinaldi, 29 gennaio 2023 – dall’Album “Il surreale inferno di Leon Spilliaert“
Sono in libreria, in cerca di regali per Natale, quando l’occhio viene attratto da una raffinatissima copertina della Biblioteca Adelphi, nella quale la linea nera scontorna un paesaggio solitario, reso con colori tenui e linee quasi geometriche.
Il libro è Dall’inferno, di Giorgio Manganelli, e si rivelerà anche interessante. Ma a catturarmi è stata la copertina e non è certo la prima volta. Ormai le librerie sono diventate delle gallerie d’arte. Le copertine – oserei dire soprattutto quelle dei piccoli editori – sono davvero belle e accattivanti (non sempre si può dire altrettanto dei contenuti) e offrono occasioni di inediti incontri con il mondo delle immagini, mentre i grafici hanno affinato la conoscenza delle diverse capacità attrattive dei colori e dei font. Non sono cose banali: ricordo con un fastidio anche tattile la moda in voga negli anni Novanta, che imponeva titoli dai caratteri enormi, colori fosforescenti e, in particolare, i caratteri in rilievo. Facendo scorrere le dita su certi Oscar Mondadori avevi già la certezza che il contenuto poteva essere evitato.
Tornando al libro di Manganelli, nel risvolto leggo che il quadro riprodotto in copertina è di Leon Spilliaert (1881-1946), un pittore belga che raffigurava per lo più paesaggi di campagna e spiagge del mare del Nord, creando atmosfere piuttosto cupe.
Spilliaert non arrivava da studi accademici, era praticamente un autodidatta, ciò che non gli impedì di trovare una sua personalissima forma stilistica. Continuò tuttavia a covare per tutta la vita l’insoddisfazione per non vedersi valorizzato dalla critica dell’epoca.
In effetti visse ai margini della cultura belga, conducendo nella nativa Ostenda un’esistenza abitudinaria e isolata, assieme alla moglie e ad una figlia. Nella scarsa considerazione che gli fu riservata in vita come pittore c’entra senz’altro il fatto che la sua attività ufficiale e prevalente, quella che dava da vivere a lui e alla sua famiglia, era di illustrare di romanzi per adulti, peraltro in un’epoca nella quale l’illustrazione faceva tutt’uno con il testo. E questa pratica la si riconosce pienamente anche nelle scelte stilistiche e cromatiche della sua pittura. Era poi tormentato da diversi problemi fisici che gli producevano una costante irrequietezza e una insonnia cronica, sedate con lunghe e solitarie camminate notturne fino all’alba, lungo la spiaggia del suo paese. Traeva ispirazione da ciò che vedeva non allo spuntare del sole, ma negli attimi appena antecedenti, quelli in cui il cielo comincia a mutare colore, passando dalle sfumature più scure alle tonalità meno cupe: e questo spiega le tele intrise di solitudine e le atmosfere surreali, oniriche e misteriose.
Vi compaiono in genere figure umane che camminano su spiagge deserte, lungo sentieri che si perdono in lontananza: o in altri casi vagano nella notte, fra edifici scuri appena abbozzati dalla luce dei lampioni, unico appiglio cui aggrapparsi per uscire dall’incubo.
Come si può immaginare, Spilliaert amava sia la letteratura onirica di Edgar Allan Poe (di cui aveva illustrato alcuni testi) che la filosofia eversiva di Friedrich Nietzsche. E nei suoi dipinti sono rintracciabili riferimenti ai paesaggi romantici di Caspar David Friedrich e a quelli inquietanti di Edvard Munch e di Vilhelm Hammershøi, mentre l’uso marcato di giochi prospettici anticipa i lavori di Giorgio De Chirico.
L’impiego di pochi colori e la predominanza del nero accentuano la tensione introspettiva; al tempo stesso l’uso di tinte terrose e marine, dalle quali emerge uno sprazzo di luce gialla o bianca, crea l’impressione che l’osservatore emerga dalle tenebre. Un lampo di speranza che squarcia l’atmosfera tetra. Le sue insicurezze e i suoi dubbi tornano poi nei giochi di specchi che caratterizzano gli autoritratti.
A dispetto di tutto e di tutti Spilliaert ha creduto fino in fondo nella propria poetica ed è considerato oggi uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo belga.
L’immagine della copertina, come dicevo, mi ha molto colpito. Ma evidentemente sono un po’ strano, perché – a differenza dei molti che sono andato a consultare – non trovo i suoi dipinti così inquietanti, tetri e intrisi di solitudine. Li considero invece piacevoli e rilassanti, quasi rassicuranti, come mi accade per molte opere di Mark Rothko. La semplicità con cui suddivide gli spazi, i colori tenui, mai urlati, hanno un ché di pacato e meditativo.
Ci vedo comunque una speranza, una luce che s’intravvede nelle tribolazioni quotidiane. Dunque, sono proprio strano …