Mazze e silenzi

(a proposito di utopie)

di Paolo Repetto, 2017

Per piantare i pali mio nonno Paulin usava una mazza da undici chili. Chi ha provato ad alzarne una normale, di quelle da cinque o da sette, sa di cosa sto parlando.

La prima volta che ho preteso di usarla anch’io mi sono disarticolato una spalla. È vero, non avevo ancora quindici anni, ma a quell’età ero già piuttosto scafato, e soprattutto ero molto convinto di me. Ci ho quindi riprovato e ho continuato a servirmi di quella mazza fino a non molto tempo fa: poi è misteriosamente scomparsa, evitandomi l’imbarazzo di ammettere che non era più alla mia portata. Lo sforzo che imponeva era insensato, come sosteneva mio padre. Se ci lavoravo per un’ora, e a volte erano anche mezze giornate, finivo come i pupazzetti di Ken, ai quali mia figlia staccava regolarmente le braccia. Ma per me un senso lo aveva: in quei momenti non ero più Paolo, ma Paulin, e il peso e il significato della fatica li misuravo su un’altra scala.

Ho nutrito per mio nonno una devozione tutta particolare. Non era un colosso come mio padre: anzi, era alto e magro, tutto nodi e nervi. Somigliava molto al John Carradine di Furore. Se di mio padre ammiravo la forza di volontà, l’ironia e la capacità di trasmettere ottimismo a tutti, di mio nonno mi colpivano invece lo stoicismo, il riserbo, l’accettazione delle prove della vita, compreso il lavoro più duro, come momenti necessari di un ciclo naturale. Ma mi affascinava soprattutto la genuina semplicità con la quale faceva bene ogni cosa, dal dissodare un terreno al costruire una sedia o insaccare un maiale, e teneva in perfetto ordine i suoi attrezzi: lo faceva perché così deve essere, non conosceva altri modi, e non ne provava un particolare orgoglio, o almeno non lo ha mai esibito. Sembrava uscito pari pari da un mondo non solo preindustriale, ma addirittura precristiano.

Tutto quello che gli era arrivato dalla scoperta dell’America erano il tabacco, il granoturco, i pomodori e le patate. Ogni altro aspetto della modernità, la politica, la meccanica, l’alfabetizzazione, la spettacolarizzazione dell’esistenza, gli era assolutamente estraneo. Aveva bisogni elementari, non frequentava il bar, non ha mai visto un film, nemmeno quando ero io a proiettarli al cinema parrocchiale. Fosse ancora vivo se ne starebbe rintanato al Capanno, e io avrei il pezzo di terra meglio curato dell’intera provincia.

Ricordo ogni sua parola, e non è difficile, perché gliene avrò sentite pronunciare si e no cinquanta. La sordità guadagnata al fronte gli evitava il fastidio di essere importunato e di dover rispondere. Ma ho ancora qualche dubbio, perché nei rarissimi casi in cui la faccenda lo toccava davvero dava l’impressione di sentirci benissimo. Amava il vino, non però al punto di abbrutirsi: l’ho visto qualche volta barcollare, ma mai dare fuori o incattivirsi, e meno che mai naturalmente parlare a vanvera.

Lavorando al suo fianco ho imparato presto a capire cosa voleva senza bisogno che lo chiedesse: normalmente era la cosa più logica da farsi, anche quando a me non sembrava tale e avrei voluto introdurre una certa modernizzazione. Le volte che l’ho fatto ho dovuto alla fine ricredermi, e ammettere che il suo buon senso spicciolo valeva più di qualsiasi mia pretesa innovativa.

Del tempo trascorso assieme (troppo poco, purtroppo) rimpiango soprattutto le rare soste nel bel mezzo di uno scasso, o di una vendemmia, quando sedeva a cavallo di un fossato e si arrotolava una sigaretta. Negli ultimissimi anni ero io ad arrotolargliele, perché gli tremavano le mani; è lì che ho cominciato a rollarle anche per me, e non ho più smesso. Fumavamo assieme, in assoluto silenzio, io guardando al lavoro ancora da farsi, lui a quello già fatto. Una volta, proprio durante una pausa dell’impalatura, volgendomi di colpo l’ho sorpreso a fissarmi, e mi è parso di cogliere un lampo di compiacimento nei suoi occhi, prima che li distogliesse: credo che pochi abbiano ricevuto nella vita una gratificazione pari a quella.

Quando in una tarda serata di novembre andai a cercarlo nel suo vigneto lo trovai seduto, appoggiato ad uno dei pali che avevamo piantato assieme, con la cicca spenta ancora tra le dita. Avevo diciott’anni e quell’immagine, malgrado tutto il dolore del momento, mi ha riconciliato per sempre con l’idea della morte. Due giorni prima si era recato in Ovada a piedi, come sempre, per la fiera di sant’Andrea, e ne era tornato con un fascio di lisca per impagliare. Quel fascio lo conservo ancora, dopo mezzo secolo, assieme ai suoi ferri da falegname, anche se ormai è quasi solo polvere.

Ecco, ero partito con l’intento di parlare di crisi delle utopie e ho finito invece per ricordare mio nonno. Ma c’è un nesso: in effetti, credo che le utopie potessero avere dimora solo in un mondo abitato da gente come lui, e che la loro crisi odierna sia dovuta alla coscienza che abbiamo di non poter più tornare indietro, e conoscere ancora quella condizione.

Non sto parlando naturalmente della condizione sociale. Il mondo in cui ha vissuto mio nonno era tutt’altro che un eden, ingiusto e duro ancor più di quello attuale. Non ho di queste nostalgie. Ne ho invece per uomini che possedevano un innato senso della dignità e del dovere, e lo conservavano a dispetto di quella realtà. Anche di loro ho già parlato, raccontando di anarchici, di viaggiatori, di eretici e di scienziati, o più semplicemente di “quasi adatti”. Ebbene, mio nonno, sia pure a modo suo, rientra nella categoria. Evidentemente quelli come lui sono sempre stati una minoranza, vessata e sfruttata, ma c’erano. Magari disponevano di poche conoscenze, ma quelle poche erano solide: e di ciò di cui non sapevano preferivano non parlare.

In questa minoranza Paulin figurava tra gli ultimi, tra quelli che almeno in apparenza non avevano mai avuto l’ardire o la forza di ribellarsi. In realtà, come Bartleby lo scrivano, opponeva una forma particolare di resistenza passiva. Aveva dovuto guadagnarsi il diritto di stare al mondo sin da bambino, con le sue braccia, un giorno dopo l’altro: lo avevano poi strappato a una magra affittanza e a una famiglia appena costruita per spedirlo a combattere sull’Isonzo, una carneficina lunga quattro anni, contro gente di cui sapeva nulla e per una patria che si era fatta viva solo al momento di mettergli in mano un fucile, promettendogli un pezzo di terra: ma al ritorno si era ritrovato con una manciata di medaglie di bronzo e la mezzadria affidata ad altri. La stessa promessa gli era stata fatta trent’anni dopo dai partigiani, e non era cambiato nulla. Arrivò a possedere un fazzoletto di terra solo a settant’anni, e solo perché glielo acquistò mio padre. E tuttavia non l’ho mai udito lamentarsi, recriminare, rivendicare qualcosa.

Ho capito dopo, quando ho provato a ricostruire la sua storia, senza che lui vi avesse mai fatto cenno, che il silenzio non era frutto della sordità, ma della dignità: si rendeva conto che tutti coloro che gli facevano promesse lo stavano semplicemente usando, e non avendo alcuno strumento culturale per difendersi aveva scelto di isolarsi, di evitare almeno di farsi prendere in giro. Ho ancora viva un’altra immagine: lui appoggiato ad un muro nella piazza del castello, con le cartine e la scatola del tabacco in mano, e dal lato opposto un comiziante, forse democristiano, tutto infervorato, che nell’assenza totale di altri uditori gli si rivolgeva direttamente. Mentre risalivamo verso casa gli chiesi un po’ maliziosamente di cosa parlasse quel tizio, e mi rispose nel suo dialetto secco: “Us vendeiva (Si vendeva)”. Aveva capito tutto senza udire niente.

Per questo mi è tornato subito in mente: perché malgrado io gli strumenti culturali bene o male li possegga (o forse proprio in ragione di questo), e ci senta ancora discretamente, sta crescendo in me una gran voglia di imitarlo. Arrivato all’età che mio nonno aveva quando ho cominciato davvero a conoscerlo, mi sento altrettanto a disagio. Credo di averne motivo. Vivo in un mondo nel quale tutto, dalla televisione allo sport, dalle reti “sociali” alla pubblicità, ha congiurato ad abbattere le mura che ancora cinquant’anni fa contenevano gli idioti, e questi dilagano e sono legioni, ed esibiscono un’arroganza spudorata, direttamente proporzionale all’ignoranza. È chiaro che su questa mia sensazione pesa anche la componente anagrafica, una naturale e giustificata intolleranza prodotta dall’età: ma non penso che tutto lo sconfortante spettacolo di miserie intellettuali e morali cui sono costretto ad assistere sia solo una fantasima generata dalla ipersensibilità senile. La trionfale ascesa di incompetenti che non si limitano più a parlare di calcio, il moltiplicarsi di “antagonisti” che non hanno la minima idea di cosa sia il dovere, nei confronti di se stessi e degli altri (e si riempiono quindi la bocca solo di malintesi diritti), l’esibizionismo becero dei reality e dei forum pomeridiani, sono purtroppo tutte realtà oggettive, un termometro agghiacciante dell’istupidimento di massa. E se fossero necessarie ulteriori conferme, è sufficiente fare una passeggiata e considerare lo stato dei bordi delle strade, dei luoghi pubblici, dei muri e dei monumenti. Badando anche, naturalmente, a non farsi falciare da un automobilista nervoso o ubriaco. Che utopie si possono ancora concepire, con un simile materiale umano?

(per saperlo dovete sorbirvi anche l’appendice. Ma potete anche non farlo)

 

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