Parce sepulto

di Carlo Prosperi, 16 giugno 2023

Sono infastidito, se non nauseato, da tutto il can can mediatico seguito alla dipartita di Silvio Berlusconi, all’insegna ora del “servo encomio” ora del “codardo oltraggio”. Con rare eccezioni. Tutto eccessivo. Resto del parere che il personaggio, per cui non ho mai nutrito particolare simpatia, resti nel bene e nel male il simbolo dell’imprenditore ganassa, spaccone ed esibizionista, geniale ma incurante spesso delle leggi e della morale, dotato di un ego straripante, talora ipertrofico, in grado di sedurre, blandire, corrompere. Da perfetto imbonitore, da istrione di razza, all’italiana. Non è un caso che abbia contribuito a rafforzare agli occhi degli osservatori stranieri i più classici e triti stereotipi dell’italiano: gli stessi da lui interpretati per conquistare il consenso, l’ammirazione e l’approvazione della gente comune, in particolare dell’italiano medio e di quanti, con le sue televisioni, ha trasformato da spettatori in consumatori. A beneficio soprattutto delle piccole e medie aziende, dei pubblicitari.

Parce sepulto 02Invece di preoccuparsi di elevare il livello morale e culturale dei suoi compatrioti, ne ha solleticato i bassi appetiti, le voglie insane, il mal costume, a scapito del buon gusto, della serietà, dell’impegno coscienzioso, della buona creanza. Finendo paradossalmente per prestare il fianco alla satira più scomposta e ridanciana, diciamo pure volgare, fino a divenire lui stesso il bersaglio privilegiato di comici e vignettisti senz’arte né parte che, grazie a lui, dall’oggi al domani hanno trovato modo non solo di campare, bensì di prosperare. Magari dileggiandolo, calunniandolo, nutrendosi di quella stessa volgarità cui aveva dato la stura, ovvero la possibilità di esprimersi, di salire alla ribalta, di trionfare. Alla faccia dell’arte vera, della vera cultura. Sì, perché lo spettacolo, spesso peraltro di modesta qualità, ha finito per surclassare la cultura, la riflessione pacata ha ceduto il posto al dibattito estemporaneo, il confronto civile e ponderato all’alterco e alla rissa tra sedicenti esperti, quando non alla chiacchiera, al pettegolezzo, al lazzo e al frizzo, all’insulto, alle scurrilità, a chi la dice più grossa. L’intrattenimento da bar, da salotto, da baraccone o da night-club ha tolto spazio all’educazione, ha distolto dall’approfondimento, dall’esame accurato delle questioni problematiche.

Parce sepulto 03È così mancata ogni stimolazione del pensiero critico ben vagliato e ponderato. Si è data l’impressione che l’opinione dello sprovveduto fosse equiparabile a quella dello studioso. Che l’arguzia, la battuta di spirito e finanche l’improntitudine valessero più del ritegno e del contegno, più dell’argomentazione rigorosa. Con riflessi devastanti sull’editoria, dove libelli e pamphlets hanno preso il posto dei grandi saggi, dove la brevitas e la levitas hanno scalzato la gravitas, e la superficialità è ormai sinonimo di brillantezza. Le stalle di Augia da allora hanno infestato e ammorbato l’aria del nostro Paese. Nani e ballerine, strimpellatori e cantanti da strapazzo, mimi e giullari, hanno così finito per diventare maîtres à penser. La sbracatura, il chiasso, la trivialità più becera sono assurti a costume, a moderni e quotidiani panem et c ircenses. Oppio per istupidire le masse.

È probabile che questa metamorfosi in peggio dell’Italia, da altri scambiata per modernizzazione, sarebbe comunque avvenuta: lui l’avrebbe solo intuita e anticipata. Non anche affrettata? Come si fa a dire: “Non ha cambiato la società con la televisione commerciale. Ha capito che il costume era cambiato e ha offerto un modo di fare televisione nuovo, eppure al passo coi tempi”? Poi è vero e non sorprende che il suo operato, soprattutto politico, non vada a genio “ai sinistri, per cui l’umanità non può essere come è. Dev’essere com’è giusto che sia, cioè come dicono loro. Le devianze, se ricorrono, sono per forza riconducibili a un fattore esogeno. L’idea si aggancia a quell’atavica e istintiva spinta a scaricare sul grande uomo, chiunque esso sia, ciò che siamo; a quella cultura popolare che rifugge dalle responsabilità” [PIER LUIGI DEL VISCOVO, Ha offerto una tv diversa a una società nuova, “il Giornale” del 14 giugno 2023]. Ma dov’era, allora, la responsabilità dei dirigenti del servizio pubblico che non tardarono ad assecondare il modello popolare e commerciale della tv privata? Berlusconi, dal canto suo, ha profittato di questo generale scanso di responsabilità, laddove nulla o ben poco ha fatto per raddrizzare il “legno storto” dell’umanità; anzi su quella innata “stortura” ha fatto leva per il proprio successo imprenditoriale. Col risultato di suscitare invidia, odio, rancore in chi si è visto strappare la platea abituale. Di qui l’accanimento giudiziario, i processi, le sentenze: accanimento che, alla luce del marcio imperante nella magistratura, nessuno dovrebbe più negare. L’homo novus di successo suscita sempre il sospetto e l’avversione dell’establishment. Il cane straniero in transito scatena la canea di quanti del canile si sentono i legittimi padroni.

Parce sepulto 04Berlusconi, per di più, era stato avvisato (cfr. la testimonianza di Fabrizio Cicchitto nell’intervista rilasciata a Massimo Malpica per “il Giornale” cit.): non gli bastò vincere, volle stravincere. Nella sua smodata intemperanza si credeva inattaccabile, al di là o al di sopra di ogni sospetto. Fors’anche al di là del bene e del male. Di qui la gogna mediatica e la vergogna del “bunga bunga”, frutto di un radicato trimalcionismo che lo induceva a circondarsi di sodali e cortigiani plaudenti con cui condividere il proprio libertinaggio. Dietro cui s’intravede la sindrome del dongiovanni, la volontà di esorcizzare la vecchiaia e la morte, gl’immancabili convitati di pietra, indossando la maschera, sempre più grottesca, di un giovanilismo a oltranza. O ridendoci su, tra una battuta e l’altra, in una disperata illusione di immortalità.

Per il resto, è indubbio che abbia fatto delle cose buone – per il mercato del lavoro, per la pace, per lo sport, per la semplificazione della politica col bipolarismo, per lo sdoganamento della destra ovvero, a detta di Tomaso Montanari (che evidentemente ha qualche problema con la storia), “dei fascisti al governo”, ecc. – e che gli avversari politici, negandole, insistano invece sul conflitto d’interessi, che loro peraltro si sono ben guardati dal cancellare, sulle leggi ad personam, che pure ci furono; nondimeno è altrettanto vero che l’unica legge ad personam letale fu quella che segnò la momentanea decadenza politica del “caimano”.

Si dice che l’attuale governo Meloni sia l’esito della sua lungimiranza: in realtà Berlusconi non apprezzava affatto la Meloni, come ha dimostrato scarabocchiando in Senato una serie di malevoli giudizi su di lei sùbito inquadrati dalle cineprese in agguato, ed apprezzava ancor meno di essere il terzo della compagnia al governo. Credeva e voleva essere l’ago della bilancia, il sale dell’alleanza. Fino al ridicolo. La vittoria della Meloni ha in realtà segnato la sconfitta del signore di Arcore. Che non era né un angelo né un diavolo, bensì un uomo con le sue qualità e i suoi difetti. Come tutti, se pur dotato di talenti superiori alla media, peraltro non sempre impiegati nel migliore dei modi.

Parce sepulto 06Ma il mio giudizio non pretende di essere insindacabile, né mi azzardo a considerare le più gravi accuse di collusione o di collaborazione con la Mafia sulle quali nemmeno l’occhiuta magistratura è riuscita a far piena luce. Personalmente, ritengo il concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie assente dai codici penali, un’aberrazione giuridica, frutto di quella creatività dei magistrati che mina la certezza del diritto. Non meno della retroattività della pena. E forse ha ragione Rosy Bindi a dire che “il berlusconismo va elaborato”, evitando santificazioni o demonizzazioni intempestive. Nel frattempo, però, del lutto nazionale e delle bandiere a mezz’asta, nonché dell’inqualificabile scialo televisivo avrei fatto volentieri a meno. Con tutto ciò, parce sepulto.

Parce sepulto 07

Commento di Paolo Repetto

Carissimo Carlo, ho letto il tuo pezzo e l’ho immediatamente girato a Fabrizio per la pubblicazione, corredandolo di qualche immagine (allego il risultato). Speravo vivamente che qualcuno dei Viandanti scrivesse un commento serio e pacato, non essendo io stesso nelle condizioni di spirito per farlo. Sono d’accordo su quasi tutto, ma ho qualche dubbio sulla genialità imprenditoriale. In fondo il nostro non è partito affatto dal nulla, ma dai soldi della prima moglie: forse rientra nelle abilità del self made men anche il trovare una consorte danarosa, perlomeno la prima della serie, ma non penso gli si possa ascrivere come una virtù. Anche se va concesso che i più si limitano a dilapidare il patrimonio della coniuge. Comunque, sul personaggio avrei avuto poco da dire, ha già detto tutto lui quel che serviva ad inquadrarlo: è piuttosto il contorno ad avermi schifato, la canea mediatica spudorata che si è scatenata, quasi che la morte, e il rispetto ad essa dovuto, abbia finalmente consentito di dare la stura a tutta una serie di piccole e meschine rivincite e rivendicazioni personali che pesavano da un pezzo sullo stomaco ad un sacco di gente. Non è stata tanto la beatificazione di un personaggio equivoco, quanto l’occasione per tutti i suoi clientes di emanciparsi, di immaginarsi veri e semoventi anche senza Mangiafuoco a tirare i fili. Credo balleranno una sola estate, ma lo spettacolo è stato comunque penoso.
Dall’altra parte, naturalmente, la sinistra si è istradata sulla solita geremiade del ritorno del fascismo. Nessuno sembra capire che il fascismo non c’entra nulla, se non nelle nostalgie antiquarie dei vari La Russa, e che il regime che va prefigurandosi (succedendo a quello instaurato, almeno sul piano culturale, settant’anni fa dalla “sinistra” – da quella irreggimentata come da quella “autonoma”), è qualcosa di completamente nuovo. È il peggiore dei regimi, che prescinde da ogni “lateralizzazione” ed è stato ormai già interiorizzato dalla maggioranza, per cui ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica. Ovvero, è affidata singolarmente a ciascuno di noi, alla resistenza e all’esemplarità dei singoli: e la resistenza può essere opposta individualmente nei modi più svariati.
Per quanto mi concerne, mi rifugio al momento in cose piccolissime, che possono sembrare – ed effettivamente sono – estremamente futili. Ad esempio, sto buttando giù una mini-biografia di Sven Hedin, l’esploratore svedese, cancellato dai libri della memoria per le sue frequentazioni naziste. Sino a ieri in Italia trovavi tradotto uno solo dei suoi libri (ne ha scritto una cinquantina), e non erano state ripubblicate neppure le vecchie edizioni della Treves. Da quest’anno si trovano anche una sua seconda opera e una biografia (che non ho letto intenzionalmente, perché temo fortemente orientata). Bene, Hedin nutriva simpatie – ricambiate con gli interessi – per Hitler, lo conosceva personalmente, ma era in parte ebreo e rivendicava orgogliosamente questa appartenenza. Un libro nel quale compare questa rivendicazione, nel 1938, in Germania non venne pubblicato (ed Hedin era famosissimo e stimato proprio in Germania). Dopo la guerra non fu inquisito né condannato, non c’era materia per farlo, ma venne ostracizzato e morì nel ’52 dimenticato volutamente e ipocritamente dall’establishment culturale, sia in patria che fuori. Credo che il suo mancato recupero attuale, in un’epoca che rivaluta e riabilita qualsiasi scamorza, sia dovuto alla cancel culture, in quanto gli si addebita di aver saccheggiato, assieme ad altri, tesori artistici e letterari rinvenuti nel corso delle sue spedizioni nell’Asia Centrale. Da notare che quelli non saccheggiati sono andati poi perduti, per la violenza iconoclasta mussulmana, per quella semplicemente idiota delle guardie rosse cinesi o per l’ignoranza delle popolazioni locali. Ebbene, in Italia abbiamo avuto il caso di Ardito Desio, per citarne uno, strettamente colluso col fascismo, intimo di Italo Balbo, responsabile della totale fascistizzazione del CAI, che nel dopoguerra non è stato minimamente sfiorato dalle epurazioni ed anzi, si è visto affidare la conduzione della spedizione al K2, condotta con metodi a dir poco mafiosi e raccontata poi ufficialmente per quarant’anni con un mare di menzogne a danno del povero Bonatti. Desio è morto a 104 anni (confermando la mia teoria che la cattiveria e l’egoismo sono un elisir di lunga vita) e in un documentario passato in televisione un paio di mesi fa era presentato come un padre della patria e un pilastro della cultura. Non è l’unico caso, è solo il primo che mi è venuto in mente: per altri la collusione con lo stalinismo (anche attiva, operativa, come nel caso di Longo, Togliatti e co. in Spagna e altrove) non ha mai costituito una macchia sulla fedina umana e politica.
Allora: questo io chiamo regime, la negazione o la rimozione sfacciata della verità, e la sua riduzione a barzelletta quando è scomoda (vedi il caso Moretti). Per questo considero Montanari alla stregua di Borgonovo e di Capezzone: una volta si sarebbe detto ottenebrati dall’ideologia, ma in casi come questi si può solo parlare di malafede, come intelligentemente scriveva Chiaromonte. Io che sono molto grezzo la chiamo stronzaggine congenita, e questa non conosce distinzioni di destra o di sinistra.

Parce sepulto 05

Commento di Marcello Furiani

1. Condivido sostanzialmente lo scritto di Carlo, con piccoli distinguo. Della genialità imprenditoriale di Berlusconi ha già detto Paolo, alle cui parole aggiungerei il mai chiarito il legame torbido con la mafia, l’oscura origine dei soldi con cui ha iniziato (vedi Banca Rasini, ovvero la Banca che riciclava denaro sporco per conto del Vaticano, della mafia e della massoneria deviata): vicende delle quali non ha qui senso scrivere. Ricordo solo che Berlusconi fu quello delle leggi ad personam, della compravendita di senatori, della corruzione e della normalizzazione dell’evasione fiscale, dei rapporti con la P2 e con la mafia, delle frodi fiscali, degli attacchi alla magistratura e delle olgettine, ecc. Ricordo inoltre che senza il potere politico, che gli ha consentito di cambiare i codici a suo vantaggio, Berlusconi sarebbe stato ripetutamente condannato.

2. Berlusconi e il fascismo. La Russa e compagnia avranno anche delle “nostalgie antiquarie”, ma quando fu eletto Presidente del Senato mi venne in mente un passo de “Le memorie di Adriano”: “Sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto”. Voglio dire che ciò che Berlusconi ha sdoganato a destra è diventato “normale”, è stato lentamente assorbito, soprattutto a livello inconscio, al punto da non sollevare più alcuna indignazione. Detto questo, l’Italia di Berlusconi non è il fascismo. Il fascismo è stato essenzialmente violenza, è stato conquista violenta del potere, in esplicita eversione delle leggi, trovando terreno fertile nella complicità di settori cruciali dello Stato, e nell’acquiescenza di tutti gli altri. Ma Silvio Berlusconi ha traghettato la destra postfascista nelle stanze del potere – una destra che non è più fascista ma che non è disposta a dirsi antifascista – facendo diventare mainstream parole d’ordine e idee prima marginali nel dibattito pubblico, tra cui la diminutio delle colpe del fascismo nella promulgazione delle leggi razziali, e la persecuzione degli ebrei come macchia su un regime che tutto sommato aveva fatto bene fino a quel momento.

3. Durante i suoi Governi Berlusconi propose leggi che misero le basi per la manomissione dei diritti sociali e economici di questo paese. Governò il paese come si amministra una impresa, pensandosi come il padrone, svilendo il ruolo delle opposizioni e inventando il pericolo comunista. Legittimò la cultura politica del privilegio e dell’interesse personale, al quale tutto può essere piegato, persino le istituzioni. Chi pensa che il berlusconismo sia una moda destinata a scomparire col tempo e con il suo leader non si è reso conto del complesso sistema di potere che ha eroso tutti i sostegni delle istituzioni democratiche. Il berlusconismo è penetrato nel tessuto della politica e non solo, lo ha plasmato, diventando carne, sangue, pensieri, pregiudizi, stereotipi, disvalori.

4. Ha ragione Paolo: “ogni opposizione non può più essere politica, ma deve trincerarsi sull’etica”. Il berlusconismo ha corrotto la coscienza morale, incarna la sconfitta del primato dell’etica e sancisce il primato del successo a ogni costo, incurante di ogni scrupolo e di ogni merito. È la morte di Dio, e il pensiero senza Dio che ne scaturisce porta alla luce una volontà di potenza che null’altro vuole che se stessa. Il concetto di Dio ha rappresentato fino a un certo punto “l’emozione vitale” che trascende l’Io, il potere, il piacere, qualsiasi attribuzione venga operata nei suoi confronti. Il berlusconismo riproduce la disfatta di questa tensione morale, dove il denaro è l’unico generatore simbolico di valore, perché per il berlusconismo tutto si compra, poiché tutto è in vendita, tutti hanno un prezzo: una religione neopagana che ha azzerato il livello di indignazione etica e ha tumulato il valore della cultura svilendo tutto a seduzione, adescamento, corruzione.

P.S. Su Tomaso Montanari si possono avere opinioni differenti, ma mi risulta sia stato l’unico a disobbedire e rifiutarsi di abbassare a mezz’asta le bandiere.

Silvio-Berlusconi-Beppe-Fantin-1200x675

Commento “Ancora caldo” di Nicola Parodi

Caro Carlo, ho letto le tue considerazioni sulla scomparsa di Silvio Berlusconi. Se fossimo su una panchina del viale della stazione a confrontare le nostre opinioni in proposito ti direi che i primi tre capoversi del tuo Parce sepulto li sottoscrivo, ma già al quarto la sintonia entra in crisi. Da premesse condivise non arriviamo a valutazioni condivise.

Siamo in sintonia nel riconoscere i guasti che possono produrre i cattivi maestri, oggi identificabili soprattutto in coloro che tramite la TV (immagini e suoni sono molto più “invasivi” delle sole parole) solleticano le pulsioni più egoistiche, quelle che la chiesa definisce vizi capitali nelle intenzioni o peccati nella pratica. E anche sul fatto che esiste, indubbiamente, un pensiero “di sinistra” convinto di una “naturale bontà umana”, per il quale i comportamenti errati, i peccati, sarebbero frutto solo di questi “cattivi maestri”. C’è però anche un pensiero di sinistra che poggia su basi razionali, illuministiche, e non si avvale delle categorie religiose di “peccato/male, virtù/bene”, ma ragiona in termini di “funziona/non funziona”[1]: che non è un criterio prettamente utilitaristico, è semplicemente il più naturale da adottarsi per mantenere in equilibrio le società umane. Questo significa che il giudizio su Berlusconi dovrebbe prescindere, almeno in prima istanza, dai nostri convincimenti morali o dai nostri modelli etici, ma basarsi sulla concretezza dei portati, positivi o negativi, delle sue azioni rispetto a questo equilibrio. E qui direi che dubbi non ce ne sono: Berlusconi ha trovato una società immatura e confusa, ci ha nuotato dentro come uno squalo nel Pacifico, pilotando i suoi circhi mediatici in abissi di bassezza, e ha lasciato una società becera e assuefatta al peggio. Non sarà tutta opera sua, ma ha dato senz’altro un contributo sostanziale.

Convengo anche sul fatto che nella società ideale che vorremmo la TV pubblica non avrebbe dovuto perseguire il modello populista e commerciale: ma è evidente che quando i criteri di “efficienza” sono parametrati non sull’equilibrio sociale ma sul liberismo sfrenato la scelta di fronte ai bivi è già scontata. C’è ancora dell’altro. Berlusconi, come tu ammetti, ha approfittato delle “storture” umane per farsi gli affari suoi. A mio parere ha fatto di peggio: si è proposto come modello con un detto/non detto il cui significato era: i miei e i vostri non sono vizi, ma virtù.

Ora, le nostre società sono regolate da una sorta di codice comportamentale, da regole di convivenza riconosciute e osservate da tutti: il trasgredirle comporta la perdita della buona reputazione e l’essere esclusi/espulsi dalla comunità. È assodato che i valori ai quali queste regole fanno riferimento, quelli che definiamo valori morali, si sono evoluti e fissati, diventando innati, e sono fondati primariamente sui principi di uguaglianza ed equità. Naturalmente nelle società composte da migliaia o addirittura miliardi di individui al codice comportamentale deve aggiungersi, senza contraddirne le radici innate, un sistema di leggi che vengono fatte osservare, quando la riprovazione sociale non è sufficiente, dallo Stato, al quale spetta l’uso monopolistico della forza. Per questo nelle democrazie moderne il potere giudiziario deve essere distinto dagli altri due. Per evitarne, nella misura del possibile, la manipolazione e l’abuso.

Qui volevo arrivare. In questo sistema la narrazione della persecuzione giudiziaria può essere letta si come convincimento della “bontà” dei propri comportamenti, ma anche come tentativo di conservare una reputazione di ottimo cittadino anche quando la realtà racconta altro. O di scombinare l’ordine dei valori, “legalizzando” quelli che in precedenza erano considerati comportamenti devianti. Può essere che un ego straripante sia necessario per realizzare grandi imprese, ma un grande ego significa anche grandi appetiti, cosa che confligge con i principi di equità e uguaglianza su cui si reggono le società. E i giudizi negativi non è detto siano dovuti sempre a invidia o odio o a rancore: sono strumenti necessari per preservare l’integrità di una società la cui crisi creerebbe a ciascuno di noi enormi problemi di sopravvivenza.

Per questo, per districarsi meglio fra i processi di Berlusconi, oltre che Il Giornale può servire leggere anche Il Fatto Quotidiano.

Spero insomma tu convenga che mettere in crisi un meccanismo che ha radici evolutive e permette di garantire la sopravvivenza delle istituzioni rientra tra i “peccati capitali”, se vogliamo prendere a prestito la terminologia della chiesa. E comunque ti assicuro che i vizi che in questo tipo di società hanno fatto di uno come lui un uomo di successo sono gli stessi che mi fanno pensare che non l’avrei mai voluto come vicino di destra nello schieramento della falange[2].

[1] Cfr: https://viandantidellenebbie.org/2020/11/28la-morale-e-le-favole/

[2] “L’oplita … fianco a fianco con i compagni di linea, cercando protezione per il lato scoperto sotto lo scudo del commilitone di destra.” Giovanni Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Ed. Il Mulino.

Macchie di colore

di Paolo Repetto, novembre 2017, da sguardistorti n. 01 – gennaio 2018

Mi capita spesso di percorrere la regionale numero 10, quella che da Alessandria porta ad Asti. Non è una strada panoramica: attraversa con esasperante lentezza l’ultimo lembo occidentale della pianura padana, un paesaggio di un piattume unico, e ai suoi bordi non c’è molto da vedere, se non un numero sbalorditivo di ragazze accampate con sedie e tavolini agli incroci e negli spiazzi laterali, ad ogni ora del giorno (e, presumo, della notte). Con buona pace di Pasolini le lucciole, almeno questo tipo di lucciole, non sono mai scomparse: hanno solo cambiato colore.

A seconda della stagione le fanciulle ascoltano musica riparandosi dal sole o dalla pioggia sotto piccoli ombrelloni, o cercano invano di scaldarsi attorno ai fuochi accesi dentro bidoni arrugginiti. Costituiscono ormai un elemento fisso del paesaggio, e verrebbe da pensare siano stipendiate da qualche ente turistico, perché non danno l’idea di avere molto lavoro e introducono una presenza variopinta nel grigiore del panorama. Un tocco cromatico che è lo specchio perfetto dell’indifferenza dominante nella nostra società, e dell’ipocrisia dietro la quale si maschera.

Quando ne ho accennato ad un amico mi sono sentito rispondere: “Fanno quello che farebbero al loro paese, ma almeno qui mangiano tutti i giorni”. E quando ho provato ad insistere, a dire che erano state comprate e venivano trattate come animali, mi ha chiarito che questo è normale nella loro cultura, che “là” i genitori vendono i figli come fossero vitelli e le donne sono considerate solo come forza lavoro o oggetti sessuali. E che comunque il traffico è gestito da loro connazionali. Un affare di famiglia, insomma. Non è arrivato a dire che queste ragazze sono delle privilegiate, ma poco mancava. Confesso che sono rimasto basito, perché chi diceva queste cose è una persona che stimo più intelligente della media, che conosce davvero i costumi africani, che è persino di orientamento “progressista”. E soprattutto perché al momento non ho trovato argomenti concreti da opporre: mi rendevo conto che in quanto sosteneva c’era una buona parte di verità. Ma proprio questo mi ha confermato la desolante sensazione che ormai ci siamo completamente arresi al peggio, che ci stiamo rassegnando a qualsiasi bruttura e ingiustizia.

Anche se mi considero una persona concreta e disincantata non riesco ad accettare questo fatalismo deresponsabilizzante. D’accordo, non c’è nulla di nuovo sotto il sole (o sotto la pioggia). La prostituzione esiste da sempre, era presente già nella Bibbia e nei poemi omerici, ci sono religioni che addirittura l’hanno sacralizzata e letterature che l’hanno esaltata: quasi certamente accompagnerà tutta la restante storia del genere umano. Questo non significa tuttavia che la si debba dare per scontata e che la sua esistenza non rappresenti eticamente e socialmente una vergogna. Lo è di per sé, e non certo per le povere ragazze, ma per i loro clienti, che nel momento in cui cercano quel tipo di rapporto confessano una totale assenza di rispetto per se stessi, prima ancora che per le loro vittime: ma lo è tanto più in situazioni come quella che ho descritto, che sappiamo benissimo rappresentare una vera e propria forma di schiavitù.

Prima di arrivare a questo caso estremo, però, va sgombrato il campo dalla retorica “antiborghese” e anticonformista che da De Foe a De Andrè, attraverso Dumas figlio e Maupassant, ha coperto come una foglia di fico o persino idealizzato una realtà squallida e iniqua. Perché questo è, comunque, la prostituzione. Ma, ripeto, non ne faccio una questione morale, o almeno, penso che questa riguardi solo i clienti o gli “spettatori”. Mi sono nutrito in gioventù di film western che iniziavano con la ragazza di buon cuore e di cattivi costumi cacciata a forza nella diligenza da una comunità di sepolcri imbiancati, e capace poi di riscattarsi attraverso l’amore per Ringo o, più sovente, con una morte eroica. In genere me ne innamoravo anche. Non ho quindi pregiudizi di sorta nei confronti della categoria. La prostituzione come scelta di vita certo non mi entusiasma, ma nemmeno mi suscita alcuno sdegno particolare: se per chi la pratica si tratta davvero di una libera opzione, la considero alla stregua di tutte le altre, e quella esercitata “professionalmente” mi pare anzi meno ipocrita di quella spesso legittimata e mascherata da un imprimatur sociale. Resta naturalmente invariata l’opinione nei confronti di chi vi ricorre, ma anche qui ritengo si debba distinguere tra chi è mosso dalla disperazione e chi dalla perversione o dall’ignoranza. Insomma, quando non c’è violenza penso la si possa considerare una questione privata.

Il problema è che nei fatti questa condizione non si verifica quasi mai. Le “bocche di rosa” cantate da De André non sono mai esistite (le Moll Flanders invece si), così come non esistono principi azzurri per le pretty women. La percentuale di ragazze (o ragazzi) che scelgono volontariamente di prostituirsi è minima anche oggi, anche di fronte ad una disinvoltura nei comportamenti sessuali che ha cancellato ogni tabù. Ed è sempre stato così. Il carattere sociale del fenomeno, con le responsabilità individuali e collettive che ne conseguono, esplode quindi appena ci degniamo di leggerlo e definirlo correttamente: se ammettiamo cioè che non si sta parlando di semplice prostituzione, ma di una negazione totale della libertà e della dignità ad esseri umani.

Ora, per i motivi che citavo prima – il fatto che la prostituzione forzata abbia macchiato in pratica tutte le civiltà, che negli ordinamenti di Atene figurasse addirittura come una istituzione di pubblico interesse, controllata e rifornita di carne fresca dallo stato attraverso le guerre – fa certamente suonare il mio sfogo come anacronistico e banalmente retorico. In fondo, alla domanda: va bene, e allora concretamente che facciamo, che soluzioni proponi? non saprei che rispondere. Non ho soluzioni, perché non credo che questa piaga possa essere cancellata con un tratto di penna o con una azione di forza (ma resa un po’ meno nauseabonda forse si). Potrei magari parlare di educazione alla dignità, ben sapendo però che questi discorsi, sul piano pratico, lasciano il tempo che trovano (il che non significa che non valga comunque la pena insistere: solo, occorre farlo prescindendo dall’attesa di risultati)

Tuttavia non posso togliermi dalla mente quelle povere ragazze, così come le altre che negli anni ho visto sui marciapiedi di città grandi e piccole. La mia sindrome di Zorro, del difensore dei deboli e degli oppressi, si fonde in questo caso con una particolare forma di maschilismo, da cavaliere della tavola rotonda, che continua a considerare appunto debole e particolarmente indifeso l’altro sesso: ragione per cui queste immagini mi hanno sempre suscitato una immensa pietà e una altrettanto grande rabbia. Pietà (che non è da confondere con la pelosa compassione) per lo scempio di vite nelle quali è stato cancellato ogni sogno, che sono state annullate dalla più ignobile sottrazione della libertà: rabbia nei confronti di chi – chiamiamole istituzioni – almeno tecnicamente dovrebbe contrastare il fenomeno, e finge invece di guardare da un’altra parte, quando addirittura non se ne fa complice. Per dirla chiaramente, le questure e le procure conoscono perfettamente i giri della “protezione”, e uno ad uno gli importatori e gli sfruttatori, così come i metodi con i quali tengono a bada le ragazze: ma sembrano aver perso ogni interesse nei loro confronti, e neppure esercitano più quella strategia che mirava un tempo a mantenere circoscritte le aree di relativa “tolleranza”, consentendo in qualche modo di controllarle. L’espansione costante delle zone presidiate dalle “lucciole” è uno dei segnali più chiari della presa di possesso del territorio da parte dei clan malavitosi.

Ma la rabbia riguarda anche, e più ancora, quella “società civile” – come oggi viene definita la massa di coloro che non esercitano alcun potere, e cercano al massimo di scansare quello altrui – che sembra essersi assuefatta al dilagare del fenomeno, fingendo di non vedere se non quando questo va ad interferire con la tranquillità o il decoro del quartiere di residenza, e che è capace di indignarsi solo a comando, superficialmente e per un attimo, sui temi diversi di volta in volta proposti dal barnum mediatico. Ed è qui che volevo arrivare.

Il destro me lo offre una vicenda in apparenza marginale, l’incredibile polverone sollevato in questi giorni da uno dei tanti scandali del mondo dello spettacolo. Alcune attrici hanno rivelato di essere state oggetto di pesanti molestie sessuali (si parla persino di stupri) da parte di un produttore americano e hanno scoperchiato un vero e proprio verminaio. In un lampo le denunce si sono moltiplicate in maniera esponenziale, tanto che è diventato difficile distinguere tra la voglia reale di giustizia e la caccia alla visibilità mediatica. Ma questo in realtà non interessa a nessuno. È partito invece, com’era da aspettarsi, il solito teatrino: con i commentatori più spregiudicati che naturalmente hanno fatto a gara nello sparare idiozie, con le femministe d’ordinanza che hanno urlato i loro j’accuse contro un mondo maschilista e prevaricatore, con i conduttori televisivi, maschi o femmine che fossero, che si fregavano le mani pregustando la rissa e mezzo punto in più di audience. Di un dramma si è insomma fatta una farsa, e non varrebbe nemmeno la pena parlarne, non fosse che si presta perfettamente ad esemplificare come funziona tutta la faccenda.

Intanto vediamo di stabilire l’entità vera del problema. Ci sono ragazze – si sono poi aggiunti anche dei ragazzi – che hanno scoperto sulla loro pelle che per entrare o per rimanere in certi ambienti può essere richiesto il pagamento di particolari corvée sessuali. Hanno accettato di pagare, vergognandosene però profondamente, rimanendo segnate per tutta la vita, ecc, e venendo infine tutte assieme allo scoperto sull’onda di una prima denuncia. La vicenda in sé è squallida, ogni comportamento prevaricatorio è da condannarsi e da sanzionare senza attenuanti, per gli stupratori e i molestatori violenti io adotterei la castrazione, e non quella chimica: ma rimangono alcune perplessità.

La prima riguarda l’ondata di indignazione collettiva. Come andavano le cose lo sapevano o lo immaginavano tutti, da sempre. Far finta di scoprirlo adesso, improvvisamente, mi sembra terribilmente ipocrita. Non è nemmeno vero che nessuna (o nessuno) avesse mai avuto il coraggio di raccontare queste verità prima d’ora: basta leggere le memorie di Mae West o Hollywood Babilonia per rendersi conto che il mondo del cinema ha da subito moltiplicato, per sua natura intrinseca, le occasioni di ricatto sessuale. Quindi, che il tema conquisti le prime pagine o i primi spazi dei notiziari, a scapito magari dell’informazione su un terremoto devastante (anche se verificatosi in Medio Oriente, dove hanno ben altri problemi, e stentano ormai a distinguere tra le vittime dei sisma e quelle degli attentati), appare esagerato e mortificante.

La seconda è che vicende analoghe si verificano anche in altri ambienti, ma le voci di commesse o segretarie che le denunciano, e magari non dopo dieci anni, sono sempre rimaste confinate nel chiuso delle aule giudiziarie e non hanno alcuna eco mediatica. Capisco che le operaie e le impiegate non frequentano molto i salotti o i talk show televisivi, quindi sono meno popolari, e forse nella media sono anche meno appetibili delle aspiranti attrici e conduttrici: ma ad occhio direi che hanno molta più dignità. A una richiesta si può rispondere si o no. Nei casi che hanno fatto esplodere tanta indignazione e solidarietà per le vittime non era in gioco la vita, ma la carriera. Quindi il problema riguarda il punto al quale si è disposti ad arrivare, o a scendere, per “affermarsi”. E diventa molto più generale, perché ci sono vari modi per prostituirsi, anche senza passare attraverso le prestazioni sessuali. Certo, in questo caso si parla di vere e proprie aggressioni, ma allora è difficile capire perché le denunce non siano arrivate subito. Insomma, ferme restando la vergogna, l’umiliazione, la paura dell’opinione pubblica, sarebbe stato forse lecito attendersi qualche gesto di coraggio più tempestivo, che avrebbe potuto servire da esempio per altre sfortunate, o mettere in guardia le ingenue aspiranti (anche se temo non sarebbe servito a nulla).

La sensazione è quindi di essere di fronte ad una sorta di gioco di società, un gioco al massacro che si svolge al solito sul terreno illuminato dai riflettori e all’interno di una cerchia, piccola o grande che sia, che con la realtà delle nostre vite quotidiane ha ben poco a che vedere. Se la raccontano tra di loro, vien da dire (ma starebbe a noi, una volta che di questo ci rendiamo conto, cambiare programma o meglio ancora staccare la spina).

Insomma, la vicenda non riesce ad appassionarmi o a commuovermi nemmeno un po’. Anzi, mi irrita, quando penso a quelle disgraziate che ai bordi della regionale numero 10 e di tutte le altre statali e provinciali di questo paese, lungo i viali cittadini e le tangenziali, fanno da arredo fisso come i pali dell’Enel o la segnaletica stradale, esposte alle intemperie, ai gas di scarico e al disprezzo schifato di chi passa o alla violenza animalesca di chi si ferma. Queste non hanno mai potuto scegliere, hanno sempre e solo subito. Non coltivano come contropartita o risarcimento sogni di successo, ma disperano persino di essere un giorno liberate dalla schiavitù. Non aspirano a dare spettacolo di sé, sono costrette a farlo, e su un palcoscenico desolante. Ma a quanto pare non meritano indignazione e dibattiti: non fanno audience, perché l’argomento riesce sgradevole anziché pruriginoso e non offre occasione agli show di Sgarbi o di Corona. Sono semplicemente rimosse, cancellate, già destinate al bidone dell’indifferenziato (qualche volta ci finiscono letteralmente) nel quale nascondiamo i tanti rifiuti e le tante scorie che la cultura dell’indifferenza e del cinismo produce.

Non ho davvero soluzioni da suggerire: o meglio, qualche idea l’avrei, ma sono il primo a sapere che non è realisticamente proponibile e non risolverebbe comunque il problema. Mi sento in realtà assolutamente impotente e non voglio diventare addirittura patetico. So anche che queste righe non produrranno un refolo di sollievo nella tragedia quotidiana che si consuma ai bordi delle nostre strade, né una briciola in più di consapevolezza in chi ne è quotidianamente distratto spettatore. E non per la modestia del pulpito: sarebbero altrettanto irrilevanti anche se pubblicate sulla prima pagina de La Repubblica. Le ho scritte molto egoisticamente solo per me, perché credo sia importante tenere svegli, sin che posso, la capacità di sdegnarmi e il senso della misura, e distinguere tra quelli che dovrebbero essere i motivi veri di indignazione e lo spettacolo autoreferenziale imbastito dai guitti del circo mediatico. Nel farlo ho sentito rimescolarsi il sangue e lo stomaco, ho provato vergogna e forse anche un po’ la necessità di tacitare la mia coscienza. E allora le ho scritte anche per chiedere scusa a quelle ragazze della mia impotenza ad aiutarle. Solo a titolo strettamente personale. Per gli altri, per quelli che nemmeno le vedono, o le vedono come rifiuti, o peggio ancora come fazzoletti di carta da usare e da buttare, l’impotenza non posso che invocarla.