Ancora un altro giorno

di Marco Moraschi, 12 ottobre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Non mi sono mai soffermato a riflettere compiutamente sulla morte, se non di sfuggita in qualche pensiero fugace. Forse perché non l’ho mai incontrata da molto vicino, forse perché quando si è giovani non si riesce a concepire la fine della vita, ma solo l’inizio e ciò che ne consegue. La prima volta che ho incontrato la morte è stato molto tempo fa, con la perdita della mia bisnonna, avevo 8 anni credo; a quell’età la morte ci appare come qualcosa di molto strano e curioso, qualcosa che accade per sbaglio alle persone anziane distratte e che tuttavia sembra avere un rimedio, un passaggio a un altro stato dell’essere, che ci provoca profondo dolore momentaneo, ma che svanisce velocemente, appena si trova un altro gioco sufficientemente divertente. In seguito, la morte si è ripresentata in altre occasioni, con la scomparsa di un cugino di mio padre e di una zia di mia madre. Non ho molti ricordi di quei momenti, sono passati abbastanza in fretta, non per insensibilità, ma perché ero ancora “piccolo” e nonostante l’affetto che potevo provare per quei parenti prossimi, non erano persone che frequentavo così spesso da sentire un profondo vuoto dalla loro mancanza.

L’occasione che nella mia vita mi ha portato per la prima volta più vicino alla morte è sicuramente quella della dipartita dei miei nonni paterni, avvenuta ormai più di 6 anni fa. Avevo quasi 18 anni all’epoca, il che significa che ero sufficientemente grande per rendermi conto di quanto stava succedendo, ma non so perché la loro scomparsa non mi fece l’effetto che credevo: mi aspettavo di rimanere disorientato e di provare un forte dolore, visto quanto erano presenti nella mia vita. Mi sorpresi invece abbastanza forte e nuovamente incuriosito da quello strano evento, in cui due persone che conoscevo così bene diventavano in breve tempo pallide e rigide, con un’espressione più rilassata di quella che avevo visto loro nell’ultimo anno di malattia. Mio nonno era tornato ad essere la persona gentile e composta che ricordavo prima della sofferenza, e mia nonna era di nuovo una signora elegante dal carattere forte, non quella vecchietta che straparlava e non riconosceva i suoi cari a causa della demenza senile. Sembrava quasi che la morte avesse aggiustato tutto, avesse riportato le cose a uno stato di perfezione originaria, in cui si cancella il ricordo del dolore e dei cambiamenti che la malattia porta con sé, riportando alla luce i momenti, i ricordi, le persone nel loro stato di massima vitalità.

I miei nonni ci hanno lasciato quando avevano 87 anni. Non so se c’entri qualcosa oppure no, ma è probabile che la loro età mi abbia convinto che, dopotutto, la morte non poteva tardare ancora molto ad arrivare, e non avrei quindi dovuto prendermela troppo quando ciò fosse successo. Sono cambiate molte cose da quando i miei nonni se ne sono andati, non so se oggi riconoscerebbero il loro nipote, con la barba sul volto e i suoi libri di scienza, sempre insieme alla sua fidanzata, ma senza un dio che lo accompagni per la strada. Da quando sono diventato ateo ho provato più volte a chiedermi come avrei dovuto affrontare la morte. Esiste un modo giusto per affrontarla? Cosa dobbiamo pensare della morte? Queste domande mi hanno travolto in almeno un paio di occasioni di recente, non per la perdita di una persona a me cara, ma per l’improvvisa scomparsa dei cari di qualcun altro, la morte di un amico e quella del padre di un mio coetaneo. Sarà che sono cambiato, che ho più voglia di riflettere, ma questi due episodi mi hanno colpito più a fondo di quanto avvenne tempo fa per i miei nonni. Hanno fatto nascere in me la voglia di cercare domande e risposte, nonostante sappia perfettamente che queste non esistono. Forse vi starete chiedendo come si possa rimanere più colpiti dalla morte di qualcuno che non ci è vicino, piuttosto che dalla perdita di una persona cara. Non lo so, da quando mi sento più “maturo” per fortuna non ho incontrato la morte vicino a me e questa è probabilmente la ragione per cui mi sono trovato a riflettere di più nelle uniche occasioni che mi sono passate vicino. John Donne ha detto a suo tempo parole meravigliose sulla scomparsa di un uomo: “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Sarà proprio così allora, come diceva John Donne, non importa se è morto qualcuno che conoscevo poco o non conoscevo, nessun uomo è un’isola e quando ne muore anche solo uno, tutto il mondo è diminuito del suo valore. Insieme a questo, la morte improvvisa di qualcuno, o anche annunciata, ma in un’età che non dovrebbe prevederla, provoca in me, in noi, un profondo disorientamento e un senso di ingiustizia. Il nostro cuore si spezza e ci porta dolore, riflessione, non ci dà tregua, mentre il nostro cervello cerca di mantenerci a galla, convincendoci che le emozioni vanno curate per sopravvivere ogni giorno fino alla prossima alba. Non credo esistano cure o rimedi magici per affrontare la morte, credo che ognuno di noi abbia bisogno del suo tempo e dell’aiuto dei vivi per remare nel suo mare in burrasca; d’altronde i funerali non servono alle persone che ci lasciano, ma a quelle che rimangono, perché possano trovare nei volti amici un aiuto alla propria umanità. Steve Jobs diceva che nemmeno coloro che vogliono andare in Paradiso desiderano morire per andarci, ed effettivamente aveva ragione. Nessuno è preparato alla morte, né i credenti che hanno fede, né noi atei che non l’abbiamo. Davanti alla morte siamo tutti nudi, indifesi e soli, ma allo stesso tempo dobbiamo essere guerrieri leali per affrontarne le conseguenze senza esserne travolti.

Ad essere sincero, la morte non mi ha mai spaventato. La mia morte intendo. Non so come, quando, dove succederà, ma sono abbastanza certo che non mi accorgerò di quanto starà accadendo in quel momento. Epicuro scrisse che non dobbiamo temere la morte perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi. Ciò che mi spaventa di più non è quindi la mia morte, ma la morte altrui, perché noi invece sopravviviamo alla dipartita degli altri e rimaniamo quindi un pochino più soli ad affrontare la vita. La morte degli altri lascia in noi un senso di vuoto, quello che Carlo Rovelli chiama il dolore dell’assenza. E nel suo libro “L’ordine del tempo” riassume benissimo il motivo per il quale, nonostante il dolore, la morte ha in sé qualcosa di affascinante e di incredibilmente vivo. “Questo è il tempo per noi. Il ricordo e la nostalgia. Il dolore dell’assenza. Ma non è l’assenza che provoca dolore. Sono l’affetto e l’amore. Se non ci fosse affetto, se non ci fosse amore, non ci sarebbe il dolore dell’assenza. Per questo anche il dolore dell’assenza, in fondo, è buono e bello, perché si nutre di quello che dà senso alla vita.” Il dolore che la morte porta con sé è sì legato alla scomparsa e all’assenza, ma è giustificato dall’amore, dall’affetto, dalle emozioni umane legate alla vita ed è quindi bello e buono in qualche modo, perché nasce dal sentimento e dal romanticismo nel suo senso più ampio, traendo energia dall’umanità forte che è dentro ognuno di noi.

Quando la morte arriverà non sarò pronto, così come non lo era chi se ne è andato prima di me, ma farò di tutto per essere preparato, per rendere il dolore dell’assenza meno forte, per realizzare il sogno che cantava Giorgio Faletti in uno dei suoi testi più belli: spero che la morte mi trovi vivo.

 

Ritratto del viandante da cucciolo

di Marco Moraschi, 22 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Introduzione di Paolo Repetto

Lo schizzo autobiografico che segue non è un selfie realizzato con altri mezzi. Nasce da una precisa sollecitazione rivolta al suo autore: volevo capire qualcosa del rapporto che un “nativo digitale”, sia pure della primissima ora, ha intrattenuto con ciò che si lascia alle spalle, la scuola, e delle aspettative che ripone in ciò lo aspetta, la vita “adulta”. Da quando la scuola l’ho lasciata anch’io, dopo sessant’anni, non ho molte occasioni per frequentare e osservare da vicino questa generazione (e i figli per queste cose non fanno testo). Ciò che mi arriva è solo quanto riportano i giornali e la televisione, in qualche caso quanto gira sui social: fonti assolutamente inattendibili, che tuttavia riescono lo stesso a creare una sensazione di vuoto o di tristezza assoluta.

Marco lo conoscevo bene più di tre lustri fa, e posso assicurare che era davvero pestifero e ipercinetico come lui stesso si racconta. In seguito l’ho ri-visto saltuariamente, ogni volta stupendomi della trasformazione in atto, di come stesse incanalando in positivo tutta quell’energia. E non è un caso iso-lato: conosco diversi suoi coetanei che hanno fatto lo stesso percorso. Forse sono solo fortunato, o forse varrebbe la pena rivedere un po’ il discorso sull’influenza che la scuola e la famiglia possono ancora esercitare, alla faccia della loro conclamata crisi e dello strapotere degli altri canali formativi.

Per intanto, godetevi assieme a me questo pezzo: è raro ascoltare la voce di qualcuno che non si sente in credito con la vita, non cova rancori, non si atteggia a vittima della società, sa di doversi assumere delle responsabilità ed è pronto a farlo. È raro, ma non perché Marco sia un esemplare unico, da WWF: è solo perché questi qualcuno hanno un sacco di cose da fare, hanno progetti per sé e per gli altri, vogliono dare un senso alla propria esistenza, senza aspettare che arrivi loro con lo spirito santo, e quindi non possono e non vogliono concentrarsi sul proprio ombelico (che sta in mezzo alla pancia), e preferiscono far girare il cervello.

Magari non li vedremo in tivù, ma ci sono: e ciò è sufficiente a far saltare ogni alibi per l’atteggiamento rinunciatario col quale troppo spesso assistia-mo passivi allo sfascio. C’è speranza, finché circolano viandanti di questa specie.

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Non è ancora chiaro quando tutto ebbe inizio. Che le cose andassero male era già abbastanza evidente da alcuni mesi, quando quella povera donna di mia madre scoprì che doveva stare immobile nel letto se non voleva perdere la sua immensa creatura. Sicuramente, però, le cose precipitarono martedì 06 settembre 1994, alle 15.30 circa. A quell’ora di un pomeriggio di fine estate non si ha voglia nemmeno di digerire, figuriamoci di dare alla luce un figlio. Pensate quale sorpresa devono avere avuto in sala parto quando hanno scoperto che a nascere ero proprio io. Non che fossi tanto più bello degli altri, anzi, a giudicare dalle foto ero abbastanza rachitico, il figlio brutto di Mortimer Mouse. Però, insomma, ero proprio io. Naturalmente i miei genitori non potevano saperlo, che ero proprio io intendo, altrimenti mi avrebbero dato subito in adozione.

Fu quindi così che cominciò la mia vita. I primi tre anni non li ricordo, e forse meglio così. Pensate che imbarazzo ricordarsi le moine di nonni, genitori e amici che ti parlano come fossi il capostipite del genere homo, una scimmia antropomorfa con un cervellino di 510 cm3. I primi ricordi risalgono ai tempi dell’asilo, quando avevo almeno una fidanzata ed ero il bullo della sezione Coccinelle. A quanto mi dicono tiravo i giocattoli mentre gli altri mettevano in ordine, mi spalmavo lo stracchino in faccia come fosse schiuma da barba e sputavo nel piatto degli altri bambini per mangiare anche la loro porzione. Quali desideri volete che abbia un bambino così, vivevo più o meno alla giornata, ma fin da subito fu chiara una cosa: dovevo avere qualcosa da fare. Se la mia mente era impegnata in una qualunque attività, che trascendesse ciò che io ritenevo essere “la noia”, le persone intorno a me potevano almeno sperare di godersi la tranquillità che avevo loro tolto.

Le mie prime gesta sono tutto sommato abbastanza banali, ho superato l’asilo con la media del 6 e le mie aspirazioni erano di diventare pompiere, allenatore di Pokemon e altri classici sogni dei bambini di quell’età. Le cose iniziarono a migliorare con le scuole elementari, quando trovai a tentare di educarmi due maestre straordinarie: Laura e Manuela, è giusto che i loro nomi vengano qui ricordati a futura memoria di ciò che hanno sofferto in quegli anni. Poco alla volta riuscirono a tirare fuori da quella peste esagitata un bambino abbastanza tranquillo, studioso e curioso. Dalla regia in verità mi suggeriscono che il processo non è probabilmente terminato, e che dietro un’apparenza tranquilla e diligente nascondo un carattere ribelle e anarchico. Visto che questo è il mio racconto, credete a me: sono fin troppo equilibrato. Ma torniamo alle elementari. Ho ricordi molto piacevoli di quel periodo, andavo d’accordo coi compagni di classe, venivo perfino invitato alle feste di compleanno degli altri bambini. È stato un periodo molto positivo, che credo abbia scolpito una buona parte dei pezzi di cui sono ora composto. Verso la quarta – quinta elementare, avevo aspettative per il mio futuro decisamente diverse rispetto ai primi tempi della scuola materna: desideravo diventare archeologo, paleoantropologo e zoologo erpetologo (lo so, non si è mai sentito nessun bambino dire “Voglio fare lo zoologo erpetologo”, ma ve l’ho detto fin dall’inizio che io sono io, no?).

Superata anche la quinta elementare, è iniziato un periodo abbastanza insulso della mia vita, poco stimolante, forse per confronto rispetto al periodo precedente. Intendiamoci, andavo sempre bene a scuola, che poi significa semplicemente che facevo il mio dovere, niente di straordinario, ma non ho ricordi piacevoli delle scuole medie. È un’età un po’ stupida in effetti, o per lo meno lo è stata per me e, combinazione, per tutti gli altri bambini che frequentavano la mia stessa scuola. Non offendetevi, per carità, ci siamo passati tutti. È un’età in cui non si è più bambini, ma non si è nemmeno ragazzi, si inizia ad essere maliziosi, a scoprire il sesso (non a farlo, per fortuna) e si tenta di entrare a gamba tesa nel mondo dei grandi senza averne i requisiti. Per fortuna dura solo tre anni. Da zoologo erpetologo il mio futuro lavorativo prevedeva in quel tempo di diventare sacerdote e, anzi, puntavo ai piani alti: volevo diventare papa. Dopo tanti anni, a vedere l’anticristo che sono diventato, viene da sorridere, ma tant’è: siamo la sommatoria delle infinitesime esperienze che viviamo. Sono fiero della persona che sono oggi e non cambierei un solo giorno. Nemmeno le scuole medie, tutto sommato ho avuto buoni professori, soprattutto quella di matematica (non se la prendano gli altri), che mi ha fatto scoprire la passione per le materie scientifiche.

E così si arriva al liceo. Prima del liceo, però, esattamente a metà tra la fine di un percorso e l’inizio di quello nuovo, è successo un altro fatto incredibile, il secondo della mia vita. Il primo è stato quando sono nato, ricordate? Il secondo il 24 agosto 2008, quando ero poco più di un bambino e all’improvviso mi sono scoperto uomo. Ero ancora immaturo, cristiano e senza barba, ma è stata quasi una seconda nascita, un rito di passaggio all’età adulta: ho conosciuto mia moglie. Tranquilli, i miei genitori non hanno programmato il mio matrimonio così in anticipo per liberarsi finalmente del loro secondogenito, mi sono semplicemente innamorato e fidanzato con una ragazza straordinaria. L’evento è incredibile per almeno tre ragioni, che è bene riassumere per capire chi sono. La prima è che, ormai lo avrete capito, anche se non lanciavo più i giocattoli, la mia testa era sempre la stessa ed è quindi incredibile che una ragazza si sia innamorata di me. La seconda è che fino ad allora non avevo mai guardato le ragazze, probabilmente in segno di protesta per essere nato in una famiglia con due sorelle. Ilaria era dunque la prima (a parte la fidanzata dell’asilo, è valida o no?). E la terza è che dopo più di dieci anni siamo ancora insieme. Incredibile, ve l’avevo detto.

Eravamo quindi rimasti al liceo. Se le medie sono state l’inferno (si fa per dire) e le elementari il paradiso, il liceo è quanto di più simile al purgatorio riesco a immaginare. È un posto sufficientemente bello per non essere chiamato inferno, ma sufficientemente difficile per non essere il paradiso. Un limbo a metà tra la “spensierata giovinezza” e l’età adulta, in cui cerchi di capire chi sei e a quale mondo appartieni. Per dovere di cronaca, essendo seri, occorre dire che ho trovato professori straordinari. Mi hanno insegnato a credere nelle mie capacità, mettendomi alla prova con corse a ostacoli e salti con l’asta. All’epoca non ne ero ovviamente così entusiasta, ma a posteriori i brutti ricordi svaniscono, un po’ come quando muore qualcuno: si finisce sempre per parlarne bene, “ah che brava persona che era”.

Al liceo ho sicuramente consolidato le basi del mio carattere, della mia personalità, dei miei interessi. Ho amato la matematica e l’italiano, ho imparato a leggere la storia e a indagare il pensiero con la filosofia, ad ascoltare tutto il mondo con l’inglese e a pesare il cuore delle persone creandomi un’identità. Se ci pensate non esiste un’altra età della nostra vita così straordinaria come il liceo. E quindi vi renderete conto da soli che è un gran peccato che il liceo sia … una scuola. Presi tra verifiche e interrogazioni non riusciamo a goderci questo periodo straordinario in cui tutto ciò che ci è richiesto è di esplorare tutti i campi del sapere. Non abbiamo bollette da pagare, non dobbiamo misurarci con i problemi del nostro futuro, è un periodo di formazione e basta, in cui diamo un nome a ciò che siamo e che possiamo diventare. A posteriori il consiglio che mi darei è di preoccuparmi meno dei voti: studierei per imparare, approfondirei le cose che mi piacciono e tralascerei un po’ di più quelle brutte e noiose, vorrei aver avuto meno ansia da prestazione, vorrei essermene fregato un po’ di più di apparire come lo studente modello, sempre preparato, sempre studioso, per dedicarmi un po’ di più a scrivere le mie passioni, senza il terrore finale di un giudizio. In quarta liceo pensavo che da grande avrei indossato il camice: sarei stato un medico. In quinta liceo sapevo, o per lo meno, credevo di sapere cosa avrei voluto fare, avrei studiato ingegneria. Se c’è qualche ragazzo di quinta liceo che sta leggendo questo racconto, aprite le orecchie: non permettete a nessuno di darvi consigli non richiesti.

Il mio ultimo anno di liceo è stato una cantilena ripetitiva: devi scegliere una facoltà che ti dia molte opportunità di lavoro, che non ti precluda “delle porte” a priori, che ti permetta di trovare stabilità economica, così potrai sposarti, farti una famiglia, avere dei bambini, rigorosamente un maschio e una femmina, ed essere felice per tutta la vita, nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, non so se capite cosa intendo. Non ho sentito nessuno che mi abbia consigliato di seguire il mio cuore e fare semplicemente ciò che mi piace e mi rende felice. Ho ascoltato esperti di orientamento che mi hanno spiegato le mirabolanti imprese dei loro straordinari mestieri, senza che nessuno mi spiegasse davvero cosa si studia in una facoltà piuttosto che in un’altra. Intendiamoci, ho scelto di studiare ingegneria “in totale libertà e consapevolezza” come si suol dire, ma vorrei che qualcuno mi avesse detto prima quali materie avrei affrontato, quali sarebbero state le difficoltà e non solo i vantaggi di questa o un’altra scelta. La verità, purtroppo, è che l’orientamento è il business di chi la spara più grossa, abbiamo messo in competizione scuole e università, che cercano di accaparrarsi clienti per la loro sopravvivenza, in una sanguinosa lotta a somma zero. Dopo cinque anni di ingegneria sono ormai quasi alla fine del mio percorso di studi. In questo momento non mi sento di dire con certezza di aver fatto la miglior scelta che potessi fare. Sono abbastanza soddisfatto, forse più per alcune persone che ho incontrato durante questi anni di università che non per ciò che mi sembra di avere imparato, per la verità abbastanza poco. Se non avessi intrapreso questo percorso non avrei conosciuto alcuni tra i miei amici più sinceri, non avrei potuto apprezzare alcuni docenti illuminati (due?) che hanno acceso in me una scintilla. Magari non avrei un blog, non mi sarei appassionato alla divulgazione scientifica e chissà cos’altro. Sicuramente non avrei letto una frase scritta sulla porta di un gabinetto al Politecnico, frase peraltro prostituita su internet nell’eterno presente della rete: “Gli studenti non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere”. All’università ho trovato molta terra, ma poca benzina.

Grazie per essere arrivati fin qui. Per ora. Vi farò poi sapere com’è andata.

Nuovi iPhone: riflessioni a valle (o a monte?)

di Marco Moraschi, 16 settembre 2018,da sguardistorti n. 04 – ottobre 2018

Il 12 settembre è andata “in onda” la cosiddetta “messa laica”, come qualcuno ama chiamarla, ovvero c’è stato il tanto atteso evento di pre-sentazione dei nuovi modelli di iPhone da parte di Apple. Dopo ormai molti anni che seguo in diretta gli eventi di presentazione dei nuovi prodotti tech, non potevo perdermi neanche questo, che infatti ho se-guito con interesse. Con interesse non perché io sia intenzionato ad ac-quistare l’ultimo modello di iPhone (anzi, non ne ho mai avuto uno), ma perché, da ingegnere e da appassionato, trovo interessante seguire l’evoluzione della tecnologia e dell’elettronica di consumo anno dopo anno. Per contro, occorre dire che, soprattutto in ambito smartphone, il mercato è diventato abbastanza noioso, con dispositivi che si assomi-gliano tutti e che si copiano l’un l’altro. Naturalmente anche quest’anno i nuovi iPhone sono i più tutto di sempre: i più belli, i più potenti, i più grandi. Sparito lo storico design con cui abbiamo conosciuto l’iPhone nel 2007, i nuovi iPhone hanno linee di design ispirate all’iPhone X visto lo scorso anno, ma con schermi più grandi, processori più potenti, nuove fotocamere e nuovi colori. Per dovere di cronaca occorre dire, però, che sono anche i più pesanti, i più invadenti e, last but not least, i più costosi.

Proprio questi ultimi punti, nonostante le novità presentate, credo debbano essere tenuti in considerazione per un bilancio che sia sincero. In un altro articolo ho già espresso le mie perplessità in merito al mondo degli smartphone, ma ci sono tuttavia alcuni punti che vorrei rimarcare e che traspaiono dalle ultime novità di casa Apple (come di tutte le altre case di produzione peraltro, il keynote Apple del 12 settembre è solamente il “casus belli“). Seguendo la presentazione ho infatti storto il naso in ben più di un’occasione; la più consistente è stata quando i nuovi iPhone sono stati presentati come dispositivi eccezionali per guardare film e fare editing video. Una premessa: non ne faccio una colpa ad Apple, se mi conoscete sapete anzi fin troppo bene che apprezzo molto l’operato di casa Apple per la sinergia tra hardware e software, che le permette di creare prodotti di eccezionale qualità e longevità. Le grandi aziende tecnologiche inseguono i trend del momento poiché ovviamente il loro obiettivo è vendere e fare profitti, non trattandosi di organizzazioni no-profit. Per chi tuttavia è un osservatore esterno viene invece naturale analizzare questi trend e chiedersi dove ci porterà questo lungo cammino fatto di piccole innovazioni. Torniamo quindi dove eravamo rimasti. Il trend attuale è sicuramente quello del mobile-first, tutto si sta spostando intorno alle piattaforme mobili che stanno passando dall’essere strumenti di fruizione dei contenuti a strumenti di creazione dei contenuti stessi. C’è tuttavia qualcuno che in questa logica perversa tenta di resistere, e il sottoscritto ne è un esempio; non perché voglia rigettare l’ingresso del digitale nella sua vita, per carità, ma semplicemente perché vorrebbe poter cogliere il meglio da ogni strumento che gli viene posto davanti, utilizzandolo per le funzioni per le quali è stato pensato inizialmente, senza stravolgimenti e forzature, in modo da trarre un reale beneficio dal suo utilizzo. Nella presentazione di Apple c’è stata qualche stortura di questo tipo, come, dicevamo, il fatto di utilizzare l’iPhone per guardare film o fare editing video. Il “cellulare” è nato con l’obiettivo di essere uno strumento utile per la comunicazione fuori casa; ben vengano alcune sue innovazioni seguenti, come il GPS per le mappe o la fotocamera integrata, ma pensare di utilizzare uno schermo di quelle dimensioni per guardare un film è francamente una stonatura. Vero è che le dimensioni degli smartphone sono aumentate a dismisura dalla loro invenzione, ma forse è proprio questo il problema, abbiamo perso di vista l’obiettivo per il quale sono nati (essere telefoni comodi da portare in giro) e quindi abbiamo iniziato ad aumentare le dimensioni dei loro display, affinché diventasse meno scomodo farci tutt’altro.

Mi chiedo inoltre quando e dove dovrei utilizzare lo smartphone per guardare un film: a casa? Sul treno? In piscina? Se la risposta è affer-mativa per la prima domanda allora c’è qualcosa che non va, perché a casa ci sono altri dispositivi molto migliori sui quali guardare un film, chiamasi computer e, ancor meglio, televisori. Se invece la risposta è affermativa alle altre due domande allora abbiamo nuovamente un problema, in quanto stiamo sprecando il nostro tempo, alimentando quelle orde di zombie che quotidianamente si vedono sui mezzi di tra-sporto: con le cuffiette e gli occhi incollati allo smartphone, ignari di qualunque altra cosa succeda loro intorno. Questa prima parte sugli smartphone più invadenti e più pesanti è già diventata sufficientemente lunga e apocalittica, proporrei quindi di passare all’ultima caratteristica: più costosi. Quest’ultima non è a mio avviso così trascurabile. Qualcuno potrebbe ribattere: se ti sembrano troppo costosi basta non comprarli! Ed effettivamente non ho alcuna intenzione di acquistare gli ultimi modelli. Di nuovo, inoltre, non facciamone una colpa ad Apple: i competitor fanno altrettanto e spesso in maniera ancora meno giustificata, ci sono fior fior di esperti di marketing che occupano gli uffici a Cupertino e inoltre, se nonostante i prezzi si continuano a vendere milioni di smartphone, significa evidentemente che non sono poi così tante le persone che trovano esagerati i loro prezzi. Trascurando chi acquista questi dispositivi per reali necessità lavorative (su le mani), per la maggior parte (maggior parte = non tutti) delle altre persone è probabilmente diventato un vezzo, simbolo di una rivalsa di successo che non si riesce ad ottenere in altri modi, di una insoddisfazione personale e di un’infelicità che non si riesce a colmare diversamente. Se per le classi più abbienti un iPhone è uno status symbol che si può ottenere con poca fatica, per molte altre persone è un costoso sacrificio che si ripaga facendo mostra di sé quando viene estratto dalla borsetta o dai pantaloni. Nel caso del modello più costoso presentato, stiamo infatti parlando di un esborso che supera i 1600€, ovvero più di una mensilità media in I-talia, che si attesta intorno a quota 1500€. Trattandosi di una media, è ovviamente “mediata” da chi ha stipendi molto più alti (decine di mi-gliaia di euro) e molto più bassi (sotto i 1000€ mensili). Ognuno con i propri soldi può ovviamente far ciò che vuole e infatti non si sta discu-tendo questo: tutti spendiamo soldi in maniera più o meno sensata se-condo i nostri gusti, che sono tutti diversi e opinabili. Il punto qui però è un altro: perché siamo arrivati a prezzi così folli per gli smartphone? Considerando il fatto che i giganti tech dispongono da soli di capitali superiori a quelli di molti stati sovrani (Apple e Amazon, per esempio, sono le prime due società al mondo ad aver superato una capitalizza-zione di 1000 miliardi di dollari USD) e che nel mondo il 99% della ric-chezza è in mano all’1% delle persone, visti inoltre i numeri di vendita, significa che molte persone, pur non potendo permetterselo, sono di-sposte a pagare queste cifre per l’acquisto degli smartphone. Perché? In definitiva, a parte qualche accenno qui sopra, non ho una risposta. Tutto ciò che mi sento di dire è che forse dobbiamo riconsiderare il nostro rapporto con la tecnologia, per non venirne infine fagocitati. Non è quindi forse un caso se il nuovo iPhone si chiama XS, che letto in inglese suona “Ex-Es”, fin troppo simile a “excess”, eccesso.


 

Elogio dei telefoni stupidi

Ovvero come tornare offline può renderci più felici

di Marco Moraschi, 21 luglio 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Lo chiamano “dumb-phone movement”, ed è un trend in crescita. Nasce dalla contrapposizione, più evidente in inglese, tra lo “smartphone” (smartphone, ovvero “telefono intelligente”) e il “dumb-phone” (“telefono stupido”). Sembra nascere sempre di più in molte persone, infatti, il desiderio di distaccarsi dal mondo digitale della distrazione di massa, per tornare alle origini di un rapporto più umano con le persone, sicuramente più presente nell’era pre-smartphone. Il nostro attaccamento a questo dispositivo tecnologico, solo in apparenza “intelligente”, è dovuto a quella che molti studiosi chiamano FOMO, ovvero “Fear Of Missing Out”: la paura di essere tagliati fuori. Ok, ma tagliati fuori da cosa? La paura è quella di non essere aggiornati con le ultime notizie, di perdersi ciò che avviene sui Social e sulla rete, di non leggere subito le e-mail che ci arrivano, di rimanere esclusi da una società in cui tutti nuotano (annegano?) nel digitale, in cui tutti possiedono uno smartphone, un profilo Facebook, Instagram, Twitter, … la paura di perdere delle opportunità che grazie al digitale sono nate negli ultimi vent’anni. Ma proprio questa FOMO ci sta invece facendo perdere ciò che da sempre contraddistingue l’essere umano, ovvero la capacità di comunicare e dialogare con le persone, di stabilire un contatto che con le e-mail e i tweet non è possibile ottenere, in quanto essi ci danno solamente l’illusione del confronto.

Sarà capitato anche a voi: ogni volta che cerchiamo di leggere un libro, di sederci a riflettere, di fare due passi all’aria aperta, finiamo per prendere in mano il telefono. Ci convinciamo che c’è qualcosa di molto più urgente da fare in quel momento: cercare su Google informazioni su qualcosa di assolutamente irrilevante che abbiamo sentito o letto di sfuggita negli ultimi dieci minuti, leggere il feed delle notizie, sempre uguali e tristi come l’ultima volta che le abbiamo consultate, “scrollare” la bacheca di Facebook o di Instagram perché anche se non c’importa nulla di ciò che postano o scrivono gli altri, magari c’è qualche novità o qualche scoop che non ci hanno detto. Il problema è che, anche se ci rendiamo conto di quanto tempo sprechiamo nel tentativo di rincorrere vanamente l’ultima notizia e l’ultima foto su Instagram, non riusciamo a farne a meno. Non riusciamo a farne a meno. C’è sempre questa maledetta paura di restare esclusi da qualcosa, non sappiamo bene cosa, ma il nostro cervello è entusiasta all’idea di vedere l’icona rossa di una nuova notifica, di una nuova e-mail, di una risposta a un nostro tweet, che imperterriti proseguiamo la nostra corsa alla ricerca di questa agognata e intima soddisfazione. A ben guardare, occorre precisare che non è nemmeno tutta colpa nostra: i nostri smartphone, con le loro linee di design, i loro schermi nitidi, le icone colorate e i suoni piacevoli, sono appositamente studiati per farci trascorrere davanti ad essi più tempo possibile. E la colpa, se vogliamo, non è nemmeno di chi li progetta o sviluppa le loro applicazioni: il fine ultimo di un’azienda, ci piaccia o no, è generare profitto, e chi lavora nel settore del digitale sa perfettamente che più tempo le persone passano davanti a uno schermo con il suo dispositivo o la sua applicazione, più alti saranno i suoi guadagni.

Ogni volta che prendiamo in mano il telefono, non solo distogliamo la nostra attenzione da ciò che stavamo facendo in precedenza, ma diventa poi più difficile ritornare a concentrarci sulla nostra attività perché il nostro cammino mentale è stato disorientato. Secondo alcuni studi, addirittura, non solo prendere in mano il telefono ci distrae, ma anche averlo semplicemente a portata di mano può essere un freno alla nostra concentrazione e immaginazione, perché i nostri sensi rimangono vigili nel caso lo schermo dovesse illuminarsi per l’arrivo di una nuova notifica. Scoprire in un istante il titolo della canzone in riproduzione alla radio, seguire minuto per minuto gli aggiornamenti politici, meteo, quotazioni di borsa, poter ascoltare potenzialmente qualsiasi brano sia mai stato registrato nella storia della musica mentre siamo sulla metropolitana. Le possibilità che il digitale ci offre sono infinite. Letteralmente. Tutto è possibile, qui e ora. Qualunque informazione desideriamo, la abbiamo a portata di click in un secondo. Non c’è mai stata un’epoca così straordinaria per la conoscenza. Come ha detto lo scrittore Donald Miller: “Nell’era dell’informazione, l’ignoranza è una scelta”. Il punto è: siamo sicuri di averne così bisogno? O meglio, di averne bisogno in ogni momento della nostra vita? Siamo sicuri che ciò che abbiamo ottenuto in cambio della nostra privacy sia valso davvero la pena? Il “dumb-phone movement” propone proprio questo: mettere da parte i nostri cellulari super intelligenti, smart e pieni di funzioni (leggi distrazioni), per riprendere in mano la nostra vita. Per posare ogni tanto il nostro computer e uscire a fare una passeggiata, uscire fuori a cena con amici trascorrendo la serata a parlare insieme, senza guardare lo schermo dei nostri cellulari che ci mostrano ciò che succede altrove. Ritornare a giocare con i nostri figli, e non tenerli buoni facendoli giocare a qualche giochino stupido sul tablet, ma aiutandoli a scoprire il mondo e a meravigliarci insieme a loro di quanto è bello. Andare a un concerto e guardarlo dal vivo con i nostri occhi, non attraverso il piccolo schermo del nostro telefono, affinché il ricordo rimanga vivo e impresso nella nostra mente.

Come può un telefono stupido aiutarci a raggiungere questo obiettivo? Per comprenderlo, elenco qui di seguito alcuni vantaggi che ha un tale dispositivo:

  • Distraction-free. Non si possono installare applicazioni come Facebook, Twitter e Instagram. Si potrebbe ribattere che basterebbe disinstallarle anche dai nostri moderni smartphone, ma il solo fatto che questa possibilità esista (cioè poter accedere ai Social tramite il browser, o poter reinstallare queste app in pochi secondi) è per molti di noi, me compreso, deleteria. Sono poche le persone che hanno una volontà di ferro, specialmente nelle situazioni dove sembra non essere così necessario. Spesso tendiamo a sopravvalutare le nostri reali capacità di resistere alle tentazioni, con il risultato che, chi prima chi dopo, ci ricaschiamo puntalmente. Se non posso installare queste applicazioni e il browser non è sufficientemente avanzato da potersi connettere velocemente e con una buona esperienza d’uso ai rispettivi siti internet, sono sicuro che terrò lontano queste distrazioni. Avere tutto a portata di mano, come su uno smartphone, e scegliere quando lasciarmi distrarre e quando no, è un lusso che non posso permettermi.
  • È uno stimolo. Avere continuamente a disposizione ogni informazione che vogliamo, per esempio le indicazioni stradali per andare da una località a un’altra, sta disabituando la nostra mente a memorizzare le informazioni, con il risultato che abbiamo perso l’arte della memoria, come fa notare spesso il mentalista Vanni De Luca. Se in passato infatti eravamo abituati, per lavoro e/o necessità, a memorizzare molte informazioni, come un’arringa da esporre in tribunale nel caso di Cicerone (uno dei primi a fornirci efficaci tecniche di memorizzazione), oggi facciamo enorme fatica a ricordare anche solo un numero civico o di telefono, per non parlare delle date di compleanno dei nostri amici, attività che abbiamo vergognosamente delegato a Facebook. Un telefono stupido queste informazioni non può semplicemente fornircele, o sicuramente non in maniera agevole, trasformando un’apparente carenza in un utilissimo esercizio per la memoria (o volete sprecare i traguardi che il nostro cervello ha raggiunto in migliaia di anni di evoluzione darwiniana?). Uno stimolo ulteriore arriva dal fatto che abbiamo perso la capacità di annoiarci. Quando siamo in fila dal medico, o alle poste, oppure in viaggio sul treno, “ammazziamo il tempo” con futili attività pescate a caso dal nostro smartphone: non ci annoiamo più. Ma il “dolce far nulla”, come starsene mani nelle mani in attesa del nostro turno, è una delle attività più prolifiche per la nostra mente! Solamente quando la nostra mente è libera da qualunque attività è in grado di mettere realmente in moto l’intelletto e la fantasia. E non dovremmo stupirci se la maggior parte delle idee ci vengono la notte quando non riusciamo a dormire o mentre siamo nella doccia. Dobbiamo permettere più spesso alla nostra mente di non essere intrappolata da vincoli che non aggiungono alcun valore significativo alle nostre attese. Torniamo ad annoiarci, chissà che la nostra prossima idea per un’azienda non nasca proprio da un pensiero fugace comparso all’improvviso mentre eravamo sul tram, che mai avremmo avuto se anziché viaggiare tra i pensieri fossimo stati passivamente a guardare le ultime foto su Instagram di una influencer.
  • Meno preoccupazioni. Se ce lo rubano, se cade o lo perdiamo, poco importa. Costa poco, non abbiamo perso granché. Non ci sono dati personali sopra, a parte il registro chiamate e i messaggi scambiati; la nostra vita è altrove. Possiamo portarlo in spiaggia, a correre, sulla metro senza la continua preoccupazione di avere con noi un dispositivo di grande valore e che contiene molte informazioni personali. Non avendo applicazioni come Facebook, Twitter, Instagram che scambiano continuamente dati in background, la batteria dura molto di più. Non dobbiamo più preoccuparci di cercare una presa a metà giornata o di portarci dietro una powerbank, la batteria durerà per tutto il tempo che abbiamo bisogno.
  • È più comodo. Pensate ai nostri attuali smartphone: diagonale da 5,5” in media per un peso oltre i 160 grammi. Non sono più “mobile phones” (telefoni cellulari portatili), ma piccoli mattoncini che a fatica stanno nelle nostre tasche e appesantiscono borse e borselli. Il loro peso, le loro dimensioni e il tempo che trascorriamo a “spippolare” sono poco confortevoli, e ciò è sempre più spesso causa di patologie come il tunnel carpale o infiammazioni a nervi e articolazioni della mano.
  • Siamo più presenti. Senza tutte queste distrazioni e preoccupazioni, possiamo finalmente tornare a concentrare l’attenzione su ciò che conta davvero: la natura umana. Minuto dopo minuto, consultando Facebook e i nostri smartphones, senza rendercene conto, buttiamo via parecchie ore al giorno, che potremmo impiegare diversamente, magari facendo una passeggiata all’aria aperta, uscendo a cena con gli amici, o facendo l’amore con la persona che amiamo. Fate una prova: a fine giornata controllate nelle impostazioni della batteria quanto tempo lo schermo del vostro smartphone è rimasto acceso, mediamente leggerete un tempo che va dalle 2 alle 4 ore. Significa che quel giorno avete guardato lo schermo del vostro telefono per almeno 2 ore! Pensate a quante cose in più potreste fare ogni giorno se aveste a disposizione tutto quel tempo: finire di leggere il libro che avete da tempo iniziato, o finire di scrivere quello rimasto a metà nella vostra testa, mettervi in forma andando in palestra o in bicicletta, o semplicemente dedicarvi di più alla vostra famiglia. Non è strabiliante?

Gli smartphone hanno sostituito moltissime cose: l’iPod dei primi anni duemila e i giradischi di tempi più lontani, le sveglie sul comodino, la radio e i giornali che annunciavano le notizie ogni mattina. Non è necessariamente un male in tutti i casi, e non si vuole demonizzare il digitale: è una tecnologia stupenda, uno strumento nelle nostre mani che ci sta permettendo di raggiungere traguardi e risultati prima impensabili. Ma dobbiamo usare lo stesso principio che applichiamo quando facciamo una dieta: di mangiare abbiamo certamente bisogno, non possiamo e non dobbiamo farne a meno, ma forse mettere il barattolo della Nutella in un posto scomodo e non facilmente accessibile, magari sopra a un mobile, non può che farci bene. Qualche volta prenderemo la scala per arrivarci, qualche volta desisteremo, ma, in fin dei conti, ne sarà valsa la pena. Alla fine della mia vita voglio poter ricordare con piacere i momenti che ho condiviso con le persone che amo, le piccole e quotidiane esperienze che fanno di me un essere umano. Il mio tempo è prezioso e limitato; non voglio sprecarlo inseguendo l’infinito stream di notizie, di tweet, di post e di foto che affollano la rete. Non voglio correre il rischio di perdermi il primo passo di mio figlio, il sorriso di una signora sulla metropolitana, o il rumore dei miei piedi che camminano sulla neve perché ero intento a guardare il mio telefono anziché il mondo che avevo attorno. Come disse Henry David Thoreau, non voglio scoprire, in punto di morte, di non essere vissuto. Grazie. …