Ma che razza (…)

di Paolo Repetto, 2013

Salto su tossendo, gli occhi pieni di lacrime. Sono le nove del mattino, sto sdraiato sul greto del Piota e a pochi passi di distanza qualcuno ha cominciato ad arrostire delle salsicce. La brezza diffonde per un raggio di venti metri il fumo della carbonella, aromatizzato al rosmarino. Sono già abbastanza stagionato, non voglio farmi anche affumicare.

Chi va al fiume di primo mattino in genere ha poca simpatia per i suffumigi. Se ha scelto quell’ora è perché preferisce un bagno nell’acqua fresca e pulita a quello nella folla, vuol fare quattro bracciate evitando collisioni con nugoli di bambini e amerebbe rosolarsi per un’oretta non allo spiedo ma ai primi raggi solari, cullato dai suoni del vento o della corrente. Soprattutto, non ha intenzione di essere spettatore delle attività culinarie che si sviluppano da quando il sole è allo zenit sino a tarda sera. Le salsicce alle nove antimeridiane sono un ulteriore passo sulla strada del degrado; per cui, appena ho finito di stropicciarmi gli occhi, comincio inveire: “Ma che cavolo fai?” Il rosticciere ha tratti marcatamente andini. Mi guarda seccato, si rivolge in uno spagnolo gutturale ad un gruppetto che ha già imbandito tavola sotto gli alberi, poi risponde che non pensava di dare tutto questo fastidio. Accenna comunque a spostarsi un passo più in là. Mi butto in acqua, nella vana speranza di togliermi di dosso gli aromi, faccio su l’asciugamano impregnato e prendo, ancora umido, la via di casa. E mi ripeto: “Ma che razza …”.

Murray Bookchin, un anarchico americano, a un giornalista che in occasione del suo ottantesimo compleanno gli chiedeva se l’invecchiare comportasse anche qualche vantaggio rispose: “Certamente! Divento ogni anno più arrabbiato e intollerante”. Non potevo non fare mia questa risposta, e pertanto la uso per introdurre la conversazione: vorrei però combinarla con il luogo comune secondo il quale si nasce incendiari e si finisce pompieri, che apparentemente la contraddice, per provare a chiarire come stanno realmente le cose. Nel mio caso il superamento della contraddizione è facilitato dal fatto che per certi versi sto diventando letteralmente un pompiere: un pompiere molto arrabbiato e pochissimo tollerante.

Accade ormai quotidianamente, nella stagione estiva, di condividere le piccole spiagge del Piota con tribù di ominidi che hanno riscoperto il fuoco e improvvisano sotto il sole rovente falò scoppiettanti e fumose grigliate. Arrivano carichi come muli di vettovaglie e casse di birra, disboscano il greto, mostrando preferenza per gli arbusti più verdi e potenzialmente fumogeni, impiantano vere e proprie iurte o creano ricoveri antisole di fortuna per la nutritissima progenie, si ingegnano a rompere la monotonia del silenzio con micidiali impianti di diffusione musicale, tarando il volume in modo da non discriminare nessuno: insomma, una ventata di vita e di allegria. Non è vero, come afferma qualcuno, che sia sempre stato così: per dimensioni e per qualità questo è un fenomeno degli ultimi dieci-quindici anni. Nel secolo scorso le grigliate erano rigorosamente notturne e molto sporadiche, puri pretesti per trascinare al fiume le ragazze e sperare nell’atmosfera. Oggi invece non c’è giardino o terrazzo sprovvisto di zona di cottura, il rituale della brace domenicale ha sostituito quello dell’ostia e la casistica delle liti condominiali si è arricchita di nuovi pretesti. Si tratta quindi di un malcostume diffuso, che come tutto ciò che è negativo e fastidioso ha attecchito rapidamente e riscuote un consenso unanime. O quasi.

Senz’altro non ha riscosso il mio. La mia vocazione pompieristica si risveglia ad ogni minimo segnale di fumo. Ma sono reazioni ormai di pura rabbia, piuttosto che di resistenza, perché la causa è completamente persa: anzi, ad evitare che la cosa trascenda mi sono quasi rassegnato a perdere quel fiume lungo il quale ho vissuto i momenti più belli della mia vita.

Ora, come dicevo, il fenomeno è trasversale. Ho già litigato con italiani di varie età e di diverse appartenenze sociali e provenienze regionali, ma ultimamente gli interlocutori più ostinati sono diventati le ampie famiglie sudamericane, soprattutto equadoregne o peruviane, che transumano nel week end sulle sponde del Piota, con una forte tendenza a marcare il territorio e ad accampare diritti di usucapione. É una nemesi storica, mi si dice: fanno esattamente quello che cinque secoli fa hanno fatto, e in maniera molto meno soft, gli europei a casa loro. Infatti, e tra l’altro è una storia che conosco bene. Ma non credo che l’argomento possa essere usato per liquidare tranquillamente un problema che andrebbe invece affrontato da un punto di vista meno ipocrita e superficiale. Ciò che, appunto, mi propongo di fare stasera. Prendendola, come al solito, piuttosto alla larga.

I termini che designano fenomeni o atteggiamenti culturali, sistemi di idee, dottrine religiose, politiche, economiche, sociali – quelli insomma caratterizzati dai suffissi “ismo” o “esimo” – nascono con un difetto congenito. Sono troppo duttili, definiscono campi estremamente vasti e vaghi e si prestano ad essere manipolati e piegati sino a significare le cose più diverse, a seconda dell’interpretazione o dell’intenzione di chi li usa: e non parlo solo di sfumature, perché a volte i significati e le valenze che assumono col tempo sono addirittura antitetici rispetto a quelli originari. Pensiamo all’uso che è stato fatto di etichette come fascismo e comunismo, ma anche liberalismo, o cristianesimo, oppure illuminismo o romanticismo.

Uno tra i più abusati è senza dubbio il termine “razzismo”, soprattutto nella forma predicativa di “razzista”. Oggi si tira in ballo il razzismo in merito a qualsiasi atteggiamento che sottolinei l’esistenza di differenze tra gruppi umani, in una gradazione che va dal distinguo al rifiuto: si parla di un razzismo di genere (contro le donne), di razzismo nei confronti di particolari orientamenti sessuali (contro gli omosessuali), oltre naturalmente a quelli connessi alle differenze morfologiche, sociali, culturali e religiose.

In verità ci sarebbero molti sinonimi ben più precisi da utilizzare: etnocentrismo, xenofobia, maschilismo, omofobia, ecc. Ma il termine razzismo e i suoi derivati, quando vengono sguainati come armi da dibattito, hanno indubbiamente un altro peso: non lasciano via di fuga, sferrano il colpo del kappaò. Col risultato, però, che usandoli ad ogni piè sospinto, soprattutto brandendoli come corpi contundenti per atterrare l’interlocutore, si è finito col togliere al fenomeno che dovrebbero stigmatizzare una reale visibilità, anziché porre su di esso l’attenzione e l’accento. Non solo: usati a sproposito rendono impossibile in partenza ogni confronto serio che prescinda dalle ipocrisie del politicamente corretto.

Andiamo con ordine. In un uso “tecnicamente” appropriato il “razzismo” designa quelle dottrine o quelle posizioni culturali che predicano l’esistenza nell’ambito della specie umana di razze distinte, caratterizzate da fondamentali differenze biologiche, (a prescindere dal fatto che si reputi la separazione come originaria – teoria poligenetica – o come esito evolutivo – teoria monogenetica), e ritengono che tali differenze costituiscano i fattori essenziali di uno sviluppo storico non omogeneo. Questo atteggiamento porta ad affermare il diritto delle “razze superiori” a dominare sulle altre, e si traduce in comportamenti pratici che vanno dall’intolleranza all’apartheid, sino allo schiavismo o addirittura allo sterminio.

È una disposizione nata in un periodo ben definito, tra il Cinquecento e il Settecento, nell’età delle scoperte e dell’incontro con popoli nuovi – anche se, forzando un po’, si potrebbero trovare antecedenti parecchio addietro. Si è poi tradotta in dottrina antropologica nel corso dell’ottocento, quando una specifica contingenza storica (la conquista coloniale e l’imperialismo) ha richiesto di giustificare il dominio di taluni popoli su altri e la trasformazione dei criteri e dei parametri della conoscenza biologica (tassonomia linneana, evoluzionismo) è parsa supportare questa pretesa. Oggi però quelle condizioni sono venute meno: la scienza, e proprio quella darwiniana, ha fornito le prove della comune origine delle specie e della sua unicità, e la fase colonialistica, almeno nel suo aspetto più esplicito, si è chiusa da tempo. Si potrebbe quindi pensare che il razzismo non abbia più ragion d’essere: invece persiste, anche se la sua funzione “aggressiva” si è mutata in reazione “difensiva”. Se prima era finalizzato a giustificare il dominio, oggi è mirato a giustificare il respingimento e il rifiuto.

Ciò per chiarire che il razzismo esiste, ed è ben radicato. Un sacco di gente (in Italia, più di metà della popolazione) è ancora convinta, a dispetto di tutte le prove fornite dalla genetica delle popolazioni, che esistano differenze “biologiche” tra le varie etnie, e soprattutto che in ragione di queste differenze non sia possibile uno scambio, e che se pure lo fosse non sarebbe vantaggioso per nessuno.

Ma c’è anche un’altra cosa che voglio chiarire, prima di procedere: e cioè, che tutto questo non mi riguarda. Può apparire una precisazione inutile, se non addirittura fastidiosamente ambigua (del tipo: io non sono razzista, ma …): io invece la ritengo importante, perché i temi che tratto sono delicati e si prestano facilmente, come vorrei dimostrare, al gioco della semplificazione. Sostengo infatti che il fastidio per la diversità dei comportamenti non è razzismo, e che chi stigmatizza ideologicamente come razzista ogni posizione poco ecumenica ha senz’altro pregiudizi più radicati di quelli che posso avere io.

L’individuo e il gruppo – Per quanto mi concerne, infatti, sono un umanista convertito alla scienza – solo a livello di interesse, naturalmente. Non ho abiurato alcunché: semplicemente, considero più che mai “umanistiche” tutte le scienze. Ho quindi ben chiaro come stanno le cose in fatto di razze e affini, e non mi perito nemmeno di cautelarmi con un “allo stato attuale delle conoscenze”. Non esiste alcuna differenza biologica, ed ogni nuova scoperta ci rivela che gli umani sono molto più consanguinei di quanto possano o vogliano immaginare. Una volta asserito questo, però, il gioco si rovescia. Io so per certo che tutti gli uomini hanno una comune origine, tra l’altro neppur troppo remota, e penso che in linea di principio debbano poter godere tutti degli stessi diritti: ma non penso affatto che siano tutti “uguali”. E aggiungerei che per fortuna non è così, altrimenti sai che noia!

Ogni uomo, come del resto ogni altro animale, nasce con una diversa attitudine caratteriale. Sta nel suo DNA, né più né meno come i tratti morfologici, il colore dei capelli e degli occhi, oppure l’altezza, o la forma del naso o delle orecchie. Semplificando al massimo direi che la differenza fondamentale che marca i diversi caratteri tra gli uomini, quella che ciascuno può verificare nella quotidianità dei suoi rapporti, è tra una attitudine più egoista ed una più altruista. Insomma, si nasce già disposti in un certo modo, con una quota di “determinazione genetica” che non ci programma in toto ma senz’altro ci dà l’impronta – checché ne pensino i sostenitori della prevalenza del condizionamento ambientale. Questa impronta va poi, certo, a combinarsi con le particolari appartenenze ambientali, storiche e culturali, e la combinazione dei diversi fattori porta a estremizzare o a sfumare i caratteri congeniti, definendo i differenti atteggiamenti che possono essere assunti nei confronti dell’esistenza in genere, quindi nei rapporti con l’ambiente e con gli altri. In un’ottica prettamente naturalistica, tale varietà costituisce la ricchezza e il fondamento di ogni percorso evolutivo; ed essendo nella specie umana eccezionalmente accentuata, ha addirittura stravolto la regole del percorso stesso.

Il non essere tutti uguali, tuttavia, se da un lato è una ricchezza, non manca di costituire anche un problema. Gli umani, a differenza questa volta degli altri animali, non sono infatti soggetti alla sola legge naturale – quella, per intenderci, che si applica tanto a livelli di specie quanto a quelli di gruppo e che fa si che in ciascun ambito siano gli individui o i gruppi dotati di maggiore fitness adattiva a prevalere. Magari questa legge vigeva ancora nella competizione tra le varie specie di ominidi, sino a quando il sapiens ha prevalso nel corso di centinaia di migliaia di anni su tutte le altre, ma poi le cose sono cambiate. O forse sono cambiate ancor prima, e proprio per questo il sapiens l’ha spuntata: perché ad un certo punto è intervenuta la coscienza.

Un conto è infatti convivere all’interno di un gruppo nel quale la legge è quella del più forte, il ruolo e il comportamento sono dettati dall’egoismo riproduttivo e la percezione degli altri avviene secondo una semplice logica binaria, rivale o alleato: un altro conto è raggrupparsi in tribù e convivere nella differenza, quando di questa differenza si ha una effettiva consapevolezza. La consapevolezza è quella che mette in conto anche le intenzioni remote dell’altro – potenziale rivale o potenziale alleato – e le combinazioni che ne possono sortire, e nel farlo approda al riconoscimento, in positivo o in negativo che sia, all’altro da sé di una “individualità”, ovvero della capacità di operare delle scelte, di sottrarsi all’istinto. Hobbes insegna che non potendo vivere gli uomini nel perenne timore di reciproche insidie finiscono per venire a patti. Magari non si fidano totalmente, e infatti affidano il ruolo di garante dei patti e il monopolio della violenza ad un leviatano, ma hanno fatto un passo verso il reciproco riconoscimento. In sostanza adottano una piattaforma minima comune di comportamento, per la quale ognuno deve rispettare il limite posto alla propria libertà da quella altrui (Hobbes non dice proprio così, ma i suoi epigoni settecenteschi poi arrivano a questo). Chi conosce un po’ la storia conosce tutti i passaggi successivi, che io invece salto per arrivare alla conclusione.

Cosa ci dice la storia? Che i sistemi di relazione, gli equilibri di convivenza sono diventati sempre più complessi e delicati mano a mano che questa convivenza si è estesa a gruppi più ampi. Numeri e spazi maggiori significano mettere assieme differenze anche minime nelle abitudini e nei comportamenti, nei linguaggi e addirittura nella morfologia, che sommate o moltiplicate diventano significative. Inoltre, l’inclusione di nuovi gruppi in genere fa uscire dal regime della cooperazione e fa entrare in quello della competizione (in un primo momento solo economica, ma subito dopo politica, ecc …).

Detto in breve, nella misura in cui la società, quindi il sistema di rapporti consueti, si allarga e si complica, diventa necessario creare schemi di appartenenza e di convivenza più neutri e generici. Ora, quando questo avviene in tempi lunghi l’adeguamento è quasi inavvertito, ogni gruppo ha il tempo di accogliere e digerire le novità e le stranezze del comportamento altrui. Il problema si pone invece quando i tempi sono rapidi e l’impatto è forte. Allora scatta un meccanismo di difesa contro l’intrusione che ripete quello biologico degli anticorpi nei confronti di un’aggressione virale. Sono barricate e resistenze, e di solito si producono più anticorpi di quelli che sarebbero necessari, e questi continuano a girare di ronda anche quando il pericolo è passato, o l’organismo ha trovato un nuovo equilibrio, magari anche di parziale convivenza.

Questo c’entra niente col razzismo scientifico di cui sopra, che è nato in funzione strumentale al colonialismo. Ma c’entra invece col razzismo “difensivo”, che si è diffuso a partire dalla metà del XIX secolo in America e da quella del secolo scorso negli ex paesi coloniali europei (Francia, Inghilterra, Olanda) e nell’ultimo quarto di secolo anche in Italia. È un moto di difesa quasi automatico (che poi sia stato strumentalizzato politicamente è un altro discorso). Significa che è giustificato? No, certamente. Ma è spiegabile, anche senza ricorrere a teorie ed analisi troppo complicate.

Il gruppo e gli altri – L’uomo è etnocentrico per natura. Lo sono anche gli altri animali, che difficilmente accolgono nel branco chi arriva da un gruppo diverso. Di suo l’uomo ci aggiunge il fatto di negare lo status di “compiutamente umano” ai suoi simili non appartenenti al suo stesso gruppo, etnico o sociale. Tutti i popoli primitivi designano se stessi come “gli uomini” per eccellenza. Lo fanno gli Innuhit come i Bantu, gli aborigeni americani come gli indigeni delle Andamane e quelli della Terra del Fuoco. Ma lo facevano anche gli indiani e i persiani, che definivano se stessi “arii”, uomini, appunto. Un qualche dubbio sulla compiuta umanità altrui lo avevano persino i miei compaesani lermesi nei confronti dei loro vicini più prossimi, i mornesini (ma la globalizzazione ha cancellato anche questo borgo-centrismo). Ciò che è diverso intriga e affascina fino a che è lontano, ma fa paura e infastidisce quando ci devi convivere. Ora, questo comportamento non è un portato “culturale”. C’è sotto una base naturale, o quanto meno una predisposizione ad acquisire già nei primissimi mesi di vita dimestichezza e preferenza per particolari suoni, intonazioni e sensazioni olfattive, e subito dopo per determinate tipologie morfologiche. Insomma, se si è “razzisti” per scelta ideologica, si è etnocentrici per natura e per nascita.

Tuttavia, quando dicevo che il gioco si rovescia non mi riferivo nemmeno a questo, ma a qualcosa che inizialmente col razzismo non ha proprio nulla a che fare, e nemmeno con l’etnocentrismo, e che può coinvolgere anche chi come me ha chiara l’inconsistenza di ogni suo fondamento scientifico. Sto parlando di un fastidio, di una insofferenza che in prima battuta riguarda i comportamenti, e non le etnie, e quindi parte da quelli che sono più prossimi, e non fa distinzioni di razze, di pelle, di lingua. Il falò sulla spiaggia alle nove del mattino mi infastidirebbe anche se lo accendessero mio figlio o mio fratello, probabilmente ancor più che se attizzato da un fuochista andino (e questa semmai potrebbe essere intesa come una sottile forma di razzismo: perché implica che da quest’ultimo posso anche aspettarmelo, da loro due no). Esiste – e non credo solo per me – una soglia minima di tolleranza e di accettazione dei comportamenti altrui, che non è dettata dal carattere o dalle idiosincrasie dei singoli, ma è naturalmente postulata dalle esigenze di sopravvivenza e culturalmente imposta dalla necessità di convivere in spazi sempre più ristretti e in sistemi di interrelazione sempre più complessi.

C’è dunque una piattaforma, che non è una struttura rigida, ma un coacervo di regole, di convenzioni, di abitudini in continua evoluzione e trasformazione, e comprende tutti i possibili atteggiamenti economici, sociali, religiosi, politici, maturati storicamente in un determinato ambiente: nella sua accezione più larga prende appunto il nome generico di “cultura”. Le trasformazioni di una cultura riguardano però in genere solo la parte emersa, mentre la struttura affonda i suoi plinti nel tempo.

Questa piattaforma come abbiamo visto è necessaria, se vogliamo che la convivenza sia possibile. Se poi il confronto si allarga e la convivenza deve essere realizzata tra culture che si sono evolute secondo ritmi diversi in ambienti differenti, allora il problema si complica, perché in questo caso ad essere messi in discussione sono anche i plinti. E qui la faccenda si fa delicata, perché mette in contrapposizione un diritto (o un decorso) naturale ed una resistenza culturale.

Il diritto naturale, e si torna daccapo, è semplicemente quello del più forte. Ad ogni livello del vivente la forza è costituita, in ultimissima analisi, dall’efficienza riproduttiva. Magari per quanto concerne l’umanità oggi non è proprio così, per motivi di carattere culturale; ma dato che sul lunghissimo termine è la natura a imporre le sue leggi, il problema parrebbe già liquidato alla radice. Infatti sappiamo che quella che un tempo era chiamata “cultura occidentale”, o meglio ciò che oggi ne rimane, andrà soggetta a mille ibridazioni, sino a dissolversi o a diventare altro. È naturale che avvenga. Ma ciò non significa che debba necessariamente piacerci: anche morire è naturale, ma mi sembra che tutti, compresi gli animali, cerchino di rimandare il più possibile la dipartita.

Lasciamo quindi perdere il diritto naturale, e concentriamoci su quello “positivo”. Lo farò dandone una interpretazione da bar, ma è proprio questo che voglio; voglio parlare di ciò che viene realmente percepito nella coscienza diffusa, al di là delle disquisizioni in punta di filosofia. Vado quindi per esempi.

In questi giorni si parla molto di jus soli: chi nasce in un determinato luogo, da una famiglia che risiede in quel luogo, ha diritto ad esserne automaticamente cittadino. È un tema che ci tocca da vicino, riguarda gli immigrati di seconda generazione, e messa così la questione sembra molto semplice. Non si capisce perché il diritto dovrebbe essere riservato a particolari etnie o ascendenze. Ma la cosa si complica quando il nuovo venuto è portatore di comportamenti che turbano gli equilibri dell’ecosistema culturale. Non mi sto riferendo a quelli apertamente delinquenziali, che violano le leggi e rispetto ai quali esiste una tradizione repressiva che prescinde da razze o etnie o discriminazioni; mi riferisco invece a comportamenti che entrano in contrasto con la consuetudine locale, a sua volta frutto di aggiustamenti e accomodamenti intervenuti nei secoli, costantemente aggiornata ed aperta rispetto alle novità, ma fondamentalmente ancorata ad alcuni principi (magari anch’essi frutto di evoluzione). Questa consuetudine ha radici molteplici, nella religione, nel tipo di economia, nelle caratteristiche dei luoghi o negli ordinamenti familiari o tribali: i principi sui quali si fonda sono fortemente connotati, e in alcuni casi ferocemente applicati (vedi ad esempio in occidente il diritto alla proprietà). Spesso sono violati dagli stessi appartenenti alla comunità originaria, o vengono travisati, snaturati, ecc… Ma esistono.

Ora, lo ius soli per avere senso deve essere applicato nell’accezione corretta, che contempla un diritto “al” suolo ma anche un diritto “del” suolo. Esiste cioè un diritto di chi nasce in un certo territorio, ma esiste anche un diritto del territorio, della comunità presso la quale nasce, e questo implica reciprocità, ovvero dei doveri del primo verso la seconda. Il riconoscimento di questi doveri è implicito all’atto di nascita per qualsiasi appartenente ad una comunità, indipendentemente dall’atteggiamento che poi costui assumerà. Se riterrà di non uniformarsi lo farà in nome o di una scelta pratico-soggettiva, chiamiamola genericamente delinquenziale, che non mette in discussione le regole (anzi, trae vantaggio dalla loro esistenza e dal fatto che altri le seguano) ma semplicemente le infrange, o di una idealità a sfondo collettivo, che denuncia la parzialità o l’obsolescenza del sistema di norme vigenti, per sostituirlo con un altro. Di fatto, in entrambi i casi il riferimento rimangono comunque quelle regole.

Gli altri e noi – Le cose stanno in modo diverso per chi alla comunità accede dall’esterno, o le appartiene fisicamente, ma non culturalmente. In questo caso la tendenza è a negare semplicemente l’esistenza di tali regole, o a ignorarla. A trasferire con sé, a conservare o addirittura a ripescare (è il caso delle seconde generazioni di immigrati, davanti alla difficoltà di riconoscersi o di essere riconosciuti in un’identità nuova) una consuetudine che, per carità, è altrettanto antica e nobile e motivata di quella esistente nel luogo di approdo, ma appartiene ad un’altra storia e ad un altro ambiente. Qui scatta il problema, perché il buon senso e un certo atteggiamento maturato nei secoli nella cultura occidentale induce a dire che si devono conciliare le consuetudini, che si deve trovare una linea di compromesso, ma la realtà poi ci pone di fronte a situazioni nelle quali la conciliazione non è affatto possibile, e occorre operare una scelta.

Non voglio cacciarmi in disquisizioni di carattere ideologico o in analisi socio-politiche: ci porterebbero a chiederci per esempio quanto è possibile venire a patti con concezioni del mondo caratterizzate da un assoluto disprezzo per le ragioni e per la storia degli altri, o da un obbligo di proselitismo (è il caso dell’Islam, ad esempio, così come lo è stato per il cristianesimo): e fino a che punto ci si può spingere nella “trattativa” con chi non contempla alcuna ipotesi di reciprocità. So benissimo, come dicevo sopra, che gli occidentali si sono a loro volta comportati allo stesso modo nei confronti del resto del mondo, e che coloro che approdano nel nostro paese fuggono da storie di miseria, di violenza, di guerra, da situazioni nelle quali il sistema delle regole, quale esso fosse, è saltato da un pezzo. Tutti questi aspetti certamente vanno considerati, se si vuol capire cosa sta succedendo, così come vanno distinte le diverse attitudini concretamente manifestate dai vari gruppi etnici con i quali ci rapportiamo. Ma io sto parlando di qui e di ora: voglio semplicemente trasportare il problema sul piano di quotidiani rapporti che producono una conflittualità spicciola, legata a mille motivi di incomprensione che considerati singolarmente possono apparire banali, ma che assunti nel loro complesso danno origine al reciproco rifiuto.

Nel quotidiano noi rispettiamo delle convenzioni più o meno normate che non hanno a che fare con valori universali o con presunti diritti naturali. Sono tradizioni, abitudini, comportamenti dei quali spesso è difficile rintracciare l’origine o dare una spiegazione e che variano anche tra culture abbastanza simili. Ad esempio, da noi si guida sulla destra, in Inghilterra sulla sinistra. Non è una differenza da poco: potrebbe essere irrilevante per il traffico delle carovane nel bel mezzo del Sahara, ma nei nostri spazi ristretti impone di acquisire automatismi di percezione e di reazione opposti. Perché questa differenza? Non è che là il sole giri al contrario, è semplicemente che gli inglesi hanno deciso così (una spiegazione in questo caso ci sarebbe, ed è la risposta all’obbligo imposto nel 1794 dal governo rivoluzionario francese ai veicoli di marciare a destra, e quindi alla necessità di differenziarsi) e anche di fronte alla globalizzazione non hanno la minima intenzione di cambiare modello. Se vai in Inghilterra guidi sulla sinistra, e non ci sono eccezioni per credi religiosi o filosofie che impongano di tenere sempre la destra. Un comportamento diverso metterebbe a rischio l’incolumità fisica propria e altrui, e sarebbe soggetto a sanzioni penali. Per cui, obtorto collo o no, ci si adegua, e magari ci si accorge anche che non è affatto difficile. Ora, ai fini del mio ragionamento l’esempio potrebbe sembrare poco probante, perché quella della guida a sinistra è appunto una norma, e non solo un’abitudine: ma in effetti serve solo a dimostrare che si può fare, si possono assumere abitudini e consuetudini del luogo nel quale si soggiorna o ci si trasferisce, senza sentirsi affatto mortificati o conculcati nella propria libertà e nel proprio diritto alla tradizione.

Ci sono però anche altri tipi di incolumità a rischio. Se il mio vicino di casa è sintonizzato su fusi orari diversi o ha sviluppato potenti polmoni per comunicare da una valle andina all’altra o da un punto all’altro della savana, che risultano sovradimensionati quando la comunicazione intercorre alle tre di notte tra la cucina e il salotto o il cortile, ne va della mia incolumità mentale. Certo, questi comportamenti non appartengono solo agli immigrati. Sono diffusi anche tra gli italiani, che tra l’altro a loro volta, quando erano emigranti, erano considerati i caciaroni e i maleducati per eccellenza. Negli ultimi quindici o venti anni poi lo scarso o nullo rispetto della quiete altrui è diventato comune ad ogni fascia d’età, e non solo tra i giovani. Ma il nodo cui volevo arrivare sta proprio qui. Lo straniero che approda in Italia, comunque ci arrivi, mette inizialmente in conto in maniera più o meno confusa che dovrà modificare molte delle sue abitudini: salvo poi rendersi conto che da noi impera un lassismo assoluto, e che non è il caso di cambiare più di tanto, visto che primi ad interpretare lo jus loci in maniera unidirezionale sono in effetti proprio gli italiani. Ma mentre l’italiano che assume comportamenti fastidiosi viene classificato come un maleducato, lo straniero che fa le stesse cose è percepito prima di tutto come uno straniero. Il che da un lato ha una sua giustificazione, perché parte dal riconoscimento di una appartenenza ad una tradizione diversa, ma dall’altro è incredibilmente negativo, perché dà per scontato che l’appartenenza ad una tradizione diversa implichi maleducazione, e quindi impossibilità di integrazione, e quindi separazione. In altri termini, razzismo.

Non dimentichiamo che ciò che accade oggi con l’immigrazione extracomunitaria è già accaduto nel nostro paese mezzo secolo fa con l’immigrazione meridionale. E che a dispetto di generazioni di mescolanze matrimoniali il pregiudizio anti meridionalista in Italia esiste ancora, e la Lega sta lì a testimoniarlo (e sta anche a testimoniare che il pregiudizio trova terreno facile proprio là dove l’idea di civismo e di reciproco rispetto è del tutto assente).

È chiaro dunque che in un modello di accoglienza realistico, fondato sul buon senso e non sulle ideologie, di questa attitudine pregiudiziale bisogna tenere conto: così come del fatto che occorrono tempi lunghi perché ciò che di primo acchito appare “fuori norma” venga assimilato e rientri nella normalità. Non solo: anche quando certi comportamenti vengono ad un certo punto considerati normali, non significa che siano stati davvero accolti e digeriti. Talvolta significa invece che vengono “tollerati” per pura rassegnazione, col rischio che la riprovazione non espressa diventi internamente astio e accomuni in uno stereotipo negativo tutti gli appartenenti a particolari gruppi, facendo naufragare ogni ipotesi di integrazione.

La soluzione che si sta imponendo è proprio questa: dai quartieri dove si insediano comunità equadoregne, o arabe, o cinesi, gli italiani appena possibile se ne vanno. È un apartheid spontaneo, che coinvolge anche le seconde generazioni ed è tra l’altro fortemente voluto dagli stranieri stessi, che tendono a chiudersi in comunità chiuse, nelle quali riesce più facile il controllo, a fini religiosi o economici o semplicemente delinquenziali, di tutti gli individui. Tutto ciò accade in barba ad ogni sogno o progetto di società multiculturale, sogno dal quale si stanno risvegliando anche quelle nazioni che hanno una tradizione immigratoria ben più antica della nostra.

Paradossalmente, dunque, l’unico rimedio contro la crescita di un atteggiamento razzista è individuare quei pochi ed elementari principi che stanno alla base della convivenza, e tradurli in regole che la rendano praticabile. Si obietterà che di regole ce ne sono già sin troppe: appunto, sono troppe e si contraddicono l’una con l’altra, proprio perché c’è confusione e ambiguità nei principi. Il messaggio oggi conclamato, ribadito, politicamente corretto è quello dell’attenzione alle differenze. Un invito sacrosanto, di squisita natura evangelica, perché se non ci si conosce non ci si capisce, e difficilmente ci si viene incontro. Ma in attesa di future auspicabili condivisioni o ibridazioni o fratellanze varrebbe magari la pena di rafforzare l’attenzione per ciò che è da subito indispensabile, se non ad affratellare, quantomeno ad evitare spaccature insanabili. E per individuarlo non ci vuole molta fantasia: il principio basilare non può essere che quello di non invadenza. Potrebbe essere addirittura l’unico. Certo, è difficile definire un livello di non invadenza universalmente accettabile: se si rispettassero le idiosincrasie di tutti, per non invadere gli spazi altrui, per non disturbare, per non offendere, dovremmo rimanere praticamente immobili (ma anche questo riuscirebbe offensivo, per chi ama invece la partecipazione). Ma resta il fatto che un denominatore comune minimo, per poter procedere verso una soluzione, va individuato.

L’applicazione del principio dovrebbe essere sufficientemente elastica da consentire una interrelazione che non sia di puro “servizio”. Un esempio per tutti può essere quello dell’uso immediato e universale della seconda persona nei rapporti interpersonali da parte della maggioranza dei non comunitari. Nella sua banalità, e a dispetto del fatto che questo uso si stia diffondendo anche tra le giovani generazioni europee (tra l’altro, incentivato dalle “scuole” di strategia promozionale), costituisce ancora uno dei primi fattori di “irrigidimento” e di fastidio – o peggio, viene “benevolmente” accettato, proprio a testimoniare e marchiare la “differenza”. È poco probabile che qualcuno rifletta sulla difficoltà sia linguistica che psicologica e formale di tradurre nel nostro complesso sistema pronominale le scale di rapporti esistenti in altre culture. D’altro canto, queste scale si vanno modificando anche nella nostra, e col tempo si imporrà la soluzione più facile, quella di una semplificazione, senza danno per nessuno. Non si tratta allora di rispettare ogni zolla del prato altrui. È chiaro che in questo caso la piattaforma va decisamente rivista, se non costruita ex novo, e ciascuno deve essere disponibile a sacrificare un pezzettino della sua “identità culturale” senza recriminare sulla “maleducazione” altrui.

Non sempre però le cose sono così semplici. Esistono altri aspetti dell’interrelazione, apparentemente altrettanto banali, se non addirittura elementari, nei quali le resistenze sono giustificate e anzi doverose. Il meticciato culturale è una ricchezza, si dice: e non c’è dubbio che senza scambi, senza nuovi innesti, nessuna civiltà può crescere. Quindi ben venga. Ma sia appunto uno scambio, e si basi su regole ben precise: la prima, perché funzioni, è che nessuno ci perda. Ora, se chi mi arriva è portatore di una cultura che ha nella tradizione gastronomica il montone allo spiedo, nessun problema, a patto che lo spiedo non venga montato sul balcone che sta sotto il mio (o di chiunque altro). È una tradizione bellissima in una società pastorale, quando il fuoco sul quale cuoce il montone illumina la notte del deserto o delle savane: ma è un’invadenza intollerabile quando viene acceso nel giardino accanto, o sulle rive del fiume gremite di bagnanti, e il fumo appesta la tua aria e la tua casa. È anche vero che magari vieni invitato ad unirti alla compagnia, ma ciò non toglie che il comportamento in questione sia fastidioso.

Ripeto, sto parlando di comportamenti che possiamo definire assolutamente innocui, non di quelli desumibili dalle statistiche sulla criminalità. Questi ultimi sono paradossalmente meno significativi, almeno fino a quando a giustificarli permangono situazioni di precarietà e di emergenza. Quelli che inducono un sottile disagio, che si trasforma però poco alla volta, per un effetto di cumulo, in pregiudizio, sono in verità proprio i comportamenti minimi. Il vittimismo, l’invadenza, l’inosservanza delle regole, l’incuria nei confronti dei beni comuni e della proprietà altrui: sono queste le cose che vengono sofferte tutti i giorni da una larga maggioranza della popolazione, e non le rapine o gli stupri, che pure fanno la loro parte e magari vengono anche opportunamente strumentalizzati, ma per fortuna non costituiscono l’esperienza quotidiana dei più. Questi comportamenti, come si diceva, considerati anomali negli italiani, sono invece dati per scontati negli immigrati, e quindi ancor meno accettabili, perché sembrano non lasciar spazio a un “ravvedimento”. E ci portano poco alla volta persino ad identificare un certo tipo di abbigliamento, un certo modo di camminare e di parlare, con tutto ciò che non sopportiamo: ad aspettarci quei comportamenti, ma non per questo ad accettarli. A leggerli anzi come una conferma e una giustificazione di quanto pensiamo, e di cui in fondo un po’ ci vergogniamo.

A me capita. Ho lottato a lungo contro la tentazione, ripetendomi che tutte le mie idealità andavano in direzione opposta, si fondavano sulla concessione agli uomini, a tutti gli uomini, di un credito assoluto di simpatia e di benevolenza. Sulle prime la mettevo anche giù in modo autoironico, attribuendo questa sindrome all’invecchiamento, persino scherzosamente esasperandola. Ma vuoi che quando scherzi troppo con un’idea rischi ad un certo punto di non trovarla più così strana, anche perché hai magari provato più o meno sul serio a difenderla e ad argomentarla; vuoi che le situazioni di “disturbo” create dall’indifferenza per le regole non le sopporto nemmeno nei miei connazionali, e questa indifferenza, originaria o acquisita che sia, pare essere l’atteggiamento dominante nei nuovi arrivati; insomma, ho finito per realizzare che se non “etnicamente”, almeno “culturalmente” qualcosa che mi respingeva c’era.

Per questo ho voluto affrontare l’argomento, sperando che la riflessione cui la scrittura costringe mi aiutasse a chiarirmi le idee. Conoscendo i miei limiti, certi tratti caratteriali quasi autistici che mi rendono intollerante ai ritardi, al disordine, alla sciatteria, ho provato a chiedermi quanto ci fosse della mia “diversità” in queste cose, e quanto invece fosse oggettivamente al di là di ogni possibile mediazione di convivenza.

Sono arrivato a queste conclusioni. Se la sensazione pesante di disagio che ho cercato di descrivere sopra è largamente condivisa, e io credo che lo sia, e se questo disagio nella maggior parte dei casi non è solo un alibi per mascherare o giustificare la propria mancanza di civismo, allora siamo entrati in un vicolo cieco. Non se ne esce se non tornando indietro e rivedendo completamente il nostro atteggiamento. Ma dobbiamo farlo tutti. Io devo senz’altro darmi una calmata, e imparare a non reagire come un impianto antincendio al primo odor di fumo, o a digrignare i denti per ogni schiamazzo; gli equadoregni, e con loro e prima di loro tutti i neofiti della brasserie, devono convertirsi ad una dieta meno proteica, che fa anche bene alla salute: i cantori della società multiculturale devono darsi una svegliata e smetterla di titillarsi con la valorizzazione delle differenze, quando il problema è piuttosto quello di trovare o inventare i punti di contatto: ma soprattutto, chi è deputato ad ogni livello a garantire la trasmissione e il rispetto delle regole, dagli insegnanti in su, deve prendere sul serio il proprio ruolo.

È un programma un po’ difficile, anzi, praticamente impossibile da realizzarsi, soprattutto in un paese nel quale sino a cinque anni fa il termine “integrazione” era addirittura bandito dai documenti ufficiali, considerato politicamente scorretto perché non salvaguardava le diverse identità culturali. Un paese nel quale gli stessi che si sono battuti per zittire le campane difendono il diritto del muezzin di cantare la sua preghiera alle cinque del mattino. E infatti ci credo poco che tutti facciano la loro parte. Per intanto, però, posso provarci io. Tocca a me per primo perché so di essere un privilegiato (sembra ridicolo a dirsi, ma nascere in Italia è comunque una fortuna. Almeno geograficamente è in Europa). Sono nato libero, non ho sofferto la fame e ho potuto studiare, sia pure guadagnandomela tutta. Sono stato educato in un certo modo, ho introiettato certe regole: da solo o con altri ho provato a modificare o a mitigare quelle che mi sembravano inaccettabili. Ho partecipato a modo mio allo svecchiamento di un sistema, posso tranquillamente affermare in direzione di una maggiore libertà e di migliori opportunità per tutti. So quindi che è necessario cambiare e accogliere ciò che di buono può venire da fuori. Soprattutto, ciò che ho fatto, giusto o meno che fosse, l’ho fatto sempre in base ad un principio: non violare mai la libertà altrui di esercitare i propri diritti.

I diritti, appunto. Non le prepotenze, la maleducazione e l’imbecillità. Proprio perché credo nei diritti di tutti non sono disposto a tollerare chi li svilisce, chi li confonde con l’arbitrio di fare tutto ciò che vuole. Non lo sopporto nei miei connazionali, ma non sono disponibile a fare sconti oltre una certa misura nemmeno agli altri. Questo perché sono un ottimista, e credo nella capacità di tutti, indipendentemente dalle appartenenze etniche, di capire dove sta l’equilibrio tra diritti e doveri.

Di più non mi è possibile fare. D’altro canto, con questo intervento non volevo proporre soluzioni: non ne ho. Volevo solo spiegare il perché nasca, e sia più diffusa di quanto vogliamo ammettere, una certa etnofobia: e perché, almeno in origine, col razzismo non c’entri per nulla.

Non credo di esserci riuscito. Mentre procedevo qualche dubbio è venuto anche a me. Di una cosa però rimango certo: il mio, di equilibrio, non prevede fumogeni, meno che mai alle nove del mattino.

 

La notte della memoria

di Paolo Repetto, 2011

Beati i popoli che non hanno bisogno di giorni della memoria. Suona familiare: e infatti, pur non essendo un fanatico di Brecht finisco sempre per parafrasarlo. Se c’è bisogno di parchi, scrivevo anni fa, è perché non siamo più in grado di rapportarci alla natura: ogni istituzionalizzazione del sentire riflette infatti e denuncia la perdita di una sensibilità. Così, se c’è bisogno di una festa della mamma, del papà, del nonno è proprio perché queste figure hanno perso identità e peso nella nostra vita, e diventa necessario ricordare per decreto che esistono. Se si celebra il giorno degli innamorati è perché abbiamo dimenticato, sempre che l’abbiamo mai saputo, cos’è il vero amore. Insomma, la liturgia e la polluzione delle ricorrenze sono un segno, anche al netto di tutto il carrozzone commerciale che c’è alle spalle e che costituisce il vero motivo della ridicola corsa ad incorniciare e infiocchettare tutto. Oggi lo sono per quanto concerne lo stato e l’uso della memoria storica, e arrivano dalle nostre parti ad assumere caratteri grotteschi, dal momento che la famigerata par condicio impone di inserire a calendario giornate del ricordo, del rimpianto, della rimembranza o di che altro, col risultato, tutt’altro che involontario, di fare mucchio e rimandare tutto nell’oblio.

È evidente che il giorno della memoria non mi piace. Non mi piaceva dieci anni fa, quando è stato istituito, per le ragioni che ho detto, mi piace ancora meno oggi perché ha innescato un sacco di derive. Intanto ha dato luogo ad uno sfruttamento mediatico vergognoso. Pur non essendo un videodipendente, tutti gli anni, all’approssimarsi del ventisette gennaio, cado in depressione all’idea che per una settimana almeno non potrò scegliere che tra Schindler’s List e La vita è bella (essendo pieno inverno non ho nemmeno l’alternativa di uscire a farmi un giro). La depressione non è frutto di astinenza da video, ma dell’effetto di saturazione, o almeno di sazietà, che questo pompaggio esasperato ha indotto, e del conseguente ipocrita rilassamento delle coscienze. Quasi a dire: abbiamo già fatto tutto quel che si doveva, abbiamo sentito tutte le messe. Non mi piace poi perché induce a focalizzare l’attenzione su un solo frammento di memoria, per naturale evidenza, senz’altro, ma anche per negligenza o per ignoranza, quando non per calcolo o per cinismo.

Questo fastidio naturalmente non ha nulla a che fare col negazionismo (mi sembra quasi ridicolo sottolinearlo, ma l’interpretazione maligna è sempre in agguato – e ci rimane comunque, a dispetto delle precisazioni). Nasce, al contrario, dal rifiuto di ridurre tutto ad una liturgia, a lavarsi la coscienza con la cerimonia, i discorsetti, le testimonianze dei reduci, fino a quando ne rimarrà qualcuno. L’alternativa è l’oblio, mi si obietterà; può darsi, ma l’oblio almeno suscita e giustifica l’indignazione, la volontà di combatterlo; mentre la celebrazione rituale, con l’ostensione delle reliquie dell’orrore conservate sotto vetro, non fa che accrescere la distanza nei confronti di qualcosa che invece ci concerne profondamente, sia come vittime che come carnefici potenziali. Qualche minuto di cerimoniale compunzione per i ricordi strazianti e i vani appelli dei sopravvissuti, un attimo di commozione davanti alla sequenza particolarmente struggente di un film (ma anche qui, dopo la seconda volta la sequenza diventa banale, diventa solo film) bastano a pacificare la nostra coscienza. Soprattutto perché ci consentono di restarcene all’esterno, e di pensare che la colpa, alla fin fine, riguardi sempre e solo gli altri.

Per questo voglio celebrare la giornata a modo mio. Non sciorinando cifre, non elencando i campi di concentramento e quelli di sterminio, non recitando i nomi delle vittime, ma ponendomi alcune semplici domande e proponendo possibili risposte. Non vuole essere una provocazione, non mi illudo che si possa più provocare chicchessia su qualsivoglia tema: sono solo spunti per una corretta manutenzione della memoria.

a) Non solo ebrei. Il giorno della memoria cade nell’anniversario della liberazione degli ultimi sopravvissuti nel campo di Auschwitz. È stato istituito quindi in relazione ad un evento ben preciso, anche se da subito, malgrado qualche resistenza degli ambienti ebraici (in qualche modo giustificata, visto che sono stati proprio gli ebrei, a partire dal processo Eichman, a ridare parola e dignità alle vittime) è stato interpretato come l’occasione per far tornare alla luce, o per far emergere per la prima volta, altri episodi altrettanto vergognosi. L’occasione è stata almeno in parte sfruttata, soprattutto per la concomitanza con i saldi storici di fine millennio, che hanno portato alla proliferazione di studi, ricerche, raccolte documentarie relative agli orrori del ventesimo secolo. Molto di ciò che era rimasto ben chiuso negli armadi della vergogna sparsi in tutto il mondo è venuto fuori.

Molto, ma non tutto, e non sempre in maniera definitiva. Mentre per i crimini nazisti infatti il campo è in qualche modo sgombro, in quanto da parte tedesca c’era stata almeno ufficialmente un’assunzione di responsabilità, e dal canto loro le vittime (o meglio, i loro eredi più o meno prossimi) dispongono di un notevole potenziale di pressione culturale, per altre situazioni la cosa si presenta più delicata. Si prenda ad esempio il caso dello sterminio degli Armeni (ma varrebbe allo stesso modo per un sacco di altre popolazioni, da quelle caucasiche a quelle dell’Asia centrale o del sudest, dall’Africa centro-meridionale all’America Latina). Dopo che è stato accertato, documentato, conclamato il massacro di almeno un milione e mezzo di persone si continua a dibattere sulla definizione da utilizzarsi: si può parlare di genocidio o no? Non è un problema meramente lessicale: a seconda di come si risolva l’assurda diatriba terminologica cambia il peso specifico delle vittime al cospetto della giustizia sovranazionale: e quindi anche la quota di ricordo spettante. Non sto dicendo che alla memoria della Shoah sia riservato un canale preferenziale, e che sull’appropriazione indebita di questa memoria sia stata costruita una sorta di impunità dello stato israeliano, come affermano, oltre che i revisionisti, anche alcuni storici ebrei: il canale c’è perché gli ebrei se lo sono scavato con le unghie, e va salvaguardato da ogni tentativo di insabbiamento. Piuttosto sarebbe necessario scavarne altri, per tutti coloro di cui non sono rimaste nemmeno le unghie, e la cui memoria è rimossa con fastidio, perché disturba la domesticazione dei carnefici e il loro ingresso nel consesso politico e soprattutto nel mercato globale.

Certo, qui si rischia di infilarci in un pozzo senza fondo: perché a voler scavare ce n’è per tutti, e andando un po’ in profondità la storia si rivela una tabella di massacri, con rovesciamenti continui di parte. Il problema non è dunque quello di mandare tutti alla sbarra, perché la gabbia degli imputati sarebbe sempre troppo stretta, quanto di pretendere almeno che tutti assumano le proprie responsabilità. E dal momento che questo non avviene, perché la Cina non ci pensa nemmeno ad ammettere di aver sterminato due milioni di tibetani, e la Turchia nega l’eccidio armeno, e Francia e Belgio fingono di non sapere nulla della campagna d’odio che ha portato al massacro dei Tutsi, e così fanno tutti gli altri, questo ha da essere il compito della memoria: non lasciare che la voce di alcuna vittima sia soffocata da palate di terra, e fare sì che ogni carnefice debba guardare negli occhi il suo prossimo e i suoi figli sapendo che sanno.

b) Siamo “brava gente”? Partiamo proprio da noi. Il concorde apprezzamento per l’istituzione del giorno della memoria nel nostro paese e l’eccesso di zelo col quale viene celebrato non sono sintomi di una sensibilità particolarmente acuta. Sono al contrario l’ennesima dimostrazione della nostra ipocrisia. Ci va bene ricordare gli orrori, perché ci siamo persuasi che si tratti sempre degli orrori degli altri. In fondo parliamo di crimini del nazismo, del comunismo, dell’integralismo, del nazionalismo, dell’antisemitismo, del razzismo interetnico, come di cose che non ci sfiorano. Noi siamo quelli che durante la campagna di Russia invece di bruciare le isbe con tutti i disgraziati che le abitavano dividevamo il pane e i cappotti con i poveri invasi. Solidarizziamo con le vittime perché ci sentiamo noi stessi vittime per vocazione, tanto da avere istituito una giornata per ricordare gli orrori delle foibe. Che ci sono stati, per carità, e non debbono essere dimenticati: ma nemmeno debbono servire ad alimentare la nostra falsa coscienza di innocenti perseguitati. La realtà è un po’ diversa, e forse meriterebbe l’istituzione di un particolare giorno della vergogna, a ricordo dei crimini commessi dal nostro popolo, o comunque dai nostri politici e dalle nostre truppe. Sarebbe sufficiente in proposito ricordare che nei primi anni trenta nel parlamento inglese il comportamento delle autorità italiane veniva citato come esempio di una perfetta conduzione della politica coloniale. Avevamo appena impiccato l’ultimo rappresentante della resistenza libica, l’ultrasettantenne Umar al-Muktar, e nessuno ne aveva saputo niente e tantomeno aveva denunciato o deprecato il fatto; mentre gli inglesi avevano a che fare con un Gandhi che veniva ricevuto in tutto il mondo, dal papa, dai capi di governo, ecc, ed ogni episodio di massacri, di torture o che altro veniva evidenziato e stigmatizzato dalla stampa britannica. Oppure rimarcare come nessun libro di storia per le scuole superiori ancora oggi riporti che dopo l’attentato al maresciallo Graziani ad Addis Abeba, nel 1936, vennero fucilati per rappresaglia e fatti sparire nel deserto quattromila giovani etiopi tra i sedici e i venticinque anni. O ancora, che all’inizio della seconda guerra mondiale una intera etnia che abitava l’area nord orientale della Libia venne spostata, per motivi di sicurezza strategica, nella zona sudoccidentale, vale a dire in pieno deserto del Sahara, col risultato che dopo tre anni una popolazione di oltre duecentomila persone era ridotta a poco più di cinquantamila. Per non parlare poi di quanto avvenuto nel corso dell’occupazione congiunta con i nazisti della Jugoslavia, per il dettaglio della quale si può fare riferimento ad esempio allo studio di Gianni Oliva Si uccide troppo poco. Altro che giorno del ricordo.

c) Siamo razzisti? Lo stesso vale per il razzismo in generale e per l’antisemitismo in particolare. Per quanto concerne il razzismo la posizione italiana doveva essere per forza di cose diversa, ad esempio, da quella tedesca. Hitler poteva pensare nel suo delirio di “ridare purezza” alla “razza ariana”, Mussolini era ben consapevole che non esisteva nessuna razza italiana, anche ammettendo i criteri razzistici dell’epoca, e che al più avrebbe potuto aspirare a creare un “popolo” italiano. E tuttavia non dobbiamo dimenticare che riviste come La difesa della razza ed altre simili circolavano ed erano finanziate dal regime molto prima dell’alleanza con Hitler, e che il manifesto della razza era stato preparato da una campagna incessante mossa da personaggi come Telesio Interlenghi o Giovanni Preziosi dall’inizio degli anni venti. È vero che del primo governo Mussolini facevano parte anche sottosegretari ebrei, ma in quello stesso periodo in Germania un ebreo era addirittura capo del governo. Dietro le spinte espansionistiche verso l’Africa c’era poi tutta una propaganda intrisa di un raffazzonato sentire razzistico, che trovava una tanto più facile esca nell’animo di gente, coloni e militari, abituata da sempre a subire soprusi e disprezzo, e che non vedeva l’ora di rivalersi prevaricando a sua volta, al riparo del viatico della superiorità razziale. Quanto questo razzismo fosse meschino lo testimoniano da un lato le farneticazioni dei teorici, comprese quelle dei “raffinati” (tipo Julius Evola) che non nascondevano un po’ di puzza al naso nei confronti degli aspetti più beceri del fascismo, e che dovevano arrampicarsi sugli specchi per negare il crogiolo etnico italiano, dall’altro gli strumenti più diffusi di creazione (ma anche di espressione) del consenso popolare, dalle canzoni alle vignette “satiriche”, dal “Corriere dei Piccoli” alle riviste per bottega del barbiere. Ma c’è qualcosa di più profondo, che non può essere liquidato con l’infatuazione passiva e gregaria (questa sì tipica del nostro popolo) dell’epoca fascista. Questo modo di sentire ci appartiene già nell’Ottocento, da prima che diventassimo almeno formalmente una nazione e almeno a parole nazionalisti. Lo troviamo in Manzoni e nel suo concetto di “stirpe”, in Carducci difensore della purezza ariana greco-latina, nei positivisti come Lombroso, persino nei più illuminati teorici della sinistra “darwiniana” (Labriola contro la torbidezza semita di Marx, per la trasparenza aria di Engels), o in intellettuali “contro” come Giovanni Papini; per non parlare poi dell’area cattolica (l’antisemitismo feroce della “Civiltà Cattolica” e della “Rivista Internazionale” di Toniolo, quello di Agostino Gemelli, ecc.). Non siamo mai stati immuni dal virus, neppure quando, al contrario di nazioni come la Francia e l’Inghilterra, non avevamo “razze” diverse con le quali confrontarci.

Quanto al “ceppo” cui il virus appartiene (razzismo vero e proprio, xenofobia, intolleranza, ecc) il discorso si complica, e non è questa la sede per un’analisi più approfondita: sta di fatto che i batteri allignano, si trasformano e si rafforzano, pronti a diffondersi al minimo spiffero. Dobbiamo fare molta attenzione alle finestre.

d) Le radici profonde dell’antisemitismo. George Steiner, uno studioso ebreo, molto più “studioso” che ebreo, ma comunque molto “ebreo” nella schiettezza e nella lucidità di approccio ai problemi, propone una interpretazione delle radici profonde dell’antisemitismo che mi sembra assolutamente esaustiva, ancorché scioccante. Partendo da un’affermazione di Hitler, che scriveva che “la coscienza è una invenzione ebraica”, Steiner ne dimostra la sostanziale veridicità. L’origine della “coscienza”, intesa come senso di responsabilità rispetto al proprio operato, e in particolare di una responsabilità individuale, è connessa all’introduzione del monoteismo, il vero essenziale portato della cultura ebraica.

Perché però il nemico è l’ebreo, e non anche il cristiano? Perché il primo ha mantenuto integrale il suo monoteismo, mentre gli altri, i cristiani soprattutto, lo hanno addolcito (e infatti la reazione protestante, che è insieme un passo in avanti, verso l’individualizzazione della responsabilità, e uno indietro, verso l’integralismo originario, cerca di eliminare tutte le incrostazioni del neo-politeismo rappresentate da santi e madonne, ovvero proprio da ciò che il cattolicesimo ha introdotto per diminuire il peso della solitudine del monoteismo).

In sostanza, secondo Steiner tutto il Vecchio Testamento è la storia di ritorni indietro (al politeismo primordiale) e di tentativi di rompere il soffocamento monoteistico. L’epoca cristiana ha inizio quando san Paolo risolve la situazione lasciando spazio ad altre figure (la trinità, lo Spirito Santo, ecc…). Il distacco definitivo avviene appunto con la proliferazione delle figure di contorno (madonne e santi, appunto), ma anche con la possibilità di raffigurare Dio, di concretizzarlo e in qualche modo di limitarlo.

Nell’ebraismo non c’è nulla di tutto ciò. Non è solo questione del divieto di riprodurre Dio in immagine. Qui si parla di non poter nemmeno immaginare Dio, nemmeno pronunciarne il nome. Per l’ebraismo Dio è Assenza. E questo, secondo Steiner, ci priva della libertà: quella libertà di spirito, quella pluralità creatrice che è invece insita nel politeismo (come affermava Nietzche e ribadisce oggi Marc Augé). Ma non dovrebbe essere l’opposto, visto che la libertà è fondata su una reale possibilità di scelta, e sull’assunzione di responsabilità personale nel compiere questa scelta? No, dice Steiner, perché il Dio unico continua ad essere l’ideale modello di riferimento, ma costituisce un ideale inaccessibile. Questo è lo scandalo. Non rappresentare Dio significa non porgli limiti, significa tenere la meta fuori portata. Dio è dunque un ideale inarrivabile, per avvicinarsi al quale occorre rinunciare a tutto, soffocare tutti gli istinti, fare “pelle nuova”. E questo è un imperativo terribile: richiede amore disinteressato, carità, oblio di sé, ecc…“Se chiedi all’uomo più di quanto egli sia, gli metti davanti agli occhi stremati un’immagine di altruismo, compassione, abnegazione che solo un pazzo o un santo possono toccare, l’hai bell’e legato alla ruota della tortura. Fin quando non gli scoppia l’anima. Con il decalogo di Mosè, il discorso della montagna di Gesù e le istanze di giustizia sociale di Marx … tre volte l’ebreo ci ha imposto il ricatto della trascendenza” (George Steiner, Dans le chateau de Barbe-Bleue, Editions du Seuil, Paris 1973). In realtà il bacillo della perfezione è insostenibile per l’uomo (e questo spiega perché chi mira alla santità sia così disumano, così intollerante. Ha distolto gli occhi da ciò che è l’uomo, e vede tutto attraverso il filtro del modello divino. È quanto succede ai grandi riformatori: non vedono più l’uomo, ma il modello perfetto e inaccessibile di umanità, e quindi sono disumani).

Quindi, secondo Steiner, monoteismo del Sinai, cristianità primitiva (pre-paolina), messianismo apocalittico e socialista (il che conferma vera l’equazione ebraismo uguale socialismo applicata dai reazionari dell’ultimo secolo) sono le tre tappe solidali attraverso le quali la coscienza occidentale ha dovuto passare per il capriccio della trascendenza. Questo spiega perché il rancore contro il Dio unico si sia concretizzato nel tempo in rancore contro gli Ebrei, coloro che lo hanno inventato.

Ne “la coscienza è un’invenzione ebraica” c’è tutto questo. In effetti, Hitler dice chiaro quello che gli altri cercano di nascondere o di celare sotto giri di parole. Quello che si vuole soffocare, quello che fa paura, è la coscienza (forse per questo Freud, in Mosé e il monoteismo, attribuisce l’“invenzione” di quest’ultimo ad un egiziano? Per stornare l’odio?).

Steiner arriva anche ad aggiungere che un popolo che da sempre si è proclamato l’eletto da Dio non ha fatto molto per rendersi simpatico. È indubbio, ma non mi sembra così determinante. In realtà quasi tutti i popoli hanno la tendenza a sentirsi in qualche modo eletti e superiori. Magari gli ebrei hanno avuto il merito o la colpa di mantenere salda questa convinzione a dispetto di tutte le batoste subite: il che è semmai segno di un’incredibile testardaggine, ma anche di una non comune coerenza. Credo piuttosto che il problema sia un altro, più strettamente connesso a quanto dicevo sopra: l’autocoscienza ebraica derivante dal monoteismo è decisamente alienante e lacerante, e fa dell’ebreo un eterno estraneo, errante non solo a causa della diaspora, ma in quanto straniero ad ogni terra. L’ebreo è costantemente in asincrono con la storia, un passo più avanti o più in là: invece che viverla, sembra commentarla a margine: e questo lo rende estremamente visibile, e sospetto di non esserne coinvolto, ma di dirigerla segretamente: anche perché alla fine sopravvive ad ogni ondata, mantenendo intatta la sua differenza.

Ciò significa che le motivazioni di carattere sociale, economico o religioso dalle quali si è sempre fatto discendere l’antisemitismo non sono affatto sufficienti a spiegarne la persistenza laddove, ad esempio nella Polonia odierna, non c’è più traccia non solo di una qualche rilevanza economica ebraica, ma nemmeno di una presenza minima, e presso generazioni che con gli ebrei non hanno mai avuto a che fare. Non solo: questo tipo di spiegazioni finisce per essere persino “giustificatorio”, proprio perché legge il fenomeno solo a partire dai suoi esiti, adottando di volta in volta le categorie interpretative che più si attagliano alle diverse e specifiche manifestazioni (se si parla di antisemitismo nell’età imperiale, la categoria sarà quella religiosa; per il medioevo sarà religiosa ed economica; per l’ottocento sarà solo economica; per la sinistra sarà politica, per la destra economica, e così via). In sostanza, il problema dell’antisemitismo è affrontato cogliendone gli sviluppi e le manifestazioni diversificate, anziché cercandone la radice: e la radice è quella di un rifiuto intrinseco all’esistenza degli ebrei per quel che rappresentano, piuttosto che per quello che si teme o si crede facciano: in tal senso, il comportamento nazista, e la motivazione che i nazisti stessi ne danno, è quello più conseguente.

Mi rendo conto di fare un discorso delicato e pericoloso, che si presta ad interpretazioni e derive equivoche (lo stesso Steiner è stato accusato di essere affetto dall’odio di sé ebraico). Ma credo che quando si vuole equivocare si riesca a farlo anche con la fiaba dei tre porcellini, e che la responsabilità dell’equivoco non sia di chi parla, ma di chi interpreta male. Per me, io viaggio tranquillo; non solo non c’è alla base del mio ragionamento (e naturalmente di quello di Steiner) alcuna pregiudiziale antisemita, ma c’è semmai un pregiudiziale riconoscimento (e nel mio caso anche una sorta di invidia) dell’eccezionalità dell’esperienza ebraica.

Il singhiozzo dell’uomo bianco. Una falsa coscienza particolarmente ipocrita, che maschera una presunzione di superiorità, ci porta ad addossare direttamente o indirettamente all’occidente ogni sorta di nefandezza della quale l’umanità si è macchiata negli ultimi sei secoli, dimenticando o fingendo di non sapere che i massacri, le pulizie etniche, i genocidi, la schiavitù hanno fatto parte da sempre del corredo storico. È un atteggiamento diffusosi a livello di sentire allargato (che non significa comune: la stragrande maggioranza degli occidentali continua a pensare in termini di differenza tra barbarie e civiltà) solo negli ultimi sessant’anni, come corollario della decolonizzazione e del terzomondismo.

Le denunce dei soprusi e dei massacri perpetrati dagli occidentali in realtà c’erano sempre state, anche all’epoca delle conquiste e delle dominazioni coloniali: da Las Casas a Multatuli, passando per gli abolizionisti e fino a Mark Twain ed Orwell, l’elenco di coloro che hanno cercato di scuotere le coscienze europee o anglo-americane è lunghissimo: ma si trattava sempre di voci minoritarie o addirittura isolate. Nella versione del tardo Novecento però, la denuncia ha preso quasi la piega di un vezzo e suona come rivendicazione di una facile penitenza assolutoria, un po’ come il giorno della memoria. Siamo stati cattivi, ma ora abbiamo capito, e lo dimostra il fatto che ci battiamo il petto e assumiamo su di noi tutti i peccati: salvo poi provare qualche disagio nei confronti delle ex vittime sia quando vengono a bussare alle nostre porte, sia quando assumono comportamenti simili a quelli che venivano imputati all’Occidente.

In realtà, attribuendo il male ad un difetto intrinseco ai modelli politici ed economici occidentali si rifiuta l’esistenza di una componente negativa, aggressiva e crudele nella natura umana. In fondo, si pensa, sanate certe storture della storia si potrebbe arrivare alla società perfetta, che è sempre stato, questo si, un pallino dell’Occidente (ciò che ci rimanda allo “scandalo” di Steiner). Si rifiuta quindi la coscienza della nostra animalità perché questa sembrerebbe mandare a carte quaranta ogni nostro progetto di palingenesi, e indurrebbe un atteggiamento di resa.

La coscienza della naturalità dei nostri comportamenti è invece tutt’altro che una resa; è piuttosto il modo corretto per cercare di capire quanto ci sia di biologico e quanto di storico nella nostra competitività, nella crudeltà, nella violenza, nel male; per rimuovere ciò che in tal senso è storicamente indotto e arginare ciò che è dettato dalla natura, mirando molto modestamente ad una società più consapevole e meno violenta. È un traguardo concreto, ma per raggiungerlo non bastano e non servono le giornate della memoria. Ci vuole ben altro.

In primo luogo occorre rimuovere tutta una serie di atteggiamenti come quello appena descritto. Date e dati, tuonava un mio insegnante: e capacità di disporli correttamente in riga, lungo gli assi del tempo e dello spazio. Il risultato, se non sei stupido, arriva da solo. Pensiamo invece agli usi strumentali che della memoria, di una memoria settoriale e partigiana, vengono fatti ad ogni nuova “rilettura” storica: ci sono esempi clamorosi, come quelli relativi ai numeri della tratta occidentale degli schiavi (la stima dei deportati dall’Africa varia da nove a novanta milioni, a seconda delle scuole di pensiero), o a quelli delle vittime della conquista (anche qui, da dieci a ottanta milioni) o dello stalinismo (da venti a ottanta milioni). È chiaramente difficile determinare queste cifre, ma non possono nemmeno essere accettate come “espressione di diverse posizioni all’interno del dibattito”. Certo, quando vengono utilizzati nella storia i numeri non stanno ad indicare quantità astratte o inerti, ma insiemi di individui, combinazioni di vicende, potenzialità attuate o negate: e tuttavia, per la correttezza della lettura, è necessario che mantengano le loro proprietà. Vanno usati con cautela, perché a seconda della posizione nella quale li si colloca danno risultati diversi. Se si mette nel conto proprio tutto, compresi i non nati per prematura dipartita dei potenziali genitori, la guerra dei Cento Anni ha fatto più morti della seconda guerra mondiale, su una popolazione europea pari ad un decimo, perché nel frattempo sono ci sono state anche tre successive tornate di peste nera!

In secondo luogo è necessario promuovere già a livello scolastico una ben diversa cultura naturalistica. Abbiamo presente come viene proposto l’evoluzionismo nelle nostre scuole? Quando va bene, a comparti stagni: cellula e DNA in biologia, ramaphitecus ed erectus in storia, e solo nell’anno iniziale di ciascun ciclo, darwinismo sociale in filosofia. Col risultato che sembriamo tutti ragionare come la moglie del vescovo Wilbeforce: “Anche ammettendo, per ipotesi, che si discenda dalle scimmie, non è certo il caso di andarlo a raccontare in giro!

In terzo luogo, e mi ripeto, vanno riequilibrate e intersecate le nozioni di storia naturale e storia culturale. Proprio in conseguenza dell’atteggiamento cui accennavo sopra siamo portati a tracciare delle cesure nette tra il nostro essere animale e il nostro “divenire” culturale. Marx riassume perfettamente le risultanze di duemila e passa anni di speculazione filosofica quando afferma che a un certo punto finisce la storia naturale e inizia quella umana: come se la seconda non fosse parte della prima – e una parte infinitesimale. Qualcuno ci ha anche provato, Kropotkin ad esempio, a leggere nell’una solo la prosecuzione velocizzata dell’altra: ma ha finito comunque per considerare gli esiti della storia come uno stravolgimento, una degenerazione rispetto al corso e alle potenzialità naturali, quasi alla maniera di Rousseau. In questo modo si sfugge alla padella hegeliana e marxiana della necessità storica (le “magnifiche sorti e progressive” irrise da Leopardi), ma si rischia di cascare sulle braci di un determinismo positivo e positivista (la naturale socialità e il congenito altruismo dell’uomo): e, in definitiva, per sacrificare alla speranza in una futura società perfetta la coscienza dell’imprescindibilità dall’appartenenza e dalla eredità biologica. Negli ultimi trent’anni si è rigettato quasi tutto del pensiero marxiano e il mito del progresso, individuale o collettivo, scientifico, etico o sociale che fosse, si è squagliato come neve al sole: ma su questo punto, malgrado Darwin, continuiamo a ragionare come venti secoli fa.

Ciò cui volevo arrivare è che solo una memoria filtrata e depurata delle interpretazioni pregiudiziali e contingenti può entrare sottopelle, girare in circuito col sangue durante trecentosessantacinque giorni l’anno. Essa diventa allora coscienza quotidianamente vissuta del fatto che quanto è accaduto può ancora accadere e sta anzi già accadendo, che non siamo affatto immunizzati, vaccinati dal mare di sangue e dalle tempeste di orrore che hanno segnato la nostra storia. Che questo non significa accettare come ineluttabile il male, ma anzi, ci impegna a batterci con le armi di cui siamo naturalmente e culturalmente dotati per combatterlo. E che non è questione di occidentali, anche se naturalmente gli occidentali devono iniziare facendo i conti con se stessi, ma di uomini.