La notte della memoria

di Paolo Repetto, 2011

Beati i popoli che non hanno bisogno di giorni della memoria. Suona familiare: e infatti, pur non essendo un fanatico di Brecht finisco sempre per parafrasarlo. Se c’è bisogno di parchi, scrivevo anni fa, è perché non siamo più in grado di rapportarci alla natura: ogni istituzionalizzazione del sentire riflette infatti e denuncia la perdita di una sensibilità. Così, se c’è bisogno di una festa della mamma, del papà, del nonno è proprio perché queste figure hanno perso identità e peso nella nostra vita, e diventa necessario ricordare per decreto che esistono. Se si celebra il giorno degli innamorati è perché abbiamo dimenticato, sempre che l’abbiamo mai saputo, cos’è il vero amore. Insomma, la liturgia e la polluzione delle ricorrenze sono un segno, anche al netto di tutto il carrozzone commerciale che c’è alle spalle e che costituisce il vero motivo della ridicola corsa ad incorniciare e infiocchettare tutto. Oggi lo sono per quanto concerne lo stato e l’uso della memoria storica, e arrivano dalle nostre parti ad assumere caratteri grotteschi, dal momento che la famigerata par condicio impone di inserire a calendario giornate del ricordo, del rimpianto, della rimembranza o di che altro, col risultato, tutt’altro che involontario, di fare mucchio e rimandare tutto nell’oblio.

È evidente che il giorno della memoria non mi piace. Non mi piaceva dieci anni fa, quando è stato istituito, per le ragioni che ho detto, mi piace ancora meno oggi perché ha innescato un sacco di derive. Intanto ha dato luogo ad uno sfruttamento mediatico vergognoso. Pur non essendo un videodipendente, tutti gli anni, all’approssimarsi del ventisette gennaio, cado in depressione all’idea che per una settimana almeno non potrò scegliere che tra Schindler’s List e La vita è bella (essendo pieno inverno non ho nemmeno l’alternativa di uscire a farmi un giro). La depressione non è frutto di astinenza da video, ma dell’effetto di saturazione, o almeno di sazietà, che questo pompaggio esasperato ha indotto, e del conseguente ipocrita rilassamento delle coscienze. Quasi a dire: abbiamo già fatto tutto quel che si doveva, abbiamo sentito tutte le messe. Non mi piace poi perché induce a focalizzare l’attenzione su un solo frammento di memoria, per naturale evidenza, senz’altro, ma anche per negligenza o per ignoranza, quando non per calcolo o per cinismo.

Questo fastidio naturalmente non ha nulla a che fare col negazionismo (mi sembra quasi ridicolo sottolinearlo, ma l’interpretazione maligna è sempre in agguato – e ci rimane comunque, a dispetto delle precisazioni). Nasce, al contrario, dal rifiuto di ridurre tutto ad una liturgia, a lavarsi la coscienza con la cerimonia, i discorsetti, le testimonianze dei reduci, fino a quando ne rimarrà qualcuno. L’alternativa è l’oblio, mi si obietterà; può darsi, ma l’oblio almeno suscita e giustifica l’indignazione, la volontà di combatterlo; mentre la celebrazione rituale, con l’ostensione delle reliquie dell’orrore conservate sotto vetro, non fa che accrescere la distanza nei confronti di qualcosa che invece ci concerne profondamente, sia come vittime che come carnefici potenziali. Qualche minuto di cerimoniale compunzione per i ricordi strazianti e i vani appelli dei sopravvissuti, un attimo di commozione davanti alla sequenza particolarmente struggente di un film (ma anche qui, dopo la seconda volta la sequenza diventa banale, diventa solo film) bastano a pacificare la nostra coscienza. Soprattutto perché ci consentono di restarcene all’esterno, e di pensare che la colpa, alla fin fine, riguardi sempre e solo gli altri.

Per questo voglio celebrare la giornata a modo mio. Non sciorinando cifre, non elencando i campi di concentramento e quelli di sterminio, non recitando i nomi delle vittime, ma ponendomi alcune semplici domande e proponendo possibili risposte. Non vuole essere una provocazione, non mi illudo che si possa più provocare chicchessia su qualsivoglia tema: sono solo spunti per una corretta manutenzione della memoria.

a) Non solo ebrei. Il giorno della memoria cade nell’anniversario della liberazione degli ultimi sopravvissuti nel campo di Auschwitz. È stato istituito quindi in relazione ad un evento ben preciso, anche se da subito, malgrado qualche resistenza degli ambienti ebraici (in qualche modo giustificata, visto che sono stati proprio gli ebrei, a partire dal processo Eichman, a ridare parola e dignità alle vittime) è stato interpretato come l’occasione per far tornare alla luce, o per far emergere per la prima volta, altri episodi altrettanto vergognosi. L’occasione è stata almeno in parte sfruttata, soprattutto per la concomitanza con i saldi storici di fine millennio, che hanno portato alla proliferazione di studi, ricerche, raccolte documentarie relative agli orrori del ventesimo secolo. Molto di ciò che era rimasto ben chiuso negli armadi della vergogna sparsi in tutto il mondo è venuto fuori.

Molto, ma non tutto, e non sempre in maniera definitiva. Mentre per i crimini nazisti infatti il campo è in qualche modo sgombro, in quanto da parte tedesca c’era stata almeno ufficialmente un’assunzione di responsabilità, e dal canto loro le vittime (o meglio, i loro eredi più o meno prossimi) dispongono di un notevole potenziale di pressione culturale, per altre situazioni la cosa si presenta più delicata. Si prenda ad esempio il caso dello sterminio degli Armeni (ma varrebbe allo stesso modo per un sacco di altre popolazioni, da quelle caucasiche a quelle dell’Asia centrale o del sudest, dall’Africa centro-meridionale all’America Latina). Dopo che è stato accertato, documentato, conclamato il massacro di almeno un milione e mezzo di persone si continua a dibattere sulla definizione da utilizzarsi: si può parlare di genocidio o no? Non è un problema meramente lessicale: a seconda di come si risolva l’assurda diatriba terminologica cambia il peso specifico delle vittime al cospetto della giustizia sovranazionale: e quindi anche la quota di ricordo spettante. Non sto dicendo che alla memoria della Shoah sia riservato un canale preferenziale, e che sull’appropriazione indebita di questa memoria sia stata costruita una sorta di impunità dello stato israeliano, come affermano, oltre che i revisionisti, anche alcuni storici ebrei: il canale c’è perché gli ebrei se lo sono scavato con le unghie, e va salvaguardato da ogni tentativo di insabbiamento. Piuttosto sarebbe necessario scavarne altri, per tutti coloro di cui non sono rimaste nemmeno le unghie, e la cui memoria è rimossa con fastidio, perché disturba la domesticazione dei carnefici e il loro ingresso nel consesso politico e soprattutto nel mercato globale.

Certo, qui si rischia di infilarci in un pozzo senza fondo: perché a voler scavare ce n’è per tutti, e andando un po’ in profondità la storia si rivela una tabella di massacri, con rovesciamenti continui di parte. Il problema non è dunque quello di mandare tutti alla sbarra, perché la gabbia degli imputati sarebbe sempre troppo stretta, quanto di pretendere almeno che tutti assumano le proprie responsabilità. E dal momento che questo non avviene, perché la Cina non ci pensa nemmeno ad ammettere di aver sterminato due milioni di tibetani, e la Turchia nega l’eccidio armeno, e Francia e Belgio fingono di non sapere nulla della campagna d’odio che ha portato al massacro dei Tutsi, e così fanno tutti gli altri, questo ha da essere il compito della memoria: non lasciare che la voce di alcuna vittima sia soffocata da palate di terra, e fare sì che ogni carnefice debba guardare negli occhi il suo prossimo e i suoi figli sapendo che sanno.

b) Siamo “brava gente”? Partiamo proprio da noi. Il concorde apprezzamento per l’istituzione del giorno della memoria nel nostro paese e l’eccesso di zelo col quale viene celebrato non sono sintomi di una sensibilità particolarmente acuta. Sono al contrario l’ennesima dimostrazione della nostra ipocrisia. Ci va bene ricordare gli orrori, perché ci siamo persuasi che si tratti sempre degli orrori degli altri. In fondo parliamo di crimini del nazismo, del comunismo, dell’integralismo, del nazionalismo, dell’antisemitismo, del razzismo interetnico, come di cose che non ci sfiorano. Noi siamo quelli che durante la campagna di Russia invece di bruciare le isbe con tutti i disgraziati che le abitavano dividevamo il pane e i cappotti con i poveri invasi. Solidarizziamo con le vittime perché ci sentiamo noi stessi vittime per vocazione, tanto da avere istituito una giornata per ricordare gli orrori delle foibe. Che ci sono stati, per carità, e non debbono essere dimenticati: ma nemmeno debbono servire ad alimentare la nostra falsa coscienza di innocenti perseguitati. La realtà è un po’ diversa, e forse meriterebbe l’istituzione di un particolare giorno della vergogna, a ricordo dei crimini commessi dal nostro popolo, o comunque dai nostri politici e dalle nostre truppe. Sarebbe sufficiente in proposito ricordare che nei primi anni trenta nel parlamento inglese il comportamento delle autorità italiane veniva citato come esempio di una perfetta conduzione della politica coloniale. Avevamo appena impiccato l’ultimo rappresentante della resistenza libica, l’ultrasettantenne Umar al-Muktar, e nessuno ne aveva saputo niente e tantomeno aveva denunciato o deprecato il fatto; mentre gli inglesi avevano a che fare con un Gandhi che veniva ricevuto in tutto il mondo, dal papa, dai capi di governo, ecc, ed ogni episodio di massacri, di torture o che altro veniva evidenziato e stigmatizzato dalla stampa britannica. Oppure rimarcare come nessun libro di storia per le scuole superiori ancora oggi riporti che dopo l’attentato al maresciallo Graziani ad Addis Abeba, nel 1936, vennero fucilati per rappresaglia e fatti sparire nel deserto quattromila giovani etiopi tra i sedici e i venticinque anni. O ancora, che all’inizio della seconda guerra mondiale una intera etnia che abitava l’area nord orientale della Libia venne spostata, per motivi di sicurezza strategica, nella zona sudoccidentale, vale a dire in pieno deserto del Sahara, col risultato che dopo tre anni una popolazione di oltre duecentomila persone era ridotta a poco più di cinquantamila. Per non parlare poi di quanto avvenuto nel corso dell’occupazione congiunta con i nazisti della Jugoslavia, per il dettaglio della quale si può fare riferimento ad esempio allo studio di Gianni Oliva Si uccide troppo poco. Altro che giorno del ricordo.

c) Siamo razzisti? Lo stesso vale per il razzismo in generale e per l’antisemitismo in particolare. Per quanto concerne il razzismo la posizione italiana doveva essere per forza di cose diversa, ad esempio, da quella tedesca. Hitler poteva pensare nel suo delirio di “ridare purezza” alla “razza ariana”, Mussolini era ben consapevole che non esisteva nessuna razza italiana, anche ammettendo i criteri razzistici dell’epoca, e che al più avrebbe potuto aspirare a creare un “popolo” italiano. E tuttavia non dobbiamo dimenticare che riviste come La difesa della razza ed altre simili circolavano ed erano finanziate dal regime molto prima dell’alleanza con Hitler, e che il manifesto della razza era stato preparato da una campagna incessante mossa da personaggi come Telesio Interlenghi o Giovanni Preziosi dall’inizio degli anni venti. È vero che del primo governo Mussolini facevano parte anche sottosegretari ebrei, ma in quello stesso periodo in Germania un ebreo era addirittura capo del governo. Dietro le spinte espansionistiche verso l’Africa c’era poi tutta una propaganda intrisa di un raffazzonato sentire razzistico, che trovava una tanto più facile esca nell’animo di gente, coloni e militari, abituata da sempre a subire soprusi e disprezzo, e che non vedeva l’ora di rivalersi prevaricando a sua volta, al riparo del viatico della superiorità razziale. Quanto questo razzismo fosse meschino lo testimoniano da un lato le farneticazioni dei teorici, comprese quelle dei “raffinati” (tipo Julius Evola) che non nascondevano un po’ di puzza al naso nei confronti degli aspetti più beceri del fascismo, e che dovevano arrampicarsi sugli specchi per negare il crogiolo etnico italiano, dall’altro gli strumenti più diffusi di creazione (ma anche di espressione) del consenso popolare, dalle canzoni alle vignette “satiriche”, dal “Corriere dei Piccoli” alle riviste per bottega del barbiere. Ma c’è qualcosa di più profondo, che non può essere liquidato con l’infatuazione passiva e gregaria (questa sì tipica del nostro popolo) dell’epoca fascista. Questo modo di sentire ci appartiene già nell’Ottocento, da prima che diventassimo almeno formalmente una nazione e almeno a parole nazionalisti. Lo troviamo in Manzoni e nel suo concetto di “stirpe”, in Carducci difensore della purezza ariana greco-latina, nei positivisti come Lombroso, persino nei più illuminati teorici della sinistra “darwiniana” (Labriola contro la torbidezza semita di Marx, per la trasparenza aria di Engels), o in intellettuali “contro” come Giovanni Papini; per non parlare poi dell’area cattolica (l’antisemitismo feroce della “Civiltà Cattolica” e della “Rivista Internazionale” di Toniolo, quello di Agostino Gemelli, ecc.). Non siamo mai stati immuni dal virus, neppure quando, al contrario di nazioni come la Francia e l’Inghilterra, non avevamo “razze” diverse con le quali confrontarci.

Quanto al “ceppo” cui il virus appartiene (razzismo vero e proprio, xenofobia, intolleranza, ecc) il discorso si complica, e non è questa la sede per un’analisi più approfondita: sta di fatto che i batteri allignano, si trasformano e si rafforzano, pronti a diffondersi al minimo spiffero. Dobbiamo fare molta attenzione alle finestre.

d) Le radici profonde dell’antisemitismo. George Steiner, uno studioso ebreo, molto più “studioso” che ebreo, ma comunque molto “ebreo” nella schiettezza e nella lucidità di approccio ai problemi, propone una interpretazione delle radici profonde dell’antisemitismo che mi sembra assolutamente esaustiva, ancorché scioccante. Partendo da un’affermazione di Hitler, che scriveva che “la coscienza è una invenzione ebraica”, Steiner ne dimostra la sostanziale veridicità. L’origine della “coscienza”, intesa come senso di responsabilità rispetto al proprio operato, e in particolare di una responsabilità individuale, è connessa all’introduzione del monoteismo, il vero essenziale portato della cultura ebraica.

Perché però il nemico è l’ebreo, e non anche il cristiano? Perché il primo ha mantenuto integrale il suo monoteismo, mentre gli altri, i cristiani soprattutto, lo hanno addolcito (e infatti la reazione protestante, che è insieme un passo in avanti, verso l’individualizzazione della responsabilità, e uno indietro, verso l’integralismo originario, cerca di eliminare tutte le incrostazioni del neo-politeismo rappresentate da santi e madonne, ovvero proprio da ciò che il cattolicesimo ha introdotto per diminuire il peso della solitudine del monoteismo).

In sostanza, secondo Steiner tutto il Vecchio Testamento è la storia di ritorni indietro (al politeismo primordiale) e di tentativi di rompere il soffocamento monoteistico. L’epoca cristiana ha inizio quando san Paolo risolve la situazione lasciando spazio ad altre figure (la trinità, lo Spirito Santo, ecc…). Il distacco definitivo avviene appunto con la proliferazione delle figure di contorno (madonne e santi, appunto), ma anche con la possibilità di raffigurare Dio, di concretizzarlo e in qualche modo di limitarlo.

Nell’ebraismo non c’è nulla di tutto ciò. Non è solo questione del divieto di riprodurre Dio in immagine. Qui si parla di non poter nemmeno immaginare Dio, nemmeno pronunciarne il nome. Per l’ebraismo Dio è Assenza. E questo, secondo Steiner, ci priva della libertà: quella libertà di spirito, quella pluralità creatrice che è invece insita nel politeismo (come affermava Nietzche e ribadisce oggi Marc Augé). Ma non dovrebbe essere l’opposto, visto che la libertà è fondata su una reale possibilità di scelta, e sull’assunzione di responsabilità personale nel compiere questa scelta? No, dice Steiner, perché il Dio unico continua ad essere l’ideale modello di riferimento, ma costituisce un ideale inaccessibile. Questo è lo scandalo. Non rappresentare Dio significa non porgli limiti, significa tenere la meta fuori portata. Dio è dunque un ideale inarrivabile, per avvicinarsi al quale occorre rinunciare a tutto, soffocare tutti gli istinti, fare “pelle nuova”. E questo è un imperativo terribile: richiede amore disinteressato, carità, oblio di sé, ecc…“Se chiedi all’uomo più di quanto egli sia, gli metti davanti agli occhi stremati un’immagine di altruismo, compassione, abnegazione che solo un pazzo o un santo possono toccare, l’hai bell’e legato alla ruota della tortura. Fin quando non gli scoppia l’anima. Con il decalogo di Mosè, il discorso della montagna di Gesù e le istanze di giustizia sociale di Marx … tre volte l’ebreo ci ha imposto il ricatto della trascendenza” (George Steiner, Dans le chateau de Barbe-Bleue, Editions du Seuil, Paris 1973). In realtà il bacillo della perfezione è insostenibile per l’uomo (e questo spiega perché chi mira alla santità sia così disumano, così intollerante. Ha distolto gli occhi da ciò che è l’uomo, e vede tutto attraverso il filtro del modello divino. È quanto succede ai grandi riformatori: non vedono più l’uomo, ma il modello perfetto e inaccessibile di umanità, e quindi sono disumani).

Quindi, secondo Steiner, monoteismo del Sinai, cristianità primitiva (pre-paolina), messianismo apocalittico e socialista (il che conferma vera l’equazione ebraismo uguale socialismo applicata dai reazionari dell’ultimo secolo) sono le tre tappe solidali attraverso le quali la coscienza occidentale ha dovuto passare per il capriccio della trascendenza. Questo spiega perché il rancore contro il Dio unico si sia concretizzato nel tempo in rancore contro gli Ebrei, coloro che lo hanno inventato.

Ne “la coscienza è un’invenzione ebraica” c’è tutto questo. In effetti, Hitler dice chiaro quello che gli altri cercano di nascondere o di celare sotto giri di parole. Quello che si vuole soffocare, quello che fa paura, è la coscienza (forse per questo Freud, in Mosé e il monoteismo, attribuisce l’“invenzione” di quest’ultimo ad un egiziano? Per stornare l’odio?).

Steiner arriva anche ad aggiungere che un popolo che da sempre si è proclamato l’eletto da Dio non ha fatto molto per rendersi simpatico. È indubbio, ma non mi sembra così determinante. In realtà quasi tutti i popoli hanno la tendenza a sentirsi in qualche modo eletti e superiori. Magari gli ebrei hanno avuto il merito o la colpa di mantenere salda questa convinzione a dispetto di tutte le batoste subite: il che è semmai segno di un’incredibile testardaggine, ma anche di una non comune coerenza. Credo piuttosto che il problema sia un altro, più strettamente connesso a quanto dicevo sopra: l’autocoscienza ebraica derivante dal monoteismo è decisamente alienante e lacerante, e fa dell’ebreo un eterno estraneo, errante non solo a causa della diaspora, ma in quanto straniero ad ogni terra. L’ebreo è costantemente in asincrono con la storia, un passo più avanti o più in là: invece che viverla, sembra commentarla a margine: e questo lo rende estremamente visibile, e sospetto di non esserne coinvolto, ma di dirigerla segretamente: anche perché alla fine sopravvive ad ogni ondata, mantenendo intatta la sua differenza.

Ciò significa che le motivazioni di carattere sociale, economico o religioso dalle quali si è sempre fatto discendere l’antisemitismo non sono affatto sufficienti a spiegarne la persistenza laddove, ad esempio nella Polonia odierna, non c’è più traccia non solo di una qualche rilevanza economica ebraica, ma nemmeno di una presenza minima, e presso generazioni che con gli ebrei non hanno mai avuto a che fare. Non solo: questo tipo di spiegazioni finisce per essere persino “giustificatorio”, proprio perché legge il fenomeno solo a partire dai suoi esiti, adottando di volta in volta le categorie interpretative che più si attagliano alle diverse e specifiche manifestazioni (se si parla di antisemitismo nell’età imperiale, la categoria sarà quella religiosa; per il medioevo sarà religiosa ed economica; per l’ottocento sarà solo economica; per la sinistra sarà politica, per la destra economica, e così via). In sostanza, il problema dell’antisemitismo è affrontato cogliendone gli sviluppi e le manifestazioni diversificate, anziché cercandone la radice: e la radice è quella di un rifiuto intrinseco all’esistenza degli ebrei per quel che rappresentano, piuttosto che per quello che si teme o si crede facciano: in tal senso, il comportamento nazista, e la motivazione che i nazisti stessi ne danno, è quello più conseguente.

Mi rendo conto di fare un discorso delicato e pericoloso, che si presta ad interpretazioni e derive equivoche (lo stesso Steiner è stato accusato di essere affetto dall’odio di sé ebraico). Ma credo che quando si vuole equivocare si riesca a farlo anche con la fiaba dei tre porcellini, e che la responsabilità dell’equivoco non sia di chi parla, ma di chi interpreta male. Per me, io viaggio tranquillo; non solo non c’è alla base del mio ragionamento (e naturalmente di quello di Steiner) alcuna pregiudiziale antisemita, ma c’è semmai un pregiudiziale riconoscimento (e nel mio caso anche una sorta di invidia) dell’eccezionalità dell’esperienza ebraica.

Il singhiozzo dell’uomo bianco. Una falsa coscienza particolarmente ipocrita, che maschera una presunzione di superiorità, ci porta ad addossare direttamente o indirettamente all’occidente ogni sorta di nefandezza della quale l’umanità si è macchiata negli ultimi sei secoli, dimenticando o fingendo di non sapere che i massacri, le pulizie etniche, i genocidi, la schiavitù hanno fatto parte da sempre del corredo storico. È un atteggiamento diffusosi a livello di sentire allargato (che non significa comune: la stragrande maggioranza degli occidentali continua a pensare in termini di differenza tra barbarie e civiltà) solo negli ultimi sessant’anni, come corollario della decolonizzazione e del terzomondismo.

Le denunce dei soprusi e dei massacri perpetrati dagli occidentali in realtà c’erano sempre state, anche all’epoca delle conquiste e delle dominazioni coloniali: da Las Casas a Multatuli, passando per gli abolizionisti e fino a Mark Twain ed Orwell, l’elenco di coloro che hanno cercato di scuotere le coscienze europee o anglo-americane è lunghissimo: ma si trattava sempre di voci minoritarie o addirittura isolate. Nella versione del tardo Novecento però, la denuncia ha preso quasi la piega di un vezzo e suona come rivendicazione di una facile penitenza assolutoria, un po’ come il giorno della memoria. Siamo stati cattivi, ma ora abbiamo capito, e lo dimostra il fatto che ci battiamo il petto e assumiamo su di noi tutti i peccati: salvo poi provare qualche disagio nei confronti delle ex vittime sia quando vengono a bussare alle nostre porte, sia quando assumono comportamenti simili a quelli che venivano imputati all’Occidente.

In realtà, attribuendo il male ad un difetto intrinseco ai modelli politici ed economici occidentali si rifiuta l’esistenza di una componente negativa, aggressiva e crudele nella natura umana. In fondo, si pensa, sanate certe storture della storia si potrebbe arrivare alla società perfetta, che è sempre stato, questo si, un pallino dell’Occidente (ciò che ci rimanda allo “scandalo” di Steiner). Si rifiuta quindi la coscienza della nostra animalità perché questa sembrerebbe mandare a carte quaranta ogni nostro progetto di palingenesi, e indurrebbe un atteggiamento di resa.

La coscienza della naturalità dei nostri comportamenti è invece tutt’altro che una resa; è piuttosto il modo corretto per cercare di capire quanto ci sia di biologico e quanto di storico nella nostra competitività, nella crudeltà, nella violenza, nel male; per rimuovere ciò che in tal senso è storicamente indotto e arginare ciò che è dettato dalla natura, mirando molto modestamente ad una società più consapevole e meno violenta. È un traguardo concreto, ma per raggiungerlo non bastano e non servono le giornate della memoria. Ci vuole ben altro.

In primo luogo occorre rimuovere tutta una serie di atteggiamenti come quello appena descritto. Date e dati, tuonava un mio insegnante: e capacità di disporli correttamente in riga, lungo gli assi del tempo e dello spazio. Il risultato, se non sei stupido, arriva da solo. Pensiamo invece agli usi strumentali che della memoria, di una memoria settoriale e partigiana, vengono fatti ad ogni nuova “rilettura” storica: ci sono esempi clamorosi, come quelli relativi ai numeri della tratta occidentale degli schiavi (la stima dei deportati dall’Africa varia da nove a novanta milioni, a seconda delle scuole di pensiero), o a quelli delle vittime della conquista (anche qui, da dieci a ottanta milioni) o dello stalinismo (da venti a ottanta milioni). È chiaramente difficile determinare queste cifre, ma non possono nemmeno essere accettate come “espressione di diverse posizioni all’interno del dibattito”. Certo, quando vengono utilizzati nella storia i numeri non stanno ad indicare quantità astratte o inerti, ma insiemi di individui, combinazioni di vicende, potenzialità attuate o negate: e tuttavia, per la correttezza della lettura, è necessario che mantengano le loro proprietà. Vanno usati con cautela, perché a seconda della posizione nella quale li si colloca danno risultati diversi. Se si mette nel conto proprio tutto, compresi i non nati per prematura dipartita dei potenziali genitori, la guerra dei Cento Anni ha fatto più morti della seconda guerra mondiale, su una popolazione europea pari ad un decimo, perché nel frattempo sono ci sono state anche tre successive tornate di peste nera!

In secondo luogo è necessario promuovere già a livello scolastico una ben diversa cultura naturalistica. Abbiamo presente come viene proposto l’evoluzionismo nelle nostre scuole? Quando va bene, a comparti stagni: cellula e DNA in biologia, ramaphitecus ed erectus in storia, e solo nell’anno iniziale di ciascun ciclo, darwinismo sociale in filosofia. Col risultato che sembriamo tutti ragionare come la moglie del vescovo Wilbeforce: “Anche ammettendo, per ipotesi, che si discenda dalle scimmie, non è certo il caso di andarlo a raccontare in giro!

In terzo luogo, e mi ripeto, vanno riequilibrate e intersecate le nozioni di storia naturale e storia culturale. Proprio in conseguenza dell’atteggiamento cui accennavo sopra siamo portati a tracciare delle cesure nette tra il nostro essere animale e il nostro “divenire” culturale. Marx riassume perfettamente le risultanze di duemila e passa anni di speculazione filosofica quando afferma che a un certo punto finisce la storia naturale e inizia quella umana: come se la seconda non fosse parte della prima – e una parte infinitesimale. Qualcuno ci ha anche provato, Kropotkin ad esempio, a leggere nell’una solo la prosecuzione velocizzata dell’altra: ma ha finito comunque per considerare gli esiti della storia come uno stravolgimento, una degenerazione rispetto al corso e alle potenzialità naturali, quasi alla maniera di Rousseau. In questo modo si sfugge alla padella hegeliana e marxiana della necessità storica (le “magnifiche sorti e progressive” irrise da Leopardi), ma si rischia di cascare sulle braci di un determinismo positivo e positivista (la naturale socialità e il congenito altruismo dell’uomo): e, in definitiva, per sacrificare alla speranza in una futura società perfetta la coscienza dell’imprescindibilità dall’appartenenza e dalla eredità biologica. Negli ultimi trent’anni si è rigettato quasi tutto del pensiero marxiano e il mito del progresso, individuale o collettivo, scientifico, etico o sociale che fosse, si è squagliato come neve al sole: ma su questo punto, malgrado Darwin, continuiamo a ragionare come venti secoli fa.

Ciò cui volevo arrivare è che solo una memoria filtrata e depurata delle interpretazioni pregiudiziali e contingenti può entrare sottopelle, girare in circuito col sangue durante trecentosessantacinque giorni l’anno. Essa diventa allora coscienza quotidianamente vissuta del fatto che quanto è accaduto può ancora accadere e sta anzi già accadendo, che non siamo affatto immunizzati, vaccinati dal mare di sangue e dalle tempeste di orrore che hanno segnato la nostra storia. Che questo non significa accettare come ineluttabile il male, ma anzi, ci impegna a batterci con le armi di cui siamo naturalmente e culturalmente dotati per combatterlo. E che non è questione di occidentali, anche se naturalmente gli occidentali devono iniziare facendo i conti con se stessi, ma di uomini.