A spasso con Pietro

A spasso con Pietro copertinaa cura del C.A.I. di Ovada, 30 novembre 2014
Questa pubblicazione è stata curata da: Giorgio Bello, Angelo Cardona, Diego Cartasegna e Paolo Repetto.
Impaginazione a cura dei Viandanti delle Nebbie.

Si ringraziano per la collaborazione: tutti  gli amici della sezione CAI di Ovada, il Comune di Ovada, Mauro e Claudia Cavalleri.

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Introduzione

A spasso con Pietro Dipinti (1)Sono già trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Pietro Jannon. Scomparsa è in questo caso il termine più appropriato, perché Pietro improvvisamente si è eclissato alla vista degli amici e ha compiuto l’ultimo tratto del suo percorso in solitudine. Come, del resto, aveva sempre fatto: spariva a metà di una escursione o di un’ascesa, e te lo ritrovavi poi alla meta. Oppure non dava notizie per due mesi, e rivelava al ritorno di essere stato in Alaska. Ma la sua ricerca di solitudine non era misantropia: tutt’altro. Aveva solo un altissimo senso della discrezione, la praticava nei confronti degli altri e la chiedeva per sé. Alla fine ha voluto rimanere nel cuore e nella memoria di tutti coloro che avevano goduto della sua amicizia come il grande, inossidabile Pietro. Testardo com’era, è riuscito anche in questo. Ognuno di noi ha condiviso con lui alcune delle esperienze alpinistiche o escursionistiche più belle, o semplicemente splendide salite al Tobbio in qualsiasi stagione e da qualsiasi versante, e quelle si porta dentro. O ha in casa qualche sua opera, che lo dice lì, ancora presente.
Questa mostra e questo opuscolo vorrebbero contribuire, attraverso le immagini e le testimonianze degli amici, non solo a conservarne la memoria in chi lo ha conosciuto, ma anche ad accendere la curiosità nei suoi confronti in chi, più giovane, non ha avuto questa fortuna. Pietro è stato un’ottima persona, prima ancora che un singolare personaggio: un modello umano del quale i nostri ragazzi hanno oggi più che mai bisogno.

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Ci risiamo!

A spasso con Pietro08Ci risiamo. L’ho perso un’altra volta. Rallento e mi volto a cercarlo, ma già imma­gino cosa sta facendo: è parecchio indietro, si è fermato a scat­tare una foto. In una setti­mana ha fatto andare tre dozzine di rullini, ha fotografato ogni albero della Foresta Nera, ogni fontana, ogni casolare. Una volta a casa, se met­terà in fila tutte le dia scattate potrà ri­fare il per­corso per intero.
Poso lo zaino, mi siedo su un ceppo e accendo una sigaretta, mentre lo guardo cammi­nare a ritroso, fermarsi ancora, catturare un altro scorcio. La sta prendendo comoda. Siamo fuori di un’ora e mezza rispetto alla ta­bella concor­data, e la cosa si ripete immancabil­mente da otto giorni. E’ il primo trekking che facciamo assieme, ma credo sarà anche l’ultimo.
Adesso è nuovamente uscito dal sentiero. E’ scomparso nel bosco.
Quando rispunta sono alla terza sigaretta. Mi vede e fa cenno col brac­cio. Non ri­spondo. Continuo a fumare e a guardarlo. Non so se essere più irritato o sconfortato. Quasi due ore di ritardo dopo sole quattro di marcia.
Avanza tranquillo, si ferma, traffica con la Nikon, sostituisce il rul­lino. Se mi capita tra le mani, quella macchina, finisce in orbita. Final­mente mi rag­giunge, scarica lo zaino e siede lì vicino. Dev’essere foderato d’amianto, perché il mio sguardo non lo ustiona.
– C’era una piattaforma su un albero, laggiù. Penso la usino per os­ser­vare gli uccelli. Sono salito a scattare un paio di foto.
– Potevi aspettare un altro po’, magari avvistavi qualche tordo – ri­spondo acido.
Nemmeno se ne accorge. Inossidabile.
– No, c’era una vista magnifica, il bosco da sopra, le cime degli alberi.
Schiaccio con cura la cicca, ma non accenno ad alzarmi. Mi accorgo con sor­presa che la rabbia è già sbollita. Sto pensando a quanto deve essere bello que­sto bosco, visto da sopra. Io la piattaforma non l’avevo notata. Guar­davo avanti, e quando buttavo lo sguardo ai lati del sentiero i tronchi mi sembravano più o meno tutti uguali. Siamo in ritardo di due ore, ma su cosa? Mica abbiamo un appuntamento. Dobbiamo solo arrivare alla Ga­sthaus, che non si muove, è là da decenni, ci aspetta. Cambia niente ar­ri­vare alle cinque, alle sette o alle otto. E’ una giornata splendida, limpida, calma.
Osservo Pietro. Sta scartocciando una barretta di cioccolato. E’ tran­quillo e sod­di­sfatto, mi sta ancora raccontando della piattaforma. E mentre parla capisco finalmente la differenza. Pietro si muove come un uomo li­bero, come chi ha nes­suno che lo aspetti, e sce­glie quando e cosa vedere e chi incontrare. Io mi muovo sempre per arrivare in qualche posto. La parte più importante dello sposta­mento per me è la meta, non il viaggio. Per lui è esattamente il contrario.
E questo fa la differenza tra il viaggiatore e uno che cammina.

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DI SPALLE E CON LO ZAINO

Pietro Jannon 2Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe pia­ciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capi­tato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nem­meno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare me­sto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non na­scondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.
È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associa­zione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivi­sto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.
Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritro­vammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per tra­sferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermea­bilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “spor­tiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potes­sero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comun­que zavorra e fu­gavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore.  Si par­tiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il ver­sante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi tre­cento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.
Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allar­gato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifu­gio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che mante­neva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.
Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché vo­glia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.
Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradi­cia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro vi­aggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la cami­cia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mor­dere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?
Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi tratte­nere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ri­dere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).
E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ri­cordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo ab­biamo sempre vi­sto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era imman­cabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.
Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparente­mente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferi­mento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggeri­vano le tracce improv­vise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta que­sta inafferrabilità era en­trata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente roc­ciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho an­che pensato che la coltivasse voluta­mente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.
Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trek­king. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invi­diavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sa­pesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come per­so­nag­gio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue av­ven­ture. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ri­torno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi but­tava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabil­mente alla se­rata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, per­ché do­veva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.
Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo la­voro arti­stico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un arti­sta vero.
Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un inte­resse particolare, quando sapeva che quell’opera sa­rebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una conce­zione genuina, così come minima­lista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune crea­zioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evi­denti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anzi­ché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che ve­devo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cu­muli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li ri­pren­deva, li rigirava e rimirava, poi diceva: però, magari ritoccando, ag­giun­gendo…: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimet­terci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mo­stra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … gra­zie!” Non mi lasciò nem­meno il tempo di rispondergli: prego.
Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in af­fanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: Ve­dessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita. E sarebbe stato or­goglioso, come se la figlia fosse sua.
Paolo Repetto, 2014

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A PIETRO

A spasso con Pietro10Quando penso a Pietro non posso fare a meno di ricordare l’inverno del 2000. Da parecchi fine settimana con il solito gruppo di amici del CAI di Ovada si or­ganizzavano gite domenicali, solitamente sull’appennino li­gure, comunque non lontano da Ovada, onde evitare, il mattino, il viaggio di avvicinamento. È noioso viaggiare la mattina presto nella cattiva sta­gione, specialmente se sei con la tua macchina, con ancora un po’ di sonno addosso, e i compagni appena saliti sono già riaddormentati, e tu, tra l’incazzatura della mancanza di compa­gnia e tutte le idee che circolano per la testa in queste occasioni, navighi per raggiun­gere la meta. Una volta arri­vato doverli svegliare ad uno ad uno e sen­tirti dire che hai posteggiato nel posto sbagliato, in quanto c’era un posteggio più vicino, là dietro l’angolo, che ci hai messo troppo tempo, che prendevi le curve troppo ve­loci, che la macchina è rumorosa e il riscaldamento non era sufficiente, op­pure era troppo alto, e altro ancora.
Un venerdì sera di metà gennaio come sempre ho raggiunto la sede del CAI per incontrare Beppe, la Susy, Angelo, Rinaldo, Rolando, ecc… Come sem­pre cer­cavo di arrivare tardi, per essere sicuro che ci fossero già tutti, aves­sero già de­ciso la meta, che a me sarebbe andata sicuramente bene, l’ora e il luogo della partenza: così potevo salutare e dirigermi al bar per il solito tarocco.
Quella sera, dopo aver concordato la salita al Tobbio per la domenica suc­ces­siva, motivata dal fatto che il tempo sarebbe stato buono, che il per­corso era ancora innevato, probabile la vista dei laghi del Gorzente, e forse anche del mare, arriva Pietro.  Saluta e chiede cosa abbiamo deciso per il week end.
“È Tobbio”, risponde qualcuno di noi, “è un pezzo che non andiamo”.
“Ah, bellissimo”, commenta. “Però il tempo sarà meraviglioso, ho sen­tito il meteo poco fa”.
“Appunto”, rispondo io, “così ci godiamo la vista dal Tobbio”.
“Si, però, la riviera… Portovenere dovrebbe essere bellissima, l’aria lim­pida ti­pica del periodo invernale, la chiesa di San Pietro con la isole di Palmaria e del Tino, i corbezzoli maturi, il profumo del timo…”
“Hai ragione”, ribatto, “però c’è da sbattersi”.
“Ma no” dice lui, “in macchina sino a Sestri Levante, in treno sino a La Spe­zia, pullman sino a Portovenere, tutto in coincidenza. Si, si deve par­tire un po’ pre­sto, però … Poi a piedi tutte le Cinque Terre. Di buona lena in 7 ore fac­ciamo tutto.”
Qualcuno di noi osa lamentare il disagio do­vuto alla lontananza e ai tempi di trasferi­mento, nonché il ritorno con la stanchezza accu­mulata.
“Ma no” taglia corto, “sarà una passeg­giata. Allora ci vediamo domenica mat­tina alle 6.00. Carlo, se siamo più di cinque vieni con la macchina”.
Ci guardiamo negli occhi, tutti, uno ad uno, con uno sguardo che va dall’incredulo al sorpreso. Tutti rispondiamo contemporanea­mente “Va bene”. Altri sguardi allibiti. Con quale facilità ci siamo fatti convincere.
Macché Tobbio: gita semplice, percorso breve, con ritorno nel primo pomerig­gio, ah.
Inutile dire che fu veramente uno spetta­colo, ci divertimmo un sacco, il cielo terso con il mare calmo sotto il nostro avido sguardo. Erano tre mesi e più che il cielo di Ovada quando era al meglio risultava grigio. Arri­vammo a casa stra­volti ma soddisfatti. Ancora una volta aveva vinto, negli sguardi si poteva co­gliere la gratitudine per Pietro. Averlo come compagno e seguirlo voleva dire essere avanti. Nei confronti di tutto. Scelte, esperienze, viva­cità e anche racco­gli­mento. Erano tipiche durante i trekking le sue fughe per restare solo e go­dere la natura come a lui piaceva. Nessuno, se non pro­vando, senza riuscirci, ad interpre­tare i quadri che dipingeva, sapeva esatta­mente cosa vedeva e cosa cer­cava. Avremmo voluto imparare da lui, ma era troppo avanti: non eravamo buoni discepoli, solo ottimi compagni. Grazie, Pietro.
Carlo Risso

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ORIZZONTI

A spasso con Pietro18Dice che va in Equador, ma poi depista e prende la corriera per Sil­vano d’Orba. Si prenota per un pellegrinaggio a Lourdes, poi segue i cante­rini della S.O.M.S a Riva Trigoso. A Vicenza si confonde con gli al­pini al raduno nazio­nale, partecipa ad una gara non competitiva e rag­giunge Bolzano, dove, per via della barba, lo scambiano per Messner e gli propongono un ottomila in apnea. A Francoforte, con un sorriso selvaggio, seduce una hostess della Lufthansa, che gli trova un posto sull’ala di un DC9 per un volo a Lisbona, poi Amsterdam e, finalmente, Quito. Qui, in canoa, scende le rapide del Napo, incontra gli in­dios che gli of­frono ba­nane e da lui impa­rano a dire “Ciao”. A Riobamba prende il trenino della Cordigliera Real (quello del caffè che suona la samba) e cono­sce tanti riobam­biti. Gli offrono la testa di un ne­mico surgelata, col lea­sing; rifiuta cor­tese­mente, insegna a dire “Ciao a tutti” e scende a Guayaquil.
Intanto prende appunti, e con un gruppo di stranieri d’assalto si im­barca per le Galapagos dove non mangia zuppa di tarta­ruga. Qui insegna dire “Arrive­derci”. Ri­torna sul continente, mangia ba­nane, mar­cia, perde chili, si brucia la barba, prende an­cora appunti.
Infine, dopo oltre un mese, capita, dome­nica otto, in Bunkerplatz Cere­seto, dove sono esposti i quadri sulla ricerca dell’oro. Si sente male, si adagia sulla pan­china e sospira: “Indios è meglio”. Per­ché lui arriva con la testa piena di cose, case, casini, sensazioni, suggestioni, graffiti, graffia­ture, affreschi, rinfre­schi, burra­sche, bonacce, imbarchi, approdi, decolli, atterraggi, albe, tramonti, conchi­glie, muretti, orizzonti.  Lui è uno di quelli che partono e tornano. Poi, solo, perfettamente solo come sa stare, lavora di segno e di materia. E poi trovi tutto appeso in galleria. Io penso siano ancora meglio dei B.O.T.

C. Pola

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A spasso con Pietro15Pietro Jannon potrebbe essere definito, con un riferimento di carattere lettera­rio, il pit­tore delle isole. Uno di quegli stravaganti personaggi dei ro­manzi di Conrad, che innamo­rato dei mari in bonaccia e delle brevi esili terre che qua e là vi galleggiano come immobili relitti di un naufragio, passano la loro vita vagabonda spostandosi di spiaggia in spiaggia, irretiti ogni volta di più, e ogni volta di più prigionieri, di un gioco di luci e di orizzonti altrove irreperibili. Erano, quelli di Conrad, personaggi alla ricerca della smemoratezza, i quali, lasciatisi alle spalle una civiltà non congeniale, solo sui mari e tra isole del Sud, a contatto con gli aspetti più elementari e violenti di una natura incontaminata dell’uomo, sembravano riacquistare il senso della propria esistenza. Che era un’esistenza vissuta epidermicamente, rinunciataria, talvolta fallimentare e consapevolmente condotta al di fuori di quegli schemi e imposizioni, e soprattuitto impegni, che le società costituite comportano. Ma al contrario di essi, dei vagabondi conradiani, Piero Jannon, pur manifestando anch’egli la vocazione a itinerari insulari e marini, non muove dalla stessa necessità di dimenticanza e di fuga: va anzi alla ricerca della nostra più antica memoria, là dove la civiltà mediterranea conobbe il punto più alto e irripertibile della propria espressione; dove ancora oggi, a distanza di millenni, le pietre e i colori ce ne conservano testimonianza, e l’aria e il paesaggio ce ne tramandano il clima. Il suo è infatti un viaggio che si ripete puntualmente sui mari greci dell’Egeo, tra Patmos e Samos, tra Rodi e Creta: e se, materialmente parlando, rispetta i ritmi lenti della vecchie navi a vapore o il respiro sonnolento delle risacche deserte, la sua cadenza vera, interiore, è sincronizzata su qualcosa di più di quanto l’occhio non consenta di abbracciare: procede all’indietro, verso le origini di ciò che fummo e che ancora oggi, grazie ad allora, siamo.  Alla scoperta, cioè, della nostra stessa identità. Su queste terre battute e inaridite dal sole, sprofondate in un silenzio da tragedia consumata, già crocevia di popoli e campi di battaglia, terre finalmente restituite alla quiete della stanchezza e del destino compiuto: su queste terre, Piero Jannon, ritornato alle radici della storia, sembra potercene interpretare – attraverso le immagini di superficie – le pieghe più riposte e segrete.

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Non a caso, soffermando lo sguardo sui pastelli che oggi ci offre, proviamo la curiosa sensazione come di un incontro già avvenuto altrove e in altre epoche. Perché, dietro i rossi cremisi delle sue sabbie, o dietro il grigio scuro delle sue acque, noi riascoltiamo vicende di intelligenza e di poesia, di amore e di morte, che sono parte di noi.

A spasso con Pietro Dipinti (4)A due anni di distanza dalla sua ultima mostra ovadese, Piero Jannon torna dunque a riconfermare la propria validità di pittore che, superando i limiti di un calligrafismo fine a se stesso, riesce a penetrare la sostanza medesima della materia. Il suo linguaggio, da allora, ha acquistato in essenzialità e, contemporaneamente, in spessore. Le sue isole desolate, i suoi mari cupi, le sue brucianti visioni, vengono a restituire anche a noi – insieme alla percezione fisica delle canicole e dei tramonti – il significato più vasto e più impalpabile del tempo: il significato, vale a dire, del nostro dramma quotidiano; la consapevolezza di ciò che è destinato a finire e di ciò che è destinato a sopravviverci. La supremazia di una natura che, in uno splendore di luci e di ombre, già racchiude in sé la compiutezza degli eventi stabiliti.

Marcello Venturi, Maggio 1978

A spasso con Pietro Dipinti (6)

Ovada, 27 Ottobre

Non sarà mai! Non sarà mai che di Jannon (tanto aperto quanto misterioso nella sua splendida prigione di meridiani e paralleli), dall’infinita serie di arrivi e partenze, non sarà mai che si veda qualcosa di quel “tirato giù” a cui tanti arti­sti si adattano…. No, il mattino si è chiuso con la gioia di un incontro cordiale, un po’ scherzoso, in Piazza Assunta: ho palpeggiato la tua spalla sinistra e tu, di colpo, ti sei volto a destra e con  naturalezza, mi hai salutato come niente fosse. Tutto qui? Eh no, c’è  ben altro! Il discorso è andato lungo di ricordi, richiami, progetti – di mostre fatte e da farsi…. Per l’appunto: un concertino di battute e affollate immagini di cose e casi da chiacchierare fino a mezzanotte…. e – at­torno a noi – la gente che va e viene tra il “Piaso” e via Cairoli, a fare incrocio con la strada dei Borghi e la “tua” Strada; rondine di lunghi percorsi che non conta né stagioni, né anni: sempre irrequieto, inaspettato, sempre nuovo.
Ed ecco che – come si voleva dimostrare – chi c’era c’è.
C. Pola

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LE VIE DI PIETRO

Sono convinto che i due si siano incrociati, da qualche parte. Per tipi come loro il mondo non è poi così grande. Magari si sono urtati nella calca di un suk, o si sono scambiati uno sguardo distratto, mentre stavano foto­grafando da sedici an­golazioni diverse uno stupa; oppure hanno viaggiato schiena contro schiena, im­mersi nella lettura e nei progetti di nuovi itine­rari, su un trenino delle Ande, stipato all’inverosimile di umanità varia, pol­lame e ortaggi. Insomma, opportu­nità di in­contrarsi ne hanno avute, in un trentennio di vagabondaggi paralleli su e giù per i cinque continenti. E comunque, se anche si fossero “fisicamente” man­cati, era inevitabile che prima o poi la loro prossimità spirituale si manife­stasse.
L’occasione arriva adesso, attraverso una serie di opere nelle quali Pietro Jan­non fonde la sua esperienza della varietà e dell’unicità del mondo con le sug­ge­stioni derivate dalla lettura di Bruce Chatwin. Il che non signi­fica, e meno che mai in questo caso, rileggere alla luce della pro­pria sensibi­lità le emozioni altrui, ma al contrario pescare dal proprio ba­gaglio sensazioni, stupori, nostalgie e smar­rimenti, e ravvivarli e riordi­narli nel confronto con un itinerario che viene sentito, pur nella sua diver­sità, come fortemente affine. Certo, un bagaglio oc­corre averlo, meglio se ha la forma e le dimensioni di uno zaino, e meglio an­cora se zeppo di giac­che a vento fradice, di calzini sudati e di scarponi pieni di polvere: e in quanto a scar­poni e giacche a vento e calzini e zaini non c’è dub­bio, Pietro ne ha consu­mati più di chiunque altro, Chatwin compreso. I dipinti di Jan­non non costitui­scono dunque un omaggio né un tributo (e questo, per chi ha con lui una certa con­suetudine è scontato), non ha nulla a che vedere con la forma di devozione po­stuma praticata nei confronti del grande viag­gia­tore in­glese da troppi orfani dell’avventura.  Pietro non è orfano né de­voto di nessuno: l’avventura l’ha sempre vissuta in proprio, con le sue formida­bili gambe, sulle sue spalle infaticabili e con la sua (durissima?) te­sta. Nel suo rapportarsi a Chat­win non c’è alcun sospetto di subalterna ri­verenza (subal­terno, Pietro?!): c’è in­vece un’attestazione di simpatia (in­tesa quest’ultima, letteralmente, come affi­nità del sentire), il saluto ad un coe­ta­neo riconosciuto come tale non solo per ra­gioni anagrafiche, ma per l’identità delle scelte, delle esperienze e soprattutto dell’interpretazione di quella metafora della vita che è il viaggio.
Il viaggio, appunto, il perenne movimento, la curiosità e il rispetto per il diverso: sono le stigmate di un’elezione, di un’irrequietudine che nel loro caso ha saputo positivamente disciplinarsi, come molla alla cono­scenza, invece di inaci­dirsi a pretesto per la fuga o per l’arroccamento. È una con­dizione, questa, che può talvolta trovare espressione anche in forme sti­molanti, e i libri di Chatwin e i dipinti di Jannon sono lì a testi­mo­niarlo, ma non può essere trasmessa, e meno che mai acquisita. Perché muo­versi, es­sere irrequieti, provare una curio­sità intelli­gente sono condi­zioni necessa­rie, ma non sono ancora sufficienti per individuare un per­corso originale, naturalmente proprio e al tempo stesso iscritto nella memo­ria più recondita della specie. Ciascuno a suo modo, Chatwin e Jannon hanno rin­tracciato i segni di questo percorso, l’hanno intrapreso e lungo esso si sono incon­trati. En­trambi hanno infatti seguito le loro “vie dei canti”, quei tracciati invisi­bili e pur così evidenti (almeno per chi ha occhi e orecchi per riconoscerli, e cuore e gambe per affrontarli) che cor­rono il globo in lungo e in largo, e se intersecano le rotte turistiche e commer­ciali è solo per lasciarle subito, e lungo i quali si muo­vono da sem­pre i depositari di un nomadi­smo ancestrale, istintivo e non condizio­nato da mode o necessità.
A spasso con Pietro Dipinti (10)Pietro Jannon appartiene a pieno titolo a questa categoria di nomadi, impre­vedibili, schivi, fieramente gelosi della propria indipendenza. Puoi incon­trarlo sul Tobbio, tra le rovine dell’Acropoli o sulla via di Katmandu e non ti dirà mai “sono venuto sin qui”, ma “stavo passando di qui”, e già solleverà lo zaino, di­retto da un’altra parte. Il suo viaggio è sempre in corso: non contempla punti d’arrivo, così come non suppone luoghi da cui fuggire. Non ne ha biso­gno, e non perché si so­stanzi dello spostamento in sé, ma perché in quest’ottica ogni luogo è altrettanto significativo nel rag­giungerlo come nel lasciarlo.
Nel corso dei suoi viaggi Jannon raccoglie immagini (tante!) e ricordi, di cui peral­tro fa partecipi solo pochi eletti, e con parsimonia: ma riporta soprattutto frammenti di segni, flash di colori o di profili, e anche di odori, o di suoni. Li cova nella memoria, li seleziona, lascia dapprima che reagi­scano al contatto con gli agenti esterni o interni più disparati (letture, im­magini, reminiscenze di altri viaggi già fatti o aspettative per quelli in pro­gramma) e poi ne leviga ogni connotazione spaziale e temporale, sino a tra­durli in simboli. Solo a questo punto li riversa infine sulla carta, sul le­gno o sulla tela. Quel che ne sortisce sono emozioni essenziali, rarefatte ma profonde, sedimentate e tuttavia mai fredde; perché i segni ritornano in se­rie di approssimazioni, appena leggermente variate, che producono un ef­fetto di mobilità, un percorso, appunto. Nessuna delle sue opere vuole chiudere in sé, fermare per intero il ricordo; tutte si iscrivono in sequenze, e pur riuscendo autoconclusiva ognuna già allude alle varia­bili e alle pos­sibilità altrove esplorate. Come i suoi piedi, anche la pittura di Jannon non può mai essere in quiete; rifiuta la staticità del reportage, i divani dell’introspezione e gli specchi dell’autocompiacimento, per esprimere in­vece una primordiale meraviglia al cospetto del mondo, e la voglia di rin­novarla costan­temente. Per questo, appena la mostra chiuderà i battenti, o forse anche prima, non perdete tempo a cercare Pietro. Sarà già altrove, lungo le vie dei canti, con uno zaino da duecento litri stipato di magliette, calze e suggestioni.
Paolo Repetto, 1998

A spasso con Pietro Dipinti (11)


ORIZZONTI

A spasso con Pietro Dipinti (12)Gli itinerari hanno sempre oriz­zonti. Brevi o ampi, sono il confine imma­gina­rio che si muove con noi. Le li­nee sono dunque il termine ed il pro­lunga­mento, ad un tempo, delle proie­zioni fantastiche, dei desideri, delle ambizioni. Spesso, tracce ap­pena percepibili tra cielo e terra, tra cielo e mare. Il mondo sensi­bile e il mondo celeste trovano l’effimera e mute­vole unione nel segno trac­ciato.
Jannon nel suo procedere scopre sempre nuovi orizzonti, cancella con­fini e al­tri ne costruisce. Nella sua opera più recente il segno non divide, non lacera, ma unisce due sistemi che, veritiera immaginazione, sono ele­menti dalla co­mune origine. I co­lori hanno il compito di accorparsi. Svani­sce la rappresenta­zione e ri­mane il profondo desiderio di repli­care il segno, di ripetere eterna­mente l’essenza che il ricordo tramanda. Oriz­zonti mobili spingono la mano di Jannon a lavorare per piani, per acco­stamenti. Nella ricerca dell’idea il se­gno va mutando, il desiderio si ap­paga e si ricrea.
Un peregrinare dolce e soffe­rente è la ragione di tutto, del tutto.
Vittorio Baretto

A spasso con Pietro Dipinti (5)

Nazca. Cinquemila anni. Forse più. Un uomo con le sue mani volta pie­tre nel deserto per tracciare linee interminabili e disegni fantastici che mai potrà ve­dere. Perché? Pietro non lo sa, come non lo sa nessuno.“Bisogna solo guardare”, mi dice. Come oggi io guardo senza chie­dermi nulla i suoi tratti e il suo modo “intuitivo” di tracciarli fantasti­cando quello che mi pare.
Angelo Maria Cardona

A spasso con Pietro20

DECLINO, CADUTA E NOSTALGIA DEL REGIME DEI DIVIETI

A spasso con Pietro Dipinti (20)In un’opera di Pietro Jannon, una delle più recenti, appartenente al ci­clo dei “divieti”, è possibile leggere la perfetta metafora della nostra attu­ale con­di­zione. Probabilmente la metafora non è del tutto consapevole, ma proprio que­sto è il bello e il mistero dell’arte: la capacità di dire parole non pronun­ciate e di trasmettere idee non pensate.
La composizione è rettan­go­lare, si estende in orizzontale e si presenta come un assieme unitario, ma a ben guar­dare risulta articolata in tre sezioni. La tec­nica è quella del col­lage su una su­perficie piana di materiali diversi, legno, car­tone e soprat­tutto vec­chi segnali direzionali o divieti di caccia e di raccolta, quelli bian­chi, di latta, con simboli o scritte in nero, che si trovavano una volta in­chiodati ai tronchi degli alberi o appesi a solitari paletti nelle campagne, quasi sempre sghembi e ricamati da rose di pallini. Le frecce, appena visi­bili, occu­pano il riquadro centrale, in un gioco di sovrapposizioni con altri brandelli di la­miera arrugginita e di cartone ruvido. I divieti, o quel che ne rimane, com­paiono invece nelle due sezioni laterali, anch’essi soffocati da strati irrego­lari di altri mate­riali, e consentono stentatamente di risalire all’autorità ema­nante: a sinistra la provincia di Ge­nova, a destra la Regione Piemonte. Nel riquadro di sinistra, in basso, mime­tizzata in un mosaico di vecchi fo­gli stampati o manoscritti, quasi ci sfugge la riproduzione di una rudimen­tale porticina lignea, chiusa, che reca stampigliata in lettere da im­ballaggio la scritta “nomade”. La tonalità domi­nante del trit­tico va dal gri­gio sporco all’ocra. L’insieme è, per chi vuol an­dare al di là dell’impatto visivo, deso­lante e ed inquietante.
È desolante perché questa rottamazione di ogni palinatura, questa disca­ri­ca aperta di regole e di segnali, è l’unico panorama spirituale (ma anche mate­riale) che questi anni ci offrono. È inquietante perché, al di là del casuale riferi­mento geografico, ma certamente con la sua complicità, sentiamo che ci ri­guarda molto da vicino. Nella rugosa terra di nessuno del pannello di centro, da quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la rug­gine, sbiadi­scono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggeri­menti, alle indicazioni, agli obblighi si stempe­rano, nella monocromia grigia­stra e marron­cina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la rug­gine, sbiadi­scono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggeri­menti, alle indicazioni, agli obblighi si stempe­rano, nella monocromia grigia­stra e marron­cina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è valsa più nemmeno la spesa di impal­linarli, sono chimicamente scaduti dal pe­rentorio al patetico. Ma la loro estin­zione non prelude ad una nuova e con­sape­vole li­bertà, non è il segno di una maturità raggiunta. È solo il simbolo di una scon­fitta. Anzi, di una duplice sconfitta.
A spasso con Pietro Dipinti (13)La prima riguarda lo sforzo di edificazione di un sistema normativo uni­ver­sali­stico di diritti e di doveri (in contrapposizione a quello particola­ristico e consue­tudi­nario), e di un corredo etico, di imperativi e finalità ( in sostitu­zione di quello morale e religioso), prodotto nei secoli della moder­nità dalla cultura laica occidentale, e mirante in ultima analisi a uniformare a livello globale i com­porta­menti. Questa potrebbe in apparenza sembrare addirittura una vittoria, dal momento che tale sistema è nato e si è svilup­pato in funzione degli interessi dei gruppi o delle classi dominanti, e la sua sudditanza al po­tere non è in discus­sione: ma in realtà ci troviamo di fronte soltanto alla rimo­zione dell’impalcatura che è servita ad innalzare il pa­lazzo della cultura e del mercato (soprattutto del mercato) globali. L’impalcatura nascondeva l’oscenità architettonica e struttu­rale di quel la­ger immenso che si estende ormai su tutto il pianeta, ma in qual­che modo garantiva anche ai detenuti delle sicurezze, a volte delle vie di fuga. Ga­ran­tiva il riconoscimento della indivi­dualità, se non altro esortando all’assunzione di una responsabilità indivi­du­ale, o sanzionandola.
L’obsolescenza dei divieti testimonia invece la rag­giunta perfezione del si­stema di controllo: non è più necessario vietare, quando si è in grado di persua­dere, e non vale la pena sanzionare i singoli, badare ai miliardesimi, quando i conti si fanno all’ingrosso. La mia spiacevole sensazione è quella di aver combat­tuto con­tro qualcosa che oggi vorrei difen­dere, perché an­che una gabbia, quando il modello è quello della libera volpe in libero pol­laio, può offrire un rifu­gio a chi volpe non vuole essere: e che sia ormai troppo tardi anche per barri­carsi su que­ste posizioni di retroguardia.
L’altra sconfitta concerne le alternative. E questa è più cocente ancora, in­tanto perché ce la siamo costruita con le nostre mani, e poi perché ha az­ze­rato le speranze, ha tagliato le gambe ad ogni idealità. Per quanto sia duro ammetterlo, nessuno dei sistemi di pensiero antagonisti al modello capitali­stico è stato in grado di andare oltre la critica e di offrire alternative economi­che, politiche e so­ciali credibili. Un peccato d’origine le ha viziate tutte, e prime tra le altre quelle più marcatamente umanistiche: una pervi­cace presun­zione di ecceziona­lità e di uniformità della natura umana, dalla quale è di­sceso l’illusorio convinci­mento della origine sociale di ogni squili­brio. Oggi dobbiamo accet­tare, a denti stretti, l’idea che l’uomo è un animale sociale per convenienza, egoi­sta per istinto naturale; che i rischi della democrazia totali­taria non sono mi­nori di quelli del totalitarismo espli­cito; e soprattutto, che quelle istituzioni che bene o male costituivano un avversario visibile, un obiettivo contro il quale dirigere gli sforzi, non rappresentano più nulla, sono soltanto detriti lasciati dal capitale sul suo percorso di autonomizzazione.A spasso con Pietro Dipinti (14)
Questo si può leggere nell’opera di Jannon. Naturalmente è possibile leg­gervi qualunque altra cosa, magari di segno opposto, ed è probabile che lo stesso autore trovi una simile interpretazione fuorviante e forzata; ma è fuor di dubbio che qualcosa quei brandelli di segnaletica corrosi e sbiaditi ci vo­gliono comunicare, che una storia, o la fine di una storia, la vogliano raccon­tare. Io l’ho intesa così, come una storia malinconica. Perché quando viene meno, non­ché la volontà, anche ogni opportunità di tra(n)sgredire; quando non ci sono più luoghi, della terra e dello spirito, nei quali cercare un altrove ed un oltre; quando ogni illusorio nomadismo si spegne sulla soglia di una la­trina maleodo­rante (e segregazionista ): allora non rimane che l’immota so­spensione del limbo. E non è il caso di sgomi­tare: ci siamo già dentro
Paolo Repetto, 2000

A spasso con Pietro21

A spasso con Pietro Dipinti (16)Se dovessimo formulare una definizione di Pietro Jannon, diremmo che è un pittore mediterraneo; e non nel senso che la sua produzione trae alimento, in prevalenza, da un determinato paesaggio: ma nel senso che essa sembra racchiu­dere quasi naturalmente, di tale paesaggio, gli ele­menti più intimi e se­greti: quegli elementi contradditori e drammatici che soltanto una vocazione ed un’affinità riescono ad avvertire al di là dell’apparenza superficiale.  Eppure Jannon è un pittore del Nord, nato precisamente a Venasca, in provincia di Cu­neo (anno 1936), e vissuto tra le domestiche colline del Monferrato ovadese, che furono oggetto dei suoi primi tentativi fin dall’età di quindici anni.  Nato e vissuto, cioè, in un am­biente in cui i termini dello scontro non sussistono più, sussi­stono più, da quando l’uomo – sia pure attraverso anni di fatica – è riu­scito col lavoro a plasmare la materia a sua immagine e somiglianza. Ma forse fu proprio per questo, per questa insufficienza di contrasti, ch’egli si spinse a ricer­care altrove ciò che il suo temperamento di artista richiedeva per meglio esprimersi. E lo trovò lontano dalle pianure e dalle colline dei suoi luoghi di ori­gine, nelle isole: là dove – come lo stesso Jannon ricorda – le cose, so­spese tra terra e mare, tra mare e cielo, sembrano vivere più raccolte in se stesse, incon­taminate da fattori meccanici, e affidate nella loro vicenda, oggi come ieri, alla legge violenta delle stagioni.
Fu nel rapporto con gli scarni paesaggi di Lampedusa, di Stromboli o delle coste siciliane, dove le immagini e i colori appaiono evidenziati da un an­tico silenzio, che Jannon scoperse la parte più autentica di se stesso. Fu in que­sti elementi ridotti all’essenziale, pura forma priva di storia, impa­sto di atmo­sfera e di segni, che finalmente individuò una corrispon­denza al suo modo di es­sere e di sentire. Da allora egli ci viene propo­nendo, come variazioni sul tema, lo stesso discorso ininterrotto; dando­cene, ogni volta, un aspetto nuovo e diverso, più completo e profondo.
Marcello Venturi

A spasso con Pietro Dipinti (17)

RICORDO DI UN AMICO: PIETRO JANNON

A spasso con Pietro22Grande commozione nella sezione del CAI di Ovada per la scomparsa di Pietro Jannon, che ha avuto un ruolo determinante nella gestione della sede e dell’attività sociale negli ultimi vent’anni. Grande appassionato di ambienti naturali, pittore, fotografo, viaggiatore prima che il viaggio diventasse una moda, ti portava a scoprire l’Appennino con l’esperienza di chi ha visto il mondo: dall’Islanda alle Galapagos, dall’Alaska al Tibet.
La gita della domenica precedente, vista attraverso le sue “dia”, era un’altra gita, che faceva percorrere lo stesso itinerario scoprendo particolari che erano sfuggiti. Era totale l’impegno che metteva nel fare ogni cosa: partecipare ad una Marcialonga piuttosto che occuparsi dei lavori di ristrutturazione della sede, accompagnare gli amici nella sua Val di Susa o preparare quei magnifici “funghidipinosottolio”. Nulla era lasciato al caso. Le “Grandi Montagne” per Pietro non erano lontane, sulle Alpi o in qualche angolo del mondo da lui visitato. Erano quelle che poteva salire ogni giorno, appena un po’ di tempo libero glielo concedeva: il Tobbio, la Colma, che puoi vedere dalla finestra di casa e arrivarci sotto in mezz’ora. La sua presenza in sezione o alle gite sociali negli ultimi tempi s’era fatta sempre più rara, rendendo forse meno doloroso quel suo andarsene in punta di piedi.
Ma per chi lo ha conosciuto, il vuoto lasciato da un tipo “speciale” come Pietro rimarrà sempre incolmabile.
Alpennino, 2004

A spasso con Pietro26

A spasso con Pietro28Pietro Jannon era nato nel 1936 a Venasca, in Val Varaita. ed è approdato nell’ovadese nell’immediato dopoguerra, seguendo gli spostamenti della fami­glia. In Ovada ha frequentato le secondarie inferiori e un corso di disegno decorativo presso il maestro Resecco e ha successivamente lavorato come decora­tore per la Cristalvetro e come designer presso la LAI.
La sua attività artistica ha avuto inizio negli anni dell’adolescenza, quella alpi­nistica anche prima. Molto presto ha iniziato a viaggiare, accumulando col tempo un considerevole curriculum di globe-trotter: dalle Isole greche, dello Io­nio e dell’Egeo alla Palestina, dall’Alaska al Perù, con un salto alle Galapa­gos, dall’Islanda al ai parchi degli Stati Uniti, dalla Foresta Nera al Tibet. Il tutto debitamente documentato da migliaia di foto.
Negli anni settanta ha partecipato dapprima a mostre collettive di pittori ovadesi, ed ha tenuto la sua prima personale in Ovada (Dodecaneso – Grecia) nel 1978. Ad essa ne sono seguite altre nel 1985 (Orizzonti), nel 1998 (Le vie di Pietro) e nel 2000 (Divieti). Ha esposto anche a Brescia, sia in una personale che in diverse collettive, a Gardone e all’Arsenale di Iseo.
È stato una colonna del CAI di Ovada per decenni. Ha valicato il suo ul­timo colle nel marzo del 2005.

A spasso con Pietro31

51 vedute del Monte Tobbio

iconografia e storia di una montagna sacra
catalogo essenziale di una mostra per amanti della natura, della montagna e della fatica

in ricordo di Piero Jannon

51 vedute del Monte Tobbio copertina

Introduzione

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

Percorsi

Dati essenziali

Visibilità

Montagne sacre

Escursioni letterarie

Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Gli ambienti

La realtà attuale

Fauna

Flora

Qualche proposta per camminare

Il vento del Tobbio

Il piccolo santuario sul Tobbio  in onore della B.V. di Caravaggio

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Tutti insieme, appassionatamente

La corsa 1971 – 1980

Bibliografia

Ringraziamenti

02 Tobbio Disegno da lontano

Introduzione

C’è qualcosa di nascosto. Va e trovalo.
Va, e cerca dietro le montagne.
C’è qualcosa di smarrito dietro le montagne.
È smarrito, e ti aspetta. Vai.
RUDYARD KIPLING

Questo catalogo è stato realizzato, con diciassette anni di ritardo, da Paolo Repetto e da Fabrizio Rinaldi. La mostra sul Tobbio venne ideata dai Viandanti delle Nebbie nella primavera del 1996, e fu allestita per la prima volta nel dicembre dello stesso anno presso la sala espositiva della Biblioteca di Ovada, in Piazza Cereseto. Era costituita da trentacinque tabelloni (di dimensioni 1 x 0,70) a sfondo nero. Al primo allestimento ne seguirono altri tre, a Lerma, a Novi Ligure e a Campo Ligure.

Nel Catalogo compaiono alcune immagini che non erano presenti nei tabelloni originali, in sostituzione di altre che sono andate perdute. Il riferimento “colto” della titolazione è naturalmente alle 101 vedute del monte Fuji, la splendida serie pittorica di Hokusai. Eravamo perfettamente consapevoli allora della distanza negli esiti, ma siamo ancora oggi convinti della prossimità negli intenti e nello spirito.

Le fotografie sono state scattate tutte dai Viandanti, da quelli ufficiali e da quelli in pectore. Anche i disegni, con l’eccezione di un paio di illustrazioni relative alla fauna, sono opera nostra. Sono state inserite inoltre alcune riproduzioni di dipinti che hanno per soggetto proprio il Tobbio: un piccolo assaggio di un’auspicabile futura mostra sul tema.

Per correttezza segnaliamo che già nei primi anni Novanta era stata organizzata quasi clandestinamente in Alessandria una rassegna pittorica dedicata al Tobbio (non un excursus iconografico sul tema, ma una sorta di estemporanea a tema, interpretata secondo le tecniche più diverse) Sino a qualche tempo fa, e segnatamente all’epoca della nostra iniziativa, non ne eravamo al corrente. Di quella rassegna non esiste un catalogo, ma dopo aver visionato alcuni dei materiali rimasti dobbiamo confessare che non ci sembra una gran perdita.

Infine, una dedica. Mentre la mostra era dedicata ad Andrea Longhetti, unica vittima per quanto ne sappiamo della passione per il Tobbio, questo catalogo è intitolato a Piero Jannon, proprio colui che ritrovò il corpo del giovane Andrea e che della passione per il Tobbio è stato e rimarrà l’interprete più genuino.

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

La domanda suonerà superflua per chi il monte lo ha già salito, una o innumerevoli volte: o anche solo per chi è stato affascinato, nelle occasioni e dalle angolazioni più svariate, dall’inconfondibilità del suo profilo. Ma una spiegazione è dovuta a coloro che non hanno provato né l’una né l’altra emozione. Il Tobbio è diverso, è speciale: e intento della mostra, attraverso l’insistenza sulla sua immagine, è di celebrare una diversità da sempre avvertita, che ha rivestito di un’aura di sacralità e di leggenda una vetta accessibile e modesta.

L’eccezionalità del Tobbio è connessa ad un particolare rapporto tra la sua morfologia e la sua collocazione. La conformazione vagamente piramidale e l’escursione altimetrica tra le pendici e la vetta gli conferiscono un’estesa visibilità, pur in mezzo ad altre formazioni di altitudine pari o addirittura superiore. E questo nitido stagliarsi, sulla direttrice ideale che raccorda il mare alla pianura dell’oltregiogo, lo ha eletto a riferimento geografico, meteorologico e simbolico per eccellenza per le popolazioni di entrambi i versanti dell’appennino.

Incursioni nell immaginario2 Tobbio

AVVERTENZA: Il presente catalogo raccoglie integralmente i contributi e le documentazioni scritte che accompagnano la mostra in oggetto. L’iconografia è ripresa invece solo parzialmente, per le oggettive difficoltà tecniche.

Percorsi

Tobbio Paolo

Lo sviluppo perimetrale della mostra propone, a grandi linee, due diversi itinerari, che possono essere percorsi in parallelo o attuando costanti intersezioni. Il primo ci accompagna in una escursione iconografica a trecentosessanta gradi attorno al Tobbio, colto nei differenti abiti stagionali e meteorologici, e prosegue poi con un ribaltamento del punto di osservazione, trasferito sulla vetta stessa. Il secondo abbozza un excursus storico-scientifico sulle caratteristiche geologiche e naturalistiche del monte, e sul “culto” ad esso tributato. Ciascun pannello offre pertanto una sequenza di immagini corredate di riflessioni generali sul rapporto con la montagna o specifiche su quello col Tobbio, ed una sezione scientifico-documentaria, sviluppata orizzontalmente lungo l’intera mostra.

Noi ci permettiamo un paio di suggerimenti extra. Intanto, quello di percorrere questi itinerari non con il fardello di pignolerie fotografiche, naturalistiche, alpinistiche o che altro, ma in assetto leggero, per ritrovare quella fusione tra reale e fantastico che costituisce la particolare magia di ogni ascensione al Tobbio. Ma, soprattutto, quello di regalarsi un’appendice esterna alla mostra, guadagnando l’altura più vicina e godendosi, se la visibilità lo permette, il soggetto dal vero; o meglio ancora, facendo una puntatina in vetta, per ripercorrere queste immagini dopo aver rotto il fiato, col ritmo giusto per la salita.

Dati essenziali

Coordinate: 8° 48’ 00’’ Long. Est; 44° 35’ 30’’ Lat. Nord
Altitudine: mt. 1092 s.l.m.
Area complessiva: Km2 4.9
Ampiezza massima:   Nord – Sud (Eremiti – Nespolo) Km 3.1
Ovest – Est (Gorzente – P. Daiola) Km 1.8
Escursione altimetrica:        Dagli Eremiti (Nord) m. 533
Dalla Casc. Nespolo m. 587
Toponimo:        molto incerto. È possibile una derivazione dall’antico ligure (tribù dei Mentovini) togisonus (luogo impervio), da cui anticamente Toggio.

Visibilità

Caratteristica precipua del Tobbio è senz’altro la visibilità. Il suo profilo si distingue nettamente, provenendo da nord-est, sin dalle piane o dalle basse colline del pavese. Verso settentrione la sua visibilità non incontra ostacoli lungo tutta la larga fascia pianeggiante che arriva sino al gruppo del Rosa e alle Lepontine, da Ivrea al lago di Como. Da occidente è riconoscibile dai rilievi di tutto l’arco alpino, sino alle Marittime. Meno visibile risulta dal versante appenninico, tra sud-sud-ovest e sud-sud-est, dove il suo dominio trova un limite prossimo nella cresta del Figne, e si frange contro l’altitudine superiore della corona della Val Borbera. In condizioni di eccezionale limpidezza, però, anche chi bordeggi lungo la costa ligure può coglierlo, in uno scorcio ristretto, allineato a nord sulla direttrice del santuario della Guardia.

Appennino - Sergio Fava
Appennino (Sergio Fava)

Montagne sacre

La sacralità di una montagna non è proporzionale alle sue dimensioni, alla sua altitudine o alla sua inaccessibilità, ma piuttosto al significato che essa riveste per le popolazioni che vivono alla sua ombra o nel raggio della sua visibilità, o per gli individui che la salgono.

In questo senso, fatte le debite proporzioni e, soprattutto, assunto il termine con la dovuta “ironia”, la sacralità del Tobbio non ha nulla da invidiare a quella del Kailas o del Meru. E il difetto di esotismo è pienamente compensato dalla paterna confidenza, mista al senso di rispetto, che spira dai suoi costoni, e che ci infonde, ad ogni risalita, una rinnovata serenità.

Escursioni letterarie

Cosa si vede dalla vetta del Tobbio
“Sulla vetta, finalmente, se le nebbie o neri nuvoloni non ti fanno eventuale impedimento, il tuo occhio […] vede lontano lontano, e può contemplare un panorama vario e grandioso, dalla porpora dorata di uno splendido sorger di sole, o di un tranquillo tramonto, alla gradevole vista delle lontane e vaste pianure dell’Alessandrino e Tortonese, nonché delle ridenti colline di Torino, dell’Astigiano, del Monferrato […].

Taccio dei contrafforti dell’Antola, del Penna, della Polcevera; taccio del colle di Masone, della Bocchetta, dei Giovi, che se partitamente non si scorgono, di leggieri però col pensiero si abbracciano nella loro posizione geografica. Taccio del magnifico lago delle Lavezze, che ti fa illusione bella e grandiosa del mare. Taccio del vasto panorama delle Alpi lontane, che ora si levano al cielo in guglie acute come quella del Monviso e monte Bianco, ora si rompono in giogaie […], ora torreggiano come immense piramidi di ghiaccio, ora si disegnano in rupi merlate, in creste capricciose che le nevi intatte adornano di argentea corona. E cento e mille altre cose taccio che non potranno nascondersi ad ogni sguardo scrutatore, degna ricompensa della fatica sopportata per arrivare alla vetta.”
Sac. ERNESTO PITTO

04 Paolo viandante 100

Sì, tutto ci appare sommamente meraviglioso, quando per la prima volta lo abbracciamo con lo sguardo dall’alto del Brocken; da ogni lato il nostro spirito riceve nuove impressioni che, varie fino a contraddirsi, si combinano nella nostra anima in un sentimento grande, ancora confuso, ancora non compreso. Se riusciamo a coglierlo in un concetto, allora abbiamo capito qual è il carattere del monte.
HEINRICH HEINE

05 Tobbio da Campi della marca100

Una faticosa arrampicata simboleggia in primo luogo l’ascesi e la finale liberazione. Di fatto un’arrampicata strappa alle ugge, disperde le ossessioni, infrange il comune regime dalla mente. In cima si arriva emendati e si presterà quindi ascolto ad un succedersi di eventi tutto particolare: giochi di nebbie e schiarite; terse apparizioni del sole, della luna, delle stelle fiammeggianti; corse di sizze e nuvolaglie; paesaggi sottostanti che la prospettiva dall’alto sembra stia per capovolgere e far ruotare e infine, intime al punto che la mente se ne sente aggirata, vertigini che ghermiscono le viscere improvvisamente allo svelarsi di uno strapiombo. Momenti di fraseggio che le parole non saprebbero riferire.
ELEMIRE ZOLLA

Siamo stati ingannati dalle nuvole
Furenti nella fatica della salita
Nessun mare che brilli oltre i crinali
Di sassi che ignorano ormai ogni canto
di pernici e di altri miti lontani.

Ho portato con me le poche cose
Essenziali nella fatica in cui
Volontario mi affretto ad immolare
L’avanzo di questo giorno urbano
Urbanizzato, meglio, da cento vizi
Inutili come, lo so, sarà questa salita.

Di là guarderò i miei mille pezzi
Sparsi nella collina e nelle pianure
Uniti dal filo di un tempo sconosciuto.

Da sempre e per sempre.
EGIDIO GOLA

 Quando gli fu chiesto perché voleva scalare il monte Everest, George Mallory diede un’inconsueta risposta, che è diventata la più famosa e citata motivazione per scalare le montagne: “perché è lì”.
EDWIN BERNBAUM

09 Tobbio Sagoma

Il Tobbio è lì, lo vedo mentre leggo, mentre lavoro, persino quando riposo. Lo cerco tornando dalle vacanze estive; si distingue anche da lontano. Dal paese dove son nato appare, forse per la distanza, maestoso, con un grumo nero in vetta: non da moltissimo ho saputo che è la chiesa – rifugio.
Mi ci sono avvicinato lentamente, a tappe; sono, quasi, le tappe della mia vita. Ora lo conosco, da vicino; e mi piace, è un bel monte: fa parte delle cose buone, come le formidabili sudate per salire e per discendere, sempre all’inseguimento di qualcuno o qualcosa che sta davanti, come gli intensi, stratificati ricordi a lui legati. Ricordi …
Una sera d’autunno, nebbiosa e fredda, superammo l’ultimo costone; tra brandelli di nebbia la chiesa appariva e scompariva; dappresso due o tre ombre di muovevano. Ci avvicinammo; erano tre ragazzi; uno di loro, legato ad uno strano farfallone, un parapendio, prese silenziosamente la rincorsa sul costone e si lanciò nel vuoto …
O quella volta che, dopo una stentata nevicata, eravamo convinti di essere i primi a calpestare la neve, e non un’orma umana o divina appariva intorno alla chiesa. Eppure all’interno, la stufa accesa, un essere angelico sorridente, atletico, ci accolse …
Un monte di ricordi.
FRANCO VALLOSIO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

È un generale impulso che tutti gli uomini provano, benché non tutti lo notino, che sulle alte montagne, là dove l’aria è pura e sottile, si sente maggior facilità nella respirazione, maggiore leggerezza nel corpo, maggior serenità nello spirito; i piaceri vi sono meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni vi assumono non so qual carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, e non so quale tranquilla voluttà che nulla ha di acre e di sensuale. Sembra che elevandosi al disopra delle abitazioni degli uomini, si lascino tutti i sentimenti bassi e terreni, e che man mano ci si avvicina alle regioni eteree l’anima assuma qualche cosa della loro purezza inalterabile.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

Percorrendo la Direttissima, ad un certo punto ci si trova di fronte ad una cresta ripida, superata la quale la pendenza diminuisce, addolcendosi sino alla vetta del Tobbio; sicuramente questo è il tratto più impervio del sentiero. Mentre arranco sbuffando, un unico pensiero mi ronza in testa: vorrei che fosse già visibile il campanile. Continuo a camminare, un passo dietro l’altro: vorrei vederlo ORA, subito.
Questo desiderio di vedere ciò per cui fatichiamo, riguarda in questo caso la montagna e la vetta: ma non è raro che si riferisca ad altri ostacoli, ben più ardui, nei quali troppo spesso ci imbattiamo: alcuni la chiamano sindrome del “Sole nero”. È un male che morde dentro, un malessere dell’anima che non lascia tregua, per il quale non esiste cura se non la volontà di uscirne: ma il rischio di riammalarsi è sempre lì, basta niente per ricascarci. Mi piacerebbe sapere cosa sto affrontando, distinguerlo, guardarlo negli occhi.
Camminare, così come leggere, non offre la soluzione, ma è almeno un modo per non precipitare. Percorrere sentieri più o meno impervi ci aiuta a non farci sopraffare dalla pigrizia, ci induce a fissare delle mete.
Leggendo, poi, ci si rende conto che altri stanno soffrendo le nostre stesse angosce, che altri provano le stesse emozioni. È una consolazione relativa, anche amara, ma ci fa sentire meno soli.
Dall’anticima vedo finalmente stagliarsi il profilo del rifugio; ma è solo un attimo, il tempo di una folata di vento che alza la nube. Quando ci si porta dentro questo male oscuro, a volte la si intravvede appena la meta; poi torna la nebbia.
FABRIZIO RINALDI

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Le montagne dimorano sempre in pace e sempre camminano. Esaminate attentamente questa qualità delle montagne … Se dubitate della qualità camminatrice delle montagne, non conoscerete il vostro stesso camminare … Non sono né senzienti né insenzienti le verdi montagne, voi non siete né senzienti né insenzienti. A questo punto non potete dubitare che le montagne camminino.
DOGEN

08 Tobbio Nebbie

Ho capito che salire il Tobbio stava diventando per me un atto rituale quando ho cominciato ad amare la discesa. Lo confesso, ormai salgo al Tobbio soprattutto in funzione del piacere di tornare a valle. Scendo appagato, con la coscienza di chi ha compiuto il suo dovere e può vivere più serenamente quel che resta del giorno, o della settimana. Mi piace calarmi dalle nuvole, recuperare ai piedi l’asfalto, agli occhi ed alla mente gli orizzonti angusti della quotidianità. Mi piace perché scendo ogni volta dal Tobbio con una rinnovata carica di genuina intolleranza, di quella sana cattiveria che rimane l’unico antidoto per sopravvivere ai miasmi e ai tafani dell’imbecillità stagnante a fondovalle.
PAOLO REPETTO

Per la sua natura primordiale, per la sua elementarità, per la sua lontananza da tutto ciò che è piccolo mondo, dai pensieri e sentimenti dell’uomo moderno addomesticato e razionalizzato, la montagna invita anche spiritualmente ad un ritorno alle origini, ad un raccoglimento, alla realizzazione in sé di qualcosa che rifletta la semplicità, la grandezza, la forza pura e l’intangibilità del mondo delle vette gelate e lucenti. Che quasi ogni antica tradizione abbia conosciuto il simbolismo della montagna, concependo le altezze montane come la sede o di forze divine ed olimpiche, o di eroi e di uomini trasfigurati, questa è la conferma per il potere evocatorio or ora attribuito alla montagna.
JULIUS EVOLA

19 Tobbio sagoma e nebbie

Ecco, sono ai piedi del monte; metto in moto il mio corpo e comincio a salire. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, pensiero dopo pensiero salgo. Aumentando la frequenza dei passi aumenta la frequenza dei respiri e diminuisce la frequenza dei pensieri: non è anche per questo che ascendo il monte? Aumentando ulteriormente il ritmo, corpo e mente si plasmano in funzione della roccia, diventano funzionali ad essa; il pensiero scompare.
Arrivo in vetta; rifiato. Il pensiero, come accade ad un ruscello in un fenomeno carsico, ricompare, sgorgando dai meandri più reconditi della mente dove si era rifugiato, più puro e più forte.
GIUSEPPE SCHEPIS

Non so come dovrei esprimermi perché ho quasi l’impressione che i pensieri s’arricchissero di grandezza, di sublimità, armonizzandosi con quanto l’occhio scorgeva vagando, quasi respirando una sicura gioia tranquilla, lontana da qualsiasi passione, da ogni sensualità.
È come se d’un tratto ci si sollevasse al di sopra delle dimore dei mortali, abbandonando ogni volgare sentimento terreno; è come se l’anima, avvicinandosi alle regioni eteree, assorbisse dalla loro sempre immutabile purezza. Un sentimento austero s’impadronisce di noi, senza mutarsi in malinconia; un sentimento di pace tuttavia alieno da ogni molle rilassatezza ci pervade e siamo felici di esistere, felici di pensare, felici di sentire. La veemenza delle passioni si smorza, perdono quel loro affilato aculeo che le rende dolorose, lasciando nel cuore una tenue e piacevole commozione. In tal modo le passioni, che altrimenti sono fonte di pena per l’uomo, si trasformano in fonte di felicità.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

10 Tobbio tra la nebbia

Ci sono montagne nascoste nelle gemme; ci sono montagne nascoste nelle paludi e montagne nascoste nel cielo; ci sono montagne nascoste nelle montagne. C’è un’infinità di montagne nascoste nel nascosto.
DOGEN

Immaginate una bella giornata d’agosto. Due amici che decidono di salire sul Tobbio. Di questi, uno non c’è mai stato e l’altro è orgoglioso di accompagnarcelo, perché questo è il suo monte. Immaginate nessuno sul monte, non solo, neanche un alito di vento (ce ne vuole per immaginarlo!) I due siedono di faccia al sole di mezzogiorno. Parlano della vita, seduti sulla pietra calda. Sono nudi, la pelle arrostita dal sole, gli occhi socchiusi. E parlano, parlano. Potrebbe durare così mille anni. Il tono sarebbe sempre lo stesso, quello che hanno i sognatori.
Ora stanno lì, immobili, come fossero di pietra. Due uomini di pietra. Una leggenda boliviana narra che Dio, la montagna, creò i primi uomini così. Poi, perché non si sgretolassero come sabbia al vento, diede loro anche un cuore, un tenero cuore di pietra. Per alcuni istanti i due amici lo sentono palpitare nei crepacci segreti del monte, e vorrebbero tornare al tempo in cui dentro ogni uomo c’era una montagna. Scendono, i due amici, e i loro passi rimbombano giù nella valle, come ad annunciare un messaggio. Ma all’improvviso si fermano e si guardano in faccia, dubbiosi: chi potrà mai credere alla loro storia? Da troppo tempo gli umani non hanno più teneri cuori di pietra.
GIAN LUIGI REPETTO

Riflessioni sul monte Tobbio 01

E dovete camminare come il cammello, l’unico animale, così si dice, che rumina mentre cammina. Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: “Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta”. 
HENRY DAVID THOREAU

Nelle circostanze difficili della vita, vi parrà di essere ad una difficile salita. Un istante di viltà, di imprevidenza perde tutto. Il coraggio, la previdenza, la costanza, la lealtà può farvi vincere ogni cosa. Vi accorgerete allora del grande valor morale educativo dell’alpinismo.
Non vi accade mai che un pensiero non nobile venisse ad oscurarvi l’animo sopra una vetta alpina. Non vi hanno ivi che generose aspirazioni verso il buono, la virtù, la grandezza. Io non so se un quadro di grande artista, lo scritto di un sapiente, il discorso di un eloquente oratore possa produrre nell’animo umano impressioni così profonde e così elevate quanto lo spettacolo della natura sulle vette.
QUINTINO SELLA

11 Tobbio alba neve

Per il fatto che montagne si stagliano contro il cielo e l’ambiente circostante, richiamando l’attenzione sulle loro eccelse sommità, le visioni tendono a radunarsi e a modificarsi intorno a loro come le nubi intorno alle vette. Essendo l’aspetto più imponente del paesaggio naturale, quello che ci è possibile vedere e cogliere come un tutto unico, si prestano a giustapposizioni con immagini di unità e di completezza che in numerose tradizioni sono associate al concetto del sacro.
EDWIN BERNBAUM

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,

che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]

WILLIAM WORDSWORTH

Il seguire un percorso dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incontreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Luna piena. Aria fredda che brucia la pelle, e anche sotto.
Per poter salire senza accendere le torce ci spostiamo sul versante opposto agli Eremiti. Lo spettacolo rimarrà nella nostra memoria per un bel po’. La luce lunare fa risaltare particolari che altrimenti non percepiremmo. Ogni albero, ogni pietra, ogni canalone della montagna hanno una forma distinguibile e delineabile. Tutto viene percepito dai nostri occhi come una singolarità, non come un “complesso”.
A Giuseppe tornano in mente versi del “Canto notturno”. Un posticino nello zaino della nostra immaginazione Leopardi lo occupa sempre.
“Sorgi, la sera, e vai,
contemplando i deserti […]”
Paolo ci invita a fermarci, e al silenzio; stiamo camminando, anzi fluttuando in un sogno latteo. Il paesaggio che ci circonda avrebbe mandato in delirio qualsiasi poeta o pittore romantico.
Mi ritrovo a recitare silenziosamente la preghiera che i fedeli pronunciano mentre salgono al monte Fuji: “Sii pura … Conserva il tuo splendore, o montagna!”. E mentre proseguo mi abbandono al sogno, e lo popolo degli esseri fantastici che abitano la montagna: un unicorno mi passa accanto, talmente veloce che quasi mi fa cadere. Dalla cresta di una roccia un lupo bianco mi fissa con i suoi occhi luccicanti, poi ulula alla luna. Un brivido mi percorre la schiena.
Mi risvegliano le parole di Paolo: dalla vetta indica le luci a valle. Anche la realtà della pianura può essere bellissima, vista da quassù.
FABRIZIO RINALDI

14 Tobbio e Figne

Mi pongo questo problema. Il Tobbio, e la montagna in genere, la letteratura, e la cultura in genere, sono dunque solo dei compensativi, falsi scopi rispetto ad un’esistenza che si rivela man mano più vuota ed arida? Me lo pongo proprio mentre sto salendo al Tobbio, con calma, e discuto di letteratura con Franco. La risposta che mi do è che probabilmente le cose stanno così.
Pur tuttavia, dice Franco … (Franco non dice mai “pur tuttavia”, ma è come lo dicesse sempre). Dopo un altro paio di tornanti conveniamo che un senso tutto questo ce l’ha comunque, perché consente di trascorrere il tempo, riempiendolo bene o male, anziché lasciarlo passare, subendolo (patior). Trans-currere, correre attraverso, usato come transitivo, implica che mentre scalo, cammino, leggo, sono io ad agire, magari per interposta persona, o per spazi evocati: è un ex-sistere, sottrarsi all’immobilità omologante dell’essere, e non un ad-sistere, e meno ancora un recitare nello spettacolo. Non sono dunque tutti assimilabili i comportamenti dell’uomo: perché alcuni, quelli “attivi”, producono una consapevolezza (o ne sono frutto, il che è lo stesso) che si traduce in buona disposizione sociale, comprensione, ecc.: gli altri producono solo antagonismo e asocialità.
PAOLO REPETTO

Paolo e il Tobbio

È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai giorni nostri, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che tornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno.
HENRY DAVID THOREAU

19 Tobbio sagoma e nebbie

Scorrendo vecchie fotografie mi accorgo di una costante che ritorna, in primo piano, sullo sfondo, come un piccolo particolare: è il monte, il monte Tobbio a farla da padrone in quelle immagini incorniciate.
Molti volti lì impressionati sono ormai scoloriti nei miei ricordi, molte persone sono approdate su altri versanti, hanno raggiunto nuove vette. Chissà se sono tutte migliori di questa. Ma il Tobbio è sempre lì, sempre quello: immobile sacra collina dove ad ogni angolo credi (e speri) di incontrare un vecchio sciamano o un sacro portale aperto sul vuoto. Ed è salendo in questo vuoto che ritrovi te stesso e ritrovi anche gli altri, quelli “scoloriti”.
Forse perché – ma è solo un’idea – il Tobbio, come il cuore, conserva le orme di chi è passato anche una volta sola sui suoi sentieri. E a noi spetta (solo) il compito di ritrovarle e di saperle leggere, le orme. Troppo facile – ed inutile – sarebbe a questo scopo incamminarsi in pianura …
ANTONIO CAMMAROTA

16 Tobbio tra gli alberi

[…] Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave,
e quanto uom più va su, e men fa male.
Però quand’ella ti parrà soave
tanto, che il su andar ti fia leggiero,
come a seconda giuso andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero:
quivi di riposar l’affanno aspetta […]
DANTE (Purgatorio, 4)

Segnali di fumo 06 Tobbio nella nebbia

Resta un filo di fiato ferito
dove il passo è pensiero
tra il profilo del cuore
e lo sguardo che s’ impietra
e salendo per l’erta
che altera il sangue ineguale
lasci le parole, finalmente,
e il di più, e il chi e il quale,
come se fosse niente.
MARCELLO FURIANI

Comincio a camminare cercando di non impantanarmi nelle pozzanghere. Gli amici scelgono di salire per la Diretta. Come un mulo rassegnato li seguo, ma in un attimo le gambe diventano rigide, le ginocchia sembrano esplodere. Il fiato prima mi manca, poi si trasforma bruciandomi i polmoni.
No, io mollo, chi me lo fa fare? Torno giù, al bar, a bere, con gli altri, i sedentari, magari a sparlare di chi ama le assurde faticate.
Ma questi salgono senza lamenti, anzi, si scambiano battute. È una sfida, con loro, con il mondo, con me stesso.
Immagino d’essere qui, cinquant’anni fa, braccato dagli uomini in nero.
Lentamente il fiato si spezza, le gambe si fanno elastiche. Comincio persino a guardare oltre a dove poso i piedi. L’Inferno ha lasciato il posto al Purgatorio. Cammino riflettendo, faccio mille propositi. Dovrei cambiare vita, smetterla di sputtanarmi. Cerco nella nebbia della mia mente altre possibilità, immagino diverse situazioni. Gli occhi s’allargano negli orizzonti che mi trovo davanti, convincendomi che posso scalare anche altre cime.
In vista della Chiesetta, l’aria pare disegnarmi un paio d’ali. Le gambe scappano dai calzoni, ho voglia di correre.
Mi guardo attorno, respiro da ogni poro della pelle, mentre il cielo mi entra negli occhi … eccomi in Paradiso.
MAURO OLIVIERI

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

… E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fungendo al viver mio!
GIACOMO LEOPARDI

Insomma, se non riuscite a capire che vi è qualcosa nell’uomo che raccoglie la sfida lanciata da quella montagna e va ad affrontarla, che la lotta è la lotta della vita stessa verso l’alto, sempre più in alto, allora non capirete mai perché ci andiamo. Quello che otteniamo da un’avventura come questa è soltanto gioia pura. E la gioia, in fin dei conti, è il fine della vita. Non viviamo per mangiare e per far soldi. Mangiamo e facciamo soldi per godere della vita. Ed è questo il significato della vita ed è per questo che è fatta la vita.
GEORGE MALLORY

Il Tobbio è misura degli spazi dell’immaginario, diaframma tra i mondi nei quali sono cresciuto. Da ragazzino vivevo a Genova e il Tobbio era il luogo oltre il quale c’erano la campagna, i giochi sulla ghiaia con i cugini, le pentole fumanti della nonna. A sedici anni mi sono trasferito in cascina, ed era il Tobbio a nascondere la città con le sue luci, i “caruggi” strettissimi, l’università, le ragazze. Era allora la materializza­zione di uno spazio mentale capace di dividere le due realtà che, per diversi motivi, fuggivo ed anelavo confusamente, con un’incertezza determinata forse da quelle nuvole che così spesso annebbiano, con la cima del monte, anche i miei pensieri.
GIACOMO GOLA

Ho sempre pensato che una montagna non possa che essere splendidamente indifferente: ho sempre guardato alle credenze locali come a superstizioni da rispettare, e ho sempre cercato di fuggire alla tentazione di attribuire facoltà umane ad una montagna. Ma questa volta comincio a rendermi conto che nel rapporto fisico con una montagna molto dipendeva dalla disponibilità mentale.
PETER BOARDMAN

Salire la Montagna da soli procura sicuramente emozioni differenti dal farlo in compagnia. Anzitutto bisogna vincere la paura di non farcela che coglie coloro che, come me, non sono particolarmente allenati. Il Tobbio è una montagna imprevedibile, come ogni monte che si rispetti a volte ci spiazza con i suoi cambiamenti repentini. I sentieri che lo salgono sono impervi, impervi come quelli della vita. E l’amor proprio, l’orgoglio, quei fattori “propulsivi” che quando si sale con altri ci fanno tener duro, per non essere i primi a cedere, non servono a nulla. La decisione di mollare o proseguire spetta unicamente alla nostra volontà e testardaggine. La forza per vincere queste paure, gli stimoli per andare avanti quando le gambe tremano, si possono trovare solamente dentro, attingendo magari alla fantasia, immaginando avventure più o meno verosimili. Si può fingere di scalare montagne ardue e immense: oppure sfidare la tramontana come fosse un vento gelido del Polo Nord. O ancora, quando il sole cocente secca le labbra, possiamo trasferirci nel deserto cinese di Takla Makan.
Fantasie, che ci spingono avanti … avanti fino alla cima. Fino a guadagnare il “tetto del mondo”. (Insomma…!)
FABRIZIO RINALDI

Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, locché non vuol dire imprudenti ed imprevidenti. Ha gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pure esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele.
QUINTINO SELLA

22 Tobbio Chiesa cielo azzurro e nubi

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,
che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]
WILLIAM WORDSWORTH

 Fluttuando al di sopra nelle nubi, materializzandosi fuori dalla nebbia, le montagne sembrano appartenere a un mondo totalmente differente da quello che conosciamo, facendoci percepire il sacro come l’assolutamente diverso.
EDWIN BERNBAUM

07 Tobbio Chiesetta

Le cose più degne di ammirazione sono quelle che non si possono esprimere, i ricordi indimenticabili non fanno esprimere epitaffi …”, così scriveva Herman Melville nel 1850, ripensando ai viaggi negli oceani effettuati per “scacciare la tristezza e regolare la circolazione”!
Quante volte, nella mente non estranea alla “dimensione sognante”, l’ansia di trasmettere emozioni vissute sulla propria pelle si risolve in un inutile affanno! Il pensiero sembra restare sospeso, come in un lampo magico che trascende parole scritte o dette. È questo il segnale più vivo, che dà la misura dei momenti magici. Come quelli che porti dentro da quando, come un vecchio mohicano incallito, lasci dietro le spalle percorsi frenetici e folli, costretti fra troppi “artifici” inutili e finti, per inseguire il richiamo antico e saggio che conduce alla “tua” Vetta. L’allusione iniziale apparirà, così, un po’ meno paradossale: in fondo, sono parole di chi ha saputo trovare il proprio “rifugio” personale – non importa poi tanto se fra gli orizzonti dei mari o fra i sassi di valichi e pendii. O, forse, volersi riprendere il giusto ritmo del tempo e dello spazio appartiene ormai soltanto al sogno? (il sogno è a due passi … ed esiste un linguaggio – proprio dei sogni che va al di là delle parole).
ENZO CAPELLO

La Montagna insegna il silenzio, la castità della parola e dell’espressione. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica ed interiorizza. Il segno, l’allusione sono qui più eloquenti di un lungo discorso.
JULIUS EVOLA

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Il Tobbio (Fabrizio Bruzzone)

Trovammo in una valletta del monte un vecchio pastore, che cercò di dissuaderci dal salire, narrandoci che cinquant’anni fa, preso dal medesimo nostro ardore giovanile, egli era salito sulla cima, e non ne aveva riportato che delusione e fatica … Mentre egli così si scalmanava, in noi – com’è nei giovani, restii ad ogni consiglio – cresceva per quel divieto il desiderio.
FRANCESCO PETRARCA

Salendo il Tobbio si ha una diversa percezione delle durate. Il tempo dell’ascesa e del ritorno non lo si quantifica nelle consuete ore d’auto, ma in inusuali ore di cammino. Così come leggere, camminare aiuta a prendere coscienza di una diversa scansione ed estensione temporale.
In un mondo nel quale è possibile sapere se in Cina, in questo preciso istante, fa caldo o freddo, il Tobbio esce dal computo. Lì il tempo si misura in passi, in soste per guardarsi attorno. Bisogna avere l’umiltà di rallentare la corsa. Chi sale sul Monte sa che trascorrerà del tempo prima che egli torni in valle, e questo tempo lo trascorrerà camminando, trascinato avanti solamente dalla sua volontà.
FABRIZIO RINALDI

Tobbio nelle nebbie da Grillano 01_11 _2012 01 3

Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo.
E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Secondo un mio vecchio chiodo l’alpinismo è cultura, è attività perfetta dell’uomo, dove l’uomo è uguale a Dio, perché è l’unica dove conoscere e fare sono una cosa sola.
MASSIMO MILA

Le montagne, l’aspetto eccelso e il più spettacolare del paesaggio naturale, possiedono lo straordinario potere di evocare il sacro. L’etereo sorgere di una cresta nella foschia, lo scintillio del chiarore lunare su una parete di ghiaccio, un bagliore dorato su una vetta lontana: questi istanti di trascendente bellezza possono rivelarci che il mondo in cui viviamo è un luogo di misteri e splendori inimmaginabili. Nella furiosa schermaglia degli elementi naturali che turbinano intorno alle loro vette – tuoni, folgori, venti e nubi – le montagne sono anche la personificazione di possenti forze ben al di fuori del nostro controllo, sono le espressioni fisiche di una realtà che ci può sopraffare con sentimenti di meraviglia e timore.
EDWIN BERNBAUM

Tobbio con nuvole

Se appartenessimo a culture diverse, lontane nello spazio e nel tempo, non avremmo osato violarne la cima: l’avremmo considerata sacra, abitata da divinità inaccessibili. Purtroppo (o per fortuna) il nostro atteggiamento dissacratorio nei confronti della natura, erede del cristianesimo e di Voltaire, fa sì che non esista più alcuna vetta vergine, alcun fazzoletto di terra sacro e inviolabile.
Proprio per questo, spenta ormai ogni sete di conquista e di record, possiamo riscoprire nell’ascesa al Tobbio, ai tanti Tobbio che esistono sulla terra, una dimensione diversa, più vera; possiamo cercare quella catarsi che il nostro tempo ci nega, e insieme ci impone.
Sono soprattutto i percorsi inventati sul momento, lungo le rughe del Tobbio, a farci scoprire dimensioni sempre nuove. Tra le asperità, le polle d’acqua sgorgano dal sottosuolo come da un impossibile fenomeno carsico, diventando talvolta tramite di involontari riti di purificazione. Poi, giunti alla vetta, è il vento ad accoglierci e a penetrarci: quel vento che, se ci volgiamo a sud, porta l’odore di salso che arriva dal mare.
FABIO MARCHELLI

I monti stanno immobili: ma noi, dove ci fermeremo?
FRIEDRICH HÖLDERLIN

Sali sulla montagna e cogline i doni. La pace della natura fluirà in te come il sole si infiltra tra gli alberi. Il vento ti infonderà tutta la sua freschezza, e la tempesta la sua energia, mentre gli assilli si staccheranno da te come foglie d’autunno.
JOHN MUYR

Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dei fin dall’inizio.
CESARE PAVESE

Il Tobbio è un illusionista. Il suo fascino consiste nel far credere ciò che non è. La sua massa rocciosa, un po’ discosta dai “fratelli” dell’Appennino Ligure, illude sulla sua altezza. I suoi dirupi sono un miraggio di Alpi, la Chiesetta alla sua sommità poi da il tocco finale … In questi giochi d’immagini, non si finisce mai di conoscerlo.
DIEGO CARTASSEGNA

Il Tobbio - Francesco Pendibene
Il Tobbio (Francesco Pendibene)

 Il potere di una simile montagna è così grande eppure così sottile che gli uomini se ne sentono istintivamente attratti, da vicino e da lontano, come dalla forza di un’invisibile calamita; e saranno disposti a sopportare difficoltà e privazioni nel loro inesplicabile anelito di avvicinare il centro di quel sacro potere. Nessuno ha conferito tale sacralità a quella montagna, eppure tutti gliela riconoscono; nessuno deve difenderne la rivendicazione in quanto non c’è nessuno che ne dubiti; nessuno deve organizzarne il culto, perché chiunque si sente sopraffatto dalla mera presenza di una simile montagna e non è in grado di esprimere i propri sentimenti altro che con la venerazione.
GOVINDA

A chi ama cercare funghi, andare per more o semplicemente passeggiare per i nostri boschi, è sicuramente già capitato di smarrirsi, di perdere l’orientamento, anche per un solo istante.
In tale occasione ha alzato gli occhi dai suoi passi e ha cercato all’orizzonte l’inconfondibile profilo del Tobbio. È un gesto istintivo, non cerchiamo il Figne, il Tugello, la Colma, ma il Tobbio, proprio perché costituisce da sempre “il” punto di riferimento, perché sovrasta gli altri per imponenza e riconoscibilità. È lo Uluru dell’ovadese (Uluru è la definizione aborigena dell’Ayers Rock, in Australia, immenso monolite che i nativi considerano il tramite tra il mondo dei sogni e quello degli uomini).
Fin da bambini, quando col padre o col nonno ci si avventurava nei boschi, e invece di cercare funghi e raccogliere castagne, ci si perdeva nella scoperta dell’orizzonte, abbiamo fatto conoscenza con la Montagna, prima ancora che qualcuno ce ne dicesse il nome.
FABRIZIO RINALDI

Il Tobbio - Anselmo Carrea
Il Tobbio (Anselmo Carrea)


Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Vediamo di capire quali sono gli eventi geologici che nel corso di milioni e milioni di anni hanno interessato la zona su cui sorge oggi il Monte Tobbio.
La zona del Parco delle Capanne di Marcarolo, benché geograficamente sia inserita per intero nell’Appennino Ligure, geologicamente si trova nella zona di contatto tra le Alpi e l’Appennino. Proprio in quest’area, infatti, passa la linea Sestri-Voltaggio, che separa complessi rocciosi di tipo alpino, di cui il Tobbio fa parte, da rocce appartenenti alla zona appenninica. Il Monte Tobbio appartiene alla formazione alpina del Gruppo di Voltri, e più precisamente al gruppo Erro-Tobbio, che di questa formazione fa parte.
All’inizio del Triassico (225 milioni di anni fa), nella zona più o meno corrispondente alle attuali Liguria e Piemonte si estendeva un mare relativamente poco profondo, che si stava lentamente ampliando e approfondendo; favorite dalla profondità modesta delle acque e dal clima caldo di quel periodo si svilupparono scogliere analoghe a quelle delle attuali barriere coralline. Il graduale e progressivo sprofondamento dei bacini marini era dovuto alla separazione dell’antica crosta continentale in due blocchi divergenti che si muovevano in direzione opposta.
La separazione e l’allontanamento dei due blocchi, causati dai movimenti del Mantello (lo strato più denso, sul quale “galleggiano” le rocce più leggere della Crosta Continentale), era accompagnata dalla risalita di rocce profonde e di magmi dovuti a processi di fusione del mantello stesso. Le rocce che risalivano come frammenti solidi del mantello sono di natura prevalentemente lherzolitica, di cui troviamo esempi sul nostro Monte Tobbio.
Queste masse rocciose erano giunte a formare il pavimento di quello che era ormai un vero e proprio oceano, la cui larghezza massima al passaggio Giurassico-Cretaceo (150-120 milioni di anni fa) è stimata di circa 250-500 km. Possiamo immaginare una situazione simile a quella che si sta verificando nelle zone del Mar Rosso, che prelude all’apertura di un bacino oceanico.
All’inizio del Cretaceo superiore (160 milioni di anni) i blocchi continentali che si erano precedentemente separati invertirono la direzione del loro spostamento ed iniziarono un movimento che li avrebbe portati a collidere. Sotto l’azione compressiva dei blocchi continentali la crosta oceanica subì uno sprofondamento che la fece scorrere sotto la crosta continentale (subduzione). Durante lo sprofondamento le rocce subirono un lento progressivo riscaldamento (fino oltre 450° C), accompagnato da un rapido aumento della pressione (circa 10 Kbar, pari ad una profondità di 30 Km); le rocce vennero inoltre deformate dalle energiche spinte conseguenti al movimento dei blocchi. Con il procedere delle fasi orogenetiche anche le rocce subdotte a grandi profondità vennero coinvolte nelle fasi di ripiegamento e sollevamento che portarono alla formazione delle catene alpine, di cui il Gruppo di Voltri fa parte.
L’unità Erro-Tobbio risulta quindi costituita quasi esclusivamente da peridotiti tettoniche. Le rocce peridotitiche di questa unità sono non di rado profondamente serpentinizzate ed interessate da eventi deformativi. Sul Monte Tobbio e nei suoi dintorni possiamo trovare esempi di queste rocce sotto forma di lherzoliti.
A partire dall’Eocene superiore (circa 40 milioni di anni) le rocce coinvolte nelle complesse vicende tettoniche e metamorfiche sopra descritte affiorarono a costituire terre emerse.
Con l’Oligocene inferiore (circa 35 milioni di anni) il mare iniziò ad avanzare sulle terre emerse per formare un bacino che corrispondeva in gran parte all’attuale versante padano, mentre verso l’attuale versante tirrenico predominavano le terre emerse.
Quindi, immaginando ipoteticamente di trovarci sulla cima del Tobbio circa 30 milioni di anni fa, con lo sguardo rivolto verso Nord, dove oggi vediamo la pianura avremmo ammirato il mare.
Gli eventi tettonici sopra descritti hanno generato le rocce che oggi costituiscono il Tobbio. Queste rocce, avendo subito intensi processi deformativi, risultano intensamente fratturate, e tale frantumazione la possiamo sperimentare quando, accingendoci a brevi arrampicate sulle sue asperità, ci troviamo spesso di fronte al venir meno di appigli che poco prima avevamo creduto sicuri.
Fabio Marchelli

Tobbio aaa

Gli ambienti

Le nostre montagne e le nostre valli dovevano apparire, al viaggiatore che le avesse attraversate secoli orsono, magari in epoca pre-romana, certamente molto diverse da come noi, oggi, le vediamo. Cerchiamo di immaginare una vastissima foresta che ricopra gran parte dell’Europa, un bosco immenso che colleghi il Mare del Nord con le tiepide acque del Mediterraneo, non conoscendo altri ostacoli al di fuori di quelle zone – al di sopra di una certa altitudine – in cui le condizioni ambientali fossero troppo difficili per permettere la vita degli alberi. Niente città, solo minuscoli villaggi di poche case, campi coltivati più simili a piccoli orti che alle estese coltivazioni cui oggi siamo abituati. Un viandante che fosse passato nei pressi del Monte Tobbio, avrebbe dovuto attraversare l’esteso bosco di rovere che ne ricopriva le pendici, sfumando a faggio solo nelle zone più alte e ad esposizione più fresca del monte, e ad altre essenze – orniello, ciliegio, olmo, farnia – man mano che ci si avvicinava alla pianura: forse avrebbe ricevuto ospitalità presso qualche cascina, probabilmente avrebbe incontrato il lupo, l’orso, la lontra, la lince o il cervo. Tale situazione non si è protratta a lungo. In ragione dell’aumento della popolazione umana, è stato giocoforza nel corso dei secoli cercare nuovi spazi da colonizzare, ove aprire radure, coltivare, costruire villaggi, permettere il pascolo agli animali domestici. Il bosco assunse al contempo un’importanza fondamentale: da esso l’uomo ricavava nutrimento, legname per costruire le case, per riscaldarsi, strame per il bestiame. L’introduzione del castagno, avvenuta presumibilmente in età romana, rappresentò un momento cruciale, divenendo ben presto tale pianta il fulcro stesso dell’economia rurale. Più tardi le esigenze di Genova, potenza navale che veniva proprio in queste zone a rifornirsi di legname per costruire la propria flotta, e delle nascenti attività protoindustriali – ferriere e vetrerie – dei fondovalle, contribuirono non poco all’impoverimento definitivo della risorsa “bosco” locale.
All’inizio del XX secolo questi luoghi appaiono profondamente diversi da come li avevamo conosciuti all’inizio del nostro viaggio. Ampi pascoli e zone brulle si sono sostituiti alla foresta ed il bosco, ove è riuscito a sopravvivere, è ridotto ad un insieme deperiente di alberi ceduati per fornire legna da ardere, spesso tagliati ad intervalli troppo brevi. La minaccia del dissesto idrogeologico, più che mai concreta, suggerisce di tentare di ricostruire la copertura boschiva perduta: ecco iniziare le opere di rimboschimento, che, a partire dai primi anni del secolo, ricoprono intere pendici dei monti con specie del tutto estranee alla nostra realtà, quali il pino nero ed il pino marittimo.
Il resto è storia dei nostri giorni: tutti abbiamo sentito parlare di spopolamento dei monti, di abbandono delle attività agricole; del dissesto idrogeologico del nostro territorio abbiamo invece menzione solo in occasione di qualche alluvione…

Tobbio da Moglioni - Fabri

La realtà attuale

Come già sottolineato, gli ambienti che il monte sa offrire al suo visitatore appaiono profondamente segnati dall’impronta dell’uomo. La cessazione – ormai da qualche decina di anni – di ogni attività antropica permette peraltro la continua evoluzione degli ecosistemi che, spontaneamente, tendono a rinaturalizzarsi, a divenire cioè ecologicamente stabili, con un processo che dura diverse decine di anni.
Il principale fautore di tali trasformazioni è il cosiddetto “bosco pioniero”, formato cioè da alcune specie di alberi ed arbusti che, per primi, in virtù delle proprie ristrette esigenze ecologiche, riescono ad occupare un terreno. Ricordiamo, tra tali specie, il sorbo montano (Sorbus aria), per queste zone di estrema importanza e diffusione e la frangola (Frangula alnus).
Tale bosco costituisce il presupposto per l’insediamento di un’altra formazione, detta “climax”, che risulta la più stabile ed equilibrata in rapporto alle potenzialità del sito. Essa è, di fatto, un ecosistema in grado di perpetuarsi e continuamente rigenerarsi all’infinito, caratterizzato, in genere, da un’elevata biodiversità, da un gran numero cioè di specie animali e vegetali, tra le quali assume predominanza, per queste zone, la già citata rovere (Quercus petraea). Relativamente al Monte Tobbio, tale essenza ne ricopre le pendici occidentali, ove è presente in boschi un tempo ceduati ed ora non più tagliati, ove, di fatto, è in via di conversione naturale alla fustaia.
Inoltriamoci ora nella pineta che ricopre la porzione orientale del versante nord del monte. Come ricorderemo, l’origine di tale bosco è artificiale, essendo il frutto di rimboschimenti effettuati in prevalenza con essenze – pino marittimo (Pinus pinaster) e pino nero (Pinus nigra) – da noi estranee. Non mancheremo di notare come tale formazione forestale, apparentemente in buone condizioni, in realtà non riesca a riprodursi, a dar vita ed avvenire cioè ad un numero sufficiente di nuove piantine che possano rimpiazzare quelle mature, man mano che queste moriranno. Comprenderemo facilmente che tale bosco non può avere avvenire e che il suo destino è, da qui a qualche decina di anni, segnato; ammiriamo però l’avanzata del bosco pioniero, che, in talune zone, tende ad occupare gli spazi disponibili.
Così come per la pineta, anche l’origine delle zone aperte che ammantano le pendici più alte del monte, è da far risalire alla mano dell’uomo. Nel passato, la necessità di terreni ove far pascolare il bestiame e di legname ha portato infatti alla creazione di radure e pascoli sempre più ampi. Ora non più pascolati, tali terreni tendono ad essere invasi da essenze pioniere, costituite in una prima fase da rose e rovi, poi da arbusti più consistenti, sorbo, frangola, spinocervino. Se lasciata a se stessa, tale evoluzione porterà, anche se in tempi piuttosto lunghi, alla ricostituzione del bosco climax, cioè della fustaia di rovere.
Di grandissima importanza fu, in passato, la presenza del castagno (Castanea sativa), il quale rappresentò per il sapere contadino una fonte inesauribile di risorse: castagne, legname, fogliame, tutto era utilizzato dai nostri avi. Tale essenza era governata prevalentemente a fustaia, costituita da alberi innestati con varietà di gran pregio alimentare, che raggiungevano negli anni dimensioni monumentali. Alcune epidemie funginee cui possiamo attribuire vere e proprie stragi, ridussero nel corso del nostro secolo in modo drastico le estensioni a castagno da frutto e consigliarono la conversione degli alberi al ceduo, più resistente alle malattie. Questa storia può essere facilmente letta nella zona circostante le cascine Nespolo e Tobbio, ove ai resti di antichi castagni da frutto, ora simili a familiari fantasmi, si affiancano estese zone a ceduo, di futuro davvero incerto.

Tobbio Fauna 1

Fauna

27 Biancone

Tra gli animali che vivono in montagna, i grossi mammiferi come il capriolo, la volpe ed il cinghiale, per sfuggire alla persecuzione che da secoli l’uomo esercita nei loro confronti, si sono adattati ad una vita seminotturna. Per questo motivo, quando si fanno delle camminate, si potranno trovare impronte lasciate sul terreno, giacigli di riposo e resti di pasti, ma difficilmente si avrà la fortuna di incontrare una di queste specie selvatiche. Gli uccelli, invece, possono essere osservati con più facilità, e spesso, grazie al canto, possono essere individuati anche dai meno esperti. Si è pensato allora di presentare quelle specie che, con un po’ di attenzione, si possono con buone probabilità incontrare durante un’ascesa al Tobbio.
Il prispolone (Anthus trivialis) è un piccolo uccelletto dalle dimensioni di un passero, che trova l’ambiente di elezione nelle zone aperte con alberi radi. Ha un piumaggio marrone chiaro sul dorso e biancastro punteggiato nelle parti inferiori. Il nido viene costruito sul terreno intrecciando sottili erbe. Passa l’inverno al di là del Mediterraneo e torna in Europa per nidificare a primavera inoltrata. Il suo arrivo è segnalato dalle manifestazioni amorose che compie sin dai primi giorni. Canta prima dalla cima di un albero per qualche secondo, poi si alza in volo di alcuni metri, sempre cantando, ed infine si lascia cadere verso il terreno con le ali e la coda spiegate a mò di paracadute, emettendo dei ripetuti fischi acuti “… fiu … fiu … fiu …”.
La cincia dal ciuffo (Parus cristatus) è un grazioso uccello di piccole dimensioni che deve il suo nome alle caratteristiche penne rialzate del capo. Ha un mantello grigio-marrone sul dorso e più chiaro nelle parti inferiori. È legata in modo particolare ai pini, ed a seguito dei rimboschimenti che sono stati fatti sull’Appennino con questa essenza arborea, ha ampliato il suo areale anche al di fuori dell’arco alpino. Non essendo migratrice può essere osservata anche in inverno. È gregaria e nidifica sui rami degli alberi nei quali può essere individuata grazie al richiamo che emette in modo ripetitivo “… crrr … crr …”.
Il luì bianco (Phylloscopus bonellii) è un piccolissimo uccello del peso di pochi grammi e dal caratteristico ventre che alla luce diretta del sole appare chiarissimo. Nelle giornate di maggio può essere osservato mentre è intento a cantare dalla cima di un pino.
Il codirossone (Monticola saxatilis) è un coloratissimo uccello delle dimensioni di un merlo. Per evitare i rigori dell’inverno migra in Africa, al pari della gran parte dell’avifauna che nidifica nell’Appennino. È ormai diventato molto raro e il Tobbio è uno degli ultimi suoi rifugi. Il maschio ha una livrea rosso-blu molto intensa. Vive nelle zone rocciose nelle quali, sul terreno, depone il nido. Ha un canto flautato molto particolare, simile a quello dell’affine passero solitario.
La tottavilla (Lullula arborea) è una specie strettamente imparentata con l’allodola con la quale può essere confusa, essendo di aspetto molto simile e condividendo con essa gli stessi ambienti aperti. Il canto, costituito da una cascata di melodiose frasi “… lulu … lulu …”, permette di distinguerla con certezza. Viene emesso durante i voli che compie al di sopra del territorio di nidificazione, e a volte canta da tanto in alto da non consentire all’occhio umano di individuarla.
Il biancone (Circætus gallicus) è un grosso uccello da preda (l’apertura alare della femmina può arrivare fino a 180 cm.), specializzato nella cattura dei rettili, ed in particolar modo, dei serpenti. Pratica una particolare tecnica di caccia detta “spirito santo”, che consiste nel perlustrare da una posizione immobile a mezz’aria, il terreno sottostante. Da marzo a settembre, i versanti aperti del Tobbio, sono spesso frequentati da questo eccezionale predatore che giunge dall’Africa dove trascorre l’inverno.
Il gheppio (Falco tinnunculus) è un piccolo falco (spesso viene indicato col nome di falchetto comune) che non supera gli 80 cm. di apertura alare. Come il biancone è un rapace, anche se non così specializzato. Si ciba infatti di piccoli mammiferi ed insetti che cattura sul terreno. Nidifica nelle zone rocciose in una cavità. È molto frequente durante tutto l’anno.

Flora

29 Astro alpino

Il Monte Tobbio è uno dei luoghi del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo ove, per ragioni legate alla natura delle rocce e dei suoli (quindi del tipo di substrato sul quale si trovano a dover crescere i vegetali) e delle particolari condizioni climatiche che lo interessano, si sono da tempo concentrate le attenzioni di quei botanici che hanno fatto di queste zone appenniniche il loro campo di studi. Una trattazione sistematica delle specie vegetali che s’inerpicano sulle falde di questa massiccia piramide montuosa risulterebbe, tuttavia, alquanto noiosa e specialistica, risolvendosi in un lungo elenco floristico. Si è scelto perciò di illustrare le caratteristiche di alcune specie fiorifere particolarmente belle e facilmente visibili all’escursionista che si avventurasse per questi sentieri, munito di macchina fotografica per catturarne l’immagine o semplicemente animato dal desiderio di godere di scorci “fioriti” di grande impatto emotivo.
Le specie descritte sono tutelate dalla L.R. n. 32 del 2 novembre 1982, che ne vieta la raccolta, la detenzione ed il danneggiamento, e godono anche del regime di protezione che interessa tutte le specie vegetali, senza eccezioni, derivante dall’istituzione del Parco (L.R. n.52 del 31 agosto 1979). Al di là degli aspetti normativi, tuttavia, sembra quasi superfluo ricordare che il semplice rispetto per gli ambienti naturali che si visitano e per i viventi che li popolano dovrebbe già costituire un freno sufficientemente forte alla raccolta di erbe e fiori. Forse un piccolo, innocente mazzolino, può non apparire come un danno, ma bisogna sempre pensare che non siamo soli e provare a moltiplicare il mazzolino per il numero dei visitatori (e sono tanti!) che potrebbero essere tentati di imitarci.
L’astro alpino (Aster alpinus L.) è una pianta perenne erbacea, appartenente alla famiglia delle Composite, alta 6-15 cm, che caratterizza con la sua fioritura assai vistosa i pascoli alpini e le zone sassose montane. I fusti sono striscianti e legnosi, terminanti in rosetta, gli scapi (i “gambi” del fiore) ascendenti sono leggermente pelosi, così come, ma più fittamente, sono pelose le foglie basali, di forma lanceolata-spatolata. Ogni scapo porta un fiore chiamato, in termini botanici, capolino e costituente, in realtà, un’infiorescenza, cioè un insieme di più fiori. In questo caso si parla di fiori ligulati (a forma di linguetta dentata all’estremità), disposti esternamente e di colore violetto, e di fiori tubulosi (a forma di piccolo tubicino), di colore giallo-aranciato, disposti al centro del capolino, a formare una sorta di morbido cuscinetto dorato. Ne risulta un singolare contrasto di colori. Di particolare pregio, dal punto di vista estetico, risultano individui dallo scapo ramificato, con 2-5 capolini, nei quali il botanico Brügger credette di identificare una nuova specie; si tratta, in realtà, dell’effetto della variabilità casuale nella morfologia di una stessa specie, così come tra gli esseri umani, ad esempio, variano il colore dei capelli o la statura.
Sul Monte Tobbio si verifica una condizione molto particolare, comune anche ad altre piante di ambito alpino che vegetano nel territorio del Parco: l’abbassamento della quota minima alla quale è possibile rinvenire esemplari di questa specie, dai 1.500 m. mediamente riscontrati in Italia agli 800 m.
La dafne o cneoro (Daphne cneorum L.) è chiamata anche Dafne odorosa, a cagione dell’intenso e dolcissimo profumo che emanano i suoi piccoli fiori, avvertibile anche ad alcuni metri di distanza dalla pianta. Questo è il motivo per il quale, purtroppo, questo grazioso arbusto è stato oggetto di intense raccolte a scopo commerciale e della sua progressiva rarefazione, che ne ha motivato l’inclusione nella lista delle specie a protezione assoluta. La famiglia alla quale questa specie appartiene, quella delle Timeleacee, è caratterizzata dal fatto che i suoi fiori vengono impollinati esclusivamente ad opera delle farfalle. Si presenta come un arbusto dal portamento strisciante, alto 10-20 cm, con getti giovani resi vellutati da una morbida peluria e getti vecchi dalla corteccia bruna. Le foglie sono lineari, a forma di spatola, con una nervatura centrale molto evidente, coriacee; i fiori, profumatissimi, sono di colore rosso-porporino e crescono riuniti in fascetti di 8-12. La diffusione di questa specie riguarda le pinete ed i pendii aridi delle zone montuose dell’Italia settentrionale, molto raramente la si rinviene anche in pianura. Come serpentinofita preferenziale (cioè come specie ben adattata ai substrati costituiti da rocce serpentinose) risulta perfettamente “a suo agio” sui ripidi ed erosi pendii del Monte Tobbio.

Tobbio 1974 (pastello su carta) di Pietro Jannon 06_09 _2013 09 bis
Il Tobbio (Piero Jannon)

Qualche proposta per camminare

La sommità del Monte Tobbio è raggiungibile percorrendo 4 diversi itinerari, tutti a carattere escursionistico. Solo alcuni degli itinerari proposti sono stati segnalati a cura del F.I.E. con segnavia geometrici di colore giallo; nel corso del 1996, il Parco Naturale si farà carico del completamento della segnaletica. Ricordiamo ancora la possibilità di acquistare la cartina 1:25.000 ed il libro “Il Parco Naturale Capanne di Marcarolo”, editi dallo S.C.I. di Genova.

… dal Valico Eremiti

Due percorsi tra quelli presentati partono dal Valico Eremiti, posto alla quota di m. 559 s.l.m. ed importante crocevia tra la valle del Rio Eremiti, che scende verso il Gorzente e quella del Rio Morsone, che invece va ad immettersi nel Lemme, nei pressi di Voltaggio. Al valico è presente una piccola Chiesetta edificata nel XIX secolo e vi è limitata possibilità di parcheggio (occorre spesso, nelle giornate affollate, posteggiare lungo la strada).
La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo la S.P.166 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 5,2 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo dapprima la S.P.170 in direzione Mornese/Lerma ed arrivati al bivio, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 11,1 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, imboccando la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 16,0 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 10,8 da Capanne di M.).

Itinerario A1: Valico Eremiti / P.sso Dagliola
Segnavia: al momento inesistente, in futuro tratto e 2 punti
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: P.sso Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 297 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario molto frequentato; si svolge su mulattiera piuttosto rovinata dall’erosione, a pendenza sempre modesta. È sicuramente consigliabile per gli scorci paesaggistici sulle valli circostanti e sulla pianura alessandrina; dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da località Valico Eremiti, si segue la vecchia pista forestale, ora mulattiera, che parte a sinistra della Chiesetta; dopo il primo tornante, il sentiero si unisce, per un tratto di 50 m. circa, con l’itinerario A2, con relativo segnavia. Tralasciato il percorso A2, che prosegue sulla destra, si continua lungo il sen­tiero, a tratti decisamente sconnesso, che si inerpica, con larghi tornanti, sul versante settentrionale del Monte Tobbio sino ad incrociare l’itinerario L1 proveniente da Voltaggio (m. 740 s.l.m. – 0 h 25’ dalla partenza) con il quale si unisce.
Ancora qualche tratto in salita e, con un ultimo lungo traverso, si perviene al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 0 h 45’ dalla partenza), ampia insellatura erbosa tra la valle del Rio Lavezze ed i bacini del Rio Vergone / Gorzente.
Discesa: La discesa può avvenire lungo l’itinerario A1 di salita (0 h 40’ dal passo al Valico Eremiti), oppure, dalla cima del Tobbio, lungo l’itinerario A2

Itinerario A2: Valico Eremiti / Monte Tobbio
Segnavia: cerchio sbarrato giallo
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 533 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Monte Tobbio
Caratteristiche: l’itinerario si svolge sull’ampio e severo versante settentrionale del Monte Tobbio attraversando, sempre con larghi tornanti, dapprima l’estesa pineta a pino nero e marittimo ed in seguito aspre zone di prateria intervallate da balze rocciose.
Descrizione dell’itinerario: dalla cappelletta del Valico Eremiti, seguire il sentiero di destra (guardando la costruzione) il quale, dopo un amplissimo tornante, va a congiungersi per un tratto di circa 50 m. con l’itinerario A1. Tralasciatolo sulla sinistra, il sentiero si inerpica sul versante nord del monte, attraversando la pineta. Verso gli 800 m. di quota la vegetazione arborea tende a cedere il passo ai pascoli ed alle zone rocciose che rendono, in questo tratto, l’ambiente quanto mai suggestivo. Con un ultimo traverso verso est, l’itinerario si congiunge alfine con il sentiero percorso dall’itinerario L1, che congiunge il Passo della Dagliola con la cima del Tobbio (m. 985 s.l.m. – 1 h 20’ dalla partenza). Seguendolo si perviene, con ancora qualche tornante, sulla cima del monte (m. 1092 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza).
Discesa: si può discendere lungo il medesimo itinerario (1 h 10’ dalla cima alla cappelletta del Valico Eremiti), oppure seguire l’itinerario L1 fino al Passo della Dagliola e, da qui, scendere per l’itinerario A1.

La Direttissima
La via più breve alla vetta, non segnalata ma decisamente segnata dalla costante frequentazione, cavalca il costolone che si diparte da nord-nord est, e che può essere guadagnato salendo in verticale dalla cappelletta degli Eremiti. È la via preferita da chi sale in assetto sportivo (tempi di percorrenza da 35’ a 50’), ma anche, decisamente, la più dura.

… dal Ponte Nespolo

Un altro interessante itinerario si diparte dal Ponte Nespolo, posto sulla S.P. 165 al suo incrocio con il torrente Gorzente, ad una quota di m. 488 s.l.m. Luogo estremamente frequentato durante il periodo estivo dai numerosi bagnanti, ritrova la propria dimensione “naturale” da metà settembre fino a giugno. Nelle immediate vicinanze non sono disponibili parcheggi: occorre pertanto posteggiare lungo la strada (facendo attenzione ai divieti di sosta presenti) oppure usufruire dei parcheggi posti in prossimità della Casc. Merigo, ad una distanza di Km 1,9. La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo dapprima la S.P. 166 fino al Valico Eremiti, poi la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 10,1 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo la S.P. 170 in direzione Mornese/Lerma, poi immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo; oltrepassare il Valico Eremiti e, con una lunga serie di curve, pervenire alla località (Km 16 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo, in comune con il percorso da Bosio (Km 20,9 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 5,9 da Capanne di M.).

Itinerario B1: Ponte Nespolo / Casc. Nespolo / P.sso Dagliola
Segnavia: 2 rombi pieni gialli
Quota partenza: Ponte Nespolo, m. 507 s.l.m.
Quota arrivo: Passo della Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 351 m.
Principali toponimi toccati: Ponte Nespolo, Casc. Nespolo, Casc. Tobbio, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario completamente esposto a meridione, dunque sconsigliabile nel periodo estivo. Se percorso in inverno, esso risulta al contrario gradevolissimo. Dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da Ponte Nespolo traversare il Gorzente e risalire lungo la S.P. 165; percorse poche decine di metri dal ponte, girare sulla destra per accedere alla piccola area attrezzata. Traversata l’area, salire lungo il costolone del monte, accedendo allo sterrato che conduce alla Casc. Nespolo (m. 625 s.l.m. – 0 h 30’ dalla partenza). Passare a sinistra della cascina, ammirando i suggestivi resti dei castagni secolari, e, arrivati ad un bivio, tralasciare il sentiero che si inoltra in piano, per inerpicarsi a sinistra nel casta-gneto. Arrivati ai resti della Casc. Tobbio (m. 685 s.l.m. – 0 h 40’ dalla partenza), la si lascia sulla destra e si esce poco dopo dal bosco. Da qui, la vista si apre improvvisamente sull’alta Valle del Gorzente e sul Monte Figne. Con percorso in leggera salita, traversare lungamente il versante sud-est del Monte Tobbio e pervenire, infine, al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 1 h 15’ dalla partenza).
Discesa: dal passo, riprendere l’itinerario si salita che, in 1h 05’ riporta al Ponte Nespolo.

… da Voltaggio

L’ultima delle proposte parte da Voltaggio, importante centro della Val Lemme, posto ad una quota di m. 353 s.l.m. e raggiungibile sia con auto privata, che con mezzi pubblici, con partenze da Novi Ligure o Busalla, entrambe servite da linee ferroviarie.
Il punto di partenza dell’itinerario è posto in Piazza Garibaldi.

Itinerario L1: Voltaggio / Monte Tobbio
Segnavia: triangolo pieno giallo
Quota partenza: Voltaggio, m. 353 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 739 m.
Principali toponimi toccati: Voltaggio, Bric Brughé, Costa Cravara, Passo della Dagliola, Monte Tobbio
Caratteristiche: percorso particolare, che si diparte dalla piazza di Voltaggio per inoltrarsi, man mano, in zone meno affollate e sempre più selvagge. Molto belli, nella parte alta dell’itinerario, gli scorci che si godono sui valloni del Rio Lavezze e del Rio Morsone.
Descrizione dell’itinerario: da Piazza Garibaldi seguire in direzione sud per circa 350 m. Via S. Giambattista de Rossi e Via C. Anfosso, sino a raggiungere la Chiesetta, in corrispondenza di Piazza De Ferrari. Davanti alla Chiesetta, svoltare a destra e proseguire sulla stradina asfaltata fino a Villino Stagno: qui a destra si imbocca il sen­tiero, all’inizio alquanto ripido. Dopo poche decine di metri si perviene ad un bivio e si segue il sentiero che, sulla destra, va ad attraversare il bosco misto, con pendenza costante. Si raggiunge in breve una strada sterrata sulla quale è collocato un percorso ginnico (m. 445 s.l.m. – 20’ dalla partenza), che segue la strada in costante salita, per un tratto costeggiando una recinzione. Trascurata una prima diramazione sulla sinistra, si prosegue dritti e, ora con tratti in piano, si attraversa il versante settentrionale del Bric Brughé. Sulla sinistra, una radura indica il luogo ove è sita Cascina. Colletta, ora abbandonata; qui ha termine la strada sterrata e si dipartono due sen­tieri (m. 580 s.l.m. – 45’ dalla partenza). Trascurare quello sulla destra e continuare diritti, seguendo il tracciato che riprende ora a salire, mantenendosi sul versante meridionale della costa, pochi metri sotto la cresta. Un breve tratto in piano permette di raggiungere il confine del Parco (m. 635 s.l.m. – 1 h dalla partenza), lungo il quale si proseguirà ora per un buon tratto. Una breve discesa permette di avvicinarsi al Pulpito del Diavolo, caratteristica formazione rocciosa davvero severa. Sempre continuando a costeggiare il confine del Parco, il sentiero corre lungo la Costa Cravara, mantenendosi perlopiù sul suo versante settentrionale, alternando tratti in salita ad altri pressoché piani. Ancora un tratto sul filo dell’ampia cresta e si giunge al punto di unione con l’itinerario A1, proveniente dal Valico Eremiti (m. 740 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza); lungo questo si prosegue fino al Passo della Dagliola, che si raggiunge con ancora qualche tratto in salita (m. 856 s.l.m. – 1 h 55’ dalla partenza). Dall’insellatura del passo l’itinerario prosegue effettuando un lungo traverso in direzione nord, fino a raggiungere il punto di unione con il sentiero A2. Da qui, ancora qualche ampio tornante permette di raggiungere la sommità del Monte Tobbio (m. 1092 s.l.m. – 2 h 30’ dalla partenza).
Discesa: il ritorno segue il percorso di salita, in circa 2 ore.
I Guardiaparco Giacomo Gola, Giampaolo Palladino, Cristina Rossi

Il vento del Tobbio

Alessio Franzone è il partigiano “Arrigo”, ma anche – e nello stesso tempo – il cacciatore, il gran camminatore, colui che ha ben presente in sé, per esperienza diretta, la puntuale geografia del territorio dell’Oltregiogo su cui va organizzandosi, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento di Liberazione. È così che il libro di Arrigo ci restituisce, accanto a una serie di importanti avvenimenti legati alla lotta partigiana, il quadro di un ambiente che egli ama e conosce come pochi altri. Con lui si percorrono fiumi e ruscelli, boschi e sentieri pieni di vita e di bellezza.
Ciò che forse risulta straordinario per un libro di memorie della Resistenza è che l’orrore di quegli accadimenti, inevitabili e presenti in tutte le pagine, non riesce tuttavia a prevalere sul forte senso di vita e speranza che Arrigo probabilmente trae, anche nei momenti più drammatici, dal profondo rapporto con questi monti.
Gli eventi della lotta partigiana che hanno per teatro l’area circostante al Tobbio sono tristemente noti. La Benedicta con i suoi giovani trucidati dai nazisti e i molti deportati è la tragica testimonianza del prezzo pagato alla lotta di Liberazione.
Una eco angosciosa di quei giorni si reperisce tra le carte che riguardano la Cappelletta del Tobbio. Colpisce l’espressione usata in una lettera della Curia genovese al parroco di Voltaggio, per riferirsi al drammatico evento appena compiuto. La data è quella del 17 aprile 1944, pochissimi giorni dopo la strage: “… in seguito agli ultimi avvenimenti dato lo stato miserando della cappella [si dispone] […] che la festa, solita a farsi nella Cappella del Monte Tobbio, sia quest’anno sospesa”.
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Claudio Balostro, giovane scrittore nativo di Arquata Scrivia. La sua memoria non è più quella del testimone diretto ma è filtrata dalle immagini dei parenti più prossimi. Uno zio, “lo zio G.”, è un sopravvissuto della Benedicta il cui nome di battaglia è proprio quello di “Tobbio”: «Rimanemmo lì a combattere, fino alla fine. Mi chiesero un nome di battaglia, perché venivo dal Tobbio dissi quello. Mi piacque, perché è grande e asciutto, duro e ardente d’estate, bianco e soffice di neve d’inverno. Dissi quello e c’è ancora in giro chi mi chiama così», da Lo strano dell’idea di cavalli, romanzo inedito.
Alessio Franzone

Il piccolo santuario sul Tobbio in onore della B.V. di Caravaggio

Così recita il titolo dell’opuscolo stampato nel 1917 in “San Pier D’Arena”, presso la scuola tipografica Don Bosco, a cura del sacerdote Ernesto Pitto, già Prevosto di San Remigio di Parodi e membro dell’amministrazione dello stesso santuario.
Il volumetto è stato ristampato in anastatica nel 1988 dall’Associazione “Amici del Tobbio”, in occasione dei centodieci anni di ricorrenza della “prima idea di erigere un tempio mariano sull’alto e impervio monte”.
Il Pitto è noto autore di diversi volumi dedicati alla storia dei santuari liguri, compilati secondo un modello di storiografia didascalica tardo-ottocentesca, in cui la storia diventa pretesto per celebrare la devozione di coloro che si sono adoperati per l’erezione dei santuari e per stimolare i fedeli a continuare a mantenere in vita l’opera dei predecessori.

4 settembre 1899: inaugurazione della Cappella sul Tobbio in onore della N.S. di Caravaggio

Secondo l’autore, l’idea del santuario del Tobbio ha origine nel 1878 quando un sacerdote di Mornese, don Rocco Mazzarello, in occasione di una visita a Spessa Parodi (attuale comune di Bosio) propone l’impresa ad alcuni conoscenti, senza però riceverne la sperata adesione.

Solo diciotto anni, dopo la medesima proposta, ripetuta ancora da don Mazzarello nello stesso luogo, riceve la fattiva adesione di “Lombardo Giovanni della villa di Spessa di condizione contadino” che proprio nel 1896 comincia a raccogliere fondi per la realizzazione dell’impresa.

In undici mesi di lavoro veniva ultimata la strada carrabile aperta per collegare la località Eremiti alla cima del Tobbio: “trovati operai fra i quali molti gratuitamente […] e non furono soltanto i buoni figli di S. Pietro e Marziano (Parrocchia di Spessa Parodi) a prestare l’opera loro gratuita, ma anche parecchi delle Capanne e di Voltaggio”.
Nel 1897 cominciano i lavori per la costruzione della cappella inaugurata il 4 settembre 1899, il giorno seguente il trasporto della statua di N. S. di Caravaggio a cui sarà dedicata: “… malgrado il cattivo tempo si fece festa per tre giorni consecutivi con un crescendo consolante di divoti pellegrini, e con entusiasmo indescrivibile”.

Cappella con attiguo rifugio, di cui ora rimangono solo i riduri

La cappella sarà “soggetta alla giurisdizione del M. R. Parroco pro-tempore dei SS. Pietro e Marziano di Spessa Parodi”, ma verrà amministrata dall’arciprete di Gavi, dai parroci di Voltaggio e di Capanne di Marcarolo, dal prevosto di S. Remigio di Parodi e del “Sig. Lombardo Giovanni di Spessa Parodi”. Nel 1909 si decide di ingrandire l’edificio della cappella poiché essa “risultò subito insufficiente al bisogno perché numerosi erano i pellegrini che nella solennità si portavano sull’alta vetta, ma pochi tutto al più una cinquantina potevano stare nella Cappella [che ora] […] è capace di contenere oltre trecento persone, è provvista di sacrestia, è fiancheggiata da un robusto campanile […] insomma parmi che nulla manchi da poter essere chiamato: un piccolo santuario”.
Da allora, ogni, anno, sulla vetta del Tobbio vengono celebrati – prima con grande “concorso di popolo”, adesso meno solennemente – il 26 maggio, ricorrenza dell’apparizione di N. S. di Caravaggio e il 4 settembre, giorno dell’inaugurazione della cappella.
L’edificio conoscerà vicende alterne e più volte, a partire dai primi anni Trenta, si dovrà provvedere a opere di restauro eseguito con l’intervento della Curia e, soprattutto, il volontario contributo dei fedeli. Grazie agli assidui interventi dei volontari, la cappella oggi è ancora agibile, è invece scomparso il rifugio costruito agli inizi del secolo nelle sue vicinanze e ancora aperto agli inizi degli anni Quaranta.

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Immaginare una salita e quanto ci si porta appresso: la fatica dei muscoli, la sete, la fame, il caldo il freddo, le zanzare, i fiori, l’amore lasciato a casa o perduto, gli amici attorno a sé, l’uomo o la donna da conquistare, l’amico da stupire, il bimbo da trasportare a spalle, la sfida con i propri anni o la malattia, la gara con se stessi, la rabbia, la gioia, Dio nel cuore o da bestemmiare oppure, semplicemente, solo il proprio nome. Tutto questo e ancora molto altro viene trasportato da chi sale al Tobbio e riversato nei quaderni che si presentano a chi arriva sulla vetta come un grande orecchio in cui depositare il proprio fardello per poi liberi, finalmente, ridiscenderne un po’ più leggeri.
Vero zibaldone di umani sentimenti e di stili narrativi, genere non riducibile alla corrente tipologia letteraria, i quaderni restituiscono a chi li scorre una straordinaria mescolanza di generazioni, classi sociali di appartenenza, quindi di gusti, passioni – stili insomma – diversamente inconciliabili tra loro e tuttavia per una volta uniti in maniera forte (non fosse altro per il pezzo di carta che li contiene) dalla comune condivisione di un’esperienza – unica per ciascuno questo è certo – ma anche universale perché a tutti gratuitamente si propone la stessa strada, perché tutti si partecipa di un’unica volontà di ascesa.
Portofranco di letterati e illetterati, di guastatori e costruttori, di moralisti e goliardi, di folli e di saggi, il quaderno posto sulla cima del Tobbio potrebbe anche se parzialmente essere accostato agli scritti carnascialeschi, là dove il mondo finalmente si rovescia e il principe, per un momento, può diventare bifolco e il bifolco re. Luogo liberatorio, dunque, come appunto si addice a ogni intento di ascesi.
Ma i quaderni ci propongono anche molto altro come, per esempio, lo scambio di messaggi malinconici tra amici che in essi ormai soltanto si rincontrano; il diario di bordo che annota le condizioni climatiche attraverso cui gli esperti di montagna e di mare non mancano di ostentare la conoscenza della qualità dei venti e della loro forza; sfoghi di amanti delusi o inappagati, di mogli e mariti che per evitare risse famigliari sono venuti di corsa in cima al Tobbio a placare gli istinti più violenti. C’è chi non scrive ma disegna. I bimbi, in genere, amano segnalare la loro età e il sesso: “siamo tre femmine e due maschi …”, le suore ringraziano Dio per il creato, altri non esitano, poche righe sotto, quasi senza soluzione di continuità, di bestemmiarlo come se, provocati all’argomento dalle lodi precedenti, si ricordassero che anche loro ogni tanto pensano a Dio. Anche questo, più in generale, è un aspetto ricorrente nei quaderni: spesso accade che un argomento, specie se provocatorio, di­venti per persone diverse comune occasione di considerazioni e divagazioni, una sorta di filo rosso che ritroviamo per più pagine, segno eloquente che la provocazione ha raggiunto il segno.
I quaderni reperiti cominciano nel maggio 1985. Anni non privi di vuoti lasciati dalle pagine strappate forse per la necessità assoluta di accendere un fuoco, forse per puro vandalismo o forse per il più comprensibile gesto di chi ha trovato in esse l’ultima traccia di un amico o un parente poi prematuramente scomparso.

Tutti insieme, appassionatamente

Dopo la fatica della salita, bere e mangiare, scherzare, giocare a carte, conoscere chi è arrivato prima o poco dopo è corollario quasi inevitabile di ogni gita che abbia escluso la scelta della “solitaria” assoluta.
I registri del Tobbio abbondano di minuziose descrizioni di menù, più o meno raffinati, di citazioni dei vini consumati, di lazzi giochi ed elenchi più o meno reverenti di partecipanti, ma tutti, allo stesso modo, desiderosi di comunicare il benessere provato nello stare assieme.
Le processioni che portavano al Tobbio i fedeli a celebrare due volte all’anno le solennità del piccolo santuario si chiudevano con un’allegra mangiata. Per l’occasione il parroco di Voltaggio, alla fine degli anni Venti, chiedeva la dispensa alla Curia di Genova per poter permettere il consumo di cibi di grasso, nonostante il consueto divieto dei giorni solenni, anche a ragione del notevole sforzo fisico chiesto ai partecipanti.
Oggi, le occasioni di convivialità ritrovano al Tobbio diverse espressioni: al Tobbio per Capodanno, per Natale, per il primo maggio, per celebrare i compleanni (magari anche quello del nonno), ma c’è anche chi al Tobbio sale per sposarsi. Due i matrimoni fino ad oggi celebrati lassù. Il primo nel giugno del 1970 di due sposi dell’Alta Val Lemme, il secondo, vent’anni dopo nel 1992, di due giovani di Ovada.
Ritrovarsi insieme dopo la comune fatica, condividere la soddisfazione di aver raggiunto la meta, guardare per un momento al mondo dall’alto, e il piacere di stare insieme sono gli ingredienti forti che garantiscono ai partecipanti delle feste sul Tobbio la felice scoperta della gioia davvero non sempre facilmente raggiunta dai convivi di fondovalle.

La corsa 1971 – 1980

Ma al Tobbio non si va solo per passeggiare e chiacchierare amabilmente con gli amici. Al Tobbio si va anche di corsa e non necessariamente per placare umori iracondi.
La polisportiva di Voltaggio ha organizzato per dieci anni, sempre nel mese di settembre, un’appassionante gara aperta ad atleti e a semplici amatori e, a partire dal 1976, riservata ai soli soci FIDAL. Nelle primissime edizioni essa proponeva un percorso di circa otto chilometri, allungato poi nell’edizione del 1977 a dieci, con un dislivello di 766 metri. Sempre a partire dal 1977 la manifestazione assume carattere nazionale e da allora è stata dichiarata prova selettiva di campionato italiano di corsa in montagna.
L’organizzazione, curata dalla Polisportiva di Voltaggio, ha raccolto per anni l’adesione del volontariato giovanile del paese e ha ricevuto l’aiuto del CAI sezioni di Ovada e Novi Ligure: nel solo 1979 circa novanta persone. Segnalare il percorso con le bandierine, allestire e gestire i diversi punti di servizio, questi ed altri sono gli oneri assunti dai volontari, nonostante le condizioni climatiche spesso, considerata la stagione, affatto clementi. Uno dei responsabili evocava tra le situazioni particolarmente stressanti ma non prive di divertimento che caratterizzavano il lavoro, la “corsa dei volontari” che dovevano provvedere a destinare sulla cima del Tobbio le tute tolte dagli atleti pochi minuti prima del via, precedendo, è ovvio, il loro arrivo. Le tute venivano trasportate a gran velocità in auto fino alla località Eremiti dalla quale, sempre di corsa, si procedeva a piedi, con le tute nello zaino, fino alla vetta. Il 1980 è l’ultimo anno della corsa del Tobbio. Dal 1981 infatti non si corre più verso la montagna ma gli atleti si cimentano in una prova di corsa individuale podistica, il “circuito di Voltaggio”, che prevede 11.480 chilometri di corsa attorno al paese. E il Tobbio resta ancora a guardare …
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Bibliografia

Anche il Tobbio vanta una sua, pur modesta, bibliografia. Gli sono stati dedicati libri, opuscoli, articoli vari. Si fregia addirittura di un omaggio in tedesco, redatto da un gruppo di giovani escursionisti teutonici. Abbiamo raccolto solo il materiale più facilmente rintracciabile, ma vorremmo fosse questa l’occasione per aggiornamenti e integrazioni. Se conoscete pubblicazioni o articoli inerenti in qualche modo il Tobbio, segnalatele nel “libro di vetta”: ve ne siamo anticipatamente grati.

Libri e opuscoli:

  • FRANZONE ALESSIO – Vento del Tobbio – Genova, 1952
  • PITTO Sac. ERNESTO – Il Piccolo Santuario sul “Tobbio” – Sampierdarena, Don Bosco, 1917
  • VV. – Pfingstfahrt Im Regen Monte Tobbio 1992 – Gengenbach, 1992

Articoli:

  • BASSIGNANA ENRICO – Un sentiero sul Tobbio – su TUTTO CITTÀ’ 95 – Alessandria e Provincia – STET 1995, Torino
  • CARREGA MARIO – Il Monte Tobbio e la sua flora – su IL NATURALISTA, giugno 1989, Museo Civico di Storia Naturale – Stazzano
  • LEARDI ERNESTO – Lontani ricordi, istanze recenti a proposito della chiesa-rifugio sita sul Monte Tobbio – su ALPENNINO n.3/1994, Casale Monferrato
  • MASSONE ENRICO – Sul Tobbio con vista sul mare – su PIEMONTE PARCHI 25, settembre/ottobre 1988 – Torino
  • MASSONE ENRICO – È il Tobbio il misterioso monte sul quale sorgeva l’abbazia del Nome della Rosa – su LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA, 1 tri. 1989 – Alessandria

Non riteniamo inutile, infine, un rimando alle opere concernenti la montagna alle quali si è attinto nella scelta delle citazioni:

  • BELTRAMI VANNI – Breviario per nomadi – Biblioteca del Vascello, Roma 1995
  • BERNBAUM EDWIN – Le montagne sacre del mondo – Leonardo, Milano 1991
  • BOARDMAN PETER – Montagne sacre – dall’Oglio, Milano 1983
  • DAUMAL RENÉ – Il monte analogo – Adelphi, Milano 1968
  • EVOLA JULIUS – Meditazioni delle vette – Ed. Del Tridente, La Spezia 1974
  • GOETHE W.G. – Viaggio in Italia – Rizzoli, Milano 1991
  • HEINE H. – Il viaggio nello Harz – Marsilio, Milano 1994
  • MILA MASSIMO – Scritti di montagna – Einaudi, Torino 1992
  • MOTTI GIAN PIERO – La storia dell’alpinismo – Vivalda, Torino 1994
  • THOREAU H.D. – Camminare – Mondadori, Milano, 1991
  • ZOLLA ELEMIRE – Lo stupore infantile – Adelphi, Milano 1994

Ringraziamenti

Hanno ideato e concretamente realizzato la mostra i Viandanti Delle Nebbie. Hanno collaborato: Eugenia Fera e Massimo Angelini del Centro di Documentazione della Storia e della Cultura Locale; CRISTINA ROSSI, GIACOMO GOLA e GIANPAOLO PALLADINO del Parco Naturale Capanne di Marcarolo.

Non potendo elencare tutti gli appassionati che hanno contribuito alla realizzazione, riteniamo di dover far giungere loro il nostro ringraziamento attraverso le organizzazioni e i gruppi di riferimento, dal CAI di Ovada agli Amici del Tobbio. Un grazie particolare lo dobbiamo però a Pietro Jannon, autore della maggior parte delle immagini utilizzate, e praticante indefesso del culto del Tobbio. Vorremmo infine che in questo omaggio al monte fosse implicito un tributo alla memoria di Andrea Longhetti, che dell’amore per il Tobbio è rimasto tragicamente vittima.

Di spalle e con lo zaino

di Paolo Repetto, 2015 e e l’Album “A spasso con Pietro“ 

Ogni volta che salgo il Tobbio trovo un pezzo di Pietro Jannon. Non ossa o brandelli di equipaggiamento, ché purtroppo non è morto dove gli sarebbe piaciuto, ma spezzoni di memoria, fotogrammi di sentieri percorsi assieme. È capitato anche ieri, quando a metà percorso mia figlia, senza nemmeno allungare troppo, mi ha lasciato ad ammirarne le spalle e il passo deciso e a meditare mesto sul trascorrere del tempo. Ero chiaramente orgoglioso di lei, ma non nascondo che ero anche un po’ avvilito, sia pure considerando il mezzo secolo che ci separa.

È proprio lì che all’improvviso, per una qualche recondita associazione d’idee, certamente non giustificata dal cielo terso e dal sole tiepido, mi sono rivisto salire nella nebbia di un umidissimo novembre di trent’anni fa.

Negli anni eroici del CAI ovadese per un intero autunno ci ritrovammo ogni sabato, nel primo pomeriggio, al valico degli Eremiti, per trasferire in vetta sabbia, calce, cemento, taniche d’acqua, latte di impermeabilizzante per il tetto del rifugio. Ciascuno si caricava in base alle sue forze e alla sua buona volontà: qualcuno aveva anche in più una motivazione “sportiva”. Come sempre, tra me e Pietro si era ingaggiata una tacita gara: caricavamo lo zaino con una latta ed un sacchetto di sabbia, per un peso dai trenta ai trentacinque chili. Pietro però aveva scovato per l’occasione delle staffe di ferro, che non si capiva bene a cosa potessero servire e che in effetti poi non servirono a nulla, ma facevano comunque zavorra e fugavano ogni dubbio su chi portasse il carico maggiore. Si partiva in una lunga colonna, che dopo dieci minuti era già sgranata, e si saliva per il versante orientale, la via “classica”. Tutti, ma non Pietro. Non ho mai capito che percorso seguisse. Riusciva sempre a rimanere in coda e dopo i primi trecento metri era scomparso. Non credo intendesse accorciare, perché con trenta chili sulle spalle la direttissima è altamente sconsigliata, e comunque in genere arrivava contemporaneamente a noi. Solo, faceva un’altra strada.

Ecco, quando prima ho parlato di sentieri percorsi assieme mi sono allargato un po’ troppo. Potevi percorrere lo stesso sentiero, raggiungere lo stesso rifugio, ma non eri mai completamente “assieme” a Jannon. Diciamo che manteneva le distanze, e non solo in senso metaforico. Senza alcuno snobismo, per carità: ma aveva bisogno di uno spazio suo. Possibilmente tanto.

Come camminatore, Pietro mi pativa. Non fisicamente, perché era due volte più forte di me, ma perché io avevo capito certe sue manie, certi suoi punti scoperti, e mi divertivo a spiazzarlo, a scombinargli i programmi, a stargli sul collo, ciò che lo costringeva a dimostrare qualcosa anche quando non aveva granché voglia e non era il caso: e dal momento che il gioco lo conducevo io, a volte si imponeva degli sforzi inutili. Credo che per certi versi fosse persino un po’ in soggezione.

Fino a quel giorno, quando, deposto il carico e cambiata la maglietta fradicia, ho buttato lì: Quasi quasi, torno giù di corsa e faccio un altro viaggio. Gli altri mi hanno mandato giustamente a stendere, ma Pietro no. Si è rimesso la camicia a quadri e senza battere ciglio mi ha fregato: Dai, che se ci muoviamo siamo nuovamente qui prima di notte.

In effetti è andata così. Per stargli dietro quella volta ho dovuto mordere le rocce, perché davvero a metà salita non ne avevo più. Una volta in cima, dove per fortuna ci attendeva la stufa ancora accesa, ci siamo seduti uno di fronte all’altro, aspettando che arrivassero anche le nostre anime. Poi lui ha alzato gli occhi, mi ha guardato serio ed ha sbottato: Dì, ma noi due, saremo furbi?

Credo di aver riso per cinque minuti di seguito senza potermi trattenere, tanto ero stanco: e anche lui era scoppiato in una risata liberatoria. L’ho visto ridere così poche altre volte, e devo dire che rideva bene (io bado molto a queste cose: c’è gente che non sa nemmeno ridere).

E adesso capisco anche l’associazione d’idee. Io in fondo Pietro lo ricordo così: di spalle e con lo zaino. Mi pare giusto, perché tutti lo abbiamo sempre visto così, e non solo mentre salivamo Tobbio, ma anche quando lo incrociavamo al Posta, in libreria o al mercatino. C’era immancabilmente un impegno che lo chiamava da un’altra parte, una cornice, un libro, un pezzo di lamiera raccattato per strada che urgeva di essere portato altrove.

Mi manca, Pietro. Ci sono persone che toccano la tua vita apparentemente solo di striscio, camminano ai suoi margini: però ti ci abitui, sono un riferimento, sai che se ti giri le trovi là. Anche se nel suo caso magari sarebbe meglio dire “sono appena passate di là”. Era quello che ti suggerivano le tracce improvvise nella neve fresca, lungo il sentiero degli Eremiti, quando pensavi di essere il primo: o gli amici che lo avevano incontrato un attimo fa in via San Paolo, o la sera precedente al CAI. Poco alla volta questa inafferrabilità era entrata nella sua leggenda, insieme alle sue manie e ad un fisico e un carattere egualmente rocciosi. Per un certo periodo, quando lo conoscevo meno, ho anche pensato che la coltivasse volutamente. Invece era timidezza genuina, o se si vuole amore della solitudine.

Ci si vedeva raramente: per le mostre, per qualche ascensione, per un trekking. Non mi andava di disturbare la sua riservatezza, probabilmente perché il mio riferimento era proprio quello. Non ero mai io a cercarlo. Però sapevo che c’era, con tutte le sue stranezze, eppure solido, affidabile. Forse un po’ lo invidiavo, in positivo. Mi piaceva l’idea che qualcuno sapesse vivere come viveva lui, pur rimanendo consapevole che quello non era il mio stile. Pietro era una delle proiezioni nelle quali ambientavo le mie vite parallele. Probabilmente l’ho anche un po’ coltivato, come personaggio, e sono sicuro che non gli spiacesse quando epicizzavo le sue avventure. Anzi, qui era lui a condurre il gioco, e al ritorno dai suoi viaggi, quando mi telefonava o ci incontravamo in sede, mi buttava lì dei trailers risicatissimi del futuro racconto, che rimandava immancabilmente alla serata delle diapositive. Naturalmente le serate poi non c’erano, perché doveva scegliere tra diecimila scatti per ogni viaggio, e io sono rimasto con frammenti di tête à tête con orsi grizzly, di discese dello Yukon in canoa e di ponti sospesi nelle Ande mai legati in una narrazione coerente.

Ciò che però ci ha avvicinato maggiormente, all’inizio, era il suo lavoro artistico. Per quella che è la mia concezione dell’arte Pietro era un artista vero.

Era geloso delle sue opere. Le mostrava con riluttanza, e se ne staccava ancor più a malincuore. Salvo poi regalarti qualcosa per cui avevi manifestato un interesse particolare, quando sapeva che quell’opera sarebbe andata a vivere bene. Sarà una concezione minimalista, ma è una concezione genuina, così come minimalista e genuino era anche l’approccio materico e segnico di Pietro. Pochi segni, ridotti all’osso, e quindi tanto più significativi ed evidenti. Ho alcune creazioni sue che non scambierei con un Van Gogh, e noto che tutti coloro che le vedono per la prima volta ne rimangono incantati. Non ci sono messaggi nelle sue opere: ci sono delle semplici constatazioni, ma tanto immediate ed evidenti che ti chiedi come hai fatto a non renderti conto prima. Sul piano dell’arte, anziché patirmi, mi cercava invariabilmente. Era sorpreso da quello che vedevo in quadri che teneva ben riposti nel suo studio, nascosti dietro cumuli di tele e compensati e cornici, e che riuscivo ad ammirare solo perché mi infischiavo tranquillamente dei suoi “meglio di no, è roba vecchia”. Li riprendeva, li rigirava e rimirava, poi diceva: “però, magari ritoccando, aggiungendo …”: ma era ben felice quando gli intimavo di non azzardarsi a rimetterci mano. Dopo aver letto la prima presentazione che avevo scritto per una sua mostra mi telefonò la sera e disse semplicemente: “Io … grazie!” Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondergli: prego.

Avrei voluto fosse con noi, ieri. Avrebbe sorriso divertito, a vedermi in affanno dietro Elisa. E poi lo avrebbe raccontato, solo a quelli giusti: “Vedessi la figlia di Paolo. Ci ha mollati a metà salita”. E sarebbe stato orgoglioso, come se la figlia fosse sua.

 

Declino, caduta e nostalgia del regime dei divieti

di Paolo Repetto, 2000, vedi l’Album “A spasso con Pietro

In un’opera di Pietro Jannon, una delle più recenti, appartenente al ciclo dei “divieti”, è possibile leggere la perfetta metafora della nostra attuale condizione. Probabilmente la metafora non è del tutto consapevole, ma proprio questo è il bello e il mistero dell’arte: la capacità di dire parole non pronunciate e di trasmettere idee non pensate. La composizione è rettangolare, si estende in orizzontale e si presenta come un assieme unitario, ma a ben guardare risulta articolata in tre sezioni. La tecnica è quella del collage su una superficie piana di materiali diversi, legno, cartone e soprattutto vecchi segnali direzionali o divieti di caccia e di raccolta, quelli bianchi, di latta, con simboli o scritte in nero, che si trovavano una volta inchiodati ai tronchi degli alberi o appesi a solitari paletti nelle campagne, quasi sempre sghembi e ricamati da rose di pallini. Le frecce, appena visibili, occupano il riquadro centrale, in un gioco di sovrapposizioni con altri brandelli di lamiera arrugginita e di cartone ruvido. I divieti, o quel che ne rimane, compaiono invece nelle due sezioni laterali, anch’essi soffocati da strati irregolari di altri materiali, e consentono stentatamente di risalire all’autorità emanante: a sinistra la provincia di Genova, a destra la Regione Piemonte. Nel riquadro di sinistra, in basso, mimetizzata in un mosaico di vecchi fogli stampati o manoscritti, quasi ci sfugge la riproduzione di una rudimentale porticina lignea, chiusa, che reca stampigliata in lettere da imballaggio la scritta “nomade”. La tonalità dominante del trittico va dal grigio sporco all’ocra. L’insieme è, per chi vuol andare al di là dell’impatto visivo, desolante e ed inquietante.

 

È desolante perché questa rottamazione di ogni palinatura, questa discarica aperta di regole e di segnali, è l’unico panorama spirituale (ma anche materiale) che questi anni ci offrono. È inquietante perché, al di là del casuale riferimento geografico, ma certamente con la sua complicità, sentiamo che ci riguarda molto da vicino. Nella rugosa terra di nessuno del pannello di centro, da quell’ideale spartiacque cancellato che guardava un tempo alle alpi e al mare, le frecce non indirizzano più da alcuna parte. Si spuntano contro la ruggine, sbiadiscono sotto i catramosi sedimenti del tempo. Assieme ai suggerimenti, alle indicazioni, agli obblighi si stemperano, nella monocromia grigiastra e marroncina, anche i divieti, butterati da una foruncolosi endogena. Non è valsa più nemmeno la spesa di impallinarli, sono chimicamente scaduti dal perentorio al patetico. Ma la loro estinzione non prelude ad una nuova e consapevole libertà, non è il segno di una maturità raggiunta. È solo il simbolo di una sconfitta. Anzi, di una duplice sconfitta.

 

La prima riguarda lo sforzo di edificazione di un sistema normativo universalistico di diritti e di doveri (in contrapposizione a quello particolaristico e consuetudinario), e di un corredo etico, di imperativi e finalità ( in sostituzione di quello morale e religioso), prodotto nei secoli della modernità dalla cultura laica occidentale, e mirante in ultima analisi a uniformare a livello globale i comportamenti. Questa potrebbe in apparenza sembrare addirittura una vittoria, dal momento che tale sistema è nato e si è sviluppato in funzione degli interessi dei gruppi o delle classi dominanti, e la sua sudditanza al potere non è in discussione: ma in realtà ci troviamo di fronte soltanto alla rimozione dell’impalcatura che è servita ad innalzare il palazzo della cultura e del mercato (soprattutto del mercato) globali. L’impalcatura nascondeva l’oscenità architettonica e strutturale di quel lager immenso che si estende ormai su tutto il pianeta, ma in qualche modo garantiva anche ai detenuti delle sicurezze, a volte delle vie di fuga. Garantiva il riconoscimento della individualità, se non altro esortando all’assunzione di una responsabilità individuale, o sanzionandola. L’obsolescenza dei divieti testimonia invece la raggiunta perfezione del sistema di controllo: non è più necessario vietare, quando si è in grado di persuadere, e non vale la pena sanzionare i singoli, badare ai miliardesimi, quando i conti si fanno all’ingrosso. La mia spiacevole sensazione è quella di aver combattuto contro qualcosa che oggi vorrei difendere, perché anche una gabbia, quando il modello è quello della libera volpe in libero pollaio, può offrire un rifugio a chi volpe non vuole essere: e che sia ormai troppo tardi anche per barricarsi su queste posizioni di retroguardia.

 

L’altra sconfitta concerne le alternative. E questa è più cocente ancora, intanto perché ce la siamo costruita con le nostre mani, e poi perché ha azzerato le speranze, ha tagliato le gambe ad ogni idealità. Per quanto sia duro ammetterlo, nessuno dei sistemi di pensiero antagonisti al modello capitalistico è stato in grado di andare oltre la critica e di offrire alternative economiche, politiche e sociali credibili. Un peccato d’origine le ha viziate tutte, e prime tra le altre quelle più marcatamente umanistiche: una pervicace presunzione di eccezionalità e di uniformità della natura umana, dalla quale è disceso l’illusorio convincimento della origine sociale di ogni squilibrio. Oggi dobbiamo accettare, a denti stretti, l’idea che l’uomo è un animale sociale per convenienza, egoista per istinto naturale; che i rischi della democrazia totalitaria non sono minori di quelli del totalitarismo esplicito; e soprattutto, che quelle istituzioni che bene o male costituivano un avversario visibile, un obiettivo contro il quale dirigere gli sforzi, non rappresentano più nulla, sono soltanto detriti lasciati dal capitale sul suo percorso di autonomizzazione.

 

Questo si può leggere nell’opera di Jannon. Naturalmente è possibile leggervi qualunque altra cosa, magari di segno opposto, ed è probabile che lo stesso autore trovi una simile interpretazione fuorviante e forzata; ma è fuor di dubbio che qualcosa quei brandelli di segnaletica corrosi e sbiaditi ci vogliono comunicare, che una storia, o la fine di una storia, la vogliano raccontare. Io l’ho intesa così, come una storia malinconica. Perché quando viene meno, nonché la volontà, anche ogni opportunità di tra(n)sgredire; quando non ci sono più luoghi, della terra e dello spirito, nei quali cercare un altrove ed un oltre; quando ogni illusorio nomadismo si spegne sulla soglia di una latrina maleodorante (e segregazionista): allora non rimane che l’immota sospensione del limbo. E non è il caso di sgomitare: ci siamo già dentro.

 

Le vie di Pietro

di Paolo Repetto, 1998 e l’Album “A spasso con Pietro

Sono convinto che i due si siano incrociati, da qualche parte. Per tipi come loro il mondo non è poi così grande. Magari si sono urtati nella calca di un suk, o si sono scambiati uno sguardo distratto, mentre stavano fotografando da sedici angolazioni diverse uno stupa; oppure hanno viaggiato schiena contro schiena, immersi nella lettura e nei progetti di nuovi itinerari, su un trenino delle Ande, stipato all’inverosimile di umanità varia, pollame e ortaggi. Insomma, opportunità di incontrarsi ne hanno avute, in un trentennio di vagabondaggi paralleli su e giù per i cinque continenti. E comunque, se anche si fossero “fisicamente” mancati, era inevitabile che prima o poi la loro prossimità spirituale si manifestasse.

L’occasione arriva adesso, attraverso una serie di opere nelle quali Pietro Jannon fonde la sua esperienza della varietà e dell’unicità del mondo con le suggestioni derivate dalla lettura di Bruce Chatwin. Il che non significa, e meno che mai in questo caso, rileggere alla luce della propria sensibilità le emozioni altrui, ma al contrario pescare dal proprio bagaglio sensazioni, stupori, nostalgie e smarrimenti, e ravvivarli e riordinarli nel confronto con un itinerario che viene sentito, pur nella sua diversità, come fortemente affine. Certo, un bagaglio occorre averlo, meglio se ha la forma e le dimensioni di uno zaino, e meglio ancora se zeppo di giacche a vento fradice, di calzini sudati e di scarponi pieni di polvere: e in quanto a scarponi e giacche a vento e calzini e zaini non c’è dubbio, Pietro ne ha consumati più di chiunque altro, Chatwin compreso. I dipinti di Jannon non costituiscono dunque un omaggio né un tributo (e questo, per chi ha con lui una certa consuetudine è scontato), non ha nulla a che vedere con la forma di devozione postuma praticata nei confronti del grande viaggiatore inglese da troppi orfani dell’avventura. Pietro non è orfano né devoto di nessuno: l’avventura l’ha sempre vissuta in proprio, con le sue formidabili gambe, sulle sue spalle infaticabili e con la sua (durissima?) testa. Nel suo rapportarsi a Chatwin non c’è alcun sospetto di subalterna riverenza (subalterno, Pietro?!): c’è invece un’attestazione di simpatia (intesa quest’ultima, letteralmente, come affinità del sentire), il saluto ad un coetaneo riconosciuto come tale non solo per ragioni anagrafiche, ma per l’identità delle scelte, delle esperienze e soprattutto dell’interpretazione di quella metafora della vita che è il viaggio.

Il viaggio, appunto, il perenne movimento, la curiosità e il rispetto per il diverso: sono le stigmate di un’elezione, di un’irrequietudine che nel loro caso ha saputo positivamente disciplinarsi, come molla alla conoscenza, invece di inacidirsi a pretesto per la fuga o per l’ arroccamento. È una condizione, questa, che può talvolta trovare espressione anche in forme stimolanti, e i libri di Chatwin e i dipinti di Jannon sono lì a testimoniarlo, ma non può essere trasmessa, e meno che mai acquisita. Perché muoversi, essere irrequieti, provare una curiosità intelligente sono condizioni necessarie, ma non sono ancora sufficienti per individuare un percorso originale, naturalmente proprio e al tempo stesso iscritto nella memoria più recondita della specie. Ciascuno a suo modo, Chatwin e Jannon hanno rintracciato i segni di questo percorso, l’hanno intrapreso e lungo esso si sono incontrati. Entrambi hanno infatti seguito le loro “vie dei canti”, quei tracciati invisibili e pur così evidenti (almeno per chi ha occhi e orecchi per riconoscerli, e cuore e gambe per affrontarli) che corrono il globo in lungo e in largo, e se intersecano le rotte turistiche e commerciali è solo per lasciarle subito, e lungo i quali si muovono da sempre i depositari di un nomadismo ancestrale, istintivo e non condizionato da mode o necessità.

Pietro Jannon appartiene a pieno titolo a questa categoria di nomadi, imprevedibili, schivi, fieramente gelosi della propria indipendenza. Puoi incontrarlo sul Tobbio, tra le rovine dell’Acropoli o sulla via di Katmandu e non ti dirà mai “sono venuto sin qui”, ma “stavo passando di qui”, e già solleverà lo zaino, diretto da un’altra parte. Il suo viaggio è sempre in corso: non contempla punti d’arrivo, così come non suppone luoghi da cui fuggire. Non ne ha bisogno, e non perché si sostanzi dello spostamento in sé, ma perché in quest’ottica ogni luogo è altrettanto significativo nel raggiungerlo come nel lasciarlo.

Nel corso dei suoi viaggi Jannon raccoglie immagini (tante!) e ricordi, di cui peraltro fa partecipi solo pochi eletti, e con parsimonia: ma riporta soprattutto frammenti di segni, flash di colori o di profili, e anche di odori, o di suoni. Li cova nella memoria, li seleziona, lascia dapprima che reagiscano al contatto con gli agenti esterni o interni più disparati (letture, immagini, reminiscenze di altri viaggi già fatti o aspettative per quelli in programma) e poi ne leviga ogni connotazione spaziale e temporale, sino a tradurli in simboli. Solo a questo punto li riversa infine sulla carta, sul legno o sulla tela. Quel che ne sortisce sono emozioni essenziali, rarefatte ma profonde, sedimentate e tuttavia mai fredde; perché i segni ritornano in serie di approssimazioni, appena leggermente variate, che producono un effetto di mobilità, un percorso, appunto. Nessuna delle sue opere vuole chiudere in sé, fermare per intero il ricordo; tutte si iscrivono in sequenze, e pur riuscendo autoconclusiva ognuna già allude alle variabili e alle possibilità altrove esplorate. Come i suoi piedi, anche la pittura di Jannon non può mai essere in quiete; rifiuta la staticità del reportage, i divani dell’introspezione e gli specchi dell’autocompiacimento, per esprimere invece una primordiale meraviglia al cospetto del mondo, e la voglia di rinnovarla costantemente. Per questo, appena la mostra chiuderà i battenti, o forse anche prima, non perdete tempo a cercare Pietro. Sarà già altrove, lungo le vie dei canti, con uno zaino da duecento litri stipato di magliette, calze e suggestioni.

 

Pietro

di Paolo Repetto, 1995 e e l’Album “A spasso con Pietro“ 

Ci risiamo. L’ho perso un’altra volta. Rallento e mi volto a cercarlo, ma già immagino cosa sta facendo: è parecchio indietro, si è fermato a scattare una foto. In una settimana ha fatto andare tre dozzine di rullini, ha fotografato ogni albero della Foresta Nera, ogni fontana, ogni casolare. Una volta a casa, se metterà in fila tutte le dia scattate potrà rifare il percorso per intero.

Poso lo zaino, mi siedo su un ceppo e accendo una sigaretta, mentre lo guardo camminare a ritroso, fermarsi ancora, catturare un altro scorcio. La sta prendendo comoda. Siamo fuori di un’ora e mezza rispetto alla tabella concordata, e la cosa si ripete immancabilmente da otto giorni. È il primo trekking che facciamo assieme, ma credo sarà anche l’ultimo.

Adesso è nuovamente uscito dal sentiero. È scomparso nel bosco.

Quando rispunta sono alla terza sigaretta. Mi vede e fa cenno col braccio. Non rispondo. Continuo a fumare e a guardarlo. Non so se essere più irritato o sconfortato. Quasi due ore di ritardo dopo sole quattro di marcia.

Avanza tranquillo, si ferma, traffica con la Nikon, sostituisce il rullino. Se mi capita tra le mani, quella macchina, finisce in orbita. Finalmente mi raggiunge, scarica lo zaino e siede lì vicino. Dev’essere foderato d’amianto, perché il mio sguardo non lo ustiona.

– C’era una piattaforma su un albero, laggiù. Penso la usino per osservare gli uccelli. Sono salito a scattare un paio di foto.

– Potevi aspettare un altro po’, magari avvistavi qualche tordo – rispondo acido.

Nemmeno se ne accorge. Inossidabile.

– No, c’era una vista magnifica, il bosco da sopra, le cime degli alberi.

Schiaccio con cura la cicca, ma non accenno ad alzarmi. Mi accorgo con sorpresa che la rabbia è già sbollita. Sto pensando a quanto deve essere bello questo bosco, visto da sopra. Io la piattaforma non l’avevo notata. Guardavo avanti, e quando buttavo lo sguardo ai lati del sentiero i tronchi mi sembravano più o meno tutti uguali. Siamo in ritardo di due ore, ma su cosa? Mica abbiamo un appuntamento. Dobbiamo solo arrivare alla Gasthaus, che non si muove, è là da decenni, ci aspetta. Cambia niente arrivare alle cinque, alle sette o alle otto. È una giornata splendida, limpida, calma.

Osservo Pietro. Sta scartocciando una barretta di cioccolato. È tranquillo e soddisfatto, mi sta ancora raccontando della piattaforma. E mentre parla capisco finalmente la differenza. Pietro si muove come un uomo libero, come chi ha nessuno che lo aspetti, e sceglie quando e cosa vedere e chi incontrare. Io mi muovo sempre per arrivare in qualche posto. La parte più importante dello spostamento per me è la meta, non il viaggio. Per lui è esattamente il contrario.

E questo fa la differenza tra il viaggiatore e uno che cammina.