51 vedute del Monte Tobbio

iconografia e storia di una montagna sacra
catalogo essenziale di una mostra per amanti della natura, della montagna e della fatica

in ricordo di Piero Jannon

51 vedute del Monte Tobbio copertina

Introduzione

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

Percorsi

Dati essenziali

Visibilità

Montagne sacre

Escursioni letterarie

Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Gli ambienti

La realtà attuale

Fauna

Flora

Qualche proposta per camminare

Il vento del Tobbio

Il piccolo santuario sul Tobbio  in onore della B.V. di Caravaggio

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Tutti insieme, appassionatamente

La corsa 1971 – 1980

Bibliografia

Ringraziamenti

02 Tobbio Disegno da lontano

Introduzione

C’è qualcosa di nascosto. Va e trovalo.
Va, e cerca dietro le montagne.
C’è qualcosa di smarrito dietro le montagne.
È smarrito, e ti aspetta. Vai.
RUDYARD KIPLING

Questo catalogo è stato realizzato, con diciassette anni di ritardo, da Paolo Repetto e da Fabrizio Rinaldi. La mostra sul Tobbio venne ideata dai Viandanti delle Nebbie nella primavera del 1996, e fu allestita per la prima volta nel dicembre dello stesso anno presso la sala espositiva della Biblioteca di Ovada, in Piazza Cereseto. Era costituita da trentacinque tabelloni (di dimensioni 1 x 0,70) a sfondo nero. Al primo allestimento ne seguirono altri tre, a Lerma, a Novi Ligure e a Campo Ligure.

Nel Catalogo compaiono alcune immagini che non erano presenti nei tabelloni originali, in sostituzione di altre che sono andate perdute. Il riferimento “colto” della titolazione è naturalmente alle 101 vedute del monte Fuji, la splendida serie pittorica di Hokusai. Eravamo perfettamente consapevoli allora della distanza negli esiti, ma siamo ancora oggi convinti della prossimità negli intenti e nello spirito.

Le fotografie sono state scattate tutte dai Viandanti, da quelli ufficiali e da quelli in pectore. Anche i disegni, con l’eccezione di un paio di illustrazioni relative alla fauna, sono opera nostra. Sono state inserite inoltre alcune riproduzioni di dipinti che hanno per soggetto proprio il Tobbio: un piccolo assaggio di un’auspicabile futura mostra sul tema.

Per correttezza segnaliamo che già nei primi anni Novanta era stata organizzata quasi clandestinamente in Alessandria una rassegna pittorica dedicata al Tobbio (non un excursus iconografico sul tema, ma una sorta di estemporanea a tema, interpretata secondo le tecniche più diverse) Sino a qualche tempo fa, e segnatamente all’epoca della nostra iniziativa, non ne eravamo al corrente. Di quella rassegna non esiste un catalogo, ma dopo aver visionato alcuni dei materiali rimasti dobbiamo confessare che non ci sembra una gran perdita.

Infine, una dedica. Mentre la mostra era dedicata ad Andrea Longhetti, unica vittima per quanto ne sappiamo della passione per il Tobbio, questo catalogo è intitolato a Piero Jannon, proprio colui che ritrovò il corpo del giovane Andrea e che della passione per il Tobbio è stato e rimarrà l’interprete più genuino.

Perché una mostra dedicata al monte Tobbio?

La domanda suonerà superflua per chi il monte lo ha già salito, una o innumerevoli volte: o anche solo per chi è stato affascinato, nelle occasioni e dalle angolazioni più svariate, dall’inconfondibilità del suo profilo. Ma una spiegazione è dovuta a coloro che non hanno provato né l’una né l’altra emozione. Il Tobbio è diverso, è speciale: e intento della mostra, attraverso l’insistenza sulla sua immagine, è di celebrare una diversità da sempre avvertita, che ha rivestito di un’aura di sacralità e di leggenda una vetta accessibile e modesta.

L’eccezionalità del Tobbio è connessa ad un particolare rapporto tra la sua morfologia e la sua collocazione. La conformazione vagamente piramidale e l’escursione altimetrica tra le pendici e la vetta gli conferiscono un’estesa visibilità, pur in mezzo ad altre formazioni di altitudine pari o addirittura superiore. E questo nitido stagliarsi, sulla direttrice ideale che raccorda il mare alla pianura dell’oltregiogo, lo ha eletto a riferimento geografico, meteorologico e simbolico per eccellenza per le popolazioni di entrambi i versanti dell’appennino.

Incursioni nell immaginario2 Tobbio

AVVERTENZA: Il presente catalogo raccoglie integralmente i contributi e le documentazioni scritte che accompagnano la mostra in oggetto. L’iconografia è ripresa invece solo parzialmente, per le oggettive difficoltà tecniche.

Percorsi

Tobbio Paolo

Lo sviluppo perimetrale della mostra propone, a grandi linee, due diversi itinerari, che possono essere percorsi in parallelo o attuando costanti intersezioni. Il primo ci accompagna in una escursione iconografica a trecentosessanta gradi attorno al Tobbio, colto nei differenti abiti stagionali e meteorologici, e prosegue poi con un ribaltamento del punto di osservazione, trasferito sulla vetta stessa. Il secondo abbozza un excursus storico-scientifico sulle caratteristiche geologiche e naturalistiche del monte, e sul “culto” ad esso tributato. Ciascun pannello offre pertanto una sequenza di immagini corredate di riflessioni generali sul rapporto con la montagna o specifiche su quello col Tobbio, ed una sezione scientifico-documentaria, sviluppata orizzontalmente lungo l’intera mostra.

Noi ci permettiamo un paio di suggerimenti extra. Intanto, quello di percorrere questi itinerari non con il fardello di pignolerie fotografiche, naturalistiche, alpinistiche o che altro, ma in assetto leggero, per ritrovare quella fusione tra reale e fantastico che costituisce la particolare magia di ogni ascensione al Tobbio. Ma, soprattutto, quello di regalarsi un’appendice esterna alla mostra, guadagnando l’altura più vicina e godendosi, se la visibilità lo permette, il soggetto dal vero; o meglio ancora, facendo una puntatina in vetta, per ripercorrere queste immagini dopo aver rotto il fiato, col ritmo giusto per la salita.

Dati essenziali

Coordinate: 8° 48’ 00’’ Long. Est; 44° 35’ 30’’ Lat. Nord
Altitudine: mt. 1092 s.l.m.
Area complessiva: Km2 4.9
Ampiezza massima:   Nord – Sud (Eremiti – Nespolo) Km 3.1
Ovest – Est (Gorzente – P. Daiola) Km 1.8
Escursione altimetrica:        Dagli Eremiti (Nord) m. 533
Dalla Casc. Nespolo m. 587
Toponimo:        molto incerto. È possibile una derivazione dall’antico ligure (tribù dei Mentovini) togisonus (luogo impervio), da cui anticamente Toggio.

Visibilità

Caratteristica precipua del Tobbio è senz’altro la visibilità. Il suo profilo si distingue nettamente, provenendo da nord-est, sin dalle piane o dalle basse colline del pavese. Verso settentrione la sua visibilità non incontra ostacoli lungo tutta la larga fascia pianeggiante che arriva sino al gruppo del Rosa e alle Lepontine, da Ivrea al lago di Como. Da occidente è riconoscibile dai rilievi di tutto l’arco alpino, sino alle Marittime. Meno visibile risulta dal versante appenninico, tra sud-sud-ovest e sud-sud-est, dove il suo dominio trova un limite prossimo nella cresta del Figne, e si frange contro l’altitudine superiore della corona della Val Borbera. In condizioni di eccezionale limpidezza, però, anche chi bordeggi lungo la costa ligure può coglierlo, in uno scorcio ristretto, allineato a nord sulla direttrice del santuario della Guardia.

Appennino - Sergio Fava
Appennino (Sergio Fava)

Montagne sacre

La sacralità di una montagna non è proporzionale alle sue dimensioni, alla sua altitudine o alla sua inaccessibilità, ma piuttosto al significato che essa riveste per le popolazioni che vivono alla sua ombra o nel raggio della sua visibilità, o per gli individui che la salgono.

In questo senso, fatte le debite proporzioni e, soprattutto, assunto il termine con la dovuta “ironia”, la sacralità del Tobbio non ha nulla da invidiare a quella del Kailas o del Meru. E il difetto di esotismo è pienamente compensato dalla paterna confidenza, mista al senso di rispetto, che spira dai suoi costoni, e che ci infonde, ad ogni risalita, una rinnovata serenità.

Escursioni letterarie

Cosa si vede dalla vetta del Tobbio
“Sulla vetta, finalmente, se le nebbie o neri nuvoloni non ti fanno eventuale impedimento, il tuo occhio […] vede lontano lontano, e può contemplare un panorama vario e grandioso, dalla porpora dorata di uno splendido sorger di sole, o di un tranquillo tramonto, alla gradevole vista delle lontane e vaste pianure dell’Alessandrino e Tortonese, nonché delle ridenti colline di Torino, dell’Astigiano, del Monferrato […].

Taccio dei contrafforti dell’Antola, del Penna, della Polcevera; taccio del colle di Masone, della Bocchetta, dei Giovi, che se partitamente non si scorgono, di leggieri però col pensiero si abbracciano nella loro posizione geografica. Taccio del magnifico lago delle Lavezze, che ti fa illusione bella e grandiosa del mare. Taccio del vasto panorama delle Alpi lontane, che ora si levano al cielo in guglie acute come quella del Monviso e monte Bianco, ora si rompono in giogaie […], ora torreggiano come immense piramidi di ghiaccio, ora si disegnano in rupi merlate, in creste capricciose che le nevi intatte adornano di argentea corona. E cento e mille altre cose taccio che non potranno nascondersi ad ogni sguardo scrutatore, degna ricompensa della fatica sopportata per arrivare alla vetta.”
Sac. ERNESTO PITTO

04 Paolo viandante 100

Sì, tutto ci appare sommamente meraviglioso, quando per la prima volta lo abbracciamo con lo sguardo dall’alto del Brocken; da ogni lato il nostro spirito riceve nuove impressioni che, varie fino a contraddirsi, si combinano nella nostra anima in un sentimento grande, ancora confuso, ancora non compreso. Se riusciamo a coglierlo in un concetto, allora abbiamo capito qual è il carattere del monte.
HEINRICH HEINE

05 Tobbio da Campi della marca100

Una faticosa arrampicata simboleggia in primo luogo l’ascesi e la finale liberazione. Di fatto un’arrampicata strappa alle ugge, disperde le ossessioni, infrange il comune regime dalla mente. In cima si arriva emendati e si presterà quindi ascolto ad un succedersi di eventi tutto particolare: giochi di nebbie e schiarite; terse apparizioni del sole, della luna, delle stelle fiammeggianti; corse di sizze e nuvolaglie; paesaggi sottostanti che la prospettiva dall’alto sembra stia per capovolgere e far ruotare e infine, intime al punto che la mente se ne sente aggirata, vertigini che ghermiscono le viscere improvvisamente allo svelarsi di uno strapiombo. Momenti di fraseggio che le parole non saprebbero riferire.
ELEMIRE ZOLLA

Siamo stati ingannati dalle nuvole
Furenti nella fatica della salita
Nessun mare che brilli oltre i crinali
Di sassi che ignorano ormai ogni canto
di pernici e di altri miti lontani.

Ho portato con me le poche cose
Essenziali nella fatica in cui
Volontario mi affretto ad immolare
L’avanzo di questo giorno urbano
Urbanizzato, meglio, da cento vizi
Inutili come, lo so, sarà questa salita.

Di là guarderò i miei mille pezzi
Sparsi nella collina e nelle pianure
Uniti dal filo di un tempo sconosciuto.

Da sempre e per sempre.
EGIDIO GOLA

 Quando gli fu chiesto perché voleva scalare il monte Everest, George Mallory diede un’inconsueta risposta, che è diventata la più famosa e citata motivazione per scalare le montagne: “perché è lì”.
EDWIN BERNBAUM

09 Tobbio Sagoma

Il Tobbio è lì, lo vedo mentre leggo, mentre lavoro, persino quando riposo. Lo cerco tornando dalle vacanze estive; si distingue anche da lontano. Dal paese dove son nato appare, forse per la distanza, maestoso, con un grumo nero in vetta: non da moltissimo ho saputo che è la chiesa – rifugio.
Mi ci sono avvicinato lentamente, a tappe; sono, quasi, le tappe della mia vita. Ora lo conosco, da vicino; e mi piace, è un bel monte: fa parte delle cose buone, come le formidabili sudate per salire e per discendere, sempre all’inseguimento di qualcuno o qualcosa che sta davanti, come gli intensi, stratificati ricordi a lui legati. Ricordi …
Una sera d’autunno, nebbiosa e fredda, superammo l’ultimo costone; tra brandelli di nebbia la chiesa appariva e scompariva; dappresso due o tre ombre di muovevano. Ci avvicinammo; erano tre ragazzi; uno di loro, legato ad uno strano farfallone, un parapendio, prese silenziosamente la rincorsa sul costone e si lanciò nel vuoto …
O quella volta che, dopo una stentata nevicata, eravamo convinti di essere i primi a calpestare la neve, e non un’orma umana o divina appariva intorno alla chiesa. Eppure all’interno, la stufa accesa, un essere angelico sorridente, atletico, ci accolse …
Un monte di ricordi.
FRANCO VALLOSIO

Soprattutto, non perdete la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata … ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati … Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.
SØREN KIERKEEGAARD

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

È un generale impulso che tutti gli uomini provano, benché non tutti lo notino, che sulle alte montagne, là dove l’aria è pura e sottile, si sente maggior facilità nella respirazione, maggiore leggerezza nel corpo, maggior serenità nello spirito; i piaceri vi sono meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni vi assumono non so qual carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, e non so quale tranquilla voluttà che nulla ha di acre e di sensuale. Sembra che elevandosi al disopra delle abitazioni degli uomini, si lascino tutti i sentimenti bassi e terreni, e che man mano ci si avvicina alle regioni eteree l’anima assuma qualche cosa della loro purezza inalterabile.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

Percorrendo la Direttissima, ad un certo punto ci si trova di fronte ad una cresta ripida, superata la quale la pendenza diminuisce, addolcendosi sino alla vetta del Tobbio; sicuramente questo è il tratto più impervio del sentiero. Mentre arranco sbuffando, un unico pensiero mi ronza in testa: vorrei che fosse già visibile il campanile. Continuo a camminare, un passo dietro l’altro: vorrei vederlo ORA, subito.
Questo desiderio di vedere ciò per cui fatichiamo, riguarda in questo caso la montagna e la vetta: ma non è raro che si riferisca ad altri ostacoli, ben più ardui, nei quali troppo spesso ci imbattiamo: alcuni la chiamano sindrome del “Sole nero”. È un male che morde dentro, un malessere dell’anima che non lascia tregua, per il quale non esiste cura se non la volontà di uscirne: ma il rischio di riammalarsi è sempre lì, basta niente per ricascarci. Mi piacerebbe sapere cosa sto affrontando, distinguerlo, guardarlo negli occhi.
Camminare, così come leggere, non offre la soluzione, ma è almeno un modo per non precipitare. Percorrere sentieri più o meno impervi ci aiuta a non farci sopraffare dalla pigrizia, ci induce a fissare delle mete.
Leggendo, poi, ci si rende conto che altri stanno soffrendo le nostre stesse angosce, che altri provano le stesse emozioni. È una consolazione relativa, anche amara, ma ci fa sentire meno soli.
Dall’anticima vedo finalmente stagliarsi il profilo del rifugio; ma è solo un attimo, il tempo di una folata di vento che alza la nube. Quando ci si porta dentro questo male oscuro, a volte la si intravvede appena la meta; poi torna la nebbia.
FABRIZIO RINALDI

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Le montagne dimorano sempre in pace e sempre camminano. Esaminate attentamente questa qualità delle montagne … Se dubitate della qualità camminatrice delle montagne, non conoscerete il vostro stesso camminare … Non sono né senzienti né insenzienti le verdi montagne, voi non siete né senzienti né insenzienti. A questo punto non potete dubitare che le montagne camminino.
DOGEN

08 Tobbio Nebbie

Ho capito che salire il Tobbio stava diventando per me un atto rituale quando ho cominciato ad amare la discesa. Lo confesso, ormai salgo al Tobbio soprattutto in funzione del piacere di tornare a valle. Scendo appagato, con la coscienza di chi ha compiuto il suo dovere e può vivere più serenamente quel che resta del giorno, o della settimana. Mi piace calarmi dalle nuvole, recuperare ai piedi l’asfalto, agli occhi ed alla mente gli orizzonti angusti della quotidianità. Mi piace perché scendo ogni volta dal Tobbio con una rinnovata carica di genuina intolleranza, di quella sana cattiveria che rimane l’unico antidoto per sopravvivere ai miasmi e ai tafani dell’imbecillità stagnante a fondovalle.
PAOLO REPETTO

Per la sua natura primordiale, per la sua elementarità, per la sua lontananza da tutto ciò che è piccolo mondo, dai pensieri e sentimenti dell’uomo moderno addomesticato e razionalizzato, la montagna invita anche spiritualmente ad un ritorno alle origini, ad un raccoglimento, alla realizzazione in sé di qualcosa che rifletta la semplicità, la grandezza, la forza pura e l’intangibilità del mondo delle vette gelate e lucenti. Che quasi ogni antica tradizione abbia conosciuto il simbolismo della montagna, concependo le altezze montane come la sede o di forze divine ed olimpiche, o di eroi e di uomini trasfigurati, questa è la conferma per il potere evocatorio or ora attribuito alla montagna.
JULIUS EVOLA

19 Tobbio sagoma e nebbie

Ecco, sono ai piedi del monte; metto in moto il mio corpo e comincio a salire. Passo dopo passo, respiro dopo respiro, pensiero dopo pensiero salgo. Aumentando la frequenza dei passi aumenta la frequenza dei respiri e diminuisce la frequenza dei pensieri: non è anche per questo che ascendo il monte? Aumentando ulteriormente il ritmo, corpo e mente si plasmano in funzione della roccia, diventano funzionali ad essa; il pensiero scompare.
Arrivo in vetta; rifiato. Il pensiero, come accade ad un ruscello in un fenomeno carsico, ricompare, sgorgando dai meandri più reconditi della mente dove si era rifugiato, più puro e più forte.
GIUSEPPE SCHEPIS

Non so come dovrei esprimermi perché ho quasi l’impressione che i pensieri s’arricchissero di grandezza, di sublimità, armonizzandosi con quanto l’occhio scorgeva vagando, quasi respirando una sicura gioia tranquilla, lontana da qualsiasi passione, da ogni sensualità.
È come se d’un tratto ci si sollevasse al di sopra delle dimore dei mortali, abbandonando ogni volgare sentimento terreno; è come se l’anima, avvicinandosi alle regioni eteree, assorbisse dalla loro sempre immutabile purezza. Un sentimento austero s’impadronisce di noi, senza mutarsi in malinconia; un sentimento di pace tuttavia alieno da ogni molle rilassatezza ci pervade e siamo felici di esistere, felici di pensare, felici di sentire. La veemenza delle passioni si smorza, perdono quel loro affilato aculeo che le rende dolorose, lasciando nel cuore una tenue e piacevole commozione. In tal modo le passioni, che altrimenti sono fonte di pena per l’uomo, si trasformano in fonte di felicità.
JEAN JACQUES ROUSSEAU

10 Tobbio tra la nebbia

Ci sono montagne nascoste nelle gemme; ci sono montagne nascoste nelle paludi e montagne nascoste nel cielo; ci sono montagne nascoste nelle montagne. C’è un’infinità di montagne nascoste nel nascosto.
DOGEN

Immaginate una bella giornata d’agosto. Due amici che decidono di salire sul Tobbio. Di questi, uno non c’è mai stato e l’altro è orgoglioso di accompagnarcelo, perché questo è il suo monte. Immaginate nessuno sul monte, non solo, neanche un alito di vento (ce ne vuole per immaginarlo!) I due siedono di faccia al sole di mezzogiorno. Parlano della vita, seduti sulla pietra calda. Sono nudi, la pelle arrostita dal sole, gli occhi socchiusi. E parlano, parlano. Potrebbe durare così mille anni. Il tono sarebbe sempre lo stesso, quello che hanno i sognatori.
Ora stanno lì, immobili, come fossero di pietra. Due uomini di pietra. Una leggenda boliviana narra che Dio, la montagna, creò i primi uomini così. Poi, perché non si sgretolassero come sabbia al vento, diede loro anche un cuore, un tenero cuore di pietra. Per alcuni istanti i due amici lo sentono palpitare nei crepacci segreti del monte, e vorrebbero tornare al tempo in cui dentro ogni uomo c’era una montagna. Scendono, i due amici, e i loro passi rimbombano giù nella valle, come ad annunciare un messaggio. Ma all’improvviso si fermano e si guardano in faccia, dubbiosi: chi potrà mai credere alla loro storia? Da troppo tempo gli umani non hanno più teneri cuori di pietra.
GIAN LUIGI REPETTO

Riflessioni sul monte Tobbio 01

E dovete camminare come il cammello, l’unico animale, così si dice, che rumina mentre cammina. Un viaggiatore una volta chiese alla domestica di Wordsworth di mostrargli lo studio del suo padrone, e lei rispose: “Questa è la biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta”. 
HENRY DAVID THOREAU

Nelle circostanze difficili della vita, vi parrà di essere ad una difficile salita. Un istante di viltà, di imprevidenza perde tutto. Il coraggio, la previdenza, la costanza, la lealtà può farvi vincere ogni cosa. Vi accorgerete allora del grande valor morale educativo dell’alpinismo.
Non vi accade mai che un pensiero non nobile venisse ad oscurarvi l’animo sopra una vetta alpina. Non vi hanno ivi che generose aspirazioni verso il buono, la virtù, la grandezza. Io non so se un quadro di grande artista, lo scritto di un sapiente, il discorso di un eloquente oratore possa produrre nell’animo umano impressioni così profonde e così elevate quanto lo spettacolo della natura sulle vette.
QUINTINO SELLA

11 Tobbio alba neve

Per il fatto che montagne si stagliano contro il cielo e l’ambiente circostante, richiamando l’attenzione sulle loro eccelse sommità, le visioni tendono a radunarsi e a modificarsi intorno a loro come le nubi intorno alle vette. Essendo l’aspetto più imponente del paesaggio naturale, quello che ci è possibile vedere e cogliere come un tutto unico, si prestano a giustapposizioni con immagini di unità e di completezza che in numerose tradizioni sono associate al concetto del sacro.
EDWIN BERNBAUM

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,

che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]

WILLIAM WORDSWORTH

Il seguire un percorso dal principio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) […]. La necessità di comprendere in un’immagine la dimensione del tempo insieme a quella dello spazio è all’origine della cartografia. Tempo come storia del passato […] tempo al futuro: come presenza di ostacoli che s’incontreranno nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico […]. La cartografia insomma, anche se statica, presuppone una idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea.
ITALO CALVINO

Luna piena. Aria fredda che brucia la pelle, e anche sotto.
Per poter salire senza accendere le torce ci spostiamo sul versante opposto agli Eremiti. Lo spettacolo rimarrà nella nostra memoria per un bel po’. La luce lunare fa risaltare particolari che altrimenti non percepiremmo. Ogni albero, ogni pietra, ogni canalone della montagna hanno una forma distinguibile e delineabile. Tutto viene percepito dai nostri occhi come una singolarità, non come un “complesso”.
A Giuseppe tornano in mente versi del “Canto notturno”. Un posticino nello zaino della nostra immaginazione Leopardi lo occupa sempre.
“Sorgi, la sera, e vai,
contemplando i deserti […]”
Paolo ci invita a fermarci, e al silenzio; stiamo camminando, anzi fluttuando in un sogno latteo. Il paesaggio che ci circonda avrebbe mandato in delirio qualsiasi poeta o pittore romantico.
Mi ritrovo a recitare silenziosamente la preghiera che i fedeli pronunciano mentre salgono al monte Fuji: “Sii pura … Conserva il tuo splendore, o montagna!”. E mentre proseguo mi abbandono al sogno, e lo popolo degli esseri fantastici che abitano la montagna: un unicorno mi passa accanto, talmente veloce che quasi mi fa cadere. Dalla cresta di una roccia un lupo bianco mi fissa con i suoi occhi luccicanti, poi ulula alla luna. Un brivido mi percorre la schiena.
Mi risvegliano le parole di Paolo: dalla vetta indica le luci a valle. Anche la realtà della pianura può essere bellissima, vista da quassù.
FABRIZIO RINALDI

14 Tobbio e Figne

Mi pongo questo problema. Il Tobbio, e la montagna in genere, la letteratura, e la cultura in genere, sono dunque solo dei compensativi, falsi scopi rispetto ad un’esistenza che si rivela man mano più vuota ed arida? Me lo pongo proprio mentre sto salendo al Tobbio, con calma, e discuto di letteratura con Franco. La risposta che mi do è che probabilmente le cose stanno così.
Pur tuttavia, dice Franco … (Franco non dice mai “pur tuttavia”, ma è come lo dicesse sempre). Dopo un altro paio di tornanti conveniamo che un senso tutto questo ce l’ha comunque, perché consente di trascorrere il tempo, riempiendolo bene o male, anziché lasciarlo passare, subendolo (patior). Trans-currere, correre attraverso, usato come transitivo, implica che mentre scalo, cammino, leggo, sono io ad agire, magari per interposta persona, o per spazi evocati: è un ex-sistere, sottrarsi all’immobilità omologante dell’essere, e non un ad-sistere, e meno ancora un recitare nello spettacolo. Non sono dunque tutti assimilabili i comportamenti dell’uomo: perché alcuni, quelli “attivi”, producono una consapevolezza (o ne sono frutto, il che è lo stesso) che si traduce in buona disposizione sociale, comprensione, ecc.: gli altri producono solo antagonismo e asocialità.
PAOLO REPETTO

Paolo e il Tobbio

È vero, siamo dei crociati miserabili, e lo sono anche quei camminatori che, ai giorni nostri, non affrontano imprese tenaci e di lunga durata. Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che tornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito di avventura, come se non dovessimo mai far ritorno.
HENRY DAVID THOREAU

19 Tobbio sagoma e nebbie

Scorrendo vecchie fotografie mi accorgo di una costante che ritorna, in primo piano, sullo sfondo, come un piccolo particolare: è il monte, il monte Tobbio a farla da padrone in quelle immagini incorniciate.
Molti volti lì impressionati sono ormai scoloriti nei miei ricordi, molte persone sono approdate su altri versanti, hanno raggiunto nuove vette. Chissà se sono tutte migliori di questa. Ma il Tobbio è sempre lì, sempre quello: immobile sacra collina dove ad ogni angolo credi (e speri) di incontrare un vecchio sciamano o un sacro portale aperto sul vuoto. Ed è salendo in questo vuoto che ritrovi te stesso e ritrovi anche gli altri, quelli “scoloriti”.
Forse perché – ma è solo un’idea – il Tobbio, come il cuore, conserva le orme di chi è passato anche una volta sola sui suoi sentieri. E a noi spetta (solo) il compito di ritrovarle e di saperle leggere, le orme. Troppo facile – ed inutile – sarebbe a questo scopo incamminarsi in pianura …
ANTONIO CAMMAROTA

16 Tobbio tra gli alberi

[…] Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave,
e quanto uom più va su, e men fa male.
Però quand’ella ti parrà soave
tanto, che il su andar ti fia leggiero,
come a seconda giuso andar per nave,
allor sarai al fin d’esto sentiero:
quivi di riposar l’affanno aspetta […]
DANTE (Purgatorio, 4)

Segnali di fumo 06 Tobbio nella nebbia

Resta un filo di fiato ferito
dove il passo è pensiero
tra il profilo del cuore
e lo sguardo che s’ impietra
e salendo per l’erta
che altera il sangue ineguale
lasci le parole, finalmente,
e il di più, e il chi e il quale,
come se fosse niente.
MARCELLO FURIANI

Comincio a camminare cercando di non impantanarmi nelle pozzanghere. Gli amici scelgono di salire per la Diretta. Come un mulo rassegnato li seguo, ma in un attimo le gambe diventano rigide, le ginocchia sembrano esplodere. Il fiato prima mi manca, poi si trasforma bruciandomi i polmoni.
No, io mollo, chi me lo fa fare? Torno giù, al bar, a bere, con gli altri, i sedentari, magari a sparlare di chi ama le assurde faticate.
Ma questi salgono senza lamenti, anzi, si scambiano battute. È una sfida, con loro, con il mondo, con me stesso.
Immagino d’essere qui, cinquant’anni fa, braccato dagli uomini in nero.
Lentamente il fiato si spezza, le gambe si fanno elastiche. Comincio persino a guardare oltre a dove poso i piedi. L’Inferno ha lasciato il posto al Purgatorio. Cammino riflettendo, faccio mille propositi. Dovrei cambiare vita, smetterla di sputtanarmi. Cerco nella nebbia della mia mente altre possibilità, immagino diverse situazioni. Gli occhi s’allargano negli orizzonti che mi trovo davanti, convincendomi che posso scalare anche altre cime.
In vista della Chiesetta, l’aria pare disegnarmi un paio d’ali. Le gambe scappano dai calzoni, ho voglia di correre.
Mi guardo attorno, respiro da ogni poro della pelle, mentre il cielo mi entra negli occhi … eccomi in Paradiso.
MAURO OLIVIERI

21 Tobbio Chiesetta tra neve e nubi

… E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fungendo al viver mio!
GIACOMO LEOPARDI

Insomma, se non riuscite a capire che vi è qualcosa nell’uomo che raccoglie la sfida lanciata da quella montagna e va ad affrontarla, che la lotta è la lotta della vita stessa verso l’alto, sempre più in alto, allora non capirete mai perché ci andiamo. Quello che otteniamo da un’avventura come questa è soltanto gioia pura. E la gioia, in fin dei conti, è il fine della vita. Non viviamo per mangiare e per far soldi. Mangiamo e facciamo soldi per godere della vita. Ed è questo il significato della vita ed è per questo che è fatta la vita.
GEORGE MALLORY

Il Tobbio è misura degli spazi dell’immaginario, diaframma tra i mondi nei quali sono cresciuto. Da ragazzino vivevo a Genova e il Tobbio era il luogo oltre il quale c’erano la campagna, i giochi sulla ghiaia con i cugini, le pentole fumanti della nonna. A sedici anni mi sono trasferito in cascina, ed era il Tobbio a nascondere la città con le sue luci, i “caruggi” strettissimi, l’università, le ragazze. Era allora la materializza­zione di uno spazio mentale capace di dividere le due realtà che, per diversi motivi, fuggivo ed anelavo confusamente, con un’incertezza determinata forse da quelle nuvole che così spesso annebbiano, con la cima del monte, anche i miei pensieri.
GIACOMO GOLA

Ho sempre pensato che una montagna non possa che essere splendidamente indifferente: ho sempre guardato alle credenze locali come a superstizioni da rispettare, e ho sempre cercato di fuggire alla tentazione di attribuire facoltà umane ad una montagna. Ma questa volta comincio a rendermi conto che nel rapporto fisico con una montagna molto dipendeva dalla disponibilità mentale.
PETER BOARDMAN

Salire la Montagna da soli procura sicuramente emozioni differenti dal farlo in compagnia. Anzitutto bisogna vincere la paura di non farcela che coglie coloro che, come me, non sono particolarmente allenati. Il Tobbio è una montagna imprevedibile, come ogni monte che si rispetti a volte ci spiazza con i suoi cambiamenti repentini. I sentieri che lo salgono sono impervi, impervi come quelli della vita. E l’amor proprio, l’orgoglio, quei fattori “propulsivi” che quando si sale con altri ci fanno tener duro, per non essere i primi a cedere, non servono a nulla. La decisione di mollare o proseguire spetta unicamente alla nostra volontà e testardaggine. La forza per vincere queste paure, gli stimoli per andare avanti quando le gambe tremano, si possono trovare solamente dentro, attingendo magari alla fantasia, immaginando avventure più o meno verosimili. Si può fingere di scalare montagne ardue e immense: oppure sfidare la tramontana come fosse un vento gelido del Polo Nord. O ancora, quando il sole cocente secca le labbra, possiamo trasferirci nel deserto cinese di Takla Makan.
Fantasie, che ci spingono avanti … avanti fino alla cima. Fino a guadagnare il “tetto del mondo”. (Insomma…!)
FABRIZIO RINALDI

Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, locché non vuol dire imprudenti ed imprevidenti. Ha gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pure esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele.
QUINTINO SELLA

22 Tobbio Chiesa cielo azzurro e nubi

[…] la luna stava nuda nei cieli, ad altezza
immensa sopra la mia testa, e sulla sponda
mi trovai di un grande mare di nebbia,
che, mite e silenzioso, giaceva ai miei piedi.
Cento colline alzavano i dorsi oscuri
per tutto il quieto oceano; più oltre,
molto più oltre, i vapori balzavano,
con forme di capi, lingue, promontori,
entro il mare, il mare vero […]
WILLIAM WORDSWORTH

 Fluttuando al di sopra nelle nubi, materializzandosi fuori dalla nebbia, le montagne sembrano appartenere a un mondo totalmente differente da quello che conosciamo, facendoci percepire il sacro come l’assolutamente diverso.
EDWIN BERNBAUM

07 Tobbio Chiesetta

Le cose più degne di ammirazione sono quelle che non si possono esprimere, i ricordi indimenticabili non fanno esprimere epitaffi …”, così scriveva Herman Melville nel 1850, ripensando ai viaggi negli oceani effettuati per “scacciare la tristezza e regolare la circolazione”!
Quante volte, nella mente non estranea alla “dimensione sognante”, l’ansia di trasmettere emozioni vissute sulla propria pelle si risolve in un inutile affanno! Il pensiero sembra restare sospeso, come in un lampo magico che trascende parole scritte o dette. È questo il segnale più vivo, che dà la misura dei momenti magici. Come quelli che porti dentro da quando, come un vecchio mohicano incallito, lasci dietro le spalle percorsi frenetici e folli, costretti fra troppi “artifici” inutili e finti, per inseguire il richiamo antico e saggio che conduce alla “tua” Vetta. L’allusione iniziale apparirà, così, un po’ meno paradossale: in fondo, sono parole di chi ha saputo trovare il proprio “rifugio” personale – non importa poi tanto se fra gli orizzonti dei mari o fra i sassi di valichi e pendii. O, forse, volersi riprendere il giusto ritmo del tempo e dello spazio appartiene ormai soltanto al sogno? (il sogno è a due passi … ed esiste un linguaggio – proprio dei sogni che va al di là delle parole).
ENZO CAPELLO

La Montagna insegna il silenzio, la castità della parola e dell’espressione. Disabitua dalla chiacchiera, dalla parola inutile, dalle inutili, esuberanti effusioni. Essa semplifica ed interiorizza. Il segno, l’allusione sono qui più eloquenti di un lungo discorso.
JULIUS EVOLA

Fabrizio Bruzzone - Il Tobbio 100x105
Il Tobbio (Fabrizio Bruzzone)

Trovammo in una valletta del monte un vecchio pastore, che cercò di dissuaderci dal salire, narrandoci che cinquant’anni fa, preso dal medesimo nostro ardore giovanile, egli era salito sulla cima, e non ne aveva riportato che delusione e fatica … Mentre egli così si scalmanava, in noi – com’è nei giovani, restii ad ogni consiglio – cresceva per quel divieto il desiderio.
FRANCESCO PETRARCA

Salendo il Tobbio si ha una diversa percezione delle durate. Il tempo dell’ascesa e del ritorno non lo si quantifica nelle consuete ore d’auto, ma in inusuali ore di cammino. Così come leggere, camminare aiuta a prendere coscienza di una diversa scansione ed estensione temporale.
In un mondo nel quale è possibile sapere se in Cina, in questo preciso istante, fa caldo o freddo, il Tobbio esce dal computo. Lì il tempo si misura in passi, in soste per guardarsi attorno. Bisogna avere l’umiltà di rallentare la corsa. Chi sale sul Monte sa che trascorrerà del tempo prima che egli torni in valle, e questo tempo lo trascorrerà camminando, trascinato avanti solamente dalla sua volontà.
FABRIZIO RINALDI

Tobbio nelle nebbie da Grillano 01_11 _2012 01 3

Io sono un viandante, uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo.
E qualunque destino o esperienza mi tocchi, – in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.
FRIEDRICH NIETZSCHE

Secondo un mio vecchio chiodo l’alpinismo è cultura, è attività perfetta dell’uomo, dove l’uomo è uguale a Dio, perché è l’unica dove conoscere e fare sono una cosa sola.
MASSIMO MILA

Le montagne, l’aspetto eccelso e il più spettacolare del paesaggio naturale, possiedono lo straordinario potere di evocare il sacro. L’etereo sorgere di una cresta nella foschia, lo scintillio del chiarore lunare su una parete di ghiaccio, un bagliore dorato su una vetta lontana: questi istanti di trascendente bellezza possono rivelarci che il mondo in cui viviamo è un luogo di misteri e splendori inimmaginabili. Nella furiosa schermaglia degli elementi naturali che turbinano intorno alle loro vette – tuoni, folgori, venti e nubi – le montagne sono anche la personificazione di possenti forze ben al di fuori del nostro controllo, sono le espressioni fisiche di una realtà che ci può sopraffare con sentimenti di meraviglia e timore.
EDWIN BERNBAUM

Tobbio con nuvole

Se appartenessimo a culture diverse, lontane nello spazio e nel tempo, non avremmo osato violarne la cima: l’avremmo considerata sacra, abitata da divinità inaccessibili. Purtroppo (o per fortuna) il nostro atteggiamento dissacratorio nei confronti della natura, erede del cristianesimo e di Voltaire, fa sì che non esista più alcuna vetta vergine, alcun fazzoletto di terra sacro e inviolabile.
Proprio per questo, spenta ormai ogni sete di conquista e di record, possiamo riscoprire nell’ascesa al Tobbio, ai tanti Tobbio che esistono sulla terra, una dimensione diversa, più vera; possiamo cercare quella catarsi che il nostro tempo ci nega, e insieme ci impone.
Sono soprattutto i percorsi inventati sul momento, lungo le rughe del Tobbio, a farci scoprire dimensioni sempre nuove. Tra le asperità, le polle d’acqua sgorgano dal sottosuolo come da un impossibile fenomeno carsico, diventando talvolta tramite di involontari riti di purificazione. Poi, giunti alla vetta, è il vento ad accoglierci e a penetrarci: quel vento che, se ci volgiamo a sud, porta l’odore di salso che arriva dal mare.
FABIO MARCHELLI

I monti stanno immobili: ma noi, dove ci fermeremo?
FRIEDRICH HÖLDERLIN

Sali sulla montagna e cogline i doni. La pace della natura fluirà in te come il sole si infiltra tra gli alberi. Il vento ti infonderà tutta la sua freschezza, e la tempesta la sua energia, mentre gli assilli si staccheranno da te come foglie d’autunno.
JOHN MUYR

Basta un colle, una vetta, una costa. Che fosse un luogo solitario e che i tuoi occhi risalendolo si fermassero in cielo. L’incredibile spicco delle cose nell’aria oggi ancora tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dei fin dall’inizio.
CESARE PAVESE

Il Tobbio è un illusionista. Il suo fascino consiste nel far credere ciò che non è. La sua massa rocciosa, un po’ discosta dai “fratelli” dell’Appennino Ligure, illude sulla sua altezza. I suoi dirupi sono un miraggio di Alpi, la Chiesetta alla sua sommità poi da il tocco finale … In questi giochi d’immagini, non si finisce mai di conoscerlo.
DIEGO CARTASSEGNA

Il Tobbio - Francesco Pendibene
Il Tobbio (Francesco Pendibene)

 Il potere di una simile montagna è così grande eppure così sottile che gli uomini se ne sentono istintivamente attratti, da vicino e da lontano, come dalla forza di un’invisibile calamita; e saranno disposti a sopportare difficoltà e privazioni nel loro inesplicabile anelito di avvicinare il centro di quel sacro potere. Nessuno ha conferito tale sacralità a quella montagna, eppure tutti gliela riconoscono; nessuno deve difenderne la rivendicazione in quanto non c’è nessuno che ne dubiti; nessuno deve organizzarne il culto, perché chiunque si sente sopraffatto dalla mera presenza di una simile montagna e non è in grado di esprimere i propri sentimenti altro che con la venerazione.
GOVINDA

A chi ama cercare funghi, andare per more o semplicemente passeggiare per i nostri boschi, è sicuramente già capitato di smarrirsi, di perdere l’orientamento, anche per un solo istante.
In tale occasione ha alzato gli occhi dai suoi passi e ha cercato all’orizzonte l’inconfondibile profilo del Tobbio. È un gesto istintivo, non cerchiamo il Figne, il Tugello, la Colma, ma il Tobbio, proprio perché costituisce da sempre “il” punto di riferimento, perché sovrasta gli altri per imponenza e riconoscibilità. È lo Uluru dell’ovadese (Uluru è la definizione aborigena dell’Ayers Rock, in Australia, immenso monolite che i nativi considerano il tramite tra il mondo dei sogni e quello degli uomini).
Fin da bambini, quando col padre o col nonno ci si avventurava nei boschi, e invece di cercare funghi e raccogliere castagne, ci si perdeva nella scoperta dell’orizzonte, abbiamo fatto conoscenza con la Montagna, prima ancora che qualcuno ce ne dicesse il nome.
FABRIZIO RINALDI

Il Tobbio - Anselmo Carrea
Il Tobbio (Anselmo Carrea)


Appunti di geologia sul Monte Tobbio e dintorni

Vediamo di capire quali sono gli eventi geologici che nel corso di milioni e milioni di anni hanno interessato la zona su cui sorge oggi il Monte Tobbio.
La zona del Parco delle Capanne di Marcarolo, benché geograficamente sia inserita per intero nell’Appennino Ligure, geologicamente si trova nella zona di contatto tra le Alpi e l’Appennino. Proprio in quest’area, infatti, passa la linea Sestri-Voltaggio, che separa complessi rocciosi di tipo alpino, di cui il Tobbio fa parte, da rocce appartenenti alla zona appenninica. Il Monte Tobbio appartiene alla formazione alpina del Gruppo di Voltri, e più precisamente al gruppo Erro-Tobbio, che di questa formazione fa parte.
All’inizio del Triassico (225 milioni di anni fa), nella zona più o meno corrispondente alle attuali Liguria e Piemonte si estendeva un mare relativamente poco profondo, che si stava lentamente ampliando e approfondendo; favorite dalla profondità modesta delle acque e dal clima caldo di quel periodo si svilupparono scogliere analoghe a quelle delle attuali barriere coralline. Il graduale e progressivo sprofondamento dei bacini marini era dovuto alla separazione dell’antica crosta continentale in due blocchi divergenti che si muovevano in direzione opposta.
La separazione e l’allontanamento dei due blocchi, causati dai movimenti del Mantello (lo strato più denso, sul quale “galleggiano” le rocce più leggere della Crosta Continentale), era accompagnata dalla risalita di rocce profonde e di magmi dovuti a processi di fusione del mantello stesso. Le rocce che risalivano come frammenti solidi del mantello sono di natura prevalentemente lherzolitica, di cui troviamo esempi sul nostro Monte Tobbio.
Queste masse rocciose erano giunte a formare il pavimento di quello che era ormai un vero e proprio oceano, la cui larghezza massima al passaggio Giurassico-Cretaceo (150-120 milioni di anni fa) è stimata di circa 250-500 km. Possiamo immaginare una situazione simile a quella che si sta verificando nelle zone del Mar Rosso, che prelude all’apertura di un bacino oceanico.
All’inizio del Cretaceo superiore (160 milioni di anni) i blocchi continentali che si erano precedentemente separati invertirono la direzione del loro spostamento ed iniziarono un movimento che li avrebbe portati a collidere. Sotto l’azione compressiva dei blocchi continentali la crosta oceanica subì uno sprofondamento che la fece scorrere sotto la crosta continentale (subduzione). Durante lo sprofondamento le rocce subirono un lento progressivo riscaldamento (fino oltre 450° C), accompagnato da un rapido aumento della pressione (circa 10 Kbar, pari ad una profondità di 30 Km); le rocce vennero inoltre deformate dalle energiche spinte conseguenti al movimento dei blocchi. Con il procedere delle fasi orogenetiche anche le rocce subdotte a grandi profondità vennero coinvolte nelle fasi di ripiegamento e sollevamento che portarono alla formazione delle catene alpine, di cui il Gruppo di Voltri fa parte.
L’unità Erro-Tobbio risulta quindi costituita quasi esclusivamente da peridotiti tettoniche. Le rocce peridotitiche di questa unità sono non di rado profondamente serpentinizzate ed interessate da eventi deformativi. Sul Monte Tobbio e nei suoi dintorni possiamo trovare esempi di queste rocce sotto forma di lherzoliti.
A partire dall’Eocene superiore (circa 40 milioni di anni) le rocce coinvolte nelle complesse vicende tettoniche e metamorfiche sopra descritte affiorarono a costituire terre emerse.
Con l’Oligocene inferiore (circa 35 milioni di anni) il mare iniziò ad avanzare sulle terre emerse per formare un bacino che corrispondeva in gran parte all’attuale versante padano, mentre verso l’attuale versante tirrenico predominavano le terre emerse.
Quindi, immaginando ipoteticamente di trovarci sulla cima del Tobbio circa 30 milioni di anni fa, con lo sguardo rivolto verso Nord, dove oggi vediamo la pianura avremmo ammirato il mare.
Gli eventi tettonici sopra descritti hanno generato le rocce che oggi costituiscono il Tobbio. Queste rocce, avendo subito intensi processi deformativi, risultano intensamente fratturate, e tale frantumazione la possiamo sperimentare quando, accingendoci a brevi arrampicate sulle sue asperità, ci troviamo spesso di fronte al venir meno di appigli che poco prima avevamo creduto sicuri.
Fabio Marchelli

Tobbio aaa

Gli ambienti

Le nostre montagne e le nostre valli dovevano apparire, al viaggiatore che le avesse attraversate secoli orsono, magari in epoca pre-romana, certamente molto diverse da come noi, oggi, le vediamo. Cerchiamo di immaginare una vastissima foresta che ricopra gran parte dell’Europa, un bosco immenso che colleghi il Mare del Nord con le tiepide acque del Mediterraneo, non conoscendo altri ostacoli al di fuori di quelle zone – al di sopra di una certa altitudine – in cui le condizioni ambientali fossero troppo difficili per permettere la vita degli alberi. Niente città, solo minuscoli villaggi di poche case, campi coltivati più simili a piccoli orti che alle estese coltivazioni cui oggi siamo abituati. Un viandante che fosse passato nei pressi del Monte Tobbio, avrebbe dovuto attraversare l’esteso bosco di rovere che ne ricopriva le pendici, sfumando a faggio solo nelle zone più alte e ad esposizione più fresca del monte, e ad altre essenze – orniello, ciliegio, olmo, farnia – man mano che ci si avvicinava alla pianura: forse avrebbe ricevuto ospitalità presso qualche cascina, probabilmente avrebbe incontrato il lupo, l’orso, la lontra, la lince o il cervo. Tale situazione non si è protratta a lungo. In ragione dell’aumento della popolazione umana, è stato giocoforza nel corso dei secoli cercare nuovi spazi da colonizzare, ove aprire radure, coltivare, costruire villaggi, permettere il pascolo agli animali domestici. Il bosco assunse al contempo un’importanza fondamentale: da esso l’uomo ricavava nutrimento, legname per costruire le case, per riscaldarsi, strame per il bestiame. L’introduzione del castagno, avvenuta presumibilmente in età romana, rappresentò un momento cruciale, divenendo ben presto tale pianta il fulcro stesso dell’economia rurale. Più tardi le esigenze di Genova, potenza navale che veniva proprio in queste zone a rifornirsi di legname per costruire la propria flotta, e delle nascenti attività protoindustriali – ferriere e vetrerie – dei fondovalle, contribuirono non poco all’impoverimento definitivo della risorsa “bosco” locale.
All’inizio del XX secolo questi luoghi appaiono profondamente diversi da come li avevamo conosciuti all’inizio del nostro viaggio. Ampi pascoli e zone brulle si sono sostituiti alla foresta ed il bosco, ove è riuscito a sopravvivere, è ridotto ad un insieme deperiente di alberi ceduati per fornire legna da ardere, spesso tagliati ad intervalli troppo brevi. La minaccia del dissesto idrogeologico, più che mai concreta, suggerisce di tentare di ricostruire la copertura boschiva perduta: ecco iniziare le opere di rimboschimento, che, a partire dai primi anni del secolo, ricoprono intere pendici dei monti con specie del tutto estranee alla nostra realtà, quali il pino nero ed il pino marittimo.
Il resto è storia dei nostri giorni: tutti abbiamo sentito parlare di spopolamento dei monti, di abbandono delle attività agricole; del dissesto idrogeologico del nostro territorio abbiamo invece menzione solo in occasione di qualche alluvione…

Tobbio da Moglioni - Fabri

La realtà attuale

Come già sottolineato, gli ambienti che il monte sa offrire al suo visitatore appaiono profondamente segnati dall’impronta dell’uomo. La cessazione – ormai da qualche decina di anni – di ogni attività antropica permette peraltro la continua evoluzione degli ecosistemi che, spontaneamente, tendono a rinaturalizzarsi, a divenire cioè ecologicamente stabili, con un processo che dura diverse decine di anni.
Il principale fautore di tali trasformazioni è il cosiddetto “bosco pioniero”, formato cioè da alcune specie di alberi ed arbusti che, per primi, in virtù delle proprie ristrette esigenze ecologiche, riescono ad occupare un terreno. Ricordiamo, tra tali specie, il sorbo montano (Sorbus aria), per queste zone di estrema importanza e diffusione e la frangola (Frangula alnus).
Tale bosco costituisce il presupposto per l’insediamento di un’altra formazione, detta “climax”, che risulta la più stabile ed equilibrata in rapporto alle potenzialità del sito. Essa è, di fatto, un ecosistema in grado di perpetuarsi e continuamente rigenerarsi all’infinito, caratterizzato, in genere, da un’elevata biodiversità, da un gran numero cioè di specie animali e vegetali, tra le quali assume predominanza, per queste zone, la già citata rovere (Quercus petraea). Relativamente al Monte Tobbio, tale essenza ne ricopre le pendici occidentali, ove è presente in boschi un tempo ceduati ed ora non più tagliati, ove, di fatto, è in via di conversione naturale alla fustaia.
Inoltriamoci ora nella pineta che ricopre la porzione orientale del versante nord del monte. Come ricorderemo, l’origine di tale bosco è artificiale, essendo il frutto di rimboschimenti effettuati in prevalenza con essenze – pino marittimo (Pinus pinaster) e pino nero (Pinus nigra) – da noi estranee. Non mancheremo di notare come tale formazione forestale, apparentemente in buone condizioni, in realtà non riesca a riprodursi, a dar vita ed avvenire cioè ad un numero sufficiente di nuove piantine che possano rimpiazzare quelle mature, man mano che queste moriranno. Comprenderemo facilmente che tale bosco non può avere avvenire e che il suo destino è, da qui a qualche decina di anni, segnato; ammiriamo però l’avanzata del bosco pioniero, che, in talune zone, tende ad occupare gli spazi disponibili.
Così come per la pineta, anche l’origine delle zone aperte che ammantano le pendici più alte del monte, è da far risalire alla mano dell’uomo. Nel passato, la necessità di terreni ove far pascolare il bestiame e di legname ha portato infatti alla creazione di radure e pascoli sempre più ampi. Ora non più pascolati, tali terreni tendono ad essere invasi da essenze pioniere, costituite in una prima fase da rose e rovi, poi da arbusti più consistenti, sorbo, frangola, spinocervino. Se lasciata a se stessa, tale evoluzione porterà, anche se in tempi piuttosto lunghi, alla ricostituzione del bosco climax, cioè della fustaia di rovere.
Di grandissima importanza fu, in passato, la presenza del castagno (Castanea sativa), il quale rappresentò per il sapere contadino una fonte inesauribile di risorse: castagne, legname, fogliame, tutto era utilizzato dai nostri avi. Tale essenza era governata prevalentemente a fustaia, costituita da alberi innestati con varietà di gran pregio alimentare, che raggiungevano negli anni dimensioni monumentali. Alcune epidemie funginee cui possiamo attribuire vere e proprie stragi, ridussero nel corso del nostro secolo in modo drastico le estensioni a castagno da frutto e consigliarono la conversione degli alberi al ceduo, più resistente alle malattie. Questa storia può essere facilmente letta nella zona circostante le cascine Nespolo e Tobbio, ove ai resti di antichi castagni da frutto, ora simili a familiari fantasmi, si affiancano estese zone a ceduo, di futuro davvero incerto.

Tobbio Fauna 1

Fauna

27 Biancone

Tra gli animali che vivono in montagna, i grossi mammiferi come il capriolo, la volpe ed il cinghiale, per sfuggire alla persecuzione che da secoli l’uomo esercita nei loro confronti, si sono adattati ad una vita seminotturna. Per questo motivo, quando si fanno delle camminate, si potranno trovare impronte lasciate sul terreno, giacigli di riposo e resti di pasti, ma difficilmente si avrà la fortuna di incontrare una di queste specie selvatiche. Gli uccelli, invece, possono essere osservati con più facilità, e spesso, grazie al canto, possono essere individuati anche dai meno esperti. Si è pensato allora di presentare quelle specie che, con un po’ di attenzione, si possono con buone probabilità incontrare durante un’ascesa al Tobbio.
Il prispolone (Anthus trivialis) è un piccolo uccelletto dalle dimensioni di un passero, che trova l’ambiente di elezione nelle zone aperte con alberi radi. Ha un piumaggio marrone chiaro sul dorso e biancastro punteggiato nelle parti inferiori. Il nido viene costruito sul terreno intrecciando sottili erbe. Passa l’inverno al di là del Mediterraneo e torna in Europa per nidificare a primavera inoltrata. Il suo arrivo è segnalato dalle manifestazioni amorose che compie sin dai primi giorni. Canta prima dalla cima di un albero per qualche secondo, poi si alza in volo di alcuni metri, sempre cantando, ed infine si lascia cadere verso il terreno con le ali e la coda spiegate a mò di paracadute, emettendo dei ripetuti fischi acuti “… fiu … fiu … fiu …”.
La cincia dal ciuffo (Parus cristatus) è un grazioso uccello di piccole dimensioni che deve il suo nome alle caratteristiche penne rialzate del capo. Ha un mantello grigio-marrone sul dorso e più chiaro nelle parti inferiori. È legata in modo particolare ai pini, ed a seguito dei rimboschimenti che sono stati fatti sull’Appennino con questa essenza arborea, ha ampliato il suo areale anche al di fuori dell’arco alpino. Non essendo migratrice può essere osservata anche in inverno. È gregaria e nidifica sui rami degli alberi nei quali può essere individuata grazie al richiamo che emette in modo ripetitivo “… crrr … crr …”.
Il luì bianco (Phylloscopus bonellii) è un piccolissimo uccello del peso di pochi grammi e dal caratteristico ventre che alla luce diretta del sole appare chiarissimo. Nelle giornate di maggio può essere osservato mentre è intento a cantare dalla cima di un pino.
Il codirossone (Monticola saxatilis) è un coloratissimo uccello delle dimensioni di un merlo. Per evitare i rigori dell’inverno migra in Africa, al pari della gran parte dell’avifauna che nidifica nell’Appennino. È ormai diventato molto raro e il Tobbio è uno degli ultimi suoi rifugi. Il maschio ha una livrea rosso-blu molto intensa. Vive nelle zone rocciose nelle quali, sul terreno, depone il nido. Ha un canto flautato molto particolare, simile a quello dell’affine passero solitario.
La tottavilla (Lullula arborea) è una specie strettamente imparentata con l’allodola con la quale può essere confusa, essendo di aspetto molto simile e condividendo con essa gli stessi ambienti aperti. Il canto, costituito da una cascata di melodiose frasi “… lulu … lulu …”, permette di distinguerla con certezza. Viene emesso durante i voli che compie al di sopra del territorio di nidificazione, e a volte canta da tanto in alto da non consentire all’occhio umano di individuarla.
Il biancone (Circætus gallicus) è un grosso uccello da preda (l’apertura alare della femmina può arrivare fino a 180 cm.), specializzato nella cattura dei rettili, ed in particolar modo, dei serpenti. Pratica una particolare tecnica di caccia detta “spirito santo”, che consiste nel perlustrare da una posizione immobile a mezz’aria, il terreno sottostante. Da marzo a settembre, i versanti aperti del Tobbio, sono spesso frequentati da questo eccezionale predatore che giunge dall’Africa dove trascorre l’inverno.
Il gheppio (Falco tinnunculus) è un piccolo falco (spesso viene indicato col nome di falchetto comune) che non supera gli 80 cm. di apertura alare. Come il biancone è un rapace, anche se non così specializzato. Si ciba infatti di piccoli mammiferi ed insetti che cattura sul terreno. Nidifica nelle zone rocciose in una cavità. È molto frequente durante tutto l’anno.

Flora

29 Astro alpino

Il Monte Tobbio è uno dei luoghi del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo ove, per ragioni legate alla natura delle rocce e dei suoli (quindi del tipo di substrato sul quale si trovano a dover crescere i vegetali) e delle particolari condizioni climatiche che lo interessano, si sono da tempo concentrate le attenzioni di quei botanici che hanno fatto di queste zone appenniniche il loro campo di studi. Una trattazione sistematica delle specie vegetali che s’inerpicano sulle falde di questa massiccia piramide montuosa risulterebbe, tuttavia, alquanto noiosa e specialistica, risolvendosi in un lungo elenco floristico. Si è scelto perciò di illustrare le caratteristiche di alcune specie fiorifere particolarmente belle e facilmente visibili all’escursionista che si avventurasse per questi sentieri, munito di macchina fotografica per catturarne l’immagine o semplicemente animato dal desiderio di godere di scorci “fioriti” di grande impatto emotivo.
Le specie descritte sono tutelate dalla L.R. n. 32 del 2 novembre 1982, che ne vieta la raccolta, la detenzione ed il danneggiamento, e godono anche del regime di protezione che interessa tutte le specie vegetali, senza eccezioni, derivante dall’istituzione del Parco (L.R. n.52 del 31 agosto 1979). Al di là degli aspetti normativi, tuttavia, sembra quasi superfluo ricordare che il semplice rispetto per gli ambienti naturali che si visitano e per i viventi che li popolano dovrebbe già costituire un freno sufficientemente forte alla raccolta di erbe e fiori. Forse un piccolo, innocente mazzolino, può non apparire come un danno, ma bisogna sempre pensare che non siamo soli e provare a moltiplicare il mazzolino per il numero dei visitatori (e sono tanti!) che potrebbero essere tentati di imitarci.
L’astro alpino (Aster alpinus L.) è una pianta perenne erbacea, appartenente alla famiglia delle Composite, alta 6-15 cm, che caratterizza con la sua fioritura assai vistosa i pascoli alpini e le zone sassose montane. I fusti sono striscianti e legnosi, terminanti in rosetta, gli scapi (i “gambi” del fiore) ascendenti sono leggermente pelosi, così come, ma più fittamente, sono pelose le foglie basali, di forma lanceolata-spatolata. Ogni scapo porta un fiore chiamato, in termini botanici, capolino e costituente, in realtà, un’infiorescenza, cioè un insieme di più fiori. In questo caso si parla di fiori ligulati (a forma di linguetta dentata all’estremità), disposti esternamente e di colore violetto, e di fiori tubulosi (a forma di piccolo tubicino), di colore giallo-aranciato, disposti al centro del capolino, a formare una sorta di morbido cuscinetto dorato. Ne risulta un singolare contrasto di colori. Di particolare pregio, dal punto di vista estetico, risultano individui dallo scapo ramificato, con 2-5 capolini, nei quali il botanico Brügger credette di identificare una nuova specie; si tratta, in realtà, dell’effetto della variabilità casuale nella morfologia di una stessa specie, così come tra gli esseri umani, ad esempio, variano il colore dei capelli o la statura.
Sul Monte Tobbio si verifica una condizione molto particolare, comune anche ad altre piante di ambito alpino che vegetano nel territorio del Parco: l’abbassamento della quota minima alla quale è possibile rinvenire esemplari di questa specie, dai 1.500 m. mediamente riscontrati in Italia agli 800 m.
La dafne o cneoro (Daphne cneorum L.) è chiamata anche Dafne odorosa, a cagione dell’intenso e dolcissimo profumo che emanano i suoi piccoli fiori, avvertibile anche ad alcuni metri di distanza dalla pianta. Questo è il motivo per il quale, purtroppo, questo grazioso arbusto è stato oggetto di intense raccolte a scopo commerciale e della sua progressiva rarefazione, che ne ha motivato l’inclusione nella lista delle specie a protezione assoluta. La famiglia alla quale questa specie appartiene, quella delle Timeleacee, è caratterizzata dal fatto che i suoi fiori vengono impollinati esclusivamente ad opera delle farfalle. Si presenta come un arbusto dal portamento strisciante, alto 10-20 cm, con getti giovani resi vellutati da una morbida peluria e getti vecchi dalla corteccia bruna. Le foglie sono lineari, a forma di spatola, con una nervatura centrale molto evidente, coriacee; i fiori, profumatissimi, sono di colore rosso-porporino e crescono riuniti in fascetti di 8-12. La diffusione di questa specie riguarda le pinete ed i pendii aridi delle zone montuose dell’Italia settentrionale, molto raramente la si rinviene anche in pianura. Come serpentinofita preferenziale (cioè come specie ben adattata ai substrati costituiti da rocce serpentinose) risulta perfettamente “a suo agio” sui ripidi ed erosi pendii del Monte Tobbio.

Tobbio 1974 (pastello su carta) di Pietro Jannon 06_09 _2013 09 bis
Il Tobbio (Piero Jannon)

Qualche proposta per camminare

La sommità del Monte Tobbio è raggiungibile percorrendo 4 diversi itinerari, tutti a carattere escursionistico. Solo alcuni degli itinerari proposti sono stati segnalati a cura del F.I.E. con segnavia geometrici di colore giallo; nel corso del 1996, il Parco Naturale si farà carico del completamento della segnaletica. Ricordiamo ancora la possibilità di acquistare la cartina 1:25.000 ed il libro “Il Parco Naturale Capanne di Marcarolo”, editi dallo S.C.I. di Genova.

… dal Valico Eremiti

Due percorsi tra quelli presentati partono dal Valico Eremiti, posto alla quota di m. 559 s.l.m. ed importante crocevia tra la valle del Rio Eremiti, che scende verso il Gorzente e quella del Rio Morsone, che invece va ad immettersi nel Lemme, nei pressi di Voltaggio. Al valico è presente una piccola Chiesetta edificata nel XIX secolo e vi è limitata possibilità di parcheggio (occorre spesso, nelle giornate affollate, posteggiare lungo la strada).
La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo la S.P.166 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 5,2 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo dapprima la S.P.170 in direzione Mornese/Lerma ed arrivati al bivio, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 11,1 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, imboccando la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 16,0 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 10,8 da Capanne di M.).

Itinerario A1: Valico Eremiti / P.sso Dagliola
Segnavia: al momento inesistente, in futuro tratto e 2 punti
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: P.sso Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 297 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario molto frequentato; si svolge su mulattiera piuttosto rovinata dall’erosione, a pendenza sempre modesta. È sicuramente consigliabile per gli scorci paesaggistici sulle valli circostanti e sulla pianura alessandrina; dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da località Valico Eremiti, si segue la vecchia pista forestale, ora mulattiera, che parte a sinistra della Chiesetta; dopo il primo tornante, il sentiero si unisce, per un tratto di 50 m. circa, con l’itinerario A2, con relativo segnavia. Tralasciato il percorso A2, che prosegue sulla destra, si continua lungo il sen­tiero, a tratti decisamente sconnesso, che si inerpica, con larghi tornanti, sul versante settentrionale del Monte Tobbio sino ad incrociare l’itinerario L1 proveniente da Voltaggio (m. 740 s.l.m. – 0 h 25’ dalla partenza) con il quale si unisce.
Ancora qualche tratto in salita e, con un ultimo lungo traverso, si perviene al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 0 h 45’ dalla partenza), ampia insellatura erbosa tra la valle del Rio Lavezze ed i bacini del Rio Vergone / Gorzente.
Discesa: La discesa può avvenire lungo l’itinerario A1 di salita (0 h 40’ dal passo al Valico Eremiti), oppure, dalla cima del Tobbio, lungo l’itinerario A2

Itinerario A2: Valico Eremiti / Monte Tobbio
Segnavia: cerchio sbarrato giallo
Quota partenza: Valico Eremiti, m. 559 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 533 m.
Principali toponimi toccati: Valico Eremiti, Monte Tobbio
Caratteristiche: l’itinerario si svolge sull’ampio e severo versante settentrionale del Monte Tobbio attraversando, sempre con larghi tornanti, dapprima l’estesa pineta a pino nero e marittimo ed in seguito aspre zone di prateria intervallate da balze rocciose.
Descrizione dell’itinerario: dalla cappelletta del Valico Eremiti, seguire il sentiero di destra (guardando la costruzione) il quale, dopo un amplissimo tornante, va a congiungersi per un tratto di circa 50 m. con l’itinerario A1. Tralasciatolo sulla sinistra, il sentiero si inerpica sul versante nord del monte, attraversando la pineta. Verso gli 800 m. di quota la vegetazione arborea tende a cedere il passo ai pascoli ed alle zone rocciose che rendono, in questo tratto, l’ambiente quanto mai suggestivo. Con un ultimo traverso verso est, l’itinerario si congiunge alfine con il sentiero percorso dall’itinerario L1, che congiunge il Passo della Dagliola con la cima del Tobbio (m. 985 s.l.m. – 1 h 20’ dalla partenza). Seguendolo si perviene, con ancora qualche tornante, sulla cima del monte (m. 1092 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza).
Discesa: si può discendere lungo il medesimo itinerario (1 h 10’ dalla cima alla cappelletta del Valico Eremiti), oppure seguire l’itinerario L1 fino al Passo della Dagliola e, da qui, scendere per l’itinerario A1.

La Direttissima
La via più breve alla vetta, non segnalata ma decisamente segnata dalla costante frequentazione, cavalca il costolone che si diparte da nord-nord est, e che può essere guadagnato salendo in verticale dalla cappelletta degli Eremiti. È la via preferita da chi sale in assetto sportivo (tempi di percorrenza da 35’ a 50’), ma anche, decisamente, la più dura.

… dal Ponte Nespolo

Un altro interessante itinerario si diparte dal Ponte Nespolo, posto sulla S.P. 165 al suo incrocio con il torrente Gorzente, ad una quota di m. 488 s.l.m. Luogo estremamente frequentato durante il periodo estivo dai numerosi bagnanti, ritrova la propria dimensione “naturale” da metà settembre fino a giugno. Nelle immediate vicinanze non sono disponibili parcheggi: occorre pertanto posteggiare lungo la strada (facendo attenzione ai divieti di sosta presenti) oppure usufruire dei parcheggi posti in prossimità della Casc. Merigo, ad una distanza di Km 1,9. La località è raggiungibile, con auto privata, da:

  • Voltaggio, seguendo dapprima la S.P. 166 fino al Valico Eremiti, poi la S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo (Km 10,1 da Voltaggio);
  • Bosio, seguendo la S.P. 170 in direzione Mornese/Lerma, poi immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo; oltrepassare il Valico Eremiti e, con una lunga serie di curve, pervenire alla località (Km 16 da Bosio);
  • Lerma, seguendo la S.P. 170 in direzione Bosio e, oltrepassata Mornese, immettendosi sulla S.P. 165 in direzione Capanne di Marcarolo, in comune con il percorso da Bosio (Km 20,9 da Lerma);
  • Capanne di Marcarolo, seguendo la S.P. 165 in direzione Bosio (Km 5,9 da Capanne di M.).

Itinerario B1: Ponte Nespolo / Casc. Nespolo / P.sso Dagliola
Segnavia: 2 rombi pieni gialli
Quota partenza: Ponte Nespolo, m. 507 s.l.m.
Quota arrivo: Passo della Dagliola, m. 856 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 351 m.
Principali toponimi toccati: Ponte Nespolo, Casc. Nespolo, Casc. Tobbio, Passo della Dagliola
Caratteristiche: itinerario completamente esposto a meridione, dunque sconsigliabile nel periodo estivo. Se percorso in inverno, esso risulta al contrario gradevolissimo. Dal passo è consigliabile proseguire, con il sentiero percorso dagli itinerari A2 ed L1, fino alla cima del Monte Tobbio.
Descrizione dell’itinerario: da Ponte Nespolo traversare il Gorzente e risalire lungo la S.P. 165; percorse poche decine di metri dal ponte, girare sulla destra per accedere alla piccola area attrezzata. Traversata l’area, salire lungo il costolone del monte, accedendo allo sterrato che conduce alla Casc. Nespolo (m. 625 s.l.m. – 0 h 30’ dalla partenza). Passare a sinistra della cascina, ammirando i suggestivi resti dei castagni secolari, e, arrivati ad un bivio, tralasciare il sentiero che si inoltra in piano, per inerpicarsi a sinistra nel casta-gneto. Arrivati ai resti della Casc. Tobbio (m. 685 s.l.m. – 0 h 40’ dalla partenza), la si lascia sulla destra e si esce poco dopo dal bosco. Da qui, la vista si apre improvvisamente sull’alta Valle del Gorzente e sul Monte Figne. Con percorso in leggera salita, traversare lungamente il versante sud-est del Monte Tobbio e pervenire, infine, al Passo della Dagliola (m. 856 s.l.m. – 1 h 15’ dalla partenza).
Discesa: dal passo, riprendere l’itinerario si salita che, in 1h 05’ riporta al Ponte Nespolo.

… da Voltaggio

L’ultima delle proposte parte da Voltaggio, importante centro della Val Lemme, posto ad una quota di m. 353 s.l.m. e raggiungibile sia con auto privata, che con mezzi pubblici, con partenze da Novi Ligure o Busalla, entrambe servite da linee ferroviarie.
Il punto di partenza dell’itinerario è posto in Piazza Garibaldi.

Itinerario L1: Voltaggio / Monte Tobbio
Segnavia: triangolo pieno giallo
Quota partenza: Voltaggio, m. 353 s.l.m.
Quota arrivo: Monte Tobbio, m. 1092 s.l.m.
Dislivello totale in salita: 739 m.
Principali toponimi toccati: Voltaggio, Bric Brughé, Costa Cravara, Passo della Dagliola, Monte Tobbio
Caratteristiche: percorso particolare, che si diparte dalla piazza di Voltaggio per inoltrarsi, man mano, in zone meno affollate e sempre più selvagge. Molto belli, nella parte alta dell’itinerario, gli scorci che si godono sui valloni del Rio Lavezze e del Rio Morsone.
Descrizione dell’itinerario: da Piazza Garibaldi seguire in direzione sud per circa 350 m. Via S. Giambattista de Rossi e Via C. Anfosso, sino a raggiungere la Chiesetta, in corrispondenza di Piazza De Ferrari. Davanti alla Chiesetta, svoltare a destra e proseguire sulla stradina asfaltata fino a Villino Stagno: qui a destra si imbocca il sen­tiero, all’inizio alquanto ripido. Dopo poche decine di metri si perviene ad un bivio e si segue il sentiero che, sulla destra, va ad attraversare il bosco misto, con pendenza costante. Si raggiunge in breve una strada sterrata sulla quale è collocato un percorso ginnico (m. 445 s.l.m. – 20’ dalla partenza), che segue la strada in costante salita, per un tratto costeggiando una recinzione. Trascurata una prima diramazione sulla sinistra, si prosegue dritti e, ora con tratti in piano, si attraversa il versante settentrionale del Bric Brughé. Sulla sinistra, una radura indica il luogo ove è sita Cascina. Colletta, ora abbandonata; qui ha termine la strada sterrata e si dipartono due sen­tieri (m. 580 s.l.m. – 45’ dalla partenza). Trascurare quello sulla destra e continuare diritti, seguendo il tracciato che riprende ora a salire, mantenendosi sul versante meridionale della costa, pochi metri sotto la cresta. Un breve tratto in piano permette di raggiungere il confine del Parco (m. 635 s.l.m. – 1 h dalla partenza), lungo il quale si proseguirà ora per un buon tratto. Una breve discesa permette di avvicinarsi al Pulpito del Diavolo, caratteristica formazione rocciosa davvero severa. Sempre continuando a costeggiare il confine del Parco, il sentiero corre lungo la Costa Cravara, mantenendosi perlopiù sul suo versante settentrionale, alternando tratti in salita ad altri pressoché piani. Ancora un tratto sul filo dell’ampia cresta e si giunge al punto di unione con l’itinerario A1, proveniente dal Valico Eremiti (m. 740 s.l.m. – 1 h 35’ dalla partenza); lungo questo si prosegue fino al Passo della Dagliola, che si raggiunge con ancora qualche tratto in salita (m. 856 s.l.m. – 1 h 55’ dalla partenza). Dall’insellatura del passo l’itinerario prosegue effettuando un lungo traverso in direzione nord, fino a raggiungere il punto di unione con il sentiero A2. Da qui, ancora qualche ampio tornante permette di raggiungere la sommità del Monte Tobbio (m. 1092 s.l.m. – 2 h 30’ dalla partenza).
Discesa: il ritorno segue il percorso di salita, in circa 2 ore.
I Guardiaparco Giacomo Gola, Giampaolo Palladino, Cristina Rossi

Il vento del Tobbio

Alessio Franzone è il partigiano “Arrigo”, ma anche – e nello stesso tempo – il cacciatore, il gran camminatore, colui che ha ben presente in sé, per esperienza diretta, la puntuale geografia del territorio dell’Oltregiogo su cui va organizzandosi, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento di Liberazione. È così che il libro di Arrigo ci restituisce, accanto a una serie di importanti avvenimenti legati alla lotta partigiana, il quadro di un ambiente che egli ama e conosce come pochi altri. Con lui si percorrono fiumi e ruscelli, boschi e sentieri pieni di vita e di bellezza.
Ciò che forse risulta straordinario per un libro di memorie della Resistenza è che l’orrore di quegli accadimenti, inevitabili e presenti in tutte le pagine, non riesce tuttavia a prevalere sul forte senso di vita e speranza che Arrigo probabilmente trae, anche nei momenti più drammatici, dal profondo rapporto con questi monti.
Gli eventi della lotta partigiana che hanno per teatro l’area circostante al Tobbio sono tristemente noti. La Benedicta con i suoi giovani trucidati dai nazisti e i molti deportati è la tragica testimonianza del prezzo pagato alla lotta di Liberazione.
Una eco angosciosa di quei giorni si reperisce tra le carte che riguardano la Cappelletta del Tobbio. Colpisce l’espressione usata in una lettera della Curia genovese al parroco di Voltaggio, per riferirsi al drammatico evento appena compiuto. La data è quella del 17 aprile 1944, pochissimi giorni dopo la strage: “… in seguito agli ultimi avvenimenti dato lo stato miserando della cappella [si dispone] […] che la festa, solita a farsi nella Cappella del Monte Tobbio, sia quest’anno sospesa”.
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Claudio Balostro, giovane scrittore nativo di Arquata Scrivia. La sua memoria non è più quella del testimone diretto ma è filtrata dalle immagini dei parenti più prossimi. Uno zio, “lo zio G.”, è un sopravvissuto della Benedicta il cui nome di battaglia è proprio quello di “Tobbio”: «Rimanemmo lì a combattere, fino alla fine. Mi chiesero un nome di battaglia, perché venivo dal Tobbio dissi quello. Mi piacque, perché è grande e asciutto, duro e ardente d’estate, bianco e soffice di neve d’inverno. Dissi quello e c’è ancora in giro chi mi chiama così», da Lo strano dell’idea di cavalli, romanzo inedito.
Alessio Franzone

Il piccolo santuario sul Tobbio in onore della B.V. di Caravaggio

Così recita il titolo dell’opuscolo stampato nel 1917 in “San Pier D’Arena”, presso la scuola tipografica Don Bosco, a cura del sacerdote Ernesto Pitto, già Prevosto di San Remigio di Parodi e membro dell’amministrazione dello stesso santuario.
Il volumetto è stato ristampato in anastatica nel 1988 dall’Associazione “Amici del Tobbio”, in occasione dei centodieci anni di ricorrenza della “prima idea di erigere un tempio mariano sull’alto e impervio monte”.
Il Pitto è noto autore di diversi volumi dedicati alla storia dei santuari liguri, compilati secondo un modello di storiografia didascalica tardo-ottocentesca, in cui la storia diventa pretesto per celebrare la devozione di coloro che si sono adoperati per l’erezione dei santuari e per stimolare i fedeli a continuare a mantenere in vita l’opera dei predecessori.

4 settembre 1899: inaugurazione della Cappella sul Tobbio in onore della N.S. di Caravaggio

Secondo l’autore, l’idea del santuario del Tobbio ha origine nel 1878 quando un sacerdote di Mornese, don Rocco Mazzarello, in occasione di una visita a Spessa Parodi (attuale comune di Bosio) propone l’impresa ad alcuni conoscenti, senza però riceverne la sperata adesione.

Solo diciotto anni, dopo la medesima proposta, ripetuta ancora da don Mazzarello nello stesso luogo, riceve la fattiva adesione di “Lombardo Giovanni della villa di Spessa di condizione contadino” che proprio nel 1896 comincia a raccogliere fondi per la realizzazione dell’impresa.

In undici mesi di lavoro veniva ultimata la strada carrabile aperta per collegare la località Eremiti alla cima del Tobbio: “trovati operai fra i quali molti gratuitamente […] e non furono soltanto i buoni figli di S. Pietro e Marziano (Parrocchia di Spessa Parodi) a prestare l’opera loro gratuita, ma anche parecchi delle Capanne e di Voltaggio”.
Nel 1897 cominciano i lavori per la costruzione della cappella inaugurata il 4 settembre 1899, il giorno seguente il trasporto della statua di N. S. di Caravaggio a cui sarà dedicata: “… malgrado il cattivo tempo si fece festa per tre giorni consecutivi con un crescendo consolante di divoti pellegrini, e con entusiasmo indescrivibile”.

Cappella con attiguo rifugio, di cui ora rimangono solo i riduri

La cappella sarà “soggetta alla giurisdizione del M. R. Parroco pro-tempore dei SS. Pietro e Marziano di Spessa Parodi”, ma verrà amministrata dall’arciprete di Gavi, dai parroci di Voltaggio e di Capanne di Marcarolo, dal prevosto di S. Remigio di Parodi e del “Sig. Lombardo Giovanni di Spessa Parodi”. Nel 1909 si decide di ingrandire l’edificio della cappella poiché essa “risultò subito insufficiente al bisogno perché numerosi erano i pellegrini che nella solennità si portavano sull’alta vetta, ma pochi tutto al più una cinquantina potevano stare nella Cappella [che ora] […] è capace di contenere oltre trecento persone, è provvista di sacrestia, è fiancheggiata da un robusto campanile […] insomma parmi che nulla manchi da poter essere chiamato: un piccolo santuario”.
Da allora, ogni, anno, sulla vetta del Tobbio vengono celebrati – prima con grande “concorso di popolo”, adesso meno solennemente – il 26 maggio, ricorrenza dell’apparizione di N. S. di Caravaggio e il 4 settembre, giorno dell’inaugurazione della cappella.
L’edificio conoscerà vicende alterne e più volte, a partire dai primi anni Trenta, si dovrà provvedere a opere di restauro eseguito con l’intervento della Curia e, soprattutto, il volontario contributo dei fedeli. Grazie agli assidui interventi dei volontari, la cappella oggi è ancora agibile, è invece scomparso il rifugio costruito agli inizi del secolo nelle sue vicinanze e ancora aperto agli inizi degli anni Quaranta.

I registri, ossia, la scrittura del viandante

Immaginare una salita e quanto ci si porta appresso: la fatica dei muscoli, la sete, la fame, il caldo il freddo, le zanzare, i fiori, l’amore lasciato a casa o perduto, gli amici attorno a sé, l’uomo o la donna da conquistare, l’amico da stupire, il bimbo da trasportare a spalle, la sfida con i propri anni o la malattia, la gara con se stessi, la rabbia, la gioia, Dio nel cuore o da bestemmiare oppure, semplicemente, solo il proprio nome. Tutto questo e ancora molto altro viene trasportato da chi sale al Tobbio e riversato nei quaderni che si presentano a chi arriva sulla vetta come un grande orecchio in cui depositare il proprio fardello per poi liberi, finalmente, ridiscenderne un po’ più leggeri.
Vero zibaldone di umani sentimenti e di stili narrativi, genere non riducibile alla corrente tipologia letteraria, i quaderni restituiscono a chi li scorre una straordinaria mescolanza di generazioni, classi sociali di appartenenza, quindi di gusti, passioni – stili insomma – diversamente inconciliabili tra loro e tuttavia per una volta uniti in maniera forte (non fosse altro per il pezzo di carta che li contiene) dalla comune condivisione di un’esperienza – unica per ciascuno questo è certo – ma anche universale perché a tutti gratuitamente si propone la stessa strada, perché tutti si partecipa di un’unica volontà di ascesa.
Portofranco di letterati e illetterati, di guastatori e costruttori, di moralisti e goliardi, di folli e di saggi, il quaderno posto sulla cima del Tobbio potrebbe anche se parzialmente essere accostato agli scritti carnascialeschi, là dove il mondo finalmente si rovescia e il principe, per un momento, può diventare bifolco e il bifolco re. Luogo liberatorio, dunque, come appunto si addice a ogni intento di ascesi.
Ma i quaderni ci propongono anche molto altro come, per esempio, lo scambio di messaggi malinconici tra amici che in essi ormai soltanto si rincontrano; il diario di bordo che annota le condizioni climatiche attraverso cui gli esperti di montagna e di mare non mancano di ostentare la conoscenza della qualità dei venti e della loro forza; sfoghi di amanti delusi o inappagati, di mogli e mariti che per evitare risse famigliari sono venuti di corsa in cima al Tobbio a placare gli istinti più violenti. C’è chi non scrive ma disegna. I bimbi, in genere, amano segnalare la loro età e il sesso: “siamo tre femmine e due maschi …”, le suore ringraziano Dio per il creato, altri non esitano, poche righe sotto, quasi senza soluzione di continuità, di bestemmiarlo come se, provocati all’argomento dalle lodi precedenti, si ricordassero che anche loro ogni tanto pensano a Dio. Anche questo, più in generale, è un aspetto ricorrente nei quaderni: spesso accade che un argomento, specie se provocatorio, di­venti per persone diverse comune occasione di considerazioni e divagazioni, una sorta di filo rosso che ritroviamo per più pagine, segno eloquente che la provocazione ha raggiunto il segno.
I quaderni reperiti cominciano nel maggio 1985. Anni non privi di vuoti lasciati dalle pagine strappate forse per la necessità assoluta di accendere un fuoco, forse per puro vandalismo o forse per il più comprensibile gesto di chi ha trovato in esse l’ultima traccia di un amico o un parente poi prematuramente scomparso.

Tutti insieme, appassionatamente

Dopo la fatica della salita, bere e mangiare, scherzare, giocare a carte, conoscere chi è arrivato prima o poco dopo è corollario quasi inevitabile di ogni gita che abbia escluso la scelta della “solitaria” assoluta.
I registri del Tobbio abbondano di minuziose descrizioni di menù, più o meno raffinati, di citazioni dei vini consumati, di lazzi giochi ed elenchi più o meno reverenti di partecipanti, ma tutti, allo stesso modo, desiderosi di comunicare il benessere provato nello stare assieme.
Le processioni che portavano al Tobbio i fedeli a celebrare due volte all’anno le solennità del piccolo santuario si chiudevano con un’allegra mangiata. Per l’occasione il parroco di Voltaggio, alla fine degli anni Venti, chiedeva la dispensa alla Curia di Genova per poter permettere il consumo di cibi di grasso, nonostante il consueto divieto dei giorni solenni, anche a ragione del notevole sforzo fisico chiesto ai partecipanti.
Oggi, le occasioni di convivialità ritrovano al Tobbio diverse espressioni: al Tobbio per Capodanno, per Natale, per il primo maggio, per celebrare i compleanni (magari anche quello del nonno), ma c’è anche chi al Tobbio sale per sposarsi. Due i matrimoni fino ad oggi celebrati lassù. Il primo nel giugno del 1970 di due sposi dell’Alta Val Lemme, il secondo, vent’anni dopo nel 1992, di due giovani di Ovada.
Ritrovarsi insieme dopo la comune fatica, condividere la soddisfazione di aver raggiunto la meta, guardare per un momento al mondo dall’alto, e il piacere di stare insieme sono gli ingredienti forti che garantiscono ai partecipanti delle feste sul Tobbio la felice scoperta della gioia davvero non sempre facilmente raggiunta dai convivi di fondovalle.

La corsa 1971 – 1980

Ma al Tobbio non si va solo per passeggiare e chiacchierare amabilmente con gli amici. Al Tobbio si va anche di corsa e non necessariamente per placare umori iracondi.
La polisportiva di Voltaggio ha organizzato per dieci anni, sempre nel mese di settembre, un’appassionante gara aperta ad atleti e a semplici amatori e, a partire dal 1976, riservata ai soli soci FIDAL. Nelle primissime edizioni essa proponeva un percorso di circa otto chilometri, allungato poi nell’edizione del 1977 a dieci, con un dislivello di 766 metri. Sempre a partire dal 1977 la manifestazione assume carattere nazionale e da allora è stata dichiarata prova selettiva di campionato italiano di corsa in montagna.
L’organizzazione, curata dalla Polisportiva di Voltaggio, ha raccolto per anni l’adesione del volontariato giovanile del paese e ha ricevuto l’aiuto del CAI sezioni di Ovada e Novi Ligure: nel solo 1979 circa novanta persone. Segnalare il percorso con le bandierine, allestire e gestire i diversi punti di servizio, questi ed altri sono gli oneri assunti dai volontari, nonostante le condizioni climatiche spesso, considerata la stagione, affatto clementi. Uno dei responsabili evocava tra le situazioni particolarmente stressanti ma non prive di divertimento che caratterizzavano il lavoro, la “corsa dei volontari” che dovevano provvedere a destinare sulla cima del Tobbio le tute tolte dagli atleti pochi minuti prima del via, precedendo, è ovvio, il loro arrivo. Le tute venivano trasportate a gran velocità in auto fino alla località Eremiti dalla quale, sempre di corsa, si procedeva a piedi, con le tute nello zaino, fino alla vetta. Il 1980 è l’ultimo anno della corsa del Tobbio. Dal 1981 infatti non si corre più verso la montagna ma gli atleti si cimentano in una prova di corsa individuale podistica, il “circuito di Voltaggio”, che prevede 11.480 chilometri di corsa attorno al paese. E il Tobbio resta ancora a guardare …
Eugenia Fera e Massimo Angelini

Bibliografia

Anche il Tobbio vanta una sua, pur modesta, bibliografia. Gli sono stati dedicati libri, opuscoli, articoli vari. Si fregia addirittura di un omaggio in tedesco, redatto da un gruppo di giovani escursionisti teutonici. Abbiamo raccolto solo il materiale più facilmente rintracciabile, ma vorremmo fosse questa l’occasione per aggiornamenti e integrazioni. Se conoscete pubblicazioni o articoli inerenti in qualche modo il Tobbio, segnalatele nel “libro di vetta”: ve ne siamo anticipatamente grati.

Libri e opuscoli:

  • FRANZONE ALESSIO – Vento del Tobbio – Genova, 1952
  • PITTO Sac. ERNESTO – Il Piccolo Santuario sul “Tobbio” – Sampierdarena, Don Bosco, 1917
  • VV. – Pfingstfahrt Im Regen Monte Tobbio 1992 – Gengenbach, 1992

Articoli:

  • BASSIGNANA ENRICO – Un sentiero sul Tobbio – su TUTTO CITTÀ’ 95 – Alessandria e Provincia – STET 1995, Torino
  • CARREGA MARIO – Il Monte Tobbio e la sua flora – su IL NATURALISTA, giugno 1989, Museo Civico di Storia Naturale – Stazzano
  • LEARDI ERNESTO – Lontani ricordi, istanze recenti a proposito della chiesa-rifugio sita sul Monte Tobbio – su ALPENNINO n.3/1994, Casale Monferrato
  • MASSONE ENRICO – Sul Tobbio con vista sul mare – su PIEMONTE PARCHI 25, settembre/ottobre 1988 – Torino
  • MASSONE ENRICO – È il Tobbio il misterioso monte sul quale sorgeva l’abbazia del Nome della Rosa – su LA PROVINCIA DI ALESSANDRIA, 1 tri. 1989 – Alessandria

Non riteniamo inutile, infine, un rimando alle opere concernenti la montagna alle quali si è attinto nella scelta delle citazioni:

  • BELTRAMI VANNI – Breviario per nomadi – Biblioteca del Vascello, Roma 1995
  • BERNBAUM EDWIN – Le montagne sacre del mondo – Leonardo, Milano 1991
  • BOARDMAN PETER – Montagne sacre – dall’Oglio, Milano 1983
  • DAUMAL RENÉ – Il monte analogo – Adelphi, Milano 1968
  • EVOLA JULIUS – Meditazioni delle vette – Ed. Del Tridente, La Spezia 1974
  • GOETHE W.G. – Viaggio in Italia – Rizzoli, Milano 1991
  • HEINE H. – Il viaggio nello Harz – Marsilio, Milano 1994
  • MILA MASSIMO – Scritti di montagna – Einaudi, Torino 1992
  • MOTTI GIAN PIERO – La storia dell’alpinismo – Vivalda, Torino 1994
  • THOREAU H.D. – Camminare – Mondadori, Milano, 1991
  • ZOLLA ELEMIRE – Lo stupore infantile – Adelphi, Milano 1994

Ringraziamenti

Hanno ideato e concretamente realizzato la mostra i Viandanti Delle Nebbie. Hanno collaborato: Eugenia Fera e Massimo Angelini del Centro di Documentazione della Storia e della Cultura Locale; CRISTINA ROSSI, GIACOMO GOLA e GIANPAOLO PALLADINO del Parco Naturale Capanne di Marcarolo.

Non potendo elencare tutti gli appassionati che hanno contribuito alla realizzazione, riteniamo di dover far giungere loro il nostro ringraziamento attraverso le organizzazioni e i gruppi di riferimento, dal CAI di Ovada agli Amici del Tobbio. Un grazie particolare lo dobbiamo però a Pietro Jannon, autore della maggior parte delle immagini utilizzate, e praticante indefesso del culto del Tobbio. Vorremmo infine che in questo omaggio al monte fosse implicito un tributo alla memoria di Andrea Longhetti, che dell’amore per il Tobbio è rimasto tragicamente vittima.

Santa Limbania, proteggici tu

di Fabrizio Rinaldi, 24 novembre 2018, da sguardistorti 05 – 2018 Natale

La leggenda narra di una fanciulla residente nell’isola di Cipro verso la fine del dodicesimo secolo, di nome Limbania, destinata dai genitori in sposa ad un signore locale ma determinata invece a farsi monaca. La ribelle, ferma nel suo intento di donarsi a dio, chiese aiuto ad un navigante genovese in procinto di tornare in patria. Inizialmente l’uomo accettò, ma poi cambiò idea, o se ne dimenticò, e prese il mare senza la poveretta. Appena al largo la nave si fermò: nonostante ci fosse vento non proseguiva, rimaneva ferma nella risacca. Il timoniere non poté far altro che invertire la rotta, e l’imbarcazione improvvisamente tornò a muoversi, spinta da un forte vento in poppa, verso il porto da cui era partita. Lì il nocchiero trovò, attorniata da molti animali selvatici, la giovane in lacrime, che non cessava di supplicarlo di portarla via da lì. Alla fine il navigante, un po’ intimorito da tutti questi strani fenomeni, accettò di imbarcarla.

La narrazione non dice nulla del tormentato viaggio in ispirito e in carne vissuto dai rudi marinai, che dovevano condividere gli angusti spazi dello scafo con una fanciulla bella e illibata. Racconta invece di una navigazione tranquilla, almeno sino a quando, mentre già si intravvedevano i monti che fanno corona alla città ligure, la nave s’imbatté in una tempesta con onde altissime e venti che strappavano le vele, come se il mare la respingesse. Spinto dai marosi, il battello si avvicinò pericolosamente agli scogli di San Tommaso, sede di un monastero femminile benedettino, e a quel punto Limbania manifestò il desiderio di sbarcare per raggiungere le future consorelle. Miracolosamente il mare si acquietò, venne sbarcato il “prezioso” carico e la nave poté finalmente dirigersi verso un attracco sicuro.

A Cipro rimase un padre furibondo, il quale scagliò in mare la campana di casa comandandole di raggiungere la sciagurata figlia che aveva preferito votarsi a dio piuttosto che ad uno sposo e rinunciato a una cospicua – presumo – dote. La campana, “galleggiando” miracolosamente sul mare, raggiunse proprio la spiaggia vicina al monastero in cui s’era rinchiusa Limbania. Da allora venne usata durante le tempeste per calmare le acque e come richiamo per i naufraghi.

Alla novizia venne concessa una cosa oggi insolita, ma a quel tempo comune nella tradizione cristiana d’oriente: ritirarsi in una cavità sotto il monastero dove vivere nel digiuno e nella penitenza, procurandosi ferite con gli aculei di un attrezzo per cardare il lino, e dedicandosi ai naviganti e ai viandanti del vicino porto. Quando morì era già venerata come santa e le venivano attribuiti molti miracoli.

Visto che la natura ligure impone d’esser parchi in tutto e, in questo caso, esperti nella moltiplicazione non di pesci, ma di macabre reliquie, i devoti fecero a pezzi il cadavere della Santa in modo da distribuire in più luoghi le spoglie da venerare: ma, soprattutto, per poterci lucrare sopra. In particolare le monache ebbero una trovata che oggi definiremmo “dark”: esposero la sua testa alla venerazione dei fedeli, i quali intercedevano per trarne giovamento alle emicranie.

Così come la santa cipriota aveva viaggiato per mari ostili, il suo culto marciò a dorso di mulo lungo le impervie vie del sale, connettendo, anche nella devozione, il territorio ligure con le pianure alessandrine. Libania divenne la protettrice di mulattieri, carrettieri, immigrati e, in generale, dei viaggiatori per mare e per terra.

Fino a pochi decenni fa si svolgevano veri e propri pellegrinaggi di devoti di Santa Limbania che da Genova Voltri arrivavano fino alla piccola chiesa di Roccagrimalda (AL), a strapiombo sulla vallata dell’Orba, tra Ovada e Silvano d’Orba. Raffigurazioni della Santa si trovano anche a Castelletto d’Orba, Montaldeo, Lerma e a Gavi, tappe obbligate per coloro che si inerpicavano lungo le vie che, attraversando Marcarolo, arrivano al mare.

Abbiamo quindi una ragazzina che s’è dimostrata una sciagura per la famiglia e una calamità per i compagni del viaggio in mare, ma che ha affrontato le peggiori condizioni (la tempesta e il fragile scafo – oggi si direbbe un barcone) per poter emigrare verso un territorio che era lontanissimo tanto quanto appare irraggiungibile ai suoi emuli di oggi – magari non in santità, ma sicuramente nel proposito di cambiare lo stile di vita (o meglio, di non vita).

Limbania in pratica era un’immigrata clandestina che venne accolta in territorio italiano. Chissà se anche all’epoca c’erano dei Salvini a tuonare contro i forestieri che attentavano il nostro stato sociale e la nostra cultura, contro le fantomatiche organizzazioni non governative ante litteram che aiutavano (magari controvoglia, ma lo facevano) chi voleva scappare da un mondo peggiore, e contro quei cittadini che, invece di respingere gli immigrati, davano loro rifugio. Se c’erano devono aver goduto di poco seguito, poiché per secoli abbiamo accolto, sia pure con mugugni vari, coloro che arrivavano da lontano, e col tempo abbiamo saputo contaminarci reciprocamente per diventare un po’ migliori.

L’innocente fanciulla cipriota s’affidò alla protezione del suo dio per essere protetta durante il viaggio con sconosciuti scafisti che avrebbero potuto attentare alla sua illibatezza. Anche oggi tanti sventurati affidano magari ad un dio differente, ma ugualmente chiamato a proteggerli da loschi traghettatori, la cosa più sacra che hanno: la loro vita e, soprattutto, quella dei figli.

Limbania comunque alla fine del suo peregrinare trovò una comunità che seppe accoglierla, accettando anche le sue ovvie diversità culturali. Oggi stiamo vivendo invece un periodo nel quale il paradigma dell’accoglienza verso gli altri è radicalmente cambiato. Cresce sempre più il rifiuto di chi è diverso da noi e di chi lo aiuta.

L’esempio più recente è la campagna denigratoria apparsa sui social nei confronti della ragazza italiana rapita mentre in Kenya prestava il suo aiuto da volontaria. Il commento più diffuso in rete è: “cosa è andata a fare là, poteva fare le stesse cose qui, dove c’è tanto bisogno”! Ulteriore dimostrazione dello scollamento tra il diffuso sentire di una comunità stanziale (spesso claustrofobica) e il naturale bisogno di ogni viandante di ricevere ospitalità e accettazione.

L’assordante silenzio del ministro degli interni avvalora queste ingiurie, soprattutto perché arriva da chi è sempre pronto a starnazzare e ad alimentare l’odio quando degli idioti, rigorosamente stranieri, perpetrano qualche atto di violenza nei confronti dei nostri connazionali. Salvini ha sempre affermato che gli immigrati vanno aiutati a casa loro, ma quando qualcuno prova a farlo guarda altrove.

Santa Limbania rappresenta bene la ferma volontà di affrontare qualsiasi avversità e pericolo quando un percorso possa portarti a realizzare il tuo sogno: ed è questo il fine ultimo di tutti i viaggiatori, di ogni epoca e di ogni etnia. Viene allora naturale invocarla proprio oggi, mentre tanti come lei sono costretti ad affidarsi ad altri per raggiungere quella meta.

Quindi, Santa Limbania, proteggici tu!

Collezione di licheni bottone

Qui ci sono i draghi

di Fabrizio Rinaldi, 15 maggio 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Le più antiche mappe europee sono in Valcamonica, su una roccia di 2,5 metri per 3 con incisi campi coltivati, sentieri e torrenti. Sicuramente di non semplice consultazione come Google Maps, ma già allora apparivano chiare le due caratteristiche principali dalla moderna cartografia: l’utilizzo di simboli per rappresentare le caratteristiche di un territorio e la visione prospettica dall’alto, dovuta all’abitudine dei popoli di montagna di vedere tutto dalla cima.

La presenza di un punto elevato da cui guardare il mondo è di estrema importanza, tanto da essere uno dei tratti distintivi: senza una “visione” dalla sommità di un colle o di una montagna, non si rintracciavano i riferimenti spaziali necessari per orientarsi, tanto nel territorio concretamente calpestato quanto nella sua rappresentazione su roccia, pergamena o carta.

Nel Medio Evo e nella prima età moderna le mappe divennero uno strumento indispensabile per coloro che si spostavano da un feudo all’altro per scambiare merci, ma soprattutto per i naviganti, i quali si inoltravano in mari e in territori inesplorati, indicati sulla pergamena da ampi spazi bianchi.

Durante la Grande Guerra si iniziò ad utilizzare la fotografia come supporto per la stesura delle carte. Al rilevamento aereo si aggiunse, dopo il secondo conflitto mondiale, anche il telerilevamento mediante satelliti artificiali. Di lì, con ulteriori innovazioni tecnologiche, siamo arrivati alla geolocalizzazione odierna, consentita da qualsiasi smartphone.

Un’infografica potrebbe riassumere bene l’evoluzione della cartografia, passata appunto dalla roccia a Google Maps, ma non ne ho trovate in rete di soddisfacenti e non sono abbastanza bravo da costruirne una io.

Comunque, la prima cosa da rilevare nell’iconografia geografica (e non) odierna è la tendenza a raffigurare concetti, dati ed eventi con simboli, icone e grafici che nei colori accattivanti e nel tratto alludono ad un mondo infantile. In pratica ci trattano come bambini. Predomina la semplificazione, giustificata dal fatto che si vogliono rendere facilmente comprensibili concetti che non lo sono affatto: dalla relatività all’economia, dalla psicologia alla tecnologia dei computer. Non a caso Steve Jobs, l’inventore di Macintosh, era ossessionato dalla “pulizia” grafica dei suoi prodotti, sia del software che dell’hardware.

Ora, tutto questo è vero, ma al di là della tendenza del momento e di ciò che può sottendere, non me la sento di condannare un’evoluzione che, usata intelligentemente, consente di affrontare luoghi e saperi sconosciuti. Senza questa, molti di noi si fermerebbero già alla partenza.

Le mappe mentali, ad esempio, sono il pane quotidiano per molti studenti, che in esse sintetizzano più concetti inerenti ad un argomento: la speranza è che questo li aiuti a memorizzarli meglio e a far chiarezza (se mi baso su quel che vedo, qualche dubbio lo avrei). Graficamente si parte dal concetto principale, al centro del foglio, e da esso si tracciano linee che portano alle parole chiave attinenti più prossime: da queste se ne propagano altre, e se le connessioni sono corrette si arriva fino a eviscerare nel dettaglio l’argomento affrontato.

Io stesso prima di una riunione traccio una mappa mentale degli argomenti che affronterò col mio gruppo di lavoro. Se le questioni le sintetizzo come punti di una lista, non ottengo altrettanti dettagli. La sintesi degli argomenti disegnati in forma di un “neurone” ci è più congeniale, forse perché riproduce qualcosa che è presente nel nostro cervello.

Come quella dei concetti, anche la raffigurazione del territorio passa inevitabilmente attraverso simboli che dovrebbero essere universalmente comprensibili. Le mappe utilizzate da chi pratica l’orienteering non riportano i nomi dei luoghi, ma sono estremamente precise e usano segni convenzionali e colori specifici e funzionali al tipo di terreno rappresentato. L’interpretazione della simbologia permette di orientarsi in un territorio, leggerne le caratteristiche e ricavarne le informazioni necessarie.

E ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho cominciato ad amarle non perché attirano l’attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la capacità di mantenerla sveglia.
WILLIAM LEAST HEAT–MOON, Prateria, Einaudi 1994

La maggior parte delle mappe contiene però toponimi connessi al territorio, e chi le utilizza fa riferimento proprio a questi.

È interessante l’indagine sui toponimi raccontata anni fa da William Least Heat-Moon nel libro Prateria. Da una piccola zona del Kansas nella quale non c’era altro che erba alta e qualche casa isolata, un luogo all’apparenza senza alcuna storia, l’autore riuscì a estrarre personaggi e avvenimenti, ricostruendo il rapporto a volte conflittuale tra l’uomo e la natura (cicloni, siccità, alluvioni). Nei nomi dei luoghi resistono storie, magari piccole, ma che diversamente sarebbero scomparse.

Una ventina di anni fa ho partecipato ad una ricerca degli antichi toponimi nel territorio del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo. Intervistando i vecchi del luogo riuscimmo a risalire ai nomi di colli, vallette, rii e ruderi di antiche case, che stavano per essere dimenticati e non comparivano nelle carte ufficiali, sia in quelle del Parco che nelle più vecchie IGM del territorio.

Oggi la memoria orale di quella società e della sua storia è andata perduta, perché anche gli ultimi superstiti della comunità contadina che avevamo intervistato sono scomparsi. Quel lavoro ha però salvato i nomi legati al territorio e li ha connessi alla storia passata. Sono scomparse le voci, ma rimane la parola.

L’immagine qui riprodotta è indicativa di quanti toponimi avesse un ristretto territorio, quindi di quante storie ci fossero da raccontare.

Proprio in quel fazzoletto di terra nacque la “leggenda” dei Viandanti delle Nebbie. Il sogno era quello di tornare ad una idea positiva e propositiva dell’esistenza, di recuperare modalità di rapporto semplici e leali, di ricostituire una tessuto di amicizia e una comunità di ideali. Avevamo individuato i ruderi delle cascine Nègge come luogo in cui rifugiarci e da cui far partire tutto. È rimasto un sogno. È rimasta per molti di noi la Camelot da cercare.

Tutto questo nelle mappe dell’epoca digitale non trova spazio. Abbiamo mappe del terreno molte accurate, che però si fermano solamente alla superficie: senza la terminologia storica vanno perse le connessioni all’uso che l’uomo ha fatto di quello spazio nel tempo.

Già ora, se penso alla mia zona, mi chiedo quanti ancora conoscano “La Caraffa” come piccolo nucleo di case, e non la identifichino invece con il Brico e il Basko.

Nelle mappe che leggeremo in futuro sulle nostre appendici telefoniche i toponimi collegati all’uso del territorio saranno soppiantati – perché ormai del tutto superflui e obsoleti – dalle indicazioni di dove poter mangiare kebab, acquistare scarpe, vedere qualcosa, ecc … Saranno costruite ad hoc sulla base del nostro “profilo”, degli interessi rivelati dai nostri acquisti e dai nostri spostamenti.

Per chi però ancora volesse incontrare l’inesplorato, basterà introdurre un “filtro” all’oracolo Google: mascherando tutto ciò che è “consumabile” si potranno trovare nuove terre incognite. Magari sullo schermo apparirà l’antica frase latina hic sunt dracones (“qui ci sono i draghi”) e ricominceremo a ridare nomi a sentieri, strade, boschi e pianure. Magari qualcuno di questi posti lo chiameremo Camelot o, addirittura, Nègge.

Collezione di licheni bottone

Wanderers forever

di Paolo Repetto, 30 dicembre 2014

C’era una volta, tanti e tanti … beh, insomma, una ventina d’anni fa, un gruppo di amici, di quelli messi assieme dalle circostanze della vita e dalle passioni in comune anziché dall’anagrafe, che si ritrovavano sempre più spesso a frugare tra gli scaffali di una caotica libreria ovadese, a camminare lungo i sentieri del Parco di Marcarolo o a cenare in un capanno sperduto nella campagna. Era un’allegra brigata, a metà strada tra il cenacolo intellettuale e la compagnia del calcetto: ma forse, più che a metà, stavano proprio su un’altra strada. A fare da collante non erano infatti bandiere ideologiche o disegni di gloria o snobismi culturali, ma solo un laico piacere di ritrovarsi, di comunicare a qualcuno le proprie sensazioni e scoperte e di partecipare di quelle degli altri. Si parlava a ruota libera di musica e di libri, di politica e di viaggi, di fumetti e di sentieri, si demolivano senza riverenze miti e personaggi della storia o della quotidianità, si raccontavano sempre sul filo del paradosso aneddoti o esperienze di vita e di lavoro. Insomma, si verificava come fosse possibile “qui e ora”, senza attendere redenzioni o rivoluzioni, vivere rapporti umani piacevoli e disinteressati.

Ad un certo punto questi amici decisero di “formalizzare” il sodalizio, dandogli un nome, una sede, un logo, un sito internet e persino uno statuto di fondazione (con tanto di registrazione notarile). Di formale il sodalizio aveva in realtà ben poco: per esservi ammessi non era necessario superare prove iniziatiche, ed erano richiesti pochi e semplici (ma non per questo meno rari) requisiti: una buona dose di ironia e una ancor più cospicua di autoironia, uno stomaco capace di reggere il menù “povero” delle cene ma non Berlusconi e D’Alema, un approccio politicamente scorretto ai problemi ma educato alle persone, gambe allenate a salire il Tobbio e mente aperta a viaggiare tra Ken Parker e Humboldt; infine, era gradita l’appartenenza al genere maschile (nei confronti dell’altro sesso era contemplato un ristretto margine di tolleranza, ma raramente capitava di ricorrervi). Nello statuto non erano previsti ruoli, cariche, prebende, assemblee, codici disciplinari, quote di adesione. C’era solo un impegno reciprocamente assunto alla solidarietà e al rispetto: da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, la società anarchica perfetta.

A imporre il passaggio dall’informale al “certificato” fu il desiderio di realizzare alcune iniziative, un paio di mostre, una rivista, nate soprattutto per creare pretesti al lavoro in comune e ulteriori occasioni per i ritrovi conviviali. Visti i presupposti, dal punto di vista operativo le cose non cambiarono granché: e in più, come sempre accade, quando il gruppo arrivò ad ufficializzare la sua esistenza il momento maggiormente intenso e genuino di quell’esperienza era già alle spalle.

Non fu quindi la “formalizzazione” a decretare la fine della prima fase del movimento dei Viandanti: semplicemente la vita, quella fuori, li portò uno alla volta ad intraprendere altri percorsi, a costituire altri personalissimi sodalizi. Come è giusto sia, senza rimpianti e con la consapevolezza di avere vissuta un’esperienza singolare e irripetibile.

Ma … se pure quella specifica esperienza è finita, il suo senso e il suo spirito non sono affatto esauriti. Gli elementi di base ci sono ancora tutti. C’è ancora la libreria, il Tobbio e il parco sono sempre là e non si muovono, il capanno è rimasto in piedi, è persino ancora visitabile (e visitato) il vecchio sito web: soprattutto, perdura vitalissima l’amicizia che lega i Viandanti, quelli del nucleo originario e quelli aggregatisi nel frattempo, e continua lo scambio e si è rafforzata la complicità, anche perché la coscienza di aver condiviso qualcosa di speciale, se non di eccezionale, è confermata costantemente dal deludente confronto con le altre esperienze, politiche, culturali, sociali, che è dato fare. Insomma, lo spirito che aveva animato vent’anni fa la conventicola dei cacciatori di sentieri, reali o letterari, aleggia tuttora.

Per questo, senza mettere in cantiere nessuna operazione nostalgia, al solo scopo di facilitare e allargare ulteriormente la condivisione dei materiali vecchi e nuovi prodotti dai Viandanti, si è voluto aggiornare il sito. Il cambiamento interessa, oltre che la grafica, le modalità della fruizione e naturalmente i contenuti, mentre gli intenti e anche gli inquilini sono rimasti praticamente gli stessi. Qualche porta e qualche finestra in più consentono di entrare e uscire più comodamente e di guardare il mondo da prospettive più varie, quindi di individuare nuovi sentieri: che almeno virtualmente potremmo ancora percorrere assieme.

 

Di cascine, di monti e … di qualche nefandezza

Sognando intorno al Parco!

di Enzo Capello, da Sottotiro review n. 8, gennaio 1998

… di cascine!
ovvero: per il recupero dei segni della memoria!

“La casa era malandata: il tetto era tutto da ripassare, il muro verso [il torrente] gonfio come la pancia d’uno che ha il mal d’acqua; e dalle impannate ci sarebbe passato un lupo altro che il vento. Ma mi sarei dato da fare anche come muratore e come falegname” […]
“Ci andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che facevamo della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre tirar fuori dei soldi e contarli sulla mano per spenderli, io tremavo, tremavo veramente, come se m’aspettassi di veder cascare la volta dopo che le è stata tolta una pietra”.
BEPPE FENOGLIO

Mi piace iniziare così, volendo trattare delle nostre cascine, esattamente come Fenoglio racconta della miseria antica delle valli delle Langhe attraverso le vicende del protagonista del racconto “La Malora” ….

Mi piace anzitutto perché con quelle poche, scarne parole si mette definitivamente al bando chiunque sostenga patetiche nostalgie che troppo spesso, falsificandolo e mitizzandolo, hanno accompagnato e nutrito l’interesse per il mondo rurale e per i suoi aspetti edili. Il secondo motivo – e forse è quello più vero – è rappresentato da quel paragone finale, in cui l’incerto e, forse, l’irreparabile, sono terribilmente rappresentati da “una volta che crolla se le si toglie una pietra”.

Si potrebbero infatti dire le stesse cose per molte cascine d’oggi, anzi, trattandosi del territorio di Marcarolo, solo per quelle (poche) che ancora restano in piedi, resistendo all’inclemenza del tempo e, ancor più, sfidando l’indifferenza dell’uomo! Il paesaggio, in fondo, è lo stesso: tante “pietre” che il tempo e la desolazione riescono a togliere, e altrettante “volte” che crollano!

Il problema, però, è ancora un altro: nessuno è ormai più contadino e, insieme, muratore e falegname!!!

Questo è il vero problema, la vera sfida: come tornare almeno a “sentire” (se “l’essere” è ormai, nel migliore dei casi, relegato al ricordo di una civiltà passata) come il contadino, che sa fare quanto è necessario per rimettere a posto la sua casa? La casa, con i suoi muri, le sue volte, gli orditi di legno di castagno appena sbozzati … è stato da sempre il bene più sicuro per il contadino: non solo riparo ma anche ragione di vita e di identità. Quelle parole esprimono un attaccamento alle pietre delle cascine che vuol dire radicamento nella terra, segno di appartenenza e di continuità, legame tra passato e futuro, tra padri e figli. È un sentimento durato per secoli, che nel tempo si è infranto e che oggi, a grande fatica, si vorrebbe recuperare. Le case e le cascine dei nostri monti e delle nostre valli sono cresciute così, nel tempo, con aggiunte e ripristini seguiti ai ricorrenti abbandoni, ai crolli e agli assalti delle cicliche ondate di miseria. Ed è in questo fiume infinito di minuti interventi che dobbiamo saperci (saperci?) di nuovo inserire.

In quest’ottica si colloca, almeno nell’intenzione di chi scrive, questo piccolo contributo che, innanzi tutto, vorrebbe essere un vero e proprio appello! Un appello per promuovere iniziative attive o, almeno, sollecitare il contributo di quanti (come tecnici, come storici, come operatori naturalistici o semplicemente come “appassionati” della terra in cui si è nati e in cui si vive), si sentano forse più di altri responsabili della salvaguardia e del futuro di un prezioso patrimonio edilizio, di cui si può ancora rivendicare, malgrado tutto, l’appartenenza.

Pur con la consapevolezza del ruolo di “area di confine” storicamente assolto dal territorio del Parco delle Capanne, emarginato e pressoché dimenticato dalla letteratura (non solo urbanistica e architettonica!), le case abbandonate, le cascine, gli “alberghi”, le neviere, i vecchi mulini… costituiscono elementi fondamentali della sua “identità” e della sua ricchezza … Ed è proprio partendo dalla forte connotazione di territorio visto come terreno di frontiera che il territorio del Parco risulta particolarmente stimolante come ambito di ricerca, soprattutto riguardo agli aspetti della cultura materiale.

Riprendere coscienza di questo inestimabile patrimonio (antropico e naturalistico), significherebbe ridare voce a quei “segni” ormai silenti ma ancora vivi che occorre saper riutilizzare e non disperdere.

 

… di monti!
i motivi di un “ragionevole” ottimismo

Tempi bui per i nostri monti?

È certo impossibile negare la profonda crisi che colpisce da lungo tempo le nostre aree appenniniche e montane. “È una crisi progressiva, che supera le crisi cosiddette epocali: è più grande della crisi dell’agricoltura, perché si manifesta assai prima con un abbandono degli abitanti che ha le sembianze dell’esodo; nello stesso tempo non partecipa alla crisi dell’industria, poichè l’industria non ha mai avuto la possibilità di manifestarvisi compiutamente”. (Pier Luigi Cervellati)

Intanto, mentre rispetto al passato è cambiato il concetto di “natura”, non altrettanto può dirsi del significato che attribuiamo alla pianificazione e alla conservazione (e non solo dei beni culturali), cioè gli strumenti che, se…, avrebbero potuto…!!!

È mutato il concetto di “ambiente” quale conseguenza del profondo, irreversibile mutamento di ciò che intendiamo per “natura”. È mutato il concetto di natura in termini scientifici. Pensiamo infatti al concetto del rapporto “uomo/natura”, stabilito in modo inequivocabile dalla seconda legge della termodinamica, secondo cui … “la materia e l’energia possono essere trasformate in una sola direzione, cioè da uno stato utilizzabile ad uno stato inutilizzabile, oppure da uno stato disponibile ad uno indisponibile, ossia da uno stato di ordine ad uno di disordine. In breve, tutte le volte che sulla Terra e nell’Universo viene creata un’apparenza di ordine, questo avviene a spese di un disordine ancora maggiore prodotto nell’ambiente circostante. È la legge dell’entropia, secondo cui la quantità di energia totale dell’Universo è costante e l’entropia totale è in continuo aumento.

All’aumento dell’entropia corrisponde una diminuzione dell’energia trasformabile. E qui veniamo al dunque: l’energia non disponibile è ciò che generalmente è chiamato INQUINAMENTO …” (Pier Luigi Cervellati)

L’entropia! Voi direte: cosa c’entra l’entropia con i monti di Marcarolo?

C’entra, c’entra molto!

L’entropia sta cambiando il nostro concetto di ambiente e di natura. Lo sviluppo è causa di inquinamento (o di disordine) o, se preferite, di energia non convertibile (l’entropia è anche una misura della quantità di energia che non è più possibile trasformare in lavoro …).

Come parlare allora di sviluppo, e quindi di aumento di entropia (leggi inquinamento) delle montagne e dei boschi di Marcarolo collegando il termine “sviluppo” con il “territorio”, e tanto più dare ad intendere che lo sviluppo può essere coniugato alla salvaguardia dell’ambiente?

Tempi bui, per i nostri monti!

Oscure restano anche le prospettive per l’ambiente in generale e per i beni culturali in particolare.

Eppure, sembrerò paradossale, nonostante le crisi, gli abbandoni, le parziali devastazioni, quanto è ancora ricco il nostro territorio! Sì, dico proprio il nostro pezzo di terra, quell’anfratto di terra magnesiaca che s’insinua tra i genovesi e tra i padani, e non potrà mai dirsi ligure, piemontese o tantomeno “padana”!

Tuttavia, nell’attesa messianica di riuscire ad innescare una ragionevole programmazione dell’assetto territoriale (sembra fantascienza!) e, soprattutto, nella speranza che in tempi ravvicinati si possa constatare che l’essere stati “depressi” nella “terra di confine” e messi in disparte per anni, l’essere cioè riusciti a scampare alle insidie fatali dello “sviluppo” sia, alla fine, gratificante e appagante, anche il nostro pezzo di terra – così come gran parte del territorio montano e appenninico italiano – è di fatto il luogo dall’avvenire sicuro! Il luogo, forse il solo, in cui si possa manifestare il FUTURO!!!

Il ragionevole ottimismo per il futuro delle aree montane come quella di Marcarolo non è affatto fantascienza!

 

Con un piccolo balzo (basta davvero poco!) eleviamoci per un attimo dalle disgrazie quotidiane e viriamo l’occhio sul mondo in cui viviamo. Già ci è stato detto che viviamo un’epoca di transizione fra una società industriale ormai entrata nella sua fase finale e un altro tipo di società che ci appare molto indeterminato e che definiamo molto genericamente post-industriale. Si sa che le “condizioni” ambientali prodotte dalla società industriale (sia essa appartenente a regimi capitalisti o del famigerato socialismo reale) non sono congrue con le aspettative della comunità. Lo sviluppo, specie se legato al concetto di evoluzione o di progresso o anche alle nuove tecnologie, non potrà più manifestarsi nei luoghi tradizionali, nelle metropoli costruite dalla società industriale, bensì in quelle parti o luoghi in cui l’ambiente costituisce ancora un’attrattiva in grado di “qualificare” l’esistenza umana.

E – veniamo di nuovo al punto – di qui il ragionevole ottimismo!

La novità che ci viene incontro sta proprio nella realtà sociale che stiamo vivendo: una società proiettata ad un consumismo sempre più esasperato, ad un’entropia sempre più consistente, ad uno spreco ogni giorno più insensato, è disposta ad accettare un diverso rapporto ecologico con l’ambiente, specie con quello naturale. Il fabbisogno di “natura” aumenta con l’aumentare del tempo libero, con l’esigenza di evadere dagli avvelenamenti quotidiani delle realtà urbane, con l’urgenza di qualificare le proprie condizioni di vita, con l’aspirazione ad impossessarsi della “cultura”, ma finisce poi per utilizzare e consumare questo stesso ambiente come un qualsiasi altro prodotto (le Disneyland impazzano!!!).

Siamo, insomma, ad un bivio: o continuiamo a distruggere l’ambiente aumentando l’entropia o riusciamo a consumarlo in modo più razionale, cercando di ottemperare ad esigenze finalmente nuove.

Dalla realtà fisica di questo lembo di terra, dall’essere stato sì abbandonato da decenni ma anche dall’aver, proprio in forza di questo fatto, mantenuto una incredibile incontaminazione, risulta il suo prezioso “carattere”.

Negli ultimi vent’anni il territorio “urbanizzato” è più che raddoppiato e l’urbanizzazione, come è facilmente verificabile, non ha interessato Marcarolo. L’urbanizzazione è infatti avvenuta in gran parte lungo i grandi assi viari di attraversamento, che hanno ovviamente evitato le asperità dei monti (vedi le valli Stura e Scrivia), nella “sottostante” pianura e lungo la vicina costa rivierasca ligure. Pianura e Riviera, già da tempo senza luminose prospettive, tra non molto avranno dimostrato la scelta ormai compiuta, avendo optato per la distruzione dell’ambiente e delle testimonianze antropiche: il grado di aumento dell’entropia in questi luoghi è già facilmente misurabile!

L’ottimismo verso le aree delle nostre montagne abbandonate non nasce, però, solo dall’ipotetica catastrofe del territorio circostante, ma dalla “ricchezza” di cui si diceva all’inizio: l’incontaminazione del patrimonio naturalistico.

Sta a noi, ancora una volta e da buoni “indigeni”, saperlo difendere e trasmetterlo alle generazioni future.

… e di qualche nefandezza!
i mostri

Appello per il boicottaggio della bruttezza

Il nostro mondo è disseminato di scuole, università e centri di formazione professionale d’ogni tipo come mai lo è stato, la nostra scienza sulla natura delle cose è cresciuta in modo che appare gigantesco, ma nella stessa proporzione s’è affievolita la scienza per quel che riguarda la bellezza. Essa non può metter radici in questo mondo dei rapidi consumi in cui la calma, che costituisce il suo humus, viene soffocata nell’ebbrezza della superficialità. Ma la bellezza è l’unico scopo capace di dare le ali alla mia inclinazione per tale professione. Vorrei risparmiarmi la scipitaggine delle cose puramente concrete che mi sono imposte, il sapore amaro d’ogni miraggio di profitto senza alcuno sfondo né di etica né di sensatezza.
Il velo della bruttezza che avvolge come una potente ragnatela questo mondo, mozzerà il fiato ai nostri figli. A rimorchio delle incalcolabili catastrofi che questo secolo escogitò con perfetta consapevolezza mentre seguita a tesserne di ancora più abissali, il mio appello per il boicottaggio ha il suono di un singhiozzo soffocato.

BOB KRIER

 

Sogni e sentieri

di Paolo Repetto, dagli atti di un convegno svoltosi a Tagliolo Monf.to nel 1997

Sono stato invitato ad intervenire a questo convegno come rappresentante di un’associazione che si è costituita recentemente, i “Viandanti delle Nebbie”. Le caratteristiche di questo sodalizio sono piuttosto anomale, e le sue finalità potranno apparire troppo ambiziose e troppo vaghe da questa breve presentazione. Ne sono cosciente, perché risultano difficili anche a me da definire: e me ne accorgo soprattutto in questo momento.

Comunque ci provo, partendo magari da un minimo di identikit degli associati. Al momento non sono più di una decina, quasi tutti giovani d’età, qualcuno, come me, giovane (o immaturo) solo nello spirito. Siamo tutti legati a quest’area, intendo l’area del Parco e dintorni, da un vincolo affettivo, nel senso che siamo nati qui e qui viviamo, e da uno cultural-emotivo, nel senso che da sempre abbiamo provato il desiderio di conoscerla meglio, sia sotto il profilo naturalistico che sotto quello storico, e l’abbiamo quindi percorsa in lungo e in largo, a caccia di torrenti, di sentieri, di cascine, di incontri, di emozioni appunto e di conoscenze. I percorsi comuni, e non solo quelli escursionistici, hanno indotto tra noi una consuetudine che si è ben presto tradotta in amicizia: e l’amicizia si è ulteriormente cementata quando quelli che erano sogni e fantasie individuali hanno trovato un comune denominatore in un “progetto”. Ecco, noi non siamo presenti a questo convegno per portare un contributo di conoscenza scientifica o naturalistica, o di informazione legislativa: siamo qui semplicemente per testimoniare di una (per noi) straordinaria esperienza maturata in comune col tramite dei boschi e dei sentieri del parco, e del progetto di allargarla che ne è scaturito.

Cercherò di essere sintetico: spero di risultare anche chiaro. La frequentazione assidua dell’area del parco ci ha fatto scoprire ed apprezzare un considerevole potenziale di sfruttamento (mi scuso per il termine, ma lo impiego in senso positivo) in funzione escursionistica. Esistono già, o al limite possono essere identificati, percorsi di varie lunghezze, per uno o più giorni, più o meno impegnativi, adatti anche ad escursionisti esigenti (anche in questo campo ci sono i raffinati), e che nulla hanno da invidiare per la bellezza del paesaggio o per interessi naturalistici a quelli celebratissimi del Parco d’Abruzzi o della Selva Nera (per citare quelli di cui si è fatta personale esperienza, e che presentano analogie altimetriche). Questi percorsi debbono soltanto essere strutturati e promossi. Strutturare significa letteralmente predisporre strutture minime di accoglienza, oltre naturalmente a tracciare una segnaletica adeguata: quindi rifugi, punti sosta, capanni per bivacco, aree periferiche per il campeggio o il posteggio delle auto. Il tutto, per intenderci, senza colate ma nemmeno piccole eruzioni di cemento, sfruttando l’esistente, che è molto e giace nell’abbandono, e riducendo al minimo gli interventi (ciò che consente di risparmiare la natura, ma anche i soldi pubblici). Promuovere significa produrre un’informazione adeguata, e per come la vediamo noi “adeguata” ha una valenza ben precisa, perché proprio in questo sta la specificità del progetto.

Ogni parco che si rispetti pone infatti tra le sue finalità quelle di dotarsi di strutture e di pubblicizzarsi. Sin qui niente di nuovo. Il problema nasce quando si deve decidere verso quale tipo di fruizione orientarsi. Senza giri di parole, è un problema economico, che normalmente viene semplificato nei termini “più gente, più soldi, maggiori incentivazioni per i residenti, ecc…”. La logica è in fondo quella della natura come bene di consumo, da mettere democraticamente a disposizione di tutti, sperando in una ricaduta non solo di rifiuti o di scempi o di incendi, ma anche di occupazione. Il che è senz’altro giusto, in parte. Ma noi crediamo si possa porre la questione anche in altro modo, promuovendo e privilegiando ad esempio un afflusso escursionistico invece che turistico (per carità, ci vogliono anche i turisti, i gitanti domenicali con la radiolina per sentire la partita o le bistecche per la braciolata, ma possono essere contenuti, concentrati ai margini dei percorsi asfaltati o in apposite aree attrezzate, magari anche col megaschermo e il baretto). Una frequentazione escursionistica presenta in genere queste caratteristiche: non è distruttiva, seleziona a priori persone che la natura l’amano e la rispettano sul serio, esercita un richiamo molto allargato, che va ben oltre le aree metropolitane limitrofe (non ci spostiamo noi verso la Germania, la Francia, la Scozia, ecc., sulle tracce di sentieri che sono ormai diventati dei classici, e che raccolgono camminatori di tutta l’Europa?) ed ha quindi anche, una volta avviata, un riscontro economico ed occupazionale non indifferente, a fronte di costi di riassetto e di manutenzione minimi. Non sto viaggiando con la fantasia: è sufficiente percorrere qualsiasi sentiero tedesco (lasciamo perdere quelli italiani, non ne vale la pena) per rendersi conto che esiste tutta una micro-economia, ormai ben consolidata, alla quale i residenti nelle zone tutelate si sono di buon grado convertiti, e della quale sono, anche in termini di qualità della vita, ben soddisfatti. Ma c’è un altro aspetto, legato a questo tipo di fruizione, del quale ci preme sottolineare l’importanza. Uno dei mali della nostra società dei quali ci si lamenta più sovente è l’assenza di possibilità, nel senso anche di situazioni materiali, di incontro. Paradossalmente la nostra società di massa impone l’aggregazione, negli stadi, nelle discoteche, nelle code agli uffici pubblici, ma nega gli incontri. Incontrarsi in situazioni sbagliate (quelle appunto prima citate, ed altre peggiori) significa non poter assolutamente comunicare, conoscere, confrontarsi (se non fisicamente, come infatti accade sempre più spesso). Ora, l’incontro nello scenario naturale, nel silenzio di una sosta o nell’intimità di un rifugio, è una delle poche occasioni che ci siano date per rompere il guscio teleindividualistico e schiuderci a rapporti d’amicizia veri e significativi. Se poi ciò accade nei confronti di persone portatrici di altre culture, di altre mentalità, ma comunque a noi accomunate dalla volontà di guadagnarsi, di sudarsi un po’ i piaceri che la natura offre, beh, allora veramente nulla di più si può desiderare.

Il nostro progetto risponde a queste premesse. Intendiamo infatti identificare una rete di sentieri che rendano appetibile la zona del parco per tutti gli escursionisti, italiani e non, creando in tal modo attorno ad essa anche una sorta di rete protettiva, contro quelle volontà di intervento speculativo che non sono mai dome, e spesso si alimentano di ciò stesso che fino ad un attimo prima avevano combattuto e osteggiato. Intendiamo, per quanto ci sarà possibile e consentito, attrezzare questa rete con punti di sosta, che non debbono essere la riproposta alberghiera mimetizzata da agriturismo, ma veri e propri rifugi, ove si possa pernottare, bivaccare, volendo anche dimorare per qualche tempo, se si è alla ricerca di solitudine o si deve smaltire una delusione, a costi estremamente contenuti, escursionistici insomma. E intendiamo fare di questi luoghi dei punti di ritrovo, di appuntamento per chi ama la natura e si ricorda che della natura fanno parte anche gli umani e va in cerca quindi non solo di bei panorami, ma di solide amicizie o almeno di frequentazioni non deprimenti.

Per adesso è un sogno, anche se le coordinate del progetto le abbiamo già tracciate. Può essere che rimanga tale, per nostra incapacità o per cause di forza maggiore. Ma l’idea di fondo, l’ipotesi di lettura del futuro del parco dalla quale siamo partiti dovrebbe rimanere valida, ed essere accolta anche da chi avrà responsabilità amministrative: perché in caso contrario sarà difficile che i nostri figli possano ripercorrere con altrettanto piacere gli stessi sentieri che oggi noi frequentiamo.

 

Parchi e parcheggi

di Paolo Repetto, da Sottotiro review n. 7, settembre 1997

In principio era un’idea. Un’idea semplice e meravigliosa. Quella di consegnare intatto alle generazioni venture un lembo di terra dell’Oltregiogo, l’area Tobbio-Capanne di Marcarolo, un angolino non ancora insozzato da fumi, liquami e scorie del grande boom.

I presupposti, attorno alla metà degli anni settanta, c’erano tutti. C’erano ancora monti e valli, boschi e torrenti miracolosamente scampati allo scempio ambientale dei due decenni precedenti. C’era la crisi economica, l’inevitabile ristagno che fa seguito ad una crescita barbara e disordinata; e si manifestavano di riflesso da un lato i primi vagiti di una diversa sensibilità ecologica, dall’altro una più generale tendenza del sistema a ripensare le strategie economiche, a contabilizzare anche i costi della “modernizzazione”, e non solo i ricavi. C’era infine, da pochissimo istituito, un nuovo organismo amministrativo decentrato, la regione, dal quale era lecito attendersi un minimo di pianificazione del territorio.

L’idea pareva dunque tutt’altro che peregrina, e prossima anzi ad incarnarsi sotto le spoglie istituzionali più confacenti, quelle di un Parco. Ma “quando una grande idea si scontra con un grande esercito, deve sperare in lunghe gambe per fuggire” (Stanislaw Lec). Nel nostro caso l’esercito nemico era temibile davvero, agguerrito e composito. Schierava interessi grandi (da tempo era stato individuato nella zona un possibile sbocco retroportuale – leggi pattumiera – di Genova, attraverso il fantomatico “terzo valico”; o, in alternativa, un decentramento residenziale – leggi dormitorio – con tanto di bretella autostradale e ferroviaria) e medi (era già avviata la costruzione di villaggi estivi simil-Eden, con sbarra all’ingresso e cinta e tutto il resto): ma soprattutto poteva sfruttare la forza d’urto dei piccoli egoismi, quello miope dei residenti, quello ipocrita degli amministratori e quello protervo dei cacciatori.

Non appena, alla fine degli anni settanta, l’amministrazione regionale annunciò di aver localizzato circa dodicimila ettari (per metà di proprietà regionale) da destinarsi a parco naturale, ebbero inizio le ostilità. La resistenza antiparco venne condotta senza esclusione di colpi e di mezzi: dalla disinformazione sistematica (non si potrà più tagliare la legna, ristrutturare gli edifici, raccogliere i funghi, ecc…) alla diffusione di leggende demenziali (ripopolamenti di vipere paracadutiste, importazione di lupi dall’artico, ecc…), dall’ostruzionismo pianificato e conclamato (dieci anni di discussioni, incontri e scontri tra gli amministratori dei comuni interessati, senza produrre una riga di piano o di regolamento) a quello sotterraneo e clientelare, fatto di deroghe e patteggiamenti e ridefinizione dei confini. E intanto, ad ogni estate tornavano a levarsi minacciosi i segnali di fumo degli incendi, appiccati con regolare criminalità dai nobili “difensori” della propria terra.

A fronte di questa formidabile coalizione e di una strategia così articolata l’Idea poteva opporre, in realtà, ben pochi e spesso malfidati paladini. Un’amministrazione regionale paralizzata da vicissitudini giudiziarie e alternanze politiche, sempre più inerte, ricattabile e lontana, incapace sia di prospettare ai residenti un minimo di ricaduta economica (se non quella prettamente assistenziale), sia di mettere fine alla pantomima degli enti locali (comuni, comunità montana): una militanza ecologica altrettanto integralista e intollerante di quella venatoria, sovente appannaggio di neo-convertiti che non distinguevano una quercia da un palo del telefono, e comunque quasi totalmente “di importazione”: una fazione proparco, minoritaria ma esistente anche tra gli amministratori locali e i residenti, inquinata da presenze motivate più dall’aspettativa di future cariche, prebende e sovvenzioni che da un qualsivoglia interesse per il destino del territorio. Infine uno sparuto gruppo di veri credenti, animati dalle migliori intenzioni ma ben poco presenti nelle istituzioni e nei ruoli decisionali, per scelta o per esclusione, e pertanto impossibilitati o non disposti a calamitare consensi con la pratica nazionale dello scambio.

Con queste forze in campo la ritirata dell’Idea era inevitabile. E infatti, tra l’80 e il ‘90, sotto la pioggia degli attacchi il parco si ritira, proprio come un panno bagnato. I dodicimila ettari diventano meno di ottomila, e coprono ormai in pratica soltanto il territorio di proprietà regionale. Gli enti locali non trovano un accordo, se non sulla linea del boicottaggio, non avanzano proposte plausibili sul regolamento, non nominano i loro rappresentanti per i futuri organismi di gestione. Per sbloccare l’impasse la regione è costretta a procedere d’imperio. All’inizio degli anni ‘90 vengono definiti confini, regolamenti, ruoli e modalità amministrative. Viene reclutato un primo nucleo di addetti, con molta parsimonia, tanto che allo stato attuale la vigilanza su tutto il territorio è affidata a tre guardie, e la direzione tecnica è rimasta praticamente vacante. Viene anche effettuata la palinatura dei confini, contro la quale partono subito le azioni dei commandos venatori. E intanto i boschi continuano a bruciare, e i piani e le strutture e la valorizzazione rimangono lettera morta.

Comincia ad esistere solo il parco virtuale, quello raccontato negli articoli delle riviste specializzate di grande impatto (Oasis, ecc…) o nei programmi a carattere turistico-ambientalista della televisione. Con l’ovvia conseguenza che cominciano ad affluire i visitatori, e non trovano né aree di parcheggio né strutture d’accoglienza, e neppure deterrenti efficaci alla maleducazione. Orde di vandali si riversano durante la stagione estiva lungo i torrenti e nei boschi, accendono fuochi, improvvisano bivacchi, lasciano alle loro spalle cumuli di immondizia. Ad arginarli, oltre le tre disperatissime guardie, solo le buone intenzioni degli ecologisti volontari, che spesso però si traducono in atteggiamenti ed in interventi poco opportuni. Dei residenti, invece, di chi abita entro i confini del parco o nei suoi pressi, nemmeno l’ombra. I secondi sembrano non essersi ancora accorti della sua esistenza, ai primi interessa solo mungere qualche sovvenzione, possibilmente per recintare boschi e prati e tenere lontani gli indesiderati “cittadini”. Lo spettacolo più indecente è offerto comunque dagli amministratori locali. Una volta costretti a prendere atto dell’esistenza, sia pure precaria, del parco, si scatenano infatti in una girandola di compromessi, rivalità, beghe di campanile, miranti solo ad assicurare all’un comune piuttosto che all’altro la sede, il controllo, i finanziamenti della CEE, ecc… Occorrono anni prima di arrivare alla nomina da parte degli enti locali di tutti i componenti del consiglio di gestione: anni persi a dosare le presenze politiche, anche quelle più obsolete, e a combinare alchimie capaci di accontentare (e scontentare) tutti. E altri anni sono necessari per trovare una risicatissima maggioranza, che consenta la costituzione di una giunta: e poi rimpasti, traballamenti, inversioni di fronte, una sceneggiata che dura tuttora e che, a otto anni dall’istituzione del parco, non ha prodotto un minimo di continuità amministrativa, un piano di valorizzazione, un progetto per ovviare alle carenze strutturali. Nulla, se non contentini distribuiti qua e là, a quel residente o a quella frazione; o spartizioni dei finanziamenti eseguite secondo logiche e parametri condominiali.

Questa la situazione a tutt’oggi. E l’Idea? L’Idea, poveraccia, ha dovuto constatare per l’ennesima volta qual è il suo destino. Non appena un’idea mette i piedi per terra viene risucchiata dalle sabbie mobili della meschinità e dell’idiozia. Diventa scudo per le ambizioni e gli egoismi dei peggiori, spesso di chi sino ad un attimo prima le aveva sparato addosso.

Non era certo necessaria la vicenda del parco delle Capanne per capirlo: tutta la storia umana segue questo schema. Ma la storia insegna anche un’altra cosa: che gli uomini passano, e le idee resistono. Forse c’è qualche speranza anche per la nostra. Qualcuno ha cominciato a capire che il parco può produrre delle alternative economiche e consentire al tempo stesso delle scelte sulla qualità della vita: e che la conoscenza, la valorizzazione e la difesa di questo territorio non possono essere demandate né alle istituzioni né al volontariato domenicale, lodevolissimo, per carità, dei militanti ecologici, né possono tradursi in una imbalsamazione museale del patrimonio naturalistico e storico, ma devono radicarsi invece in un rapporto quotidiano di necessità e di sopravvivenza, di simbiosi accrescitiva e di scambio tra uomo e ambiente. L’Idea a questo punto la sua parte l’ha fatta: sta a noi farla atterrare su un terreno più solido e pulito.

 

Segnali di fumo dal parco

di Paolo Repetto, da Contro n. 8/9, 1980

Dalla fine dell’agosto scorso i nostri polmoni possono contare su di un nuovo parco naturale, quello delle Capanne di Marcarolo. Intendiamoci, un parco provincialotto, un po’ sottotono rispetto ai dettami della cultura telefilmica su riserve, parchi e affini. Niente a che vedere con Yellowstone (quello dell’orso Yoghi) o col Kenia. Non ci sono i rangers con l’aereo né i loro aiutanti indiani o neri, e neppure i figli dei rangers col cane o con la foca intelligente. L’animale più feroce che vi è dato di incontrare è l’uomo, nelle sottospecie del bracconiere o del gitante maleducato; per il resto mucche, pecore, scoiattoli, ramarri e qualche cinghiale spaventato. È in realtà una striscia di terra esigua (circa 10000 ettari, un fronte di 10 chilometri per lato), che si è ristretta come un panno bagnato nei confronti del progetto iniziale, sotto una pioggia di critiche, di opposizioni e di manovre di disturbo di ogni genere.

Con tutto questo, rimane un angolino bello, pulito e tranquillo, dove vale la pena di camminare, respirare e guardarsi attorno. Purtroppo per il momento questo angolino è “parco” solo sulla carta, in quanto esiste giuridicamente ma non è dotato di alcuno strumento di salvaguardia o di valorizzazione. Nulla, anzi, potrebbe farne sospettare l’esistenza al pellegrino di passaggio che non fosse tra i lettori assidui del Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte (la legge istitutiva è apparsa sul numero dell’11/9/1979).

Agli indigeni, comunque, anche a quelli non abbonati al bollettino regionale, è stato dato modo di accorgersi subito della sua istituzione: perché dopo una settimana i boschi hanno cominciato a bruciare, ad intervalli regolari, come in ogni parco che si rispetti, e in ciò almeno il nostro è all’altezza di quelli dei telefilm (con la differenza che là l’incendiario inciampa, si sloga una caviglia e se non arrivassero il cane e il figlio del ranger farebbe la fine del sorcio, così che lo portano via mezzo abbrustolito, mentre qui non accade, e non lo vede mai nessuno, e dopo una settimana ricomincia tale e quale).

La regolare combustione del nostro parco è alimentata da un ampio consesso di malevolenze. Vi ha senza dubbio la sua parte una componente di negligenza e di antipatia diffusa in tutto il paese nei confronti dei pubblici beni, tanto più se sono naturali. Ma il parco di Marcarolo di antipatie se ne è create parecchie anche per conto proprio, “personali”. E forse vale la pena di ripercorrerne a grandi linee la storia, per capire cosa brucia dietro questi incendi, e per trarne qualche considerazione.

Il progetto di attuare un parco appenninico aveva già trovato voce in seno alla prima amministrazione regionale, democristiana. Esso era inserito in un più vasto piano di “sistemazione” del territorio regionale, che prevedeva anche altre quattro aree di salvaguardia strategicamente dislocate in Piemonte. Il parco non è nato quindi in risposta a specifiche istanze locali, ad una particolare sensibilità ecologica o a scelte di sviluppo alternativo della popolazione: è piuttosto il frutto di una volontà politica di vertice. Ora, da queste parti è un po’ difficile credere ad una qualsiasi volontà politica democristiana finalizzata al bene collettivo. Una rapida occhiata in giro, a quello che tale volontà ci ha combinato in trenta e passa anni, porta a concludere che essa è al di sopra di ogni sospetto, non le è dato indirizzarsi al bene neanche per sbaglio. Viene quindi spontaneo domandarsi a cosa diavolo mirasse questa pianificazione (i più malevoli pensano a selvagge lottizzazioni nelle adiacenze del parco, o addirittura, stanti le voci che circolavano insistentemente, a raffinerie e a strutture retroportuali sloggiate dall’hinterland genovese, col parco a fare da contrappeso e a chiudere la bocca ai più riottosi) e ringraziare il cielo che non abbia avuto modo di “sistemare” ulteriormente il territorio, e noi con esso.

Il passaggio delle consegne amministrative regionali non affossa il progetto del parco: la giunta di sinistra lo fa proprio e lo rilancia, impegnandosi anche seriamente in vista di una concreta realizzazione. Questa volta è concesso sperare in una volontà politica meno sospetta ed ambigua: ma bisogna per contro rilevare una notevole mancanza di tatto. Arrivano infatti i funzionari regionali e annunciano: qui faremo un parco. I limitrofi, che già sentivano puzzo di raffineria, sono sollevati; meno tranquilli appaiono invece ii residenti nel territorio destinato al vincolo. Cristo, dicono, è una fregatura. Questi residenti, beati loro, sono poco appassionati di telefilm, e quindi la parola parco non evoca per essi automaticamente immagini di rangers o di foche intelligenti, ma suscita piuttosto il timore di avere tra i piedi degli esperti che non distinguono un salice da un abete e che spiegano come e quando e dove si deve tagliare la legna, o pascolare la mucca. Anzi, probabilmente non hanno neppure atteso di sapere cosa si volesse “fare” per pronunciarsi in proposito. Potevano dir loro facciamo un aeroporto, un bordello, una scuola per palombari, e la reazione sarebbe stata la stessa. Il fatto è che se vedono pochi telefilm hanno in compenso fatta tanta, troppa esperienza di interventi governativi, regionali, provinciali, mercato comunitari ecc…, e questa esperienza li ha indotti subito a pensare, per riflesso condizionato, alla fregatura.

I problemi maggiori non sono venuti però dai residenti. C’è voluto un po’ di tempo per superare la loro giustificata diffidenza e per spiegare i vantaggi connessi alla “sistemazione”, ma oggi il buon senso sembra avere prevalso. Chi invece non l’ha digerita proprio sono coloro che nella zona non vivono, ma vi coltivano interessi di grosso calibro, assolutamente inconciliabili con i vincoli di tutela di un parco. I proprietari di riserve venatorie, ad esempio, o le società “milanesi” (qui tutte le società fantasma e i soldi investiti in operazioni di cui a prima vista riesce difficile scorgere i vantaggi finiscono per essere “milanesi”, salvo poi rivelarsi molto meno esotiche) che hanno fatto incetta di cascinali abbandonati all’epoca della grande fuga verso la città, avendo in mente tanti bei “villaggi” (piscina, tennis, villette plurigemellari con fazzoletto di giardino all’inglese per i bisogni del cane). O i grossi speculatori immobiliari attratti dall’arrivo dell’autostrada, che fa dell’ovadese il polmone di Genova, e dalle prospettive di un arretramento trans-appenninico delle strutture inquinanti del genovese.

A tutti costoro la prospettiva del parco ha provocato un mezzo infarto, ed è comprensibile che appena ripreso fiato abbiano cominciato ad agitarsi, a brigare, ad aggrapparsi a destra e a sinistra per scongiurarla. Bisogna riconoscere che sono stati in grado di strumentalizzare sapientemente le perplessità dei residenti, fatti oggetto di una straordinaria campagna di “solidarietà “, e l’egoismo al solito ottuso dei cacciatori, facendo così muovere in prima linea una “opposizione popolare” che per una giunta di sinistra non poteva non costituire un grave problema.

La stessa giunta, dal canto suo, è riuscita a complicare ulteriormente la faccenda muovendosi in maniera un po’ confusa ed intempestiva. Ha infatti affidato alla Comunità Montana Alta Val Lemme e Alto Ovadese (i cui comuni sono in gran parte interessati territorialmente al Parco) il compito di preparare il terreno presso la popolazione, di informare, di sondare e di redigere infine un regolamento del parco che, basandosi sullo schema delle norme istitutive vigenti a livello nazionale, tenesse in considerazione le esigenze specifiche della zona e i problemi dei suoi abitanti: e questa sarebbe stata la soluzione ottimale, se all’interno di tale organismo esistesse un’unanime compattezza di intenti. Purtroppo la realtà è diversa, e la Comunità Montana finisce per riprodurre in miniatura gli stessi scontri politici e di interesse presenti a tutti gli altri livelli. Si sono così moltiplicati in seno alla commissione per il parco gli incontri, gli scontri e i ripensamenti, mentre all’opera di persuasione esterna si affiancava una neanche troppo sotterranea propaganda in direzione opposta. Soltanto dopo più di un anno tutta questa attività ha cominciato a dare frutti positivi. Sennonché, al momento in cui gli esausti rappresentanti della C.M. si accingono a tirare le somme e a presentare alla Regione una bozza di normativa vincolistica, ti arriva da Torino la comunicazione che la legge istitutiva è già stata varata, che alla Regione si sono spazientiti ed hanno deciso di darci un taglio.

Col risultato che il giorno in cui si dà inizio alla palinatura di delimitazione la Regione si trova isolata, ed hanno buon gioco le truppe dei cacciatori e dei residenti incazzati che spianano le paline, sotto l’occhio compiaciuto della tivù privata locale; mentre gli esterrefatti rappresentanti della Comunità Montana, con un diavolo per capello, mandano in mona regione e tutto il resto. In pratica è tutto da rifare. La regione deve prorogare l’entrata in vigore della legge istitutiva, subordinandola nuovamente alla revisione della C.M., soprassedere alla delimitazione dei confini del Parco, ecc… Il tutto fino a quest’anno, quando, come si è visto, bene o male la legge passa. E i boschi cominciano a bruciare.

Questi i fatti. Ora, in margine alla vicenda e in attesa di vedere se con l’arrivo della primavera si ricomincerà a sentire odore di fumo, alcune brevi considerazioni.

Un parco è, etimologicamente, una zona di rispetto, di salvaguardia. La sua stessa esistenza costituisce di per sé una denuncia: se deve essere creata una zona di rispetto ‚ perché il rispetto non esiste a livello di coscienza collettiva. Il concetto di parco non è quindi intrinsecamente positivo: esso nasce dal presupposto che il rapporto quotidiano e normale con la natura sia per forza di cose improntato allo stravolgimento e alla distruzione, e che non esistano alternative di reale simbiosi, ma soltanto esigenze di riequilibrio e di compensazione. La creazione di oasi strategiche, conservate sotto vetro e artificiosamente riservate alla “contemplazione”, risponde perfettamente alla logica del capitale, quella stessa cui fanno capo le divisioni lavoro – tempo libero, zona residenziale – zona industriale ecc… I parchi, il verde pubblico, l’urbanistica “a misura d’uomo”, non sono che uno dei tanti volti nuovi di un capitale che all’uomo ha preso appunto le misure, come un becchino, per chiuderlo in una cassa climatizzata, o come un sarto, per cucirglisi addosso come una seconda pelle. Fanno parte di una immensa ragnatela di assistenza-dipendenza che progressivamente ci avviluppa, sempre più elastica, sempre più trasparente, sempre più impermeabile, come un preservativo. Dalle mutue al sistema pensionistico, dagli asili agli ospizi per i vecchi, dalla televisione all’auto, alla scuola, alla droga, tutto diventa secrezione del capitale, filamento appiccicoso dal quale è sempre meno facile districarsi.

Su queste cose è urgente aprire gli occhi, lasciando perdere le religiose reverenze. Tra le due pulsioni di fondo entro cui si muove, quella dello sfruttamento incondizionato e selvaggio e quello della propria sopravvivenza e perpetuazione (anche qui Eros e Thanatos si confondono e si contrappongono) il capitale ha ormai privilegiata decisamente quest’ultima. Razionalizzandosi mira a garantirsi da un lato contro l’esasperazione dei soggetti, dall’altro contro il suo stesso impulso alla fagocitazione distruttiva di ogni risorsa, umana e naturale. Un parco, e con esso tutta la promozione ecologica degli ultimi tempi, entra a far parte automaticamente di questo disegno. Di ciò occorre essere coscienti, proprio mentre ci si muove a loro sostegno: sono concessioni, non conquiste. Quindi vanno accettate, anzi promosse e difese: ma solo nell’ottica di trasformarle in un reale possesso e in un trampolino per ben altre mete. Brecht avrebbe detto: beati i popoli che non hanno bisogno di parchi.