Qui ci sono i draghi

di Fabrizio Rinaldi, 15 maggio 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Le più antiche mappe europee sono in Valcamonica, su una roccia di 2,5 metri per 3 con incisi campi coltivati, sentieri e torrenti. Sicuramente di non semplice consultazione come Google Maps, ma già allora apparivano chiare le due caratteristiche principali dalla moderna cartografia: l’utilizzo di simboli per rappresentare le caratteristiche di un territorio e la visione prospettica dall’alto, dovuta all’abitudine dei popoli di montagna di vedere tutto dalla cima.

La presenza di un punto elevato da cui guardare il mondo è di estrema importanza, tanto da essere uno dei tratti distintivi: senza una “visione” dalla sommità di un colle o di una montagna, non si rintracciavano i riferimenti spaziali necessari per orientarsi, tanto nel territorio concretamente calpestato quanto nella sua rappresentazione su roccia, pergamena o carta.

Nel Medio Evo e nella prima età moderna le mappe divennero uno strumento indispensabile per coloro che si spostavano da un feudo all’altro per scambiare merci, ma soprattutto per i naviganti, i quali si inoltravano in mari e in territori inesplorati, indicati sulla pergamena da ampi spazi bianchi.

Durante la Grande Guerra si iniziò ad utilizzare la fotografia come supporto per la stesura delle carte. Al rilevamento aereo si aggiunse, dopo il secondo conflitto mondiale, anche il telerilevamento mediante satelliti artificiali. Di lì, con ulteriori innovazioni tecnologiche, siamo arrivati alla geolocalizzazione odierna, consentita da qualsiasi smartphone.

Un’infografica potrebbe riassumere bene l’evoluzione della cartografia, passata appunto dalla roccia a Google Maps, ma non ne ho trovate in rete di soddisfacenti e non sono abbastanza bravo da costruirne una io.

Comunque, la prima cosa da rilevare nell’iconografia geografica (e non) odierna è la tendenza a raffigurare concetti, dati ed eventi con simboli, icone e grafici che nei colori accattivanti e nel tratto alludono ad un mondo infantile. In pratica ci trattano come bambini. Predomina la semplificazione, giustificata dal fatto che si vogliono rendere facilmente comprensibili concetti che non lo sono affatto: dalla relatività all’economia, dalla psicologia alla tecnologia dei computer. Non a caso Steve Jobs, l’inventore di Macintosh, era ossessionato dalla “pulizia” grafica dei suoi prodotti, sia del software che dell’hardware.

Ora, tutto questo è vero, ma al di là della tendenza del momento e di ciò che può sottendere, non me la sento di condannare un’evoluzione che, usata intelligentemente, consente di affrontare luoghi e saperi sconosciuti. Senza questa, molti di noi si fermerebbero già alla partenza.

Le mappe mentali, ad esempio, sono il pane quotidiano per molti studenti, che in esse sintetizzano più concetti inerenti ad un argomento: la speranza è che questo li aiuti a memorizzarli meglio e a far chiarezza (se mi baso su quel che vedo, qualche dubbio lo avrei). Graficamente si parte dal concetto principale, al centro del foglio, e da esso si tracciano linee che portano alle parole chiave attinenti più prossime: da queste se ne propagano altre, e se le connessioni sono corrette si arriva fino a eviscerare nel dettaglio l’argomento affrontato.

Io stesso prima di una riunione traccio una mappa mentale degli argomenti che affronterò col mio gruppo di lavoro. Se le questioni le sintetizzo come punti di una lista, non ottengo altrettanti dettagli. La sintesi degli argomenti disegnati in forma di un “neurone” ci è più congeniale, forse perché riproduce qualcosa che è presente nel nostro cervello.

Come quella dei concetti, anche la raffigurazione del territorio passa inevitabilmente attraverso simboli che dovrebbero essere universalmente comprensibili. Le mappe utilizzate da chi pratica l’orienteering non riportano i nomi dei luoghi, ma sono estremamente precise e usano segni convenzionali e colori specifici e funzionali al tipo di terreno rappresentato. L’interpretazione della simbologia permette di orientarsi in un territorio, leggerne le caratteristiche e ricavarne le informazioni necessarie.

E ho anche iniziato a considerare le praterie, poco distanti dalla città in cui sono nato, la mia terra natale, e ho cominciato ad amarle non perché attirano l’attenzione come i monti o la costa, ma perché la respingono sfidando la capacità di mantenerla sveglia.
WILLIAM LEAST HEAT–MOON, Prateria, Einaudi 1994

La maggior parte delle mappe contiene però toponimi connessi al territorio, e chi le utilizza fa riferimento proprio a questi.

È interessante l’indagine sui toponimi raccontata anni fa da William Least Heat-Moon nel libro Prateria. Da una piccola zona del Kansas nella quale non c’era altro che erba alta e qualche casa isolata, un luogo all’apparenza senza alcuna storia, l’autore riuscì a estrarre personaggi e avvenimenti, ricostruendo il rapporto a volte conflittuale tra l’uomo e la natura (cicloni, siccità, alluvioni). Nei nomi dei luoghi resistono storie, magari piccole, ma che diversamente sarebbero scomparse.

Una ventina di anni fa ho partecipato ad una ricerca degli antichi toponimi nel territorio del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo. Intervistando i vecchi del luogo riuscimmo a risalire ai nomi di colli, vallette, rii e ruderi di antiche case, che stavano per essere dimenticati e non comparivano nelle carte ufficiali, sia in quelle del Parco che nelle più vecchie IGM del territorio.

Oggi la memoria orale di quella società e della sua storia è andata perduta, perché anche gli ultimi superstiti della comunità contadina che avevamo intervistato sono scomparsi. Quel lavoro ha però salvato i nomi legati al territorio e li ha connessi alla storia passata. Sono scomparse le voci, ma rimane la parola.

L’immagine qui riprodotta è indicativa di quanti toponimi avesse un ristretto territorio, quindi di quante storie ci fossero da raccontare.

Proprio in quel fazzoletto di terra nacque la “leggenda” dei Viandanti delle Nebbie. Il sogno era quello di tornare ad una idea positiva e propositiva dell’esistenza, di recuperare modalità di rapporto semplici e leali, di ricostituire una tessuto di amicizia e una comunità di ideali. Avevamo individuato i ruderi delle cascine Nègge come luogo in cui rifugiarci e da cui far partire tutto. È rimasto un sogno. È rimasta per molti di noi la Camelot da cercare.

Tutto questo nelle mappe dell’epoca digitale non trova spazio. Abbiamo mappe del terreno molte accurate, che però si fermano solamente alla superficie: senza la terminologia storica vanno perse le connessioni all’uso che l’uomo ha fatto di quello spazio nel tempo.

Già ora, se penso alla mia zona, mi chiedo quanti ancora conoscano “La Caraffa” come piccolo nucleo di case, e non la identifichino invece con il Brico e il Basko.

Nelle mappe che leggeremo in futuro sulle nostre appendici telefoniche i toponimi collegati all’uso del territorio saranno soppiantati – perché ormai del tutto superflui e obsoleti – dalle indicazioni di dove poter mangiare kebab, acquistare scarpe, vedere qualcosa, ecc … Saranno costruite ad hoc sulla base del nostro “profilo”, degli interessi rivelati dai nostri acquisti e dai nostri spostamenti.

Per chi però ancora volesse incontrare l’inesplorato, basterà introdurre un “filtro” all’oracolo Google: mascherando tutto ciò che è “consumabile” si potranno trovare nuove terre incognite. Magari sullo schermo apparirà l’antica frase latina hic sunt dracones (“qui ci sono i draghi”) e ricominceremo a ridare nomi a sentieri, strade, boschi e pianure. Magari qualcuno di questi posti lo chiameremo Camelot o, addirittura, Nègge.

Collezione di licheni bottone

Mappe

di Paolo Repetto, aprile 2018, da sguardistorti n. 03 – luglio 2018

Nell’ultimo mese ho letto due libri che già nel titolo parlano di mappe: Le dieci mappe che spiegano il mondo e La storia del mondo in dodici mappe. Il primo tratta di geopolitica e individua dieci aree critiche, di possibile scontro futuro. Il secondo racconta invece come il mondo è stato rappresentato a partire dall’antichità, e spiega tanto le scelte di metodo nella rappresentazione quanto quelle di contenuto. Uno ci dice come siamo messi, l’altro come ci siamo arrivati.

Le mappe tirano (letteralmente): sono stati editi recentemente diversi atlanti dei paesi fantastici, dei luoghi sognati e di quelli letterari, dei luoghi maledetti e di quelli insoliti e curiosi, ecc …, che sono in realtà dei pretesti per cartografare la geografia del bizzarro. Ma in effetti, al di là della loro occasionale e transitoria popolarità, le mappe offrono una significativa metafora della nostra conoscenza, dei suoi progressi e dei suoi limiti (e, nei casi sopra citati, delle sue stravaganze).

Una mappa non è il mondo, ma è una descrizione del mondo. Riassume ciò che noi vediamo, o ci interessa vedere, o vorremmo vedere. Possiamo considerare mappe anche i modelli di rappresentazione visiva utilizzati in ogni tipo di scienza: il classico schema fisico dell’atomo o una sequenza del genoma arrivano a descrivere ciò che non potremo mai vedere. Come ogni descrizione, naturalmente, la mappa è più o meno ingannevole e imprecisa, e comunque sempre incompleta. Quella geografica può dirti ad esempio che distanza c’è tra un luogo e l’altro, se il territorio è pianeggiante o montuoso, se è savana o foresta o deserto, persino se in genere se piove o fa bello o è caldo o freddo, ma non ti dice se ci sono zanzare, o serpenti tra l’erba, o ponti traballanti, cose che ai fini del comportamento, dell’equipaggiamento e dei tempi di percorrenza da mettere in conto fa una bella differenza. Lo stesso vale per quelle scientifiche: anche le rappresentazioni visive della struttura del DNA o delle particelle atomiche non indicano uno stato della materia, fotografano un istante di un suo percorso.

Io volevo parlare però delle rappresentazioni grafiche, oggi anche quelle digitali, del territorio. Ho sempre amato le mappe, e le carte geografiche in generale, senza attendere che tornassero di moda. Ho disegnato quella de L’isola del tesoro già a otto anni, e ho scoperto sessant’anni dopo che Stevenson per scrivere il suo capolavoro era partito proprio da una mappa fantastica creata assieme al padre. Ho riempito album interi, alle elementari, cercando di ricostruire la topografia di Mompracem, ho imitato le cartine essenziali dell’Arizona disegnate da Galeppini per Tex, ho tracciato quelle dei percorsi di lunghe camminate negli Appennini e nelle Alpi. Oggi ho diversi scomparti pieni di carte stradali di tutto il mondo, di itinerari sentieristici dei parchi e delle vallate alpine, di carte nautiche e militari, di riproduzioni di antichi portolani, e più in generale di carte politiche e fisiche, di diverse epoche e su diverse scale (una, molto grande, rappresentante l’Europa e datata 1848, campeggia in una parete del mio studio), di planetari e di mappe del cielo di entrambi gli emisferi. Oltre naturalmente a innumerevoli atlanti, compresi quelli storici e quelli dedicati alla geografia fantastica.

Che senso ha questa passione? Voglio dire, al di là della mia specifica compulsione maniacale alla raccolta, cosa cerca uno in queste carte?

Credo che il tutto sia legato all’ansia del controllo totale (la sindrome di dio). Da quando ho capito, molto presto, che non avrei potuto comunque vedere tutto il mondo, cosa impossibile anche a volercisi dedicare a tempo pieno, ho risolto di concentrarmi sulla sua rappresentazione. Ho seguito in fondo l’esempio di Ariosto e ho preso alla lettera Schopenhauer: il mondo come rappresentazione, e anche come volontà, perché sulla mappa il mondo uno lo ricostruisce come vuole. Lo possiede, e allo stesso tempo se ne sta fuori. Un vero controllo si può esercitare solo dall’esterno. E solo su ciò di cui si è unici e assoluti creatori.

Al di là comunque dell’improbabile lettura psicanalitica, le carte hanno sempre esercitato su di me un’attrazione per il loro carattere illustrativo, iconografico, a partire dalle suggestioni cromatiche. In quelle grandi, scientifiche, segnatamente in quelle fisiche, a raccontare il mondo sono le diverse sfumature di colore, dal bruno al verde fino al giallastro dei deserti. Quando ancora tappezzavano le pareti delle aule le avevi davanti agli occhi tutti i giorni, per anni: non potevi uscire dalla quinta elementare senza avere impresse nella memoria le dorsali marrone scuro, con frequenti chiazze bianche, delle Montagne Rocciose e delle Ande, delle Alpi e dell’Himalaya, le linee azzurre del Nilo o del Rio delle Amazzoni, la macchia blu profondo della fossa delle Marianne. Anche il più zuccone dei miei compagni distingueva il Caucaso dai Pirenei, competenza che oggi non possiamo chiedere alla gran parte dei nostri parlamentari.

Lo stesso valeva per la geografia politica: credo esistesse per i colori da assegnare ai singoli stati una convenzione, per cui l’Italia era in genere verde, la Spagna gialla, la Francia marroncina e l’Inghilterra (ma anche la Svezia), chissà perché, rosa. Il più appropriato era il verde intenso dell’Irlanda, mentre alla Germania, est e ovest, veniva riservato un lilla molto anonimo.

Erano, tranne che per l’eccezione irlandese, sempre tonalità di colore decisamente tenui, per consentire la lettura delle scritte. Col tempo le tinte si sono sbiadite, e in una carta europea della metà del secolo scorso che ho recuperata in un mercatino il continente appare unificato da una colorazione quasi indifferenziata. Avrebbe potuto essere la metafora di un sogno, invece lo è soltanto della sua progressiva insignificanza. L’associazione cromatica facilitava comunque di molto il riconoscimento e la memorizzazione: nessuno confondeva la Cecoslovacchia gialla con l’Ungheria rosa (in questo caso ero convinto dipendesse dagli allevamenti di maiali). Ma bisogna ammettere che il quadro era molto più semplice, soprattutto nell’est europeo e nell’Asia centrale.

La convenzione si applicava naturalmente anche nelle carte d’Italia, nelle quali il rosa se lo assicuravano la Liguria e la Puglia, mentre il verde spettava di diritto nella variante più intensa alla Valle d’Aosta e in quella pastello alla Lombardia. Il Piemonte era vestito di un triste grigioverde, forse in memoria del militarismo sabaudo.

Guardare una carta, meglio ancora un planisfero, è come vedere il mondo da un satellite, ma in realtà è molto più coinvolgente, perché non ci sono nubi a nascondere la superfice e i colori sono netti e intensi, mentre dal vero si stenta a distinguere la terraferma dell’oceano. Ho visto alcuni nuovi atlanti corredati di carte ricavate dalla rilevazione fotografica, e sono un vero pianto: ci si capisce niente e non stimolano la fantasia. Viene meno proprio la caratteristica fondamentale della carta, che è quella di darti le indicazioni di massima e lasciarti poi libero di immaginare e ricostruire il tutto. Peggio che mai le mappe satellitari del web, che ti paracadutano direttamente nei luoghi, ancorandoti brutalmente alla realtà. Provate a visitare le cascate del Niagara o le Victoria Falls con Google Earth, magari in 3D: viste virtualmente perdono ogni fascino, ogni mistero. L’abissale ignoranza e l’assoluto disinteresse delle nuove generazioni per la geografia non sono casuali.

Nel tipo di rappresentazione geografica che maggiormente mi intriga ci sono però anche altre attrattive, peculiari soprattutto di quelle che più comunemente sono classificate appunto come mappe, per distinguerle dalle carte geografiche. Sto parlando di quelle cartine particolari, a volte molto schematiche, altre volte ricchissime, che non pretendono di fornire una qualche descrizione scientifica o politica del territorio, ma ne danno una interpretazione emozionale, dettata da paure, ambizioni, speranze, complotti, missioni. Quella dell’isola del tesoro è senz’altro la più famosa, ma potrei ricordare le decine di altre sulle quali ho viaggiato e fantasticato, da quella della Terra di Mezzo disegnata dallo stesso Tolkien alle carte redatte dal capitano Rogers in cerca del passaggio a nord-ovest, alle infinite varianti dell’isola di Utopia. Queste sono mappe animate, dove ogni elemento fisico diventa un segnale e un simbolo, ogni fiume un confine o una via, i sentieri portano al pericolo o alla salvezza. Ciò che in esse conta è che forniscano i dati veramente essenziali per costruire una determinata storia. I segni devono essere semplici, chiari, inequivocabili, indicazioni concrete per un orientamento a vista: qui le montagne, con le gobbette o piramidi, qui la foresta, con i tre alberelli, qui il fiume, col ponticello che lo attraversa o con le pietre del guado, là il villaggio o il fortino, e poi, finalmente, la fatidica crocetta che indica il tesoro (o la tana del nemico da espugnare). In alto a sinistra, o in basso a destra, la rosa dei venti.

A dieci anni ero già riconosciuto dal gruppo come cartografo ufficiale, qualifica che rafforzava la mia ambizione a guidare ogni banda paesana. Nessuno sapeva disegnare rose dei venti come le mie, o bruciacchiare i bordi della carta e antichizzarla col fumo e macchie di grasso, oppure ideare simboli e riferimenti segreti sempre nuovi. Mappavo tutto, e una volta, partendo da una carta in scala 1:5000 dell’IGM, ottenni una rappresentazione del territorio di Lerma che lo faceva sembrare il mondo di Narnia. Può apparire un’abilità di scarso rilievo, invece era fondamentale: c’è una bella differenza tra entrare nelle cantine del castello e avventurarsi nei sotterranei della Fortezza Maledetta, tra giocare nel boschetto della Cavalla ed essere dispersi nella Foresta Tenebrosa, tra fare il bagno al Piota e affrontare le Rapide della Morte.

Darei qualunque cosa per ritrovare quella mappa: nella memoria, e non solo nella mia, è impressa come un capolavoro. Forse anche perché è rimasta l’ultima, o forse perché più in là non si poteva davvero andare. Ma non si tratta solo di questo: il fatto è che c’erano indicati, con le crocette, anche i luoghi dove avevamo sepolto il tesoro, un sacchetto di monete fuori corso che magari oggi varrebbero una fortuna, e nascosto le armi, tra le quali anche il mio Bengala a canne sovrapposte. Che io sappia nessuno è più andato a recuperarli. Il tempo era scaduto.

Abbiamo seppellito un mondo e il pezzo migliore della nostra vita, e da allora, malgrado tutti gli sforzi, non siamo riusciti a ritrovarli. La verità è che, alla faccia del revivalismo, non siamo più capaci di leggere le mappe.