Il lato sinistro della storia3

(parte terza)

di Paolo Repetto, 6 aprile 2022

Da questo punto in poi mi avventuro in un racconto che paradossalmente, pur concernendo epoche sempre più vicine alla nostra, e quindi conoscenze relativamente più concrete, lascia maggiore spazio a interpretazioni già orientate o orientative. Intendo dire che la paleontologia e l’antropologia, a differenza delle scienze biologiche, concedono ampi margini alle letture “ideologizzanti”, ciò che riesce evidente dal persistere oggi ancora dell’annoso dibattito sulla “natura umana”. Cercherò di mantenermi per quanto possibile al margine di questo dibattito, basandomi sui dati di fatto piuttosto che sulle ricostruzioni edeniche o bestiali della nostra preistoria. Ma proprio l’aumento esponenziale dei dati, e delle relative interpretazioni che possono esserne desunte, mi costringe a questo punto a procedere per successive “scelte di campo”. Credo sia importante dunque che, trattandosi di un lavoro che ha non ha alcuna velleità “scientifica”, queste risultino quantomeno chiare.

3.4 Creare

L’uomo ha dunque esplorato tutte le strategie per garantirsi la sopravvivenza, e per farlo si è dotato degli strumenti opportuni. Lo ha fatto, come abbiamo visto, cominciando con l’emancipare alcune parti del suo corpo dalle loro originarie funzioni istintuali. Ma se già la possibilità di fare qualcosa con gli arti superiori mentre quelli inferiori compivano un movimento diverso favoriva lo sviluppo cerebrale, in quanto esigeva che più sistemi di controllo si attivassero in contemporanea, è stata però la creazione di utensili, il passaggio cioè alla “tecnica”, a spingere verso una qualità del pensiero (e della vita) radicalmente diversa.

La tecnica era per la mitologia antica un dono di Prometeo (da pro-mathéin, aver pensato prima): il regalo di un cervello che “pensa prima”, che “pensa più veloce”. Come sempre, il mito ci offre la sintesi e la spiegazione più efficaci di quanto è effettivamente accaduto. Il volume cerebrale degli umani, e quindi la loro capacità di risposta adattiva, cresce in concomitanza proprio con la produzione dei primi strumenti litici. La nascita della tecnica segna infatti l’avvento di un pensiero mirato ad uno scopo. Creare uno strumento significa prefigurare una situazione nella quale quello strumento potrà tornare utile: quindi programmare, e insieme immaginare. Immaginare ad esempio di poter incontrare nella savana, lontano da vie di fuga o da alberi su cui rifugiarsi, dei predatori, e procurare di essere sempre attrezzati alla difesa, scegliendo nodosi bastoni e scheggiando pietre per renderle taglienti, e magari innestando queste ultime sui bastoni.

Significa anche però imboccare una direzione “lineare obbligata”: l’uscita per la tangente dal ciclo dell’eterno ritorno. (uso questa formula nella consapevolezza che si tratta solo di una percezione e di una convenzione filosofico-letteraria, perché nella realtà sui tempi lunghi in natura nulla torna mai eguale a se stesso). La “cultura” indotta dalla tecnica diventa la specializzazione (oserei dire, la “specificità”) dell’uomo, ed è qualcosa che ridisegna totalmente sia le modalità che i tempi evolutivi. Per quanto lunghissimi, estremamente diluiti nel tempo e dispersi nello spazio, i passaggi sono ormai percettibili (naturalmente, a posteriori). I più antichi manufatti umani, costituiti da ciottoli scheggiati su una sola faccia (chopper), oppure a scheggiatura alterna o multidirezionale, compaiono in Africa a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, accanto ai resti fossili di Homo habilis, e sono ascrivibili alla più primitiva tecnologia litica, quella Olduvaiana. Un milione e quattrocentomila anni fa, sempre in Africa, associata stavolta ad Homo erectus, si affermala cultura Acheuleana, caratterizzata dalla produzione di utensili scheggiati su entrambi i lati in modo simmetrico (le amigdale, o bifacciali). In ultimo, verso la fine del Paleolitico inferiore, attorno a trecentomila anni fa, si diffonde in Europa la scheggiatura Levallois, che consente la fabbricazione di strumenti più vari e specializzati.

A quel punto per sopravvivere gli uomini sono già totalmente dipendenti dalla tecnica: prima di tutto dal controllo del fuoco e dal suo utilizzo come arma di difesa contro i predatori e per cuocere i cibi e riscaldarsi. E se gli utensili creati dall’erectus e dell’habilis erano rimasti pressoché inalterati per centinaia di migliaia di anni, con una evoluzione quasi impercettibile, dopo l’avvento dell’Homo sapiens il ritmo delle innovazioni conosce una progressione costante: un milione di anni separano i primi choppers dell’olduvaiano dalle amigdale dell’ acheuleano e mezzo milione queste ultime dai veri e propri attrezzi in pietra e legno del Musteriano, ma tra la pietra levigata e le tecniche più sofisticate dell’arco e degli attrezzi per colpire a distanza ne intercorrono meno di centomila. Di qui in poi le rivoluzioni si succedono con frequenze sempre più ravvicinate: dopo l’arco l’agricoltura, la domesticazione degli animali, la lavorazione dei metalli, la scrittura, la ruota, eccetera. Senza dimenticare, fondamentale, l’approdo ad una comunicazione verbale compiutamente strutturata. Tutto questo mentre, come abbiamo già visto, la base biologica del Sapiens e la sua anatomia rimangono in quegli ultimi centomila anni praticamente invariate.

Nello stesso periodo muta invece radicalmente la sua attitudine mentale: muta nei confronti dell’ambiente in cui è immerso, della natura, perché la progettualità implica un atteggiamento intrusivo, oltre che una percezione “temporalizzata”: ma muta anche nei confronti di chi lo circonda, dei suoi simili come degli altri ominidi e degli animali coi quali ha una parentela più o meno più o meno prossima: nonché nei confronti di se stesso. Si sviluppa una “coevoluzione” che riguarda in primo luogo il rapporto tra l’azione tattile e la facoltà del linguaggio. “Mani e parole sono, in primo luogo forme di intervento che modificano il contesto in cui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiedere spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente ambivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare al cambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle prede cacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’agricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano (l’allevamento, oggi l’uso di fertilizzanti) non può non avere un effetto antropico, non può non comportare un cambiamento dell’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens.[1]

Il mondo non viene più dunque semplicemente vissuto dal sapiens, e passivamente subito, ma è indagato e saccheggiato e ricreato[2]. Il primo mutamento riguarda la curiosità nei confronti dell’ambiente. La curiosità è propria di ogni organismo animale, ma nella forma propriamente “conoscitiva” appartiene solo alle specie evolutivamente più complesse, e in quella performativa soltanto all’uomo. L’uomo è l’unico animale in grado di prevedere o quantomeno immaginare le conseguenze di una determinata azione: e quindi di pianificare il futuro, e di compiere all’occorrenza scelte che possono anche mettere in forse la sua sopravvivenza, andando contro i dettami dell’istinto, ma valutando o auspicandosi possibili futuri vantaggi. Questa capacità di costruire o immaginare situazioni alternative, di sganciarsi dal qui e ora, spiega la progressiva e inarrestabile diffusione della specie umana in ogni angolo del globo. Le migrazioni dei primi ominidi sono avvenute certamente sotto la spinta dei mutamenti ambientali, dell’ esaurimento delle risorse o delle pressioni esercitate da gruppi di consimili: ma sono state rese possibili dall’incredibile capacità di adattamento che la specie ha dimostrato in ogni condizione, dalle soluzioni tecniche e culturali che è stata capace di escogitare, e soprattutto, direi, dallo spazio mentale consentito alla funzione immaginativa, che diventava stimolo a esplorare e conoscere quel che c’era oltre l’orizzonte. Non si spiegherebbero altrimenti imprese incredibili come quelle degli ominidi che cinquantamila anni fa attraversarono bracci larghissimi di mare per approdare in Australia, o lande ghiacciate per passare sul continente americano.

Al di là degli spostamenti, però, ad essere percepita in maniera diversa è innanzitutto la quotidianità. I primi strumenti usati dai nostri antenati per raggiungere i loro obiettivi erano oggetti naturali: pietre, bastoni, ossi, ecc… Né più né meno come accade per altri animali, e particolarmente per i primati superiori. L’uso che ne facevano era immediato e spontaneo: si servivano della prima cosa che capitava loro a tiro. Dal momento però in cui questi oggetti hanno cominciato ad essere lavorati e adattati in vista di una ipotetica necessità futura, sono stati proiettati un contesto “culturale” che andava a sovrapporsi a quello naturale, a trascenderlo. Il discrimine sta proprio a questo punto: negli umani il ricorso allo strumento non rimane occasionale e dettato dal bisogno immediato, ma diventa consapevolezza della possibilità di un uso alternativo di fronte alle molteplici incognite ambientali, e questa consapevolezza continua ad essere presente alla memoria anche in assenza dell’occasione di applicarla. Diventa cioè funzionale ad una possibile strategia, nella quale finiscono per combinarsi diverse opportunità. L’uomo si scopre capace non solo di sfruttare l’occasione, ma di cercarla o di crearla. Acquisisce una coscienza temporale che non ricorda solo dei fatti, ma ricostruisce degli eventi, collocandoli nel passato o nel futuro.

3.5 Specchiarsi

Contrariamente all’immagine stereotipa dei nostri progenitori come cacciatori, l’economia dei primi ominidi era basata sulla raccolta itinerante di frutti e radici e sullo spolpamento delle carcasse lasciate dai grandi carnivori[3]. In un inseguimento era più probabile che recitassero la parte della preda. Ora, l’economia di raccolta comportava l’esplorazione di ampie distese poco alberate, nelle quali la postura eretta consentiva di muoversi più rapidamente e soprattutto di mantenere un maggiore campo visivo, per evitare i predatori. Essere però a propria volta più visibili esponeva a grossi rischi. Muoversi isolati era estremamente pericoloso, per cui divenne di vitale importanza rimanere in contatto visivo con altri membri del gruppo, sviluppare legami stabili tra i membri della comunità e progredire di conseguenza verso un’organizzazione sociale più articolata[4].

L’altro cambiamento fondamentale concerne dunque il rapporto con i propri simili. L’aiuto reciproco era imposto da necessità immediate di sicurezza e di sopravvivenza, cosa che accade del resto anche per i banchi di pesci o per le società degli insetti: ma gli umani non si sono fermati al livello della pura associazione istintuale. Per cooperare su progetti sganciati dalle ricorrenze e dai ritmi naturali era indispensabile che tra i diversi attori si aprisse un credito reciproco di fiducia: ciò che implicava il riconoscimento degli altri come propri simili[5]. Si scopriva cioè l’umanità altrui (anche se questo credito non va sopravvalutato, perché in un primo momento era riservato solo ai membri del proprio gruppo o della propria tribù). Questo riconoscimento non rimaneva confinato alla superficie. Scendeva in profondità, e portava ad attribuire agli altri le stesse intenzioni che animano noi: quindi ad accoglierne, o quanto meno a interpretarne, anche il punto di vista.

Ma quali meccanismi sono entrati in gioco perché tutto questo accadesse?

Per cooperare, si diceva sopra, è necessario agire in sintonia con gli altri: cogliere le loro intenzionalità, vedendoci agire al loro posto, così come essi cercheranno di cogliere le nostre. Oggi sappiamo che la nostra capacità empatica, la nostra compartecipazione e comprensione dell’altro scaturisce da una predisposizione presente in qualche maniera in noi sin dalla nascita, su base neurale. Che insomma la radice di questa sintonia è biologica, mentre gli sviluppi sono poi culturali: e lo sappiamo grazie alla recente individuazione dei neuroni specchio.

La scoperta non è avvenuta casualmente: da tempo si cercava di dare una spiegazione scientifica ad un meccanismo mimetico che era già stato individuato come esplicativo dei comportamenti animali da etologi ed antropologi (ad esempio da Konrad Lorenz, o da René Girard – ma prima ancora era stato genialmente anticipato da Giovanbattista Vico, e da Schopenhauer[6]). Del tutto casuali sono state invece le circostanze, una serie di test effettati sui macachi per studiare i meccanismi di attivazione cerebrale in corrispondenza di particolari azioni. In sostanza, si è scoperto che in alcune aree del cervello (denominate F5 e F4) operano dei neuroni che si attivano sia quando il soggetto compie un’azione che quando osserva altri individui compiere la stessa azione. Essi riflettono cioè direttamente nel cervello dell’osservatore le azioni realizzate dagli altri, ma anche da sé (per questo sono definiti neuroni specchio). E il meccanismo è attivo non solo nei primati o più in generale nei mammiferi, ma anche in altre classi dei vertebrati, sicuramente, ad esempio, negli uccelli.

Negli altri animali però i neuroni specchio non sono attivati da qualsiasi tipo di azione: lo sono, di norma, solo da quelle transitive (cioè rivolte a o ricadenti su un altro oggetto), quelle la cui intenzionalità è palese e immediata. Ciò non vale per l’uomo: nel sistema neuronale umano il sistema specchio non si attiva solo in presenza di azioni transitive (e in molti casi anche intransitive), ma si estende anche a quelle semplicemente mimate. Questo significa che il cervello umano è in grado di selezionare non solo rispetto alla tipologia di azione, ma anche rispetto alla sequenza di movimenti dai quali essa è composta. E può farlo perché ha una coscienza “diretta” di quei movimenti, indotta dalla consapevolezza del proprio corpo.

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Noi siamo infatti in possesso delle conoscenze motorie che regolano le rappresentazioni coinvolte, nelle azioni esecutive come nella comprensione. Il rapporto cervello-mano non è puramente istintuale e a senso unico, ma comporta un passaggio di informazioni bidirezionale, in ingresso e in uscita. I dati (prevalentemente visivo-uditivi) che raccogliamo dal mondo esterno li trasmettiamo al circuito sensoriale-motorio, dopo però che quei dati sono stati pre-selezionati dallo stesso sistema. Vale a dire che se vedo la maniglia di una porta la prima informazione che viene trasmessa al mio cervello non è relativa all’aspetto estetico, alla fattura o ai materiali, ma al modo in cui posso afferrare la maniglia (l’esempio più ricorrente nella letteratura scientifica è quello del manico della tazzina da caffè). In automatico i miei neuroni attivano la “disposizione” ad afferrare. L’attivazione del sistema specchio non avviene dunque sulla base delle informazioni visive, ma sulla base dell’anticipazione di uno “scopo”. La percezione di un oggetto, ma più in generale tutte le caratteristiche oggettive di un ambiente, ci inducono automaticamente ad agire in maniera appropriata rispetto a quell’ambiente o a quell’oggetto: che significa anche, a volte, non agire affatto.

Noi dunque istintivamente “sappiamo” cosa sta alla base di determinate azioni, nel senso che abbiamo una istintiva conoscenza del loro stretto rapporto con particolari stati mentali. Diamo quindi alle azioni compiute da un’altra persona un significato che si basa su ciò che abbiamo in mente noi quando compiamo la stessa azione. Ciò naturalmente vale anche per come sono interpretate le nostre azioni agli occhi degli altri. Ovviamente gli stimoli esterni vengono riconosciuti e compresi dall’osservatore solo se il modo in cui si configurano fa parte del suo bagaglio sensoriale-motorio. Certe azioni o comportamenti che sono peculiari di altre specie o ordini animali non attivano nell’uomo alcuna risposta neuronale, se non quella della pura percezione visiva. La attivano invece, e segnatamente, anche le espressioni facciali e le azioni comunicative dei suoi conspecifici. In altre parole, siamo in grado di partecipare delle stesse emozioni degli altri, in quanto la percezione delle emozioni di base negli altri coinvolge le stesse strutture cerebrali che si attivano quando esprimiamo le nostre.

A questo punto dovrebbe essere più o meno chiaro come sia possibile per l’essere umano comprendere le intenzioni e le emozioni altrui: e come, magari, proprio riflettendosi in questo specchio, sia pervenuto a prendere piena coscienza di sé, e di conseguenza possa aver sviluppato la capacità di pensare e di agire in sintonia con altri. Di dare vita, in sostanza, a forme di comunità e di socialità dapprima elementari e poi via via più complesse.

Il gruppo (in un secondo momento, la tribù) è una società cooperativa, ma a differenza di quelle che caratterizzano altre specie o altri ordini non è tale solo per via di una determinazione genetica. Nasce da una scelta, sia pure utilitaristica. Ci si associa “volontariamente” in funzione di un progetto comune, che va dalla battuta di caccia o di raccolta alla coabitazione ai fini della difesa. Molti occhi vedono anche ciò che può sfuggire a un paio d’occhi, e molti individui hanno un potere di dissuasione anche nei confronti di un aggressore temibile[7].

3.6 Comunicare

Per socializzare, e tanto più per programmare in gruppo, è però necessario comunicare. Anche gli animali comunicano, ma i segnali che inviano, indipendentemente dal loro livello di complessità, sono risposte meccaniche alle situazioni che stanno effettivamente vivendo (per loro si parla di una “cultura episodica”). Gli scimpanzé non convocano riunioni condominiali per il giorno o per la settimana seguenti, così come non si attrezzano di armi o altri bagagli in vista di uno spostamento. Reagiscono d’istinto, in maniera se vogliamo astuta, ma non programmano[8].

Gli umani, al contrario, sono in grado di sganciarsi dal presente e di proiettarsi a piacere nel tempo, ovvero nel passato e nel futuro, e nello spazio, di prefigurare situazioni a venire partendo dalle esperienze cumulate nel passato. Più o meno coscientemente, comunque non solo istintivamente, programmano il loro avvenire. Facendo però riferimento a situazioni, emozioni, accadimenti e oggetti che non sono qui e ora, gli umani entrano in una dimensione astratta, che può essere evocata solo in termini simbolici. E a questa dimensione astratta chiamano a partecipare i loro simili, introducendo una modalità di comunicazione non più limitata ai segnali essenziali. È questo che autorizza a parlare solo per la nostra specie di un vero e proprio linguaggio. “Non diversamente dalle scimmie antropomorfe, come oranghi e scimpanzé, anche i nostri antenati erano esseri sociali capaci di risolvere problemi grazie al pensiero. Ma erano in competizione fra loro e miravano soltanto ai propri scopi individuali. Quando i cambiamenti ambientali li costrinsero a condizioni di vita più cooperative, dovettero imparare a coordinare menti e azioni per perseguire obiettivi condivisi, e a comunicare i propri pensieri ai partner della collaborazione. In definitiva l’esigenza di lavorare insieme è ciò che rende possibile il linguaggio, le forme di pensiero complesse, la cultura.[9]

La creazione di un linguaggio complesso fu dunque il fattore che permise all’uomo di sganciare il legame tra la tecnologia e la propria evoluzione biologica. Le tecniche di costruzione e le modalità d’uso di strumenti semplici potevano essere apprese per semplice imitazione, ma di fronte all’imprevedibilità degli ambienti sempre nuovi guadagnati nelle migrazioni o di quelli consueti trasformati dalle variazioni climatiche dovevano essere aggiornate e trasmesse attraverso uno scambio di informazioni più costante e completo. L’evoluzione culturale esce dalla sua lunghissima fase di decollo e si alza in volo quando lo scambio non è più solo materiale (partecipazione collettiva alla caccia o eventuale spartizione dei frutti della raccolta), ma diventa immateriale, diventa scambio di informazioni. Di qualsiasi tipo. Questo scambio non ha più a che fare con la biologia: anzi, il suo effetto è semmai quello di rallentare l’azione selettiva della natura. Attraverso lo scambio di informazioni, anche i meno adatti hanno delle chanches di sopravvivenza. La conoscenza è un’arma sganciata dalla fisicità. Questo probabilmente spiega l’invarianza anatomica del sapiens negli ultimi centomila anni.

La forma primordiale di linguaggio (il protolinguaggio attribuito all’Homo erectus) era quella gestuale, mimetica, che passa appunto principalmente attraverso le mani, ma non solo, e utilizza modalità espressive visivo-motorie per dare una rappresentazione della realtà, o per costruirne una. Ora, questo passaggio non è indifferente. A ben considerare ci dice due cose importanti: la prima è che esiste una continuità tra le nostre capacità espressive e quelle di altre specie (anche le scimmie praticano forme elementari di comunicazione mimetica), ovvero che non c’è stato un salto, ma una evoluzione; la seconda è che l’avvento del linguaggio simbolico non è subordinato al carattere fonico della verbalizzazione. Anche il linguaggio dei segni è infatti soggetto nel tempo ad una semplificazione che poco conserva dell’originario rapporto mimetico con la realtà che si vuole rappresentare. In qualche misura ha già una valenza simbolica.

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Questa seconda informazione è a mio parere in diretto rapporto col tema delle dominanze dei due emisferi. La comunicazione mimetica passa infatti per i gesti della danza, per la mimica del linguaggio corporeo o del rito, per alcune forme di musica: ovvero per tutto ciò che rientra nel dominio di competenza dell’emisfero destro[10]. A rigor di termini, non è simbolica, ma iconica: nella sua funzione descrittiva, la natura combinatoria dei gesti e delle espressioni deve rispecchiare quella degli eventi descritti. Il margine consentito all’arbitrarietà è ancora molto ristretto. È invece questo a caratterizzare la comunicazione verbale: tranne i rarissimi casi nei quali si può risalire ad una origine onomatopeica, i suoni non hanno alcuna relazione diretta con gli oggetti o le azioni che designano. La comunicazione verbale è, almeno in questo senso, totalmente astratta e arbitraria. Anche se, naturalmente, non è indipendente da vincoli di carattere neurofisiologico e dall’ organizzazione anatomica della fonazione[11].

Quella gestuale-mimetica è stata dunque solo una tappa intermedia. Con ogni probabilità lo strumento vocale l’ha inizialmente affiancata per rispondere alle necessità di una comunicazione notturna, o comunque al di fuori della portata visiva, per la presenza di ostacoli o di macchie d’alberi. Solo molto più tardi l’ha soppiantata (non del tutto, però, in quanto gestualità ed espressione sono ancora una componente essenziale della comunicazione). Il salto di qualità decisivo è avvenuto solo con l’approdo ad una fonazione sintatticamente disciplinata e complessa. Questa a sua volta ha modificato il tratto vocale, coinvolgendo altre funzioni; per decodificare i segmenti linguistici, infatti, anche la percezione uditiva si è ulteriormente specializzata. Ciò è avvenuto in tempi molto recenti rispetto a quelli globali della nostra evoluzione. Ma è il percorso ad interessarci.

Se fino a qui ho parlato in termini di una evoluzione naturale della comunicazione umana, sia pure nella sua eccezionalità, a questo punto entrano invece in scena altri fattori: quelli sociali e culturali. Entra in scena la “convenzionalizzazione”. La comunicazione “mimetica” fa riferimento come si diceva ad una riconoscibilità oggettiva e immediata, alla diretta simulazione o indicazione di ciò che si vuole rappresentare. È indubbio che col tempo dalla primitiva semplicità del gesto puramente indicativo si sia approdati ad una funzione “rappresentativa”, con combinazioni in sequenza che possono formare una frase, o con la fissazione ritualizzata ad esprimere sentimenti e disposizioni particolari (i gesti di saluto, di accoglienza, di commiato, di amicizia, ecc…). Quella verbale, evidentemente, deve prescindere in toto da questa “riconoscibilità”. Può esistere solo se in qualche modo tra gli interlocutori esiste un accordo, una convenzione appunto, per cui un determinato suono, anziché un determinato segno, espressivo o gestuale, “rappresenta” l’oggetto, il luogo o l’azione cui ci si sta riferendo. Mentre il segno mostra, il suono evoca: e per evocare deve fare riferimento a qualcosa che è già presente nella mente e nella memoria di chi lo ascolta.

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3.7 Parlare

La faccenda si complica ulteriormente. La domanda che si pone ora è: come si configura precisamente il rapporto tra pensiero e linguaggio? È il primo a generare il secondo, o viceversa? Ovvero: come è possibile che il linguaggio sia in grado di trasmettere ciò che ci passa per la mente? E che fondamento comune ha, per poter essere condiviso con altri?

È difficile immaginare un accordo in merito a un qualcosa che non è presente o che ancora non esiste. È presumibile quindi che inizialmente il passaggio da un sistema iconico ad uno simbolico sia stato casuale. Possiamo ipotizzare ad esempio che un membro autorevole del gruppo abbia associato un suono specifico al segnale visivo che indicava un particolare pericolo (ciò che rientra ancora nell’ambito degli strumenti comunicativi animali). E che questo suono sia stato successivamente usato non per segnalare la presenza immediata di quel pericolo, magari di un predatore, ma per esorcizzarlo per il futuro, o per infondere coraggio rievocandone la sconfitta nel passato. Questo uso può aver dato origine ad un processo di ritualizzazione. D’altro canto, certi vocaboli, certe locuzioni, nascono ancora oggi allo stesso modo. Se durante una conversazione conio un termine nuovo, o ne uso uno già esistente traslandone il significato per esprimere una particolare situazione o emozione, e chi mi ascolta intende comunque ciò che voglio dire, qualora quel termine abbia significative caratteristiche di icasticità è possibile che venga adottato e ripetuto.

Oppure (e questa è un’ipotesi formulata non da me ma da eminenti linguisti), la transizione può essere avvenuta tramite i suoni adottati dalle madri per tranquillizzare i neonati[12]. C’è anche chi azzarda che la comunicazione verbale abbia avuto origine dai pettegolezzi tipici che nascono nei gruppi femminili. Ipotesi bizzarra, ma non del tutto inverosimile. “Se la nostra umanità dipende dal linguaggio, sono le chiacchiere della vita quotidiana a fare andare avanti il mondo, più che le perle di sapienza che possono cadere dalle labbra degli Aristotele e degli Einstein[13]. In effetti, è ipotizzabile ad esempio che, una volta domesticato anche il buio, la sera i nostri antenati sedessero attorno al fuoco, e che dai gesti e dai grugniti scambiati in quei convegni sia scaturita una forma di comunicazione linguistica che andava a incrementare la spinta alla cooperazione e alla socialità.

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Si può anche spiegare l’esistenza di tante lingue diverse. Occorre distinguere tra due livelli. Uno è quello che potremmo definire di conformità: tutti i linguaggi attingono le loro regole all’interno di una “grammatica universale”, che è frutto della selezione naturale. L’altro è quello dell’arbitrarietà, per cui ogni comunità di parlanti sceglie poi, all’interno del primo livello, proprie regole sintattiche e propri segni lessicali. E questo attiene invece ad una tradizione culturale. Tutti i bambini utilizzano in una prima fase sistemi comunicativi molto semplici, che rispondono ad uno standard pressoché comune: poi si sintonizzano sul codice particolare della comunità in cui vivono, ma questo non esclude che possano arrivare ad utilizzarne anche altri (imparare le lingue), proprio per l’esistenza di un comune sostrato. Ma questo ci porta già oltre.

Ci interessa piuttosto il passaggio precedente, quello da segno a linguaggio, che in realtà non può essere mai del tutto casuale. Può avvenire solo se la comprensione di segni nuovi (visivi o fonici che siano) è favorita da una loro lettura nel contesto: se cioè esiste già nell’ascoltatore una disposizione a “interpretare” il segno nuovo alla luce di quello che il comunicante vorrebbe dire, entro uno spettro ampio di possibilità di significato. Se cioè è in grado di attribuire a quel complesso di segnali diverse intenzionalità, desumibili dal tono di voce, ad esempio, dalle espressioni del volto o da uno stato di maggiore o minore eccitazione.

Questa disposizione di fondo può essere intesa in modi molto diversi. Si può parlare, come fanno Noam Chomsky e altri innatisti, di una “grammatica generativa” iscritta nella mente umana, di un “dispositivo” quindi, piuttosto che di una “disposizione”, di un organo di cui gli umani sono dotati al pari dei polmoni e della milza (ciò che non esclude una origine evolutiva, ma la lascia poi nel mistero, e postula comunque una discontinuità netta tra l’uomo e gli altri animali)[14]. Oppure si adotta una linea interpretativa molto più umile, quella che pone la specie umana in diretta continuità con tutte le altre, e che presenta a sua volta svariate sfumature, riconducibili poi sostanzialmente a due: una che sostiene la natura totalmente “culturalista” del linguaggio, ovvero ritiene che la comunicazione abbia sfruttato dispositivi cognitivi nati con altre finalità, e quindi si sia adattata per utilizzare quello che il cervello metteva a disposizione; l’altra che ritiene invece che il cervello e il linguaggio abbiano seguito un percorso coevolutivo, si siano cioè influenzati reciprocamente.

Nel primo caso, quello di Chomsky, si suppone chiaramente un primato del pensiero sul linguaggio: il linguaggio può esprimere il pensiero perché ne ricalca la forma. Io capisco il mio interlocutore e lui capisce me perché nelle nostre menti è presente, già a livello genetico, lo stesso modello sintattico di base, originato da una casuale e improvvisa ricombinazione delle funzioni cerebrali.

Nel secondo, quello dei culturalisti, si va nella direzione opposta: è stato il linguaggio a dettare le regole in base alle quali si articola il pensiero, e a sua volta il linguaggio risponde alle pressioni culturali provenienti dall’ambiente esterno, le raccoglie e le traduce in segni, dapprima gestuali e poi fonici, prima semplici e poi sempre più strutturati e complessi. Ciò indirizza la mente a organizzare le informazioni secondo gli schemi sbozzati dalle funzionalità percettive (vista, udito, tatto, ecc..) e messi a punto attraverso le esperienze “culturalmente” acquisite: questi schemi non hanno origine genetica, non sono dettati dall’istinto o da una modularità invariabile, ma si adeguano di volta in volta alle trasformazioni ambientali e alle necessità di risposta che queste inducono.

Nel terzo caso invece, quello del meccanismo coevolutivo, il linguaggio origina da una serie di mutamenti anatomici, fisiologici[15], che hanno creato un rapporto diverso dell’uomo con il mondo esterno, ma anche una diversa consapevolezza del proprio essere nel mondo. Dapprima denotativo, e poi comunicativo, il linguaggio diventa così strumento riflessivo. In fondo siamo costantemente impegnati in un monologo interiore, operiamo scelte continue tra le diverse pulsioni che ci agitano, e lo facciamo ponendoci domande e dandoci risposte che prescindono dall’immediatezza o meno dello stimolo. Parliamo prima con noi stessi, e solo in un secondo momento esternalizziamo, agendo o parlando, le conclusioni e le scelte cui siamo pervenuti.

Il lato sinistro della storia3 06Ma nel monologo interiore, in che lingua parliamo? Le variazioni nelle lingue dipendono quasi certamente da un utilizzo diverso dell’insieme dei meccanismi mentali, non dall’esistenza di dispositivi diversi. Per questo è importante comprendere che origine abbia il sostrato comune.

Il lato sinistro della storia3 07Il dibattito in proposito è vivacissimo, costantemente alimentato dalle scoperte paleontologiche, ma soprattutto da quelle neurofisiologiche. Non è un dibattito ozioso, perché suppone interpretazioni molto divergenti del posto dell’uomo nella natura, dalle quali scaturiscono letture completamente opposte della nostra storia. È comunque viziato a parer mio da alcune pregiudiziali, a volte ideologiche (è senz’altro il caso di Chomsky, di Marshall Shalins, ma anche di Steven Pinker), più spesso dettate proprio dal tipo di approccio professionale (Dennett, Fodor, ecc…). Un cognitivista, un paleontologo, un neuroscienziato, un antropologo, partono da punti di vista completamente diversi, e per quanti sforzi facciano di essere interdisciplinari si portano sempre appresso lo stigma del punto di partenza.

Il lato sinistro della storia3 08Non ho competenze sufficienti per entrare nel merito. Quella che a naso più mi convince è però la tesi della natura coevolutiva del linguaggio, che oltretutto si presta perfettamente alla prosecuzione del mio percorso. Chi la sostiene[16] parte da un assunto ineccepibile: le capacità cognitive sono strettamente dipendenti dallo sforzo che ogni organismo mette in campo per mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno. Questo sforzo, lo scriveva già Darwin ne L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, è prima di tutto uno sforzo di comprensione. Noi umani, quando nel corso di un ragionamento incontriamo un ostacolo, una difficoltà, aggrottiamo le sopracciglia, e ciò accade perché ci stiamo sforzando di ovviare alla rottura del filo del nostro pensiero. Oppure, come sottolineava ancora Darwin, somatizziamo e manifestiamo il nostro imbarazzo, la nostra emozione, arrossendo. Sono riflessi involontari, che costituiscono comunque una primordiale forma di comunicazione: sono segnali offerti all’interpretazione dell’interlocutore.

Naturalmente lo sforzo adattivo non è una peculiarità esclusiva della nostra specie. Tutti gli organismi si comportano in questa stessa maniera: di fronte ad ogni interruzione dell’abituale scorrere delle cose reagiscono adattando, modificando, magari anche solo temporaneamente, le proprie risposte istintive. La differenza sta nel fatto che per gli altri organismi, per tutte le altre specie, è di norma una condizione eccezionale, e comunque subita passivamente, nel senso che di ricomporla si occupa il meccanismo selettivo, mentre nel caso degli umani si tratta della condizione abituale, perché lo squilibrio è congenito alla loro condizione di “inadatti”.

Ma qui sta anche la loro eccezionalità. Perché un animale specializzato è adatto proprio in quanto viaggia su un binario che non consente deviazioni: o risponde a certe condizioni ambientali oppure si estingue. L’uomo invece non è predeterminato da alcuna specializzazione, è un animale costantemente “potenziale”, e ha quindi di fronte un campo di possibilità più vasto, teoricamente infinito. Ciò significa che vive in uno stato di perenne “tensione”, intesa come tendenza a radicarsi in un ambiente rispetto al quale è sempre meno “naturalmente” adatto, per via sia delle mutazioni anatomiche che delle migrazioni: e che per mantenere una relazione flessibile di stabilità con l’ambiente, ha sviluppato risposte adattive basate sulla cognizione anticipatoria, ovvero sulla capacità di proiettarsi in situazioni contestuali alternative a quella in cui è effettivamente immerso.

Questa capacità si esprime anche nel rapporto con altri soggetti, e nello specifico determina la possibilità del linguaggio. Sopra il primo livello comunicativo, quello dello scambio e dell’interpretazione di segnali elementari, la comunicazione è resa possibile dalla capacità di ciascun interlocutore di decrittare il messaggio trasmesso dall’altro attraverso la sua “contestualizzazione”, prima ancora che attraverso il riconoscimento dei suoni. E qui entra in gioco la lettura di segnali come l’arrossire o il corrugare la fronte. Non si attiva quindi solo un processo meccanico di decodifica, ma uno sforzo “cognitivo” di analisi del contesto nel quale il discorso si situa. “Lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico.[17] In questo senso condivido l’ipotesi coevolutiva: non postula una “grammatica universale”, non demanda in toto all’ambiente gli input per la creazione del linguaggio, ma considera appieno questo sforzo come forma di adattamento dell’organismo all’ambiente.

3.8 Collaborare

L’adattamento degli umani, però, per le ragioni che abbiamo già visto, non passa attraverso il semplice meccanismo della selezione naturale. O meglio, passa attraverso un tipo di selezione che nella individuazione del “più adatto” contempla a questo punto anche parametri diversi da quelli naturali. Si chiama “effetto reversivo” dell’evoluzione. Darwin questa componente l’aveva già considerata: “La selezione naturale non è più, a questo stadio dell’evoluzione, la forza principale che governa il divenire dei gruppi umani, avendo essa ceduto tale ruolo all’educazione […] Le qualità morali sono progredite, sia direttamente che indirettamente, molto più per effetto dell’abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell’istruzione, della religione, ecc. che per la selezione naturale; sebbene a quest’ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale[18].

Il “senso morale” rappresentava per Darwin un problema, un po’ come accadeva con la coda del pavone. La domanda era: se la selezione naturale premia i più adatti, ovvero coloro che riescono a creare le condizioni più favorevoli per riprodursi, come si spiega il persistere dell’altruismo[19]? Gli altruisti, in teoria, non dovrebbero lasciare alcuna eredità biologica, dovrebbero essere degli “inadatti”, degli umani mal riusciti che la selezione spazza via. Per Darwin non è così, e la soluzione sta nell’angolo prospettico dal quale ci si pone. Non è infatti la selezione individuale a dover essere considerata significativa, ma quella di gruppo. In questa ottica, per la salvaguardia e la sopravvivenza del gruppo, un altruista è molto più importante di un egoista. E a suo parere le regole morali improntate all’altruismo si sono a loro volta evolute a partire dalle cure parentali e dagli “istinti sociali”. Queste regole sono poi state premiate dalla selezione naturale perché si sono rivelate utili al rafforzamento del gruppo.

Darwin non conosceva le leggi di Mendel (che lo scienziato moravo aveva peraltro enunciato solo sette anni dopo la pubblicazione de L’origine della specie), non era quindi in grado di descrivere il meccanismo attraverso il quale i caratteri premiati dalla selezione naturale sono trasmessi alla generazione successiva. E infatti l’appunto critico più ricorrente che veniva rivolto alla sua teoria riguardava proprio l’insufficienza delle spiegazioni sull’origine della variabilità biologica. Probabilmente, se le avesse conosciute si sarebbe posto il problema se le regole morali sono “premiate” o sono invece “dettate” dalla selezione naturale. Che non è, come vedremo, esattamente la stessa cosa.

Dopo essere rimasta in sonno per decenni (solo gli anarchici, come Kropotkin[20], avevano sottolineato questo aspetto) la spiegazione di Darwin è stata rispolverata nel secolo scorso, questa volta rimodulando il concetto di “gruppo” e avvalendosi del supporto della genetica delle popolazioni e della biologia teorica, che applicando il coefficiente di parentela è approdata al calcolo della “fitness”[21]. Successivamente è stata ulteriormente corretta introducendo un altro valore, quello di “reciprocità”. In sostanza, la sua formulazione attuale si può riassumere così: “Se agisco altruisticamente nei confronti di parenti, che sono portatori, in percentuale diversa a seconda del grado di parentela, dei miei stessi geni, in termini di patrimonio genetico non andrò mai incontro ad una perdita secca. Se mi comporto in modo altruistico nei confronti di un estraneo, creo quantomeno le condizioni per un rapporto di reciprocità”.

Messo così naturalmente l’altruismo perde molto del suo valore “etico” e sembra ridursi a un puro calcolo economico consentito dallo sviluppo delle facoltà raziocinanti. In realtà, abbiamo visto che per Darwin esistevano, a monte, degli “istinti sociali” che erano stati selezionati naturalmente. E proprio sulla loro esistenza o meno verte oggi il dibattito sul “senso morale” degli umani, dibattito che è peraltro speculare a quello sul linguaggio, e spesso vede protagonisti gli stessi studiosi.

Anche in questo caso, infatti, da un lato c’è un modello che postula l’esistenza di una serie di istinti, principi e giudizi morali “innati”, determinati, sia pure in modo indiretto, dal nostro corredo genetico. Secondo questo modello quindi il nostro “senso morale” è universale, è inscritto nel cervello umano, è legato fattori ereditari e non è soggetto a condizionamenti sociali[22]. Ed è anche una caratteristica esclusiva della nostra specie. La versione esasperata di questa tesi (quella trasmessa e banalizzata dalla comunicazione pseudoscientifica) ipotizza l’esistenza di geni specifici delle varie attitudini, della timidezza, della paura, degli orientamenti sessuali, ecc…; quella più morbida, proposta ad esempio da Steven Pinker, è che «forse non abbiamo nel cervello una lista di regole “tu devi”, ma almeno qualche regola del tipo “se-allora”[23]».

Dall’altro lato c’è invece chi sostiene che nel nostro cervello non ci sono né grammatiche universali né una normativa morale specifica, ma che esso agisce secondo un programma di apprendimento che ci indica cosa dobbiamo imparare: in questo modo, a partire dalla primissima infanzia noi assorbiamo dall’ambiente, dalla società in cui siamo nati, i fondamentali per una impalcatura morale, sui quali poi andremo a costruire sulla base delle nostre esperienze. Quindi non si parla di innatismo e di fattori ereditari, ma di un condizionamento storico e ambientale, ovvero culturale. Qualcosa che dipende in toto dall’esperienza esterna (quella che l’etologo De Waal, e prima di lui Konrad Lorenz, chiamano imprinting)[24].

Questo intendevo quando accennavo alla differenza tra dettare e premiare. Nel primo caso si ritiene che la selezione abbia già operato a monte, definendo dei caratteri ereditari fissati una volta per tutte, che dettano il nostro comportamento morale. Per i secondi invece la capacità morale di noi umani si è evoluta a partire da una caratteristica che condividiamo con gli altri animali sociali, e segnatamente con gli altri primati, la capacità empatica, che nella misura in cui si è rivelata determinante nella mediazione dei conflitti interni al gruppo e nel promuovere la cooperazione sociale è stata premiata dalla selezione. In questo senso esiste un condizionamento, ma non è quello naturale, bensì quello sociale, quello dei modelli comportamentali e valutativi fissati dalla tradizione culturale.

C’è infine una terza posizione, che in fondo consegue a quanto sono venuto dicendo sino ad ora e appare senz’altro plausibile, sostenuta da Michael Tomasello. In sostanza: i mutamenti ecologici (glaciazioni, desertificazioni, ecc…) hanno portato a un aumento della naturale interdipendenza tra gli umani e allo sviluppo della loro capacità cooperativa, soprattutto col passaggio da una economia di raccolta a quella della caccia ad animali anche di grandi dimensioni. Questa capacità si differenzia da quella dei primati in quanto prevede, accanto a una base empatica che è comune a tutti i primati a noi più simili, la formazione di una morale dell’equità, che è più complessa ed esclusivamente umana: ovvero postula, oltre alla capacità di cooperare per lo stesso fine, quella di riconoscere l’uguaglianza tra sé e l’altro, obbligati dall’ambiente a procurarsi insieme il cibo e tenuti a dividerlo equamente.

Detto in termini pratici, coloro che si dimostravano più affidabili, non solo per le abilità, ma per la lealtà e la correttezza nel dividere la preda, erano quelli che si preferiva coinvolgere nelle cacce successive, e per non perderli li si trattava equamente e lealmente. Tali capacità hanno quindi selezionato nel tempo i più dotati e altruisti, a dispetto delle inclinazioni egoistiche presenti in tutti gli individui.

Questa spiegazione in fondo riesce a far coesistere tutto, dall’empatia innata (quella legata ai neuroni specchio) al condizionamento storico e ambientale (quindi all’esistenza di un dispositivo di apprendimento), dalla giustificazione evoluzionistica dell’altruismo all’importanza della reciprocità. E al di là delle sfumature sembra essere quella ormai universalmente accettata. Un altro eminente “grande vecchio”, Edward O. Wilson, nel suo saggio più recente, Le origini profonde delle società umane, partendo dall’idea di eusocialità, ovvero dal fatto che le grandi transizioni evolutive si sono verificate sempre quando ha prevalso all’interno di una specie la tendenza all’aggregazione, perché questo fa emergere un livello superiore di complessità biologica e porta enormi vantaggi in termini di sopravvivenza e di riproduzione, ha così definito le tappe di passaggio della socialità umana: cura della prole e difesa collettiva del nido; divisione del lavoro e gerarchia sociale; selezione all’interno del gruppo di quei geni e comportamenti che lo rendono più coeso e lo avvantaggiano nella competizione con gruppi rivali.

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Ora, quanto si è scoperto o ipotizzato negli ultimi trent’anni a livello di spiegazione dei comportamenti umani di base non fa che confermare su base biologica una lunga serie di anticipazioni che venivano soprattutto dal campo dell’antropologia, dal campo cioè di Hertz. Ad esempio, Marcel Mauss aveva individuato già nei primi decenni del Novecento, nel Saggio sul dono (1924), come base dello scambio arcaico il triplice obbligo, radicato nella mente umana, di dare, ricevere e restituire: ossia un principio di reciprocità, dal quale dipendono le relazioni di solidarietà tra individui e gruppi, mediante lo scambio di doni pregiati. E dopo di lui il tema era stato ripreso da Claude Levi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela. Indagando la struttura invariante che sottostà a tutti i sistemi di parentela, Levi-Strauss arrivava a identificarla nella proibizione dell’incesto, perché questo rende disponibile una donna, cioè un bene pregiato, per altri gruppi sociali, consentendo di stabilire forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo.

Non sono sicuro che le conclusioni di Levi-Strauss possano essere considerate sempre valide (presso alcune culture l’incesto non è affatto proibito): ma ciò che qui importa è che se valesse la pura contabilità genetica questa proibizione apparirebbe suicida, così come lo appare la pratica del dono, mentre introducendo il principio della reciprocità i conti cominciano a tornare. Il dono, di qualunque natura esso sia, crea un vincolo solidale e seleziona gli individui capaci di rispettarlo. Quando il vincolo funziona, quando cioè la reciprocità diventa il modello collettivo di comportamento, il gruppo si allarga, diventa più competitivo e aumenta la propria capacità di sopravvivenza.

3.9 Competere

Anche De Waal, Tomasello e Wilson, però, e prima di loro Lorenz, così come in fondo persino Pinkler, non dimenticano che al di là delle dinamiche altruistiche che si creano all’interno del gruppo la pulsione di base in ciascun individuo è quella egoistica, e che l’altruismo è appunto un “prodotto” dell’evoluzione, naturale o culturale che si voglia: crea un’alternativa, ma non sostituisce in toto l’istinto primordiale. Questo ci riporta all’azione dei neuroni specchio, e all’ipotesi interpretativa dei comportamenti umani cui volevo arrivare.

La coscienza di sé, come abbiamo visto, nasce dall’osservazione consapevole dell’altro, da un suo riconoscimento, e a sua volta poi sull’altro si riverbera. Si agisce, si reagisce, si progetta tenendo conto delle azioni e delle intenzioni altrui. Si sviluppa in questo modo una “intelligenza sociale”. Ma l’intelligenza sociale può funzionare, per quanto concerne le dinamiche relazionali interne al gruppo, tanto in positivo come in negativo. In positivo, la capacità di entrare nella mente altrui consente come abbiamo già visto una empatia, una progettualità comune, una convivenza allargata. Rende possibile quell’altruismo che è necessario alla sopravvivenza del gruppo, a difenderlo dalle minacce esterne, ambientali o arrecate da altri gruppi. E rende possibile appunto il linguaggio, una comunicazione complessa e sfumata, e dal linguaggio è a sua volta esaltata.

In negativo induce invece a quello che è stato definito, a proposito anche di altre scimmie antropomorfe, un “comportamento machiavellico”. A giocare dunque, anche all’interno del proprio gruppo, con l’inganno, la finzione, la menzogna, la competizione, l’invidia.

La conflittualità interna al gruppo è diffusa presso quasi tutte le altre specie (non negli imenotteri), sia pure in misure diverse: ma quella subdola perpetrata con l’inganno e quella gratuita che si traduce in crudeltà appartengono solo ai primati, e l’ultima solo agli antropomorfi. E tra questi, gli esseri umani e gli scimpanzé sono gli unici che si impegnano frequentemente in lotte fra conspecifici con esiti letali. È un aspetto di tutta questa vicenda che sinora ho volutamente lasciato in ombra, perché è quello che consente il raccordo con il resto della narrazione, e va trattato a parte. Del resto, è anche un aspetto comprensibile. La condizione precaria in cui i sapiens hanno vissuto fino ad almeno cinquantamila anni fa, esposti costantemente al pericolo e poco equipaggiati per la grande caccia, li ha resi particolarmente bellicosi. Si è sviluppata in loro anche la crudeltà. Ma questo sentimento non è solo frutto dell’azione ambientale. Nasce prima ancora da dentro. Il perché e il come ci aiuta a capirlo la “teoria mimetica” proposta dall’antropologo René Girard.

Dopo la lunga galoppata nella biologia e nella neurofisiologia il testimone passa dunque ora all’antropologia. (…)

NOTE

[1] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio (cit)

[2] L’indagine e la manipolazione sono a loro volta connessi, col progredire della “culturalizzazione”, a quella che si può definire “esperienza mediale”. Se la realtà viene esperita attraverso particolari media, tenderà anche ad organizzarsi attraverso regole imposte dai media stessi. Questo aspetto è particolarmente importante e visibile oggi, con una percezione che mescola sempre più indiscriminatamente realtà naturale e realtà virtuale.

[3] A differenza delle altre scimmie antropoidi, i nostri progenitori sono diventati, durante il processo di ominazione, carnivori e cacciatori. Per milioni di anni però hanno cacciato piccole prede e raccolto quel che potevano, e contemporaneamente sono rimasti esposti alla pericolosa attenzione dei predatori. La selvaggina di grossa taglia è entrata nella loro dieta solo 400.000 anni fa.

[4]Tra 4,4 e 3,8 milioni di anni fa, abbiamo a che fare con creature che si diffondono in nuovi ambienti come sponde di laghi, savane e praterie. L’unico modo in cui questi animali potevano farlo era grazie a una sofisticata cultura sociale. Nella savana, un bipede lento è un bipede morto: a meno che non abbia un sacco di amici con sé”. C. O. Lovejoy

[5] Darwin stesso, ne “L’origine dell’uomo”, scriveva: “Le comunità che racchiudono il più gran numero di membri più simpatici gli uni agli altri, prosperano meglio e allevano il più gran numero di rampolli”.

[6]Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa.” Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale

[7] Il “ragazzo del Turkana”, trovato in Kenya, si spostava di continuo in cerca di cibo e di nuovi spazi in branchi di una trentina di individui, quindi in gruppi già socialmente complessi; lasciava dietro di sé accampamenti già organizzati e forse aveva già il dominio del fuoco (i primi focolari accertati risalgono a 1,5 milioni di anni fa, in Sudafrica)

[8] Infatti, i vocalizzi dei primati interessano prevalentemente le aree sottocorticali (giro del cingolo, diencefalo, tronco encefalico), mentre nell’uomo nella produzione vocale sono coinvolte le aree corticali, in particolare l’area di Broca nel lobo frontale sinistro e il lobo temporale.

[9] Michael Tomasello, Unicamente Umano. Storia naturale del pensiero, Il Mulino 2014

[10] Si ipotizza che nel corso dell’evoluzione la specie Homo habilis comunicasse attraverso una elementare forma di proto-linguaggio gestuale e che la specie Homo erectus fosse forse in grado di produrre atti motori mimico-gestuali, mentre la specie Homo sapiens presentava già strutture cerebrali (specialmente nelle aree dell’emisfero sinistro) che avrebbero consentito di sviluppare, assieme alle modalità di comunicazione gestuale, anche le prime articolazioni vocali (Michael Corballis, La verità sul linguaggio, Corbaccio 2009).

[11]Il linguaggio e l’abilità manuale si sviluppano insieme e questa evoluzione si riproduce nello sviluppo odierno dei bambini.” (A. Woods e T. Grant, La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, AC Editoriale 1997)

[12] Dean Falk, Lingua Madre. Cure materne e origini del linguaggio, Boringhieri 2011. La Falk, antropologa e neuroscienziata, propone una spiegazione molto semplice dell’origine del linguaggio, rintracciandola nel rapporto madre/infante. Quando è impegnata nella raccolta la madre deve staccare dal proprio corpo il neonato, e per fargli comunque sentire la propria vicinanza comincia a fare dei versi e dei vocalizzi, e successivamente a parlargli.

[13] Robin Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi 1998

[14] In pratica sarebbe intervenuta, in tempi evolutivamente recenti (30 o 40 mila anni fa), per motivi ancora sconosciuti, una vera e propria mutazione genetica che ha totalmente innovato il cablaggio del cervello. È anche quanto sostengono gli assertori della la teoria della mente modulare. J. A. Fodor (Mente e linguaggio, Laterza 2003) ha definito i moduli come “sistemi cognitivi funzionalmente specializzati”. Ma anche Steven Pinker (L’istinto del linguaggio, Mondadori 1998) sostiene che la facoltà umana del linguaggio è un istinto, un comportamento innato, sia pure modellato dalla selezione naturale e adattato alle esigenze comunicative dell’uomo.

[15] L’apparato di fonazione “moderno”, con la laringe posta sopra la trachea e con la conseguente possibilità di modulare una quantità enorme di suoni, è apparso circa 300.000 anni fa. Alcuni geni, per esempio il FOXP2, coinvolti nell’articolazione del linguaggio, hanno assunto la loro forma attuale non più di 200.000 anni fa. Ciò fa presumere che il linguaggio complesso sia effettivamente nato con l’Homo sapiens. Ma è probabile che non abbia raggiunto una compiutezza “grammaticale”, sia pure elementare, prima di trentamila anni fa.

[16] Tutto un filone della ricerca filosofica/psicologica/linguistica (la linguistica cognitiva) sostiene che i nostri stesso modi di apprendere, decodificare e interpretare la realtà, sono processi mediati dalle caratteristiche del nostro corpo, a partire dalle percezioni. Per un approfondimento vedi: Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza 2010

[17] F. Ferretti, cit.

[18] Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1872)

[19] Il problema in realtà è legato all’espressione “sopravvivenza del più adatto”, che Darwin peraltro non usò mai: “il più adatto” non è “il migliore di tutti”, non comporta una connotazione morale. In natura “il più adatto” è chi risulta vincente in particolari circostanze. E spesso chi sopravvive nella lotta per l’esistenza è, secondo i parametri etici oggi correnti, proprio il peggiore.

[20] Cfr, ad esempio, Il mutuo appoggio: fattore dell’evoluzione, Eléuthera 2020

[21] Introdotto dal biologo inglese William Donald Hamilton. La “fitness” considera il numero di discendenti prodotti da un singolo soggetto in relazione al numero medio di figli prodotti dai soggetti della popolazione cui appartiene. È positiva se il soggetto produce più discendenti rispetto alla media; è negativa quando il numero di figli è inferiore al valore medio.

[22] Questo modello è proposto, con sfumature diverse, dagli psicologi J. Haidt, Steven Pinker e Marc Hauser, e da ultimo anche dal biologo R. Dawkins.

[23] Steven Pinker, Tabula rasa, Mondadori 2014

[24] Sulla linea dell’origine “culturale” delle regole morali troviamo soprattutto gli etologi, da Konrad Lorenz ad Irenaus Eibl Eibensfeldt e a Franz De Waal.

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(parte seconda)

di Paolo Repetto, 18 febbraio 2022

  1. Una immersione nella biologia

A questo punto, ad uno che di neuroscienze ha un’infarinatura men che dilettantesca il buon senso imporrebbe di fermarsi: ma se avessi tutto questo buon senso non mi sarei imbarcato in una simile avventura, e allora tanto vale procedere. Anche perché temo davvero di aver già dilapidato buona parte del mio patrimonio neuronale, e di dover sfruttare per tempo quel che ne rimane. Lo farò utilizzando le poche nozioni che possiedo sul funzionamento del nostro cervello, che ritengo comunque sufficientemente fondate, e semplificando il più possibile la descrizione dei processi. Spero solo di metterli in riga correttamente, partendo da quelli elementari (anche se darò per scontate le conoscenze di base delle neuro-scienze), e di non riuscire troppo noioso né del tutto insensato.

 

3.1 Emisferi

Il cervello umano è diviso nella sua parte anteriore (o neocorteccia) in due emisferi, destro e sinistro, che sono funzionalmente simmetrici (almeno in linea generale, come tutti gli altri doppioni anatomici, dagli arti ai polmoni, ai reni, agli occhi, ecc…), ma non identici. Le simmetrie riguardano, ad esempio, il controllo incrociato dei movimenti delle due metà del corpo: la corteccia motoria dell’emisfero destro governa i muscoli della metà sinistra, quella dell’emisfero sinistro i muscoli della metà destra. Per il resto i due emisferi sono caratterizzati da lateralizzazioni funzionali, ovvero da specializzazioni diverse.

L’emisfero sinistro è quello della mente cosciente, della linearità, della catalogazione, della memoria verbale e del ragionamento consecutivo, e ha un ruolo dominante nei processi linguistici, sia scritti che orali, oltre che nel calcolo matematico[1]. Consente una percezione analitica della realtà, coglie la successione degli eventi, li concatena, gestisce ed elabora le informazioni allineandole in un discorso sequenziale. Presiede insomma alla nostra coscienza temporale, quella che si allarga al passato e al futuro, e soprattutto raggruppa gli stimoli, in primis quelli visivi, in base alla funzione cui possono servire, elaborando una risposta pratica.

L’emisfero destro controlla invece la nostra parte subconscia, è concentrato sul presente ed è specializzato nelle capacità connesse allo spazio, come quelle artistiche: disegno, musica, canto, danza. Potremmo dire che vede il mondo a colori e presiede alla comunicazione gestuale, alla sfera emozionale. È sede dell’intuito e della memoria visiva, percepisce la realtà in modo globale e sintetizza le percezioni in una visione d’insieme, in schemi generali. Non privilegia le differenze e le distinzioni, ma le somiglianze.

In linea generale, quindi, l’emisfero sinistro è utilizzato preferenzialmente per analizzare gli stimoli ambientali e tenerli sotto il controllo di un comportamento standardizzato, mantenendo un’attenzione molto focalizzata, mentre quello destro è sensibile alle novità e agli stimoli minacciosi (ad esempio, i predatori), ai quali reagisce prevalentemente con risposte di fuga, ed è responsabile dell’espressione di emozioni intense. Questa lateralizzazione non è specifica del cervello umano. A un basso livello di specializzazione queste differenze erano già presenti nei primi vertebrati[2] e si sono poi accentuate nell’uomo in modi e misure diversi attraverso l’evoluzione.

Le attitudini che ho elencato sopra hanno una storia che si perde in un passato remotissimo e che è stata scritta da mutazioni adattive, intervenute a livello sia genetico che epigenetico: sono modelli percettivi, cognitivi e comportamentali affinatisi nei tempi e verificabili oggi sperimentalmente, con strumenti sofisticatissimi. Costituiscono ormai per la scienza un dato acquisito. Meno acquisite sono invece le cause della diversificazione: la spiegazione più plausibile è che l’aumento delle dimensioni del cervello assoluto abbia esteso la distanza tra i due emisferi, riducendone la cooperazione e definendone le asimmetrie[3]. Per quanto concerne poi lo sviluppo più accentuato del lobo sinistro, o quantomeno la concentrazione in questa area di alcune funzioni primarie, dipende probabilmente dalla differenza di flusso e di pressione sanguigna tra lato sinistro e destro nelle arterie carotidi, responsabili della circolazione a livello cerebrale[4]. Ma questo già esula dagli ambiti del mio discorso.

Va precisato comunque che se le specializzazioni dei due emisferi esistono, non esiste tra essi un confine netto: c’è invece uno scambio continuo di informazioni che passano attraverso il “corpo calloso”. In realtà nessuno dei due funziona mai in maniera totalmente autonoma. Piuttosto, ci sono momenti di dominanza dell’uno o dell’altro, in relazione al tipo di attività che il cervello è chiamato a svolgere. Se leggo, scrivo, discuto o faccio di conto la temporanea dominanza sarà dell’emisfero sinistro, se disegno, ascolto musica, guardo un’immagine o mi perdo nel sogno sarà di quello destro. E, soprattutto, occorre ricordare che tutto ciò che accade nella corteccia transita anche, o almeno è in stretta relazione, per la parte più antica del cervello, costituita dal tronco encefalico (o cervello rettiliano) e dal sistema limbico, che controllano le funzioni corporali essenziali e le risposte emozionali connesse alla sopravvivenza (e alla riproduzione). In sostanza, per quanto evolutivamente specializzati dobbiamo sempre fare i conti con l’eredità del cervello pre-umano dal quale siamo partiti. Con la crescita di volume di quest’ultimo, e nella fattispecie della parte occupata dalla corteccia, è aumentata però la discrezionalità nelle risposte, sempre meno vincolate ad imboccare una direzione obbligata.

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Viene spontaneo a questo punto chiedersi quali effettivi vantaggi comporti la specializzazione degli emisferi. Uno sta senz’altro nel fatto che la lateralizzazione consente di aumentare le capacità neuronali: svolgendo funzioni distinte, gli emisferi specializzati evitano inutili duplicazioni, con un gran risparmio di tessuto neuronale. Un altro è che la lateralizzazione impedisce che due impulsi assolutamente incompatibili si trovino in contrasto nell’elaborazione di uno stimolo, e impediscano o rallentino la risposta. I vantaggi, insomma, ci sono, e a quanto pare compensano ampiamente gli svantaggi (perché ci sono anche quelli).

Ora, i nostri progenitori non sono scesi dagli alberi con il cervello già strutturato in questo modo, ma sono diventati “umani” proprio attraverso il processo di diversificazione e specializzazione degli emisferi: e questo processo è stato consentito dal fatto che il loro cervello era una struttura plastica, che rispondeva adattandosi agli stimoli ambientali, e traeva vantaggio tanto dalle esperienze maturate quanto dalle mutazioni intervenute a livello genetico per banali errori di replicazione del DNA.

3.2 Camminare

Parto proprio di qui, dalla discesa dagli alberi. Semplificando all’osso, si può dire che tutto ha avuto inizio con l’acquisizione della deambulazione eretta. Sul come e quando (senz’altro più di tre milioni di anni fa, qualcuno ipotizza addirittura sei, subito dopo la separazione della linea umana da quella degli scimpanzé) e perché ciò sia avvenuto le teorie si sprecano: di sicuro c’è comunque che i nostri più remoti antenati non scelsero di camminare eretti per un primordiale calcolo di opportunità, ma furono necessitati a farlo dal puro istinto di sopravvivenza: e che il cambiamento della modalità di locomozione ha comportato, direttamente o come effetto collaterale, una radicale ristrutturazione anatomica[5].

È questo l’evento cruciale, perché i reperti fossili ci dicono che gli Ominidi sono diventati bipedi molto tempo prima di essere dotati di un cervello di dimensioni superiori rispetto a quello delle altre scimmie antropomorfe: che è stato quindi il bipedismo a favorire lo sviluppo cerebrale, e non viceversa[6].

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Non è il caso di fare tutta la storia delle trasformazioni anatomiche che tale evento ha determinato: devo però citare almeno le più eclatanti. La postura eretta ha creato innanzitutto le condizioni per la liberazione e specializzazione degli arti superiori. È vero che gli umani non sono gli unici a usare questi arti per scopi diversi dalla locomozione, ma le differenze funzionali, ad esempio nei confronti delle scimmie, sono sostanziali. Le “mani” delle scimmie sono geneticamente adattate a svolgere mansioni specifiche, quelle umane sono invece forme plastiche, che introducono una dimensione inedita nel regno animale, quella della “techné”, e quindi in sostanza quella del lavoro. Anche gli scimpanzé creano strumenti, puliscono ad esempio i famosi rametti per “pescare” nei termitai, ma questo è un comportamento accessorio, perché in realtà sono organismi così specializzati che possono tranquillamente sopravvivere anche senza i rametti. “Gli strumenti animali sono tali esclusivamente in virtù della loro efficacia di prestazione immediata (potenza); quelli umani lo sono in virtù della loro flessibilità d’uso (potenzialità).[7] L’uomo invece, senza il suo strumentario “culturale” (abiti per difendersi dal freddo, case e ricoveri per proteggersi dai pericoli, fuoco per difendersi, per riscaldarsi, per cuocere i cibi, per illuminare le tenebre, armi per la caccia, ecc…) non sopravvivrebbe.

Le mani dell’ominide sono dunque diventate disponibili per attività di tipo consapevolmente “tecnico”, come la produzione di utensili o la domesticazione del fuoco, per il trasporto della prole o del cibo per nutrirla, e anche come strumento principale di difesa, oltre che, per un lungo periodo, della comunicazione[8]. Volendo banalizzare, si potrebbe dire che sono diventate le “protesi” organiche della parte anteriore del cervello, in quanto sempre meno condizionate alla risposta meccanica e istintuale dettata dal tronco encefalico e sempre più soggette invece al controllo da parte della corteccia. Col tempo sono poi diventate il tramite per la creazione e l’utilizzo di vere e proprie protesi inorganiche.

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Lo sviluppo di ciascuna di queste attività a sua volta implicava ulteriori ricadute. Il trasporto, il combattimento, la necessità di dilaniare le prede, tutti questi compiti sono passati dalla bocca alle mani, e ciò ha modificato radicalmente le regole del gioco[9]. Il percorso è stato lunghissimo, e gli adeguamenti sono stati necessariamente lenti e graduali: se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per combattere, essi si sarebbero trovati pressoché disarmati. La bocca si è dunque specializzata in altre attività, quella della masticazione e quella della fonazione, tramite un concorso di fattori apparentemente indipendenti ma in realtà strettamente collegati l’uno con l’altro[10].

In primo luogo, per equilibrare il peso della testa, che nella postura eretta si trova direttamente in cima alla colonna vertebrale, si è rivelato “adattivo” un graduale spostamento in avanti del foro occipitale, quello che mette in comunicazione la scatola cranica con il canale vertebrale. Ciò ha comportato che si riducesse il ruolo dei muscoli del collo per tenere la testa in posizione, e quindi anche l’area nella quale i muscoli si attaccano alla parte posteriore del cranio: e questa riduzione ha liberato a sua volta uno spazio che è rimasto disponibile per l’ampliamento del cervello, consentendo a quest’ultimo di espandersi anche anteriormente senza disturbare l’equilibrio[11].

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Ma la riduzione della massa muscolare del collo ha inciso anche sul funzionamento dell’apparato masticatorio, che per la seconda legge fisica delle leve è stato reso più efficiente (ed energeticamente meno dispendioso) dall’arretramento delle arcate dentarie sotto la scatola cranica, e quindi da una pressione delle mascelle esercitata verticalmente: cosa che ha aperto la possibilità di adottare diete alimentari diverse. In pratica, si sono create le condizioni perché l’uomo diventasse onnivoro.

Tali condizioni sono state poi pienamente realizzate più tardi (almeno un milione di anni fa), con la domesticazione del fuoco. Oltre a costituire un ottimo strumento di difesa contro i grandi predatori e contro il freddo, il fuoco consentiva la cottura dei cibi: rendeva cioè digeribili alimenti che non avrebbero potuto essere altrimenti consumati, e permetteva di assimilarli molto più rapidamente, ampliando considerevolmente la gamma della dieta e il suo potere nutrizionale, ma stabilizzando anche il livello di attenzione (lo sforzo della digestione intorpidisce le facoltà sensoriali: un leone sazio diventa più lento e distratto) e moltiplicando quindi le opportunità di sopravvivenza. Tra l’altro, l’accorciamento dell’intestino indotto dalla semplificazione del metabolismo e i tempi abbreviati di questa funzione significavano una riduzione in termini di consumo energetico da parte dell’organismo, e l’energia risparmiata poteva essere dirottata al cervello, che sotto il profilo energetico è particolarmente dispendioso[12].

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Non ultima tra le conseguenze, per importanza, è stata la discesa della laringe[13], che era posizionata originariamente più in alto, rispetto alla trachea, per consentire una migliore deglutizione del cibo. La masticazione più efficace e la minore durezza dei cibi cotti hanno comportato la riduzione del diametro del canale tracheale per il quale transitava il bolo, e lo slittamento della laringe verso il basso. Tutto questo complesso riassetto anatomico, operato attraverso il meccanismo della selezione, era funzionale ad adeguare ai cambiamenti di cui ho parlato sino ad ora gli apparati della nutrizione e della respirazione. Il fatto che le variazioni strutturali della bocca e della laringe siano poi risultate funzionali a rimodellare anche l’apparato fonatorio è una sorta di effetto collaterale. Eppure questo fattore imprevisto, intervenuto secondo le stime più caute tra i duecentomila e i trecentomila anni fa, è stato fondamentale per lo sviluppo del linguaggio[14].

Si può in effetti ipotizzare una ricostruzione del percorso abbastanza attendibile: “Ci sono prove che la lateralità manuale destra dell’uomo discende dai primati primitivi. Infatti la preferenza per la mano destra si manifesta in molte scimmie, comprese quelle antropomorfe, come gli scimpanzé, che di solito afferrano il cibo con la mano destra. Gli scienziati credono quindi che nell’uomo il controllo della parola e del linguaggio ad opera dell’emisfero cerebrale sinistro sia da collegare evolutivamente con la preferenza dell’uso della mano destra nel comportamento alimentare dei primati. L’uso della parola nell’uomo potrebbe essere riconducibile all’evoluzione della sillaba, cioè un’alternanza tra consonante e vocale. Se pronunciamo, per esempio, la sillaba “mama” iniziamo con il pronunciare una consonante sollevando la mascella e poi una vocale abbassandola…lo stesso movimento della masticazione! Gli scienziati quindi hanno ipotizzato che il movimento di masticazione, controllato dalla parte sinistra del cervello fin dall’evoluzione dei primi vertebrati, si sia evoluto nell’uomo nel movimento di vocalizzazione della prima sillaba ed è per questo motivo che il linguaggio umano è controllato dalle aree di Broca e Wernicke che si trovano nella parte sinistra del nostro cervello[15].

Col che, mi sono già spinto sin troppo avanti. Quelli che sto elencando sono comunque tutti esempi eclatanti di adattamento selettivo: ci dicono che l’organismo è in grado di riorganizzarsi costantemente in funzione della massima efficienza, e di attivare nuove funzioni adattando al bisogno vecchie strutture anatomiche[16].

Ma non è tutto: la riduzione dell’apparato muscolare di sostegno della testa e la trasformazione di quello masticatorio hanno comportato modifiche anche nella forma e nel peso di quest’ultima. Mentre in basso si creavano condizioni diverse per la fonazione, il cervello stesso veniva orientato a svilupparsi soprattutto in quelle zone (lobi temporali e lobi frontali) a struttura ossea più plastica che sono a diretto contatto con i muscoli facciali: zone nelle quali hanno trovato successivamente sede il controllo della parola e il pensiero logico.

La postura eretta determina infine l’assunzione di un ruolo primario della vista nella percezione. Nella savana gli spazi si dilatano immensamente e si sottraggono al tipo di esperienza eminentemente uditiva e olfattiva che veniva praticata nella foresta: ora è l’occhio a doversi adeguare per garantire il controllo del territorio e l’incolumità. Ma esercita anche un’altra funzione. Gli arti liberati dai compiti di locomozione vengono utilizzati tanto per difendersi che per modificare l’ambiente, e questo avviene attraverso un coordinamento sempre più sviluppato del meccanismo mano-occhio. Sono gli occhi a guidare le mani alla presa e alla manipolazione degli oggetti. Per sopravvivere nella savana è necessario velocizzare l’esecuzione di ogni gesto, sia di fuga che di attacco, e con l’aumento della velocità diventa essenziale il coordinamento tra agilità e precisione nel movimento[17].

Ciò significa che la percezione visiva induce una rappresentazione dell’ambiente in cui ci muoviamo di tipo essenzialmente pragmatico, e non semplicemente contemplativo. “Noi vediamo perché agiamo, e possiamo agire proprio perché vediamo”. Di ogni oggetto percepito cogliamo immediatamente le proprietà fisiche che ci consentono di interagire con esso, quindi lo traduciamo in potenziale motorio e di azione.

Il prevalere della percezione visiva non ha tuttavia conseguenze solo ai fini pratici, operativi. Determina anche il modo in cui noi “organizziamo” la rappresentazione mentale della realtà che ci circonda. I quattro quinti delle informazioni che il nostro cervello riceve arrivano dalla vista: e la percezione visiva coglie un quadro d’insieme strutturandolo spazialmente. Percepisce innanzitutto lo spazio, e in subordine percepisce il movimento come spostamento degli oggetti all’interno dello spazio. Non solo: il nostro campo visivo è determinato dalla posizione degli occhi rispetto al corpo. Vediamo lontano perché gli occhi sono posizionati molto in alto. L’orizzonte si allontana, il mondo diventa molto più ampio. Si rivelano nuovi scenari, spazi sconosciuti da percorrere, da scoprire e da occupare, e questi spazi sono pieni di cose da manipolare, di difficoltà ambientali da superare, di pericoli dai quali guardarsi, di presenze inedite alle quali rapportarsi.

Nella nuova realtà che la percezione visiva rivela, o entro il nuovo modo di percepire quella già conosciuta, la funzione uditiva viene ad assumere un ruolo diverso. Affina la sua organizzazione temporale, costringendo il pensiero ad articolarsi sia nei modi dell’acquisizione (a porre cioè le cose prima e dopo) che in quelli della esposizione, per rendere comunicabile agli altri quanto percepito. L’udito opera nel tempo, e quindi lavora immediatamente per sequenze. Per questo, come vedremo, il linguaggio è in stretta connessione con l’udito.

La comparsa della scrittura comporterà poi, molto più tardi, un altro rivoluzionamento nel rapporto tra i sensi, sovrapponendo alla “globalità” visiva la linearità “uditiva”. L’alfabeto è infatti composto da segni che corrispondono a suoni e che vanno ordinati secondo una certa linearità. Questo modifica ulteriormente la disposizione percettiva, per cui esiste una differenza fondamentale tra le culture alfabetizzate e quelle puramente orali. Ma non spingiamoci troppo avanti.

Piuttosto, per capire correttamente in quale cornice questi mutamenti sono avvenuti, dobbiamo considerare quanto la realtà ambientale con la quale si confrontavano i primi homo, e tutti i loro discendenti almeno fino al tramonto del medioevo, fosse diversa rispetto all’attuale. Oggi cogliamo un mondo in costante velocissimo movimento: la percezione preistorica e in sostanza anche quella antica si esercitava su movimenti lentissimi (ciò che spiega anche la capacità di avvertire, ad esempio, spostamenti astrali minimi). Di un ambiente immobile si coglie ogni minima mutazione (tracce sul terreno, un fruscio, ecc…), mentre di fronte ad un ambiente sempre in movimento si colgono solo le variazioni macroscopiche, e per poterlo mantenere sotto controllo lo si inquadra entro linee, figure e volumi geometrici. Attivando l’emisfero sinistro.

Ho cercato sin qui di rappresentare un effetto a cascata: a mano a mano che il cervello cresce[18] le sue diverse aree si differenziano e si specializzano: diminuendo ad esempio la capacità olfattiva (che oggi appare quasi totalmente atrofizzata) si restringe anche la zona corticale corrispondente, mentre quella auditiva, sempre meno utilizzata per percepire rumori e sibili, si abilita a decodificare suoni e linguaggio. Conseguentemente si incrementa proprio la zona preposta all’articolazione della parola (area di Broca) e alla sua ricezione e decodificazione (area di Werneke), che come abbiamo visto è anche quella che controlla le abilità manipolatorie, e più genericamente si sviluppano i lobi frontali.

Tutto questo avviene nel corso di milioni anni. Poi, circa centomila anni fa, la crescita sembra arrestarsi: l’anatomia e la struttura cerebrale dei primi sapiens sono in linea di massima già quelle attuali. Forse centomila anni sono uno spazio temporale troppo esiguo, se rapportati ad un percorso evolutivo prettamente biologico. O forse sono invece cambiati i modi stessi dell’evoluzione, condizionati dalle pratiche “culturali” degli umani e dalle modifiche che questi portano all’ambiente. È quanto vorrei chiarire.

3.3 Sopravvivere

Il percorso evolutivo che ho sintetizzato alla meno peggio non spiega nel dettaglio le cause e modi della lateralizzazione del cervello, ma può almeno farcene scorgere le premesse e cogliere la portata. Ma non è finita: volevo infatti arrivare ad indagare l’origine e la funzione del linguaggio. Devo perciò tornare nuovamente alla deambulazione eretta e alle sue immediate conseguenze.

Per ragioni aerodinamiche il bipedismo ha selezionato in positivo le femmine con i fianchi più stretti. Questa caratteristica consentiva loro di camminare meglio, di reggere a spostamenti più lunghi e di coprire quindi aree più vaste nell’attività di raccolta del cibo, ma soprattutto di fuggire più velocemente davanti ai predatori: in sostanza garantiva maggiori probabilità di sopravvivenza. Ma comportava anche grossi problemi al momento di partorire, perché la circonferenza cefalica dei neonati era incompatibile con un restringimento del canale vaginale, tanto più in presenza di un lento ma costante accrescimento delle dimensioni del cervello. A tale problema la specie rispose selezionando ulteriormente tra le femmine quelle con maggiore propensione al parto prematuro. Noi umani siamo dunque sin dall’origine frutto di un problema e di una soluzione che potremmo definire “innaturali”, e ci portiamo dietro il marchio di questa differenza, tanto che qualcuno (Gunther Anders, per la precisione) è arrivato a dire che l’uomo è figlio di un tragico errore della natura.

Il che è fondamentalmente vero, magari con qualche riserva per il “tragico”: ma è anche vero che il marchio è quello di un salto di qualità, quale che sia l’interpretazione che di questo salto si vuole dare. Vediamo perché.

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Nella specie umana il parto avviene sempre “prematuramente”, prima cioè che il nascituro sia perfettamente formato, ma soprattutto prima che l’ossatura del suo cranio si sia richiusa. Il neonato viene così al mondo in una condizione di assoluta “inadeguatezza” e la sua sopravvivenza dipende totalmente, per un periodo molto lungo, caratterizzato dalla persistenza di caratteri infantili e da uno sviluppo morfologico, fisiologico e nervoso particolarmente lento, dalla protezione e dalle cure parentali. In quello stesso periodo però il suo cervello continua a crescere, può espandersi anteriormente e rimane dotato di una particolare elasticità, risultando così disponibile all’apprendimento di tipo ambientale, “culturale”. E quanto appreso va a depositarsi, per processi epigenetici, influenze comportamentali o trasmissione simbolica, in aree diverse del nuovo spazio cerebrale conquistato[19].

Questo processo continua ad essere riassunto e ripercorso nelle prime fasi di ogni singola esistenza umana (l’ontogenesi ricapitola la filogenesi), perché al momento della nascita le aree del cervello connesse all’uso di strumenti e del linguaggio sono unite. La separazione avviene dopo i due primi anni di vita. Di lì in poi, in parallelo con l’acquisizione di abilità deambulatorie e manipolatorie sempre più complesse, il nostro cervello “specializza” i due emisferi e sviluppa in essi competenze diverse: in particolare, come abbiamo visto, le funzioni cerebrali deputate alla risposta motoria sono localizzate nell’emisfero sinistro, lo stesso nel quale hanno sede anche i centri responsabili del linguaggio e della abilità manuale. Insomma, l’immaturità, la “sprovvedutezza biologica” dell’animale umano di cui parla Arnold Gehlen, si risolve in un carattere indefinito e plastico, e tale presupposto genetico fa insorgere la necessità di rimedi culturali. Le lacune vanno colmate, le debolezze compensate. Questo fa sì che la somiglianza tra i comportamenti culturali umani e quelli non umani, a dispetto anche di evidenti continuità (sto pensando alle abilità “tecniche” degli scimpanzé, ad esempio) sia in realtà solo superficiale. Perché i primi sono indispensabili alla sopravvivenza, i secondi no.

Il bipedismo ha infatti rivoluzionato anche i comportamenti sessuali degli ominidi. Camminando verticali le femmine della specie homo nascondono la manifestazione dell’estro, che tra gli altri primati avviene attraverso un rigonfiamento o una coloritura particolare della zona genitale, oltre che tramite segnali olfattivi[20].

Questo fatto, associato ad altre trasformazioni fisiologiche e comportamentali femminili che sono andate consolidandosi nel tempo, ha favorito la nascita di rapporti più personalizzati tra individui di sesso diverso, facendo saltare le vecchie regole. In sostanza: in quasi tutti i primati l’accoppiamento durante i periodi di fertilità è riservato ai dominanti, i maschi alfa, mentre agli altri è precluso o consentito solo nei periodi in cui la femmina è infeconda. La scomparsa nella femmina umana dei segnali visivi dell’estro e la riduzione di quelli olfattivi ha disattivato tutto il sistema di controllo e di monopolio dei dominanti, offrendo anche agli altri maschi la possibilità di accoppiarsi e di trasmettere il proprio patrimonio genetico, e li ha indotti di conseguenza ad una diversa “assunzione di responsabilità” nei confronti dei propri discendenti, per assicurarne la sopravvivenza. In realtà, l’origine di quella che potremmo definire una “paternità responsabile” è legata alla “selezione per scelta sessuale” della quale parla già (sia pure con cautela) Darwin, ovvero alla preferenza accordata dalle femmine per l’accoppiamento ai maschi che garantivano maggiore continuità di presenza, capacità di procurare cibo e disponibilità a condividerlo. Ai più adatti, insomma, non solo a sopravvivere, ma a prendersi cura di una prole totalmente dipendente per un lungo periodo[21].

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La “condizione neotenica” costituiva oggettivamente un grave problema, per il neonato come per i genitori: ma l’astuzia evolutiva lo ha tradotto alla fine in un vantaggio[22]. Per affrontarlo dovettero infatti modificarsi anche i comportamenti parentali. Si creò dapprima un nuovo modello di legame di coppia, poi per una sorta di effetto alone, di abitudine alla convivenza continuativa, l’interazione non rimase limitata ai soggetti coinvolti nella riproduzione o nella cura della prole, ma si allargò per motivi di opportunità collaborativa agli individui più prossimi, segnatamente a quelli maggiormente portati alla socializzazione. Dalla vita animale del branco si passò a quella specificamente umana del gruppo, nella quale, come vedremo, oltre ai rapporti di collaborazione si sviluppano presto anche quelli di sfruttamento o di antagonismo.

Daniel Dennett riassume così la situazione: “È dallo stato di cronica indigenza di un corpo neotenico che sorge la necessità di stabilire legami emotivi, instaurare tradizioni storiche, tessere pratiche sociali […]. La mancanza di armi naturali di un corpo nudo e la plasticità di mani senza compiti percettivi prefissati si rivelano alla nascita come handicap insuperabili senza il sostegno, la collaborazione e il calore di altri umani adulti. L’animale umano costituisce infatti l’incarnazione per eccellenza della neotenia, quel fenomeno biologico che permette alla specie di mantenere anche in età avanzata i tratti morfologici dell’età infantile: una immaturità cronica che ci consente di apprendere fino agli ultimi giorni della nostra vita e che, al contempo, mette in costante pericolo gli equilibri raggiunti dalla nostra esistenza. L’essere umano è costretto a trovare nella precarietà della sua condizione una sicurezza labile e una stabilità sempre revocabile. Il nostro corpo ci permette di trovare percorsi individuali, di uscire dalle rigidità della programmazione istintuale, di evadere da una nicchia ecologica specifica. Per questa ragione vedremo che l’uso di strumenti nella specie umana riveste un valore biologico decisivo: è ciò che le consente di sopravvivere[23].

(continua, naturalmente)

Note

[1] Nel 93% dei destrimani, l’emisfero dominante nell’emissione di parole e di frasi è il sinistro, il 6% possiede meccanismi per il linguaggio nell’emisfero destro e l’l % ha il coinvolgimento di entrambi gli emisferi cerebrali nella produzione di parole. Nei mancini le cose stanno invece in questo modo: nella produzione del linguaggio il 70% rispetta la dominanza sinistra, mentre. solo il 17% vede dominante l’emisfero destro; nei rimanenti casi (13%) ambedue gli emisferi sono forniti di meccanismi della parola. L’area di Wernicke, comunque, una delle più importanti per la lingua, è sempre localizzata a sinistra.

[2] L’asimmetria cerebrale è presente in una varietà di specie diverse come rane, uccelli canori, rettili, topi, macachi, ecc. Tutte queste specie, compreso l’uomo, mostrano una dominanza delle strutture cerebrali di sinistra nel controllo della produzione di specifiche vocalizzazioni. Non è dunque il possesso del linguaggio verbale a determinare asimmetria tra i lobi cerebrali dell’uomo. Piuttosto, anche numerose specie di uccelli mostrano un uso preferenziale di un arto che è paragonabile alla dominanza manuale umana.

[3] La crescita delle dimensioni cerebrali è avvenuta per un incremento sia in altezza che di raggio della calotta cranica. Nell’homo di Neanderthal l’incremento riguardava soprattutto il raggio, mentre nel sapiens c’è stato un incremento maggiore dell’altezza. In linea teorica, con l’aumento del volume cerebrale, in particolare con quello della corteccia, le asimmetrie dei lobi temporali dovrebbero risultare ridotte: soprattutto nei destrimani, però, a livello del Planum temporale di sinistra (è l’area corticale appena posteriore alla corteccia uditiva, nel cuore dell’area di Wernicke) esse permangono molto marcate.

[4] Nell’uomo la carotide comune di sinistra origina dall’arco aortico; la destra è una delle biforcazioni dell’arteria anonima. Il flusso sanguigno proveniente dalle carotidi interne è rivolto in prevalenza alla cerebrale media, che ne costituisce la diretta continuazione. L’assenza di comunicazioni tra le carotidi interne dei due lati comporta la persistenza di minime differenze quantitative di flusso nelle cerebrali medie, che nelle parti iniziali hanno calibro identico a quello delle carotidi interne da cui si originano.

[5] Non sempre priva di inconvenienti, anche se vantaggiosa. Il cambiamento posturale e la nuova locomozione ne hanno creati diversi. Per distribuire meglio il peso del corpo sugli arti posteriori la pianta del piede s’inarcò, il tallone s’ingrandì, il tendine di Achille si allungò e le gambe diventarono più lunghe e più robuste delle braccia. Per mantenere l’equilibrio, comparvero le due curvature della colonna vertebrale che portano indietro il centro di gravità del tronco, ma sono spesso causa di mal di schiena. Anche i dolori della zona cervicale sono da imputarsi alla rotazione della testa all’indietro per mantenersi bilanciata sul collo. Le articolazioni del ginocchio e del femore sono diventate più soggette a usura, per il maggiore peso che sostengono. Per migliorare la postura e l’equilibrio sono anche cambiate la posizione e le dimensioni del bacino che ruotò all’indietro: mentre il cinto pelvico diventò più piatto e il pavimento pelvico si rafforzò per sostenere il peso e la pressione degli organi addominali, alla rotazione dell’anca conseguì il restringimento del canale del parto.

[6] I paleontologi Brian G. Richmond e William L Jungers  affermano che Orrion tugenensis, scoperto in Kenia nel 2001, aveva già andatura bipede oltre sei milioni di anni fa. Comunque, i fossili scheletrici, insieme alle orme di Laetoli, dimostrano senza alcun dubbio che già Australopithecus afarensis, aveva adottato, 3.5 milioni di anni fa, la postura eretta. I primi strumenti di pietra lavorata risalgono invece a circa 2,5  milioni di anni fa, e sono associati ai fossili di Homo habilis.

[7] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti 2003

[8] Al contrario che nelle scimmie, che sono quadrumani, la differenziazione funzionale degli arti superiori negli ominidi è molto accentuata: per la prensione il rapporto è di due ad uno negli ominidi e di uno a quattro nelle scimmie antropomorfe.

[9]Nel pensiero occidentale la mano subisce uno strano destino. Per un verso nella nostra cultura, profondamente visiva e legata alla scrittura, la mano rappresenta lo strumento per verifiche ultime e accertamenti senza appello. «Toccare con mano» significa conoscere direttamente, andare a capire di persona, non lasciare spazio all’inganno. Per un altro verso, però, nella tradizione occidentale la mano sembra vivere una condizione di completa inferiorità rispetto alla vista: il tatto è senso del limite in un modo del tutto diverso. Proprio perché legata alla presa diretta e al contatto con la materia, la conoscenza manuale è considerata di solito approssimativa, grezza, poco efficace. La mano, secondo questa idea, non coglie un limite ma vive un limite: deve tastare per successioni un mondo che non conosce nella sua interezza e mai completamente. La mano è senso del limite perché ristretto è il suo raggio d’azione e deficitaria la sua forma di conoscenza.” (Mazzeo, cit)

[10] Anche quando l’andatura bipede si era ormai definitivamente affermata, il volume del cervello dei primi homo continuava a rimanere più o meno simile a quello delle altre scim-mie antropomorfe (sotto i 500 cc). L’accrescimento della scatola cranica è iniziato almeno un milione di anni dopo, in concomitanza con le prime tracce della lavorazione della pietra, datate circa 2,5 milioni di anni fa, e ha raggiunto il massimo circa 100.000 anni fa.

[11] Per dirla in termini più semplici: in un quadrupede il cranio è all’estremità di un asse orizzontale, quindi il suo volume e il suo peso non possono andare oltre un certo limite, pena uno squilibrio strutturale e uno sbilanciamento nei confronti del resto del corpo. In un bipede è invece posto in cima ad un asse verticale, quindi il peso scarica direttamente a terra, senza creare scompensi. Ergo: possibilità di uno sviluppo (quasi) illimitato del cranio, e del cervello da questo ospitato.

[12] Pur occupando solo il 2% del peso corporeo, il cervello umano consuma oltre il 25% del budget energetico di tutto l’organismo.

[13]Nell’Australopiteco, la laringe, organo situato alla fine della trachea e contenente le corde vocali, si trovava in una posizione più elevata nel canale respiratorio, permettendo così un maggiore spazio per la deglutizione del cibo ma impedendo l’articolazione dei suoni e, conseguentemente, il linguaggio. L’emissione di suoni che un australopiteco poteva produrre era probabilmente molto simile a un latrato. Il processo evolutivo ha dato vita a un mutamento genetico grazie al quale la laringe si è abbassata, il canale fonatorio si è allargato, la lingua è arretrata diventando più mobile e flessibile e favorendo così la modulazione dei suoni.” (A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio, Il Mulino 2010)

[14] Altri ricercatori segnalano tracce di una faringe di tipo moderno già in Homo ergaster, quindi quasi 2 milioni di anni fa, mentre un cranio di Homo heidelbergensis rinvenuto in Etiopia testimonierebbe che questa caratteristica aveva raggiunto l’aspetto attuale già 600.000 anni fa. In tal caso (tutto da verificare) un apparato vocale capace di produrre i suoni di linguaggio articolato sarebbe stato acquisito nella specie umana più di 500.000 anni prima delle più antiche testimonianze dell’uso del linguaggio dei nostri antenati.

[15] MacNeilage PF, Rogers LJ, Vallortigara G (2009), L’evoluzione del cervello asimmetrico, Le Scienze 493

[16]L’aumento incrementale del volume cerebrale negli ultimi due milioni di anni ha progressivamente accresciuto il controllo della corteccia sulla laringe, e fu quasi certamente insieme causa ed effetto del crescente uso della simbolizzazione vocale. […] il maggiore uso della vocalizzazione in epoche successive dell’evoluzione del cervello avrebbe inevitabilmente imposto una selezione sulla struttura del tratto vocale ad accrescerne in quello stesso periodo la controllabilità.” (Terrence Deacon, La specie simbolica, Fioriti 2001)

[17] La pianificazione dei movimenti balistici da parte del cervello, ad esempio, prerogativa dei primi ominidi, potrebbe aver facilitato lo sviluppo della corteccia cerebrale specializzata nella sequenza e coinvolta nell’ascolto del linguaggio parlato (area di Wernicke), promuovendo non solo il linguaggio, ma anche la capacità musicale e l’intelligenza.

[18] La capacità cerebrale passa da 800 cm3 nell’homo erectus a circa 1350 cm3 nell’homo sapiens sapiens in circa 700.000 anni. L’incremento del volume del cranio ha determinato il rimodellamento del cervello, con lo sviluppo della neocorteccia, in particolare dell’area di Broca, nella quale è riposta l’attività inerente il pensiero e il linguaggio dell’uomo moderno.

L’aumento del volume cerebrale aveva avuto però inizio già con homo habilis, che presenta una capacità cranica media di circa 760 cc. Il primo reperto che mostra chiari segni di un maggiore livello cognitivo, associato a una considerevole espansione della scatola cranica (fino a 1000 cc) e ad un’asimmetria tra i due emisferi, segno di un uso preferenziale della mano destra, è di circa 1,6 milioni di anni fa. Si tratta di un esemplare ben conservato, soprannominato il “ragazzo del Turkana”, trovato nella zona del lago omonimo, in Kenia.

[19] La definizione di Epigenesi, introdotta da Conrad Hal Waddington, potrebbe essere “tutti i processi di cambiamento durante il ciclo vitale di un organismo le cui istruzioni non siano contenute nella sequenza del DNA”. In altre parole, durante lo sviluppo noi acquisiamo delle informazioni dall’interazione fra i componenti di base dell’organismo (geni, proteine e altre sostanze) e fra questi e l’esterno, Le influenze comportamentali sono quelle riassunte nel termine di imprinting, processi di “canalizzazione” del comportamento che derivano da stimoli esterni nelle prime fasi di vita e addirittura a partire dalla nostra permanenza in utero. La trasmissione simbolica è quella che avviene appunto per via culturale. Le prime due modalità di informazione non vanno ad incidere sul DNA, ma agiscono a livello cellulare, e diventano ereditabili.

[20] C. O. Lovejoy ipotizza che la mutazione sia avvenuta con la comparsa di femmine prive dell’estro, e che questo apparente svantaggio evolutivo si sia poi risolto in una condizione vincente. (C.O. Lovejoy, Levoluzione degli ominidi. Preominidi e australopiteci, JacaBook, Milano 1989)

[21] Questo passaggio è raccontato molto bene in Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Bo-ringhieri, 2000

[22] Non esiste in realtà alcuna “astuzia dell’evoluzione”: quest’ultima non persegue remote o superiori finalità. Uso il termine a significare che i meccanismi selettivi non creano le condizioni migliori per la sopravvivenza, ma selezionano entro quelle esistenti le più favorevoli. Certe caratteristiche, positive in una particolare situazione ambientale, possano poi rivelarsi inutili o addirittura dannose in un altro contesto.

[23] Daniel Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Boringhieri 2004

Il mastino della ragione

di Nicola Parodi, 11 gennaio 2021

Queste sintetiche note di Nico Parodi rientrano nel dibattito che si è aperto sul sito (era ora!) sulle modalità umane di conoscenza e sulle risposte etiche e pratiche che ne conseguono. Erano state concepite dall’estensore come una risposta privata su alcuni punti sollevati da Carlo Prosperi nel suo ultimo intervento (“L’incostanza della ragione”), ma riteniamo sia giusto pubblicarle come una sorta di lettera aperta, uno stimolo rivolto a tutti ad approfondire ulteriormente le tematiche sin qui affrontate.

Caro Carlo,

posso essere considerato un partigiano della razionalità, ma non la idolatro. L’idolatria, di qualunque cosa, può essere considerata già di per sé una manifestazione di irrazionalità.

Condivido dunque molte tue considerazioni, ma resto molto vigile quando si parla di razionalità. So che la partigianeria può essere intellettualmente pericolosa, e tuttavia corro coscientemente questo rischio, perché mi sento in dovere di difendere il valore della razionalità come strumento di conoscenza, soprattutto di fronte a quello che ultimamente è sotto gli occhi di tutti. Creazionisti, no vax, complottisti e quant’altro non sono un complemento folkloristico. Servendosi dei nuovi strumenti di diffusione di massa, che permettono la diffusione di “memi” eludendo la loro selezione (che invece gli strumenti precedenti di diffusione della cultura in qualche modo operavano. Attualmente certe sciocchezze si propagano con una velocità che nemmeno le peggiori malattie infettive riescono a raggiungere, letteralmente alla velocità della luce) mettono a rischio la conservazione di un livello di conoscenze adeguato, quello che permette alla società complessa da cui dipendiamo di sopravvivere. Non sono il solo a temere il diffondersi dell’irrazionalità, Steven Pinker ha addirittura scritto un libro dal titolo “Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo”.

Una risposta esauriente alle tue considerazioni su quanto ho scritto a commento della tua lettera a Paolo rischierebbe di essere troppo lunga ed illeggibile: sarò pertanto schematico, sperando di riuscire ad essere sufficientemente chiaro per stimolare una riflessione sui vari punti. Altre argomentazioni mi riprometto di esportele in piacevoli chiacchierate, come quelle di una volta.

Premetto intanto che non sono tra coloro che sostengono che la ragione è in grado di dare una risposta certa a tutto. Del resto, l’ho già chiaramente sostenuto «Non siamo in grado di conoscere con sufficiente dettaglio i meccanismi sociali per progettare riforme con la certezza che i risultati corrispondano alle aspettative. Nemmeno la scienza è in grado di dare risposte certe a problemi di tale complessità: ci ha provato sinora solo la fantascienza, con Asimov, inventando la “psicostoria”».

Dunque:

  • Non può essere considerato irrazionalista chi è disposto a confrontare con gli altri le sue idee.
  • Il confronto tra idee che siano frutto di impegno serio può mettere in rilievo differenze di interpretazione della realtà, che dipendono dalle “lenti” con cui si guarda il mondo. La realtà è poliedrica (vedi “Alle radice dell’umano”), e i modi per interpretarla e raccontarla sono molti. Si può ad esempio parlare di amore da poeti, da psicologi, da credenti o in moltissimi altri modi; ma se ne può anche parlare con l’ottica di un biochimico, definendo l’amore come “un effetto dell’ormone ossitocina”. È certo che, chiamiamolo amore o “ossitocina”, senza i comportamenti che ne sono il prodotto non potremmo esistere; e comunque, di solito, è più utile parlarne usando la terminologia “amorosa” piuttosto che quella biochimica.

Chiarito questo, passo a sintetizzare rapidamente le mie idee sui modi e sugli scopi della conoscenza:

  • La vita, come ci spiega Schrodinger[1], si può considerare un insieme ordinato di materia in grado di mantenere il proprio ordine a spese dell’ambiente esterno, di accrescersi e replicarsi.
  • La membrana cellulare separa l’interno di una cellula, un frammento di materia vivente, dal mondo esterno, determinandone l’individualità (un arcaico sé?). La membrana permette però anche la comunicazione tra l’ambiente esterno e l’interno della cellula, producendo, tra l’altro, le condizioni che possono determinare i movimenti cellulari in relazione alle esigenze vitali.
  • Gli organismi pluricellulari hanno sviluppato, nel tempo, un sistema nervoso, che raccogliendo ed elaborando le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno dell’organismo produce le reazioni appropriate (compresi i movimenti) per la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo stesso. In questo quadro il nostro cervello ha assunto le caratteristiche che gli permettono di contribuire al meglio alla sopravvivenza e alla riproduzione degli individui della nostra specie.
  • La funzione del nostro cervello (o mente, se si preferisce) è raccogliere informazioni sull’ambiente esterno, formare delle “immagini mentali” e, in relazione ad altre informazioni provenienti dall’interno dell’organismo, produrre le “azioni” migliori per permettere la sopravvivenza e lo svolgimento della funzione di replicatore del fenotipo “homo sapiens sapiens”.

  • Il nostro cervello naturalmente non è perfetto: deve gestire le informazioni e produrre il risultato in fretta, e quindi si serve di scorciatoie cognitive che approssimano i risultati. La realtà non sempre è semplice, più spesso è complicata o complessa. Anche con i moderni computer occorre ricorrere ad algoritmi di approssimazione per trovare soluzione a certi problemi.
  • Per interpretare il mondo esterno ed estrarne conoscenze che ci servono per scegliere poi i comportamenti e le conseguenti azioni, siamo portati ad attribuire delle “intenzioni” ad altri esseri viventi, ma spesso anche a quelli inanimati. Da questo nascono anche quelle credenze che non si possono definire razionali. I problemi che creano difficoltà di comprensione derivano spesso dalla nostra incapacità di accettare di essere semplicemente degli aggregati di materia ordinata: vogliamo quindi trovare spiegazioni più gratificanti, che ci pongono su una sorta di piedistallo rispetto agli altri viventi.
  • Comprendere anziché condannare. Comprendere, ovvero conoscere, è l’essenza dell’illuminismo. Sapere aude! Se invece a “comprendere” diamo un contenuto empatico, occorre guardarsi dagli errori di valutazione che il giudizio influenzato dalle emozioni fa compiere. Le emozioni svolgono un ruolo importante nel creare comportamenti che uniscono una comunità, ma a volte non vanno d’accordo con la razionalità.
  • Nelle scienze la realtà, l’esperienza, “le prove”, servono a dimostrare la bontà di una speculazione teorica; confermano, non negano.
  • Il vivente deve agire: ma da solo? In un gruppo l’individuo comprende le intenzionalità dei conspecifici e coordina il suo agire con gli altri nell’interesse di tutti. Oltre al classico esempio dei lupi che cacciano in branco, tantissimi altri animali hanno comportamenti collaborativi.

E l’uomo?

  • Il nostro cervello evoluto è in grado di comprendere (sia pure con molte carenze) le regole che fanno funzionare la natura. In conseguenza delle “immagini mentali” che ci siamo formati compiamo delle scelte e agiamo (nella società e nella vita personale). Gli errori possono essere frutto di scarsa conoscenza o di scelte dettate dall’egoismo: in quest’ultimo caso, attribuire errori alla “razionalità” è solo confondere l’uso di ragionamenti ex post, per giustificare le scelte, con deduzioni frutto di razionalità.
  • Gli uomini che agiscono collettivamente modificano non solo la storia ma l’ambiente. Il terremoto è un accadimento, reclutare un esercito e occupare una città è un’azione volontaria organizzata, e se disordinata non funziona. L’inazione è sconfitta. Da non credente riconosco che la chiesa ha fatto bene a inserire tra i peccati anche quelli di “omissione”.
  • Non è la ragione a creare ideologie, sono quegli uomini che si comportano da teologi di teorie scientifiche, sociali o economiche, limitandosi a farsi esegeti di libri sacri che secondo loro contengono la verità, e contraddicendo in questo modo i principi dell’illuminismo.
  • È la ragione o piuttosto la sua assenza a creare l’inebetimento?
  • La nostra non è certo una società modello. Permette la sopravvivenza agevole a qualche miliardo di persone perché è tecnologicamente in grado di sfruttare enormi quantità di energia, ma questo non significa che corrisponda al modello di organizzazione sociale sufficientemente egualitaria e collaborativa a cui si è evolutivamente adattato l’uomo. Alcuni studiosi utilizzano, per esaminare la storia, il modello del macroparassitismo o cleptoparassitismo intraspecifico applicato alle società umane. Potrebbe essere una cifra interpretativa interessante.
  • Quindi, anche se il pessimismo può sembrare il nostro naturale approdo (un po’ per l’età, un po’ per i tempi che ci troviamo malauguratamente a vivere) non possiamo rinunciare alla battaglia per la difesa della cultura: quella cultura che ci consente di incontrarci, sia pure sulle pagine di questo sito, e di confrontarci civilmente, è in pericolo: e non possiamo lasciarla spazzare via dallo straripamento del magma di sciocchezze i nuovi mezzi di comunicazione stanno vomitando.

Auguri di buon anno, con la speranza di poterci presto incontrare, chiacchierando tranquillamente seduti su una panchina o, come non facevamo un tempo, seduti al bar a prenderci un caffè.

[1] «Qual è l’aspetto caratteristico della vita? Quando è che noi diciamo che un pezzo di materia è vivente? quando esso va “facendo qualcosa”, si muove, scambia materiali con l’ambiente e così via, e ciò per un periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. […]
Quando un sistema che non è vivente è isolato o posto in un ambiente uniforme, tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente, in conseguenza delle varie specie di attrito; differenze di potenziale elettrico o chimico si uguagliano, sostanze che tendono a formare un composto chimico lo formano, la temperatura si uguaglia ovunque per conduzione.
Con ciò, l’intero sistema si trasforma in un morto, inerte blocco di materia. Si raggiunge uno stato permanente, in cui non avviene più nessun fenomeno osservabile. Il fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o stato di “entropia massima.
È proprio in questo suo evitare il rapido decadimento in uno stato inerte di equilibrioche ‘un organismo appare così misterioso, tanto che, fin dagli inizi del pensiero umano, si sono invocate alcune speciali forze non fisiche o soprannaturali (vis viva, entelechìa), quali forze agenti nell’organismo, e in taluni ambienti ancora si sostiene la loro esistenza.
Come fa un organismo vivente a evitare questo decadimento? La risposta ovvia è: mangiando, bevendo, respirando e (nel caso delle piante) assimilando. Il termine tecnico è: metabolismo.
Ciò di cui si nutre un organismo è l’entropia negativa. Meno paradossalmente si può dire che l’essenziale nel metabolismo è che l’organismo riesca a liberarsi di tutta l’entropia che non può non produrre nel corso della vita.
[…] Secondo i risultati esposti nelle pagine precedenti, gli eventi spazio-temporali che si verificano nel corpo di un essere vivente e corrispondono all’attività della sua mente e alle sue azioni, siano consce o no, sono (considerando pure la loro struttura complessa e l’accettata statistica della fisica chimica) se non strettamente deterministici, almeno statistico-deterministici.»
Erwin Schrodinger, Che cos’e la vita?, Adelphi 1995

​La morale e le favole

di Nico Parodi, 28 novembre 2020

In attesa di sviluppare in maniera un po’ più approfondita il discorso sui meccanismi che determinano i comportamenti umani, vorrei contribuire nell’immediato con qualche considerazione sui temi che mi sembrano maggiormente caratterizzare, soprattutto in quest’ultimo periodo, la “linea” degli interventi apparsi sul sito: ovvero, il fenomeno del complottismo, la religione laica, l’esistenza o meno di un sentimento morale condiviso. È una prima risposta all’invito lanciato da Paolo in “Acufeni?”: spero di averne bene interpretato il senso.

Siamo tutti complottisti?

Il classico detective dei libri gialli in presenza di un delitto cerca di scoprire l’arma e il movente, basandosi su una serie di indizi per crearsi un identikit mentale del colpevole. E fin qui non agisce in modo molto diverso dai complottisti che cercano dietro ogni accadimento difficilmente spiegabile (ma spesso anche dietro quelli spiegabilissimi) gli autori di una congiura. La differenza, oltre che nelle indubbie superiori qualità intellettive dell’investigatore, sta nel fatto che quest’ultimo deve fornire delle prove, mentre il complottista ne fa tranquillamente a meno, o al più se le inventa.

Quindi, diciamo che in comune c’è una disposizione, un atteggiamento di fondo: a fare la differenza è il modo nel quale viene condotta l’indagine. Sulla disposizione originaria agisce un meccanismo di risposta biologica. In presenza di un qualsiasi oggetto o fatto la mente umana cerca di capire a cosa serve, da chi o da cosa è causato e, se si tratta di esseri viventi, quali siano le intenzioni dell’ideatore. Il tentativo di mettere in connessione dei fatti tramite una relazione di causa-effetto, che è riscontrabile in qualche misura anche in altri animali, è indubbiamente utile dal punto di vista evolutivo: è quello che ci ha permesso di sviluppare le nostre conoscenze, nonché di progettare e realizzare sulla loro scorta gli strumenti che ci hanno portato all’attuale livello di competenze tecnologiche.

Ora, nell’analizzare il mondo la mente umana sembra servirsi di un modulo mentale specializzato in operazioni di “ingegneria inversa” (quella che dallo studio di un oggetto ne ricostruire il progetto). È un percorso che di norma funziona. Spesso però le urgenze legate alla sopravvivenza impongono al nostro cervello di trovare soluzioni rapide: e allora ricorriamo a scorciatoie “euristiche” che in molti casi portano a conclusioni sbagliate.

Se infatti la ricerca delle cause o delle intenzioni non offre spiegazioni logiche soddisfacenti (o ne offre di troppo complesse, magari al di fuori della nostra portata o del nostro livello di conoscenze) finiamo per tagliare corto, sconfinando dall’ambito del razionale e del dimostrabile, e immaginarne di fantasiose che ci fanno presumere di aver trovato una risposta senza eccessivo sforzo. Questo vale naturalmente tanto più per gli accadimenti: di fronte a fatti o situazioni, siano essi reali o presunti, rispetto ai quali non possediamo gli strumenti per individuare connessioni logiche, l’idea che ci sia qualcuno che congiura per fini poco chiari risolve a basso costo il problema e maschera a noi stessi la nostra ignoranza.

Questo è il vero discrimine. Il sospetto è infatti costituzionalmente e direttamente proporzionale all’ignoranza: ma ha una funzione positiva quando opera nella consapevolezza di questa ignoranza, quando cioè ci motiva a superarla facendo uno sforzo conoscitivo: mentre opera negativamente quando ci crea la presunzione di avere già tutte le spiegazioni in mano, magari con l’avallo di una condivisione diffusa (il famigerato: se lo pensano tanti, qualche motivo ci sarà).

Senza altri giri di parole, quando da metodo d’indagine (quindi da motivatore della domanda) il sospetto diventa una componente fissa della risposta, tutta la sua valenza conoscitiva va a farsi benedire: anzi, si traduce in zavorra, e spegne la nostra sete di verità con un surrogato velenoso e paralizzante.

Il complottismo è dunque il prodotto di scarto di una normale funzione della nostra mente: e non sarebbe di per sé eccessivamente preoccupante (in ogni processo produttivo ci sono disfunzioni), non fosse che l’errore sta diventando la norma, sta dilagando, e in una società pressapochista come la nostra comincia ad essere omologato per buono. In realtà, anche in un’ottica grettamente “economicistica” non andrebbe condannato solo perché è una “perversione” di un processo mentale corretto, ma anche perché in termini “evolutivi” non funziona affatto (se non per coloro che ci marciano). Offrendo spiegazioni scorrette dei problemi non consente di affrontarli in maniera efficace, e ne crea anzi di ulteriori.

Ne sanno qualcosa tutti quei poteri, più o meno occulti, che da sempre hanno usato le teorie del complotto per scaricare su gruppi sociali, etnici o religiosi, o su poveracci designati comunque come capri espiatori, le proprie responsabilità e nequizie. La cosa vale ancor più oggi, per quei complotti cosmici di cui è popolato Internet e che rimangono misteriosi e insondabili perché hanno la stessa caratteristica che Simmel attribuiva al segreto, il quale segreto è tanto più potente e seducente quanto più è vuoto. Un segreto vuoto si erge minaccioso e non può essere né svelato né contestato, e proprio per questo diventa strumento di potere.

La differenza sta semmai nel fatto che un tempo la sindrome complottista poteva trovare una parziale giustificazione nella difficoltà per la stragrande maggioranza di accedere a conoscenze e informazioni corrette. E che comunque viaggiava sotterranea, salvi sporadici momenti di esplosione, in genere creati ad arte da chi teneva le fila. Oggi non ha più diritto ad alcuna giustificazione del genere (ma nemmeno la cerca): oggi è solo frutto di una ignoranza presuntuosa e proterva, che ambisce a farsi massa e norma, che rivendica una sempre maggiore visibilità e che trasferisce su misteriose forze occulte la paura e il disprezzo che prova quando si guarda allo specchio.

Il Valium dei popoli

Da tempo vedo con crescente insofferenza ricorrere gli indizi della nascita di una “religione laica”. Mi disturba anche il fatto che siano poche le persone provviste di una certa cultura che manifestano apertamente la loro preoccupazione al riguardo. Eppure i segnali sono molti, e per coglierli è sufficiente sfogliare i giornali o assistere a qualche trasmissione televisiva con un po’ di spirito critico.

La biologia ci insegna che ogni nicchia ecologica libera viene invariabilmente colonizzata da qualche nuova specie. Allo stesso modo, evidentemente, anche nella società a tecnologia avanzata la perdita di consenso e di credito delle religioni tradizionali ha creato un vuoto, e questo vuoto viene occupato o da un edonismo sfrenato oppure, fra quelli che per indole o cultura cercano risposte meno insignificanti, da comportamenti che finiscono per assumere la forma e i contenuti di una “religione laica”.

Certo, può sembrare un ossimoro una religione senza divinità, ma in questo caso il ruolo di divinità è assunto dal concetto di “ciò che è bene/ciò che è giusto”. A ben guardare, nella nuova religione laica è presente, come nelle religioni classiche, il mito dell’evento che dà inizio al nuovo regno del “bene” (declinato poi in innumerevoli versioni), compaiono figure di martiri, santi, profeti, così come dogmi e catechismi: ma, soprattutto, si forma una classe di “amministratori” dell’idea di “bene” che giudicano e pronunciano anatemi contro gli eretici.

Ora, quelli di buono/cattivo, bene/male sono concetti legati allo stato di benessere del singolo vivente. In particolare negli esseri umani il giudizio di valore dipende da emozioni e sentimenti, e non dall’esame razionale e astratto di uno stato o di un avvenimento. Se esaminiamo razionalmente un fenomeno per giudicarlo, avremo come risultato il “funziona” o “non funziona” per un determinato scopo, e non “è bene” o “è male”.

La nuova religione laica invece, come le altre religioni, ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male basando i suoi giudizi non su una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma su parametri che sono frutto di emozioni e sentimenti. E per giunta i suoi adepti pretendono che tutti si adeguino ai “sacri valori” cosi identificati.

Per il momento i depositari della “verità laica” non lanciano fatwe contro gli infedeli (o perlomeno, non esplicite. Anche se non mancano gli esempi di fanatici che leggono nella denuncia un invito alla “guerra santa”): intanto però rinnovano la tradizione dei libri “proibiti” e arrivano anche a creare un “indice” dei buoni e dei cattivi. Nel caso riportato da Paolo in Acufeni? si attengono alla lettera della Bibbia, facendo ricadere su nipoti e pronipoti colpe degli avi che sembravano dimenticate. Ma ancora più grave è che si discuta di leggi che stabiliscono quali sono i modi giusti di pensare. Anzi, alcune di queste leggi esistono già, e sono ispirate ad una concezione molto ambigua di ciò che va considerato “politicamente corretto”.

Qui bisogna intenderci. La correttezza è senz’altro una gran bella cosa. Se fosse esercitata da tutti in tutte le funzioni e all’interno di ogni tipo di relazione risolverebbe d’incanto metà dei problemi dell’umanità. Sappiamo però, purtroppo, di non poterci contare, e infatti le cose vanno come vanno. È dunque giusto cercare là dove possibile di salvaguardarla. Ma sappiamo anche che imporla per legge è assurdo, è una attitudine che va educata (e spesso non basta nemmeno questo, prevalgono le disfunzioni caratteriali) e tutto in questo mondo liquido sembra congiurare invece a diseducarla.

Quindi, i problemi in questo caso sono due, e vanno affrontati in maniera diversa. Il primo è quello di chiarire che la correttezza non sta nel modo in cui si pensa, ma nel modo in cui si manifesta e si professa il proprio pensiero. Di stabilire cioè che ciascuno è libero di pensarla come vuole, purché poi, all’atto pratico, questo pensiero non si traduca in una prassi che offende o danneggia gli altri. Ma questo implica a sua volta reciprocità, e cioè che nessuno si senta offeso per il solo fatto che altri la pensino diversamente da lui. Che è invece proprio il caso dei “nuovi credenti”. L’altro problema, questo si necessitante di leggi e normative chiare e severe, è semmai quello di contenere le manifestazioni di scorrettezza davvero eclatanti, offensive e dannose, quelle che sono il pane quotidiano delle trasmissioni televisive, delle quali si nutre la stampa scandalistica, che costituiscono ormai la regola nei comportamenti diffusi, ad ogni livello, e delle quali pare invece non si scandalizzi più nessuno.

A tali comportamenti si aggiungono ora le liste di proscrizione, le statue abbattute, le teorie del complotto, i libri per il momento solo segnalati ma domani eventualmente destinati al rogo, magari assieme ai loro autori. Chissà perché, tutto questo mi suona come un “già visto”, se non da me personalmente senz’altro da chi è venuto appena prima di me, nemmeno troppo tempo fa. E penso che oggi sia più che mai necessario ribadire e difendere i principi dell’illuminismo, ricordando quanto diceva Kant: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.

Questa si chiama correttezza!

Il buono e il cattivo, l’utile e il dannoso

Sul tema della morale, così come sugli altri cui sopra ho accennato, mi riservo di tornare con calma in un’altra occasione. Voglio però anticipare alcune brevi considerazioni, che utilizzerò come fossero dei postulati per sviluppare il ragionamento successivo. Sono considerazioni che nascono da ricerche ormai consolidate, e possono quindi essere proficuamente adottate per analizzare la realtà complessa delle nostre società. In ottemperanza a quanto scritto sopra, non hanno la pretesa di costituire delle “verità” definitivamente conquistate. Le considero “strumenti affidabili di lavoro” per avvicinarmi ad una maggiore conoscenza (ed autocoscienza).

1. Credo possiamo tutti concordare nel definire l’uomo un animale social-culturale la cui sopravvivenza è legata alla convivenza collaborativa, alla cultura e alla sua trasmissione. Esperienze alla Thoreau (o alla Rambo) presuppongono il possesso di strumenti più o meno sofisticati, conoscenze e addestramento prodotti di una cultura che può essere frutto solo di una società complessa, quindi patrimonio di tutti e non del singolo individuo.

2. Un’altra considerazione da fare è che, in natura, bene/male giusto/ingiusto sono etichette soggettive di valore che applichiamo a qualcosa che funziona o non funziona. Il valore può essere misurato sul tornaconto immediato dell’individuo o su un vantaggio per il gruppo, più indiretto, ma di efficacia maggiore nel tempo. Rubare la cacciagione ad un membro del mio gruppo nell’immediato funziona, ma funziona meglio nel tempo la capacità di collaborare nella caccia per renderla più redditizia dividendo equamente le prede.

3. La morale è il risultato dell’evoluzione. Già i batteri mostrano un comportamento che, se non sapessimo di trovarci di fronte a unicellulari, quindi esseri privi di una mente e di un cervello, potremmo interpretare come regolato da principi morali1. Anche il nematode Caenorhabditis elegans mostra in alcuni casi un comportamento cooperativo, grazie a due neuroni che, eliminati, trasformano il nematode in un individuo non cooperativo (cfr. Steven Rose – Il cervello del XXI secolo).

4. Ovviamente, anche in organismi evoluti in tempi più recenti si manifesta il comportamento collaborativo, in particolare nell’uomo. La valutazione, automatica, di funzionalità per il singolo e per il gruppo che attribuiamo ai comportamenti cooperativi (un giudizio di valore in senso biologico, secondo Michael Tomasello), diventa il fondamento dei nostri giudizi morali2\. Anche Jonathan Haidt afferma che le intuizioni morali avvengono in modo automatico e inconscio: la ragione funziona poi come un “avvocato” che giustifica la scelta fatta. Fortunatamente a certe condizioni la ragione riesce a fare qualche revisione: “la natura umana non solo è intrinsecamente morale: è anche intrinsecamente moralistica”. Insomma, la morale è a un tempo stesso innata (un insieme di intuizioni evolute) e appresa (i bambini imparano ad applicare queste intuizioni all’interno di una particolare cultura).

5. Il processo che ci ha portato ad una morale tipicamente umana si ipotizza sia iniziato circa due milioni di anni fa, procedendo in una sorta di “autodomesticazione”. Sempre secondo Tomasello (in Storia naturale della morale umana), negli ultimi due milioni di anni gli appartenenti al genere Homo hanno sviluppato una “morale della simpatia” (o altruismo di parentela) che condividono con le altre grandi scimmie, mentre partendo da circa 400.000 anni fa hanno sviluppato la “morale della seconda persona” (o altruismo reciproco), che è già un gradino più complessa. Negli ultimi 150.000 poi, con la crescita della popolazione e il passaggio ad un’organizzazione tribale più ampia, fatta di diversi gruppi che dovevano estendere una qualche forma di collaborazione (ad esempio, a scopo di difesa), hanno sviluppato quella che è definita “morale oggettiva” (impersonale), che si applica in un ambito allargato, teoricamente a tutti i propri simili. Le relazioni non sono più limitate al piccolo gruppo di cacciatori (max 150 persone) regolato da rapporti interpersonali diretti: si rende necessario collaborare con altri gruppi con la stessa cultura, con cui si condividono regole di comportamento riconosciute come “il modo giusto di fare le cose”. Su questa strada, in una progressione geometrica a partire dalle società agricole, utilizzando sistemi di comunicazione evoluti, attraverso racconti, miti, religioni, istituzioni varie, l’umanità si è dotata di un insieme di norme che regolano i rapporti non solo tra gli appartenenti al gruppo ma tra tutti gli uomini.

6. La “morale della simpatia” e la “morale della seconda persona”, selezionate evolutivamente, hanno lasciato tracce genetiche che condizionano lo sviluppo del cervello, ciò che probabilmente fanno anche alcuni aspetti della “morale oggettiva”. Altri aspetti della morale dei nostri tempi sono costruzioni puramente culturali3. La nostra “mente della moralità” utilizza strumenti che definiamo “senso di equità, di obbligo, di colpa” “mantenimento della reputazione sociale”. La critica aperta e anche il pettegolezzo sono da sempre usati per censurare comportamenti scorretti: assolvono ad un ruolo educativo nei confronti di chi partecipa o assiste alla discussione.

7. Lo sviluppo del cervello è frutto della genetica e dell’ambiente e, nell’uomo, prosegue fin oltre i 20 anni; ma anche dopo le connessioni tra i vari neuroni continuano a modificarsi (il cervello umano è fatto di 1011 neuroni e 1015 connessioni). I neuroni, collegati da assoni e dendriti, si organizzano in circuiti e sistemi di diversa complessità, che non si modificano solo durante lo sviluppo. Grazie alla plasticità del cervello si verificano creazioni e demolizioni di sinapsi in relazione agli stimoli. Se, per semplificare, vogliamo utilizzare il raffronto con i computer, potremmo assimilare i circuiti formati da neuroni, assoni, dendriti e sinapsi ad una CPU (e a memorie EPROM) che si aggiornano in relazione alle esperienze di vita del “proprietario” del cervello.

8. Nessuna forma di convivenza cooperativa può reggere se all’interno non funziona un meccanismo di premio punizione. Il meccanismo di ricompensa e punizione funziona all’interno di ciascun organismo e funziona anche all’interno di gruppi o società complesse basate sulla cooperazione. I procedimenti della giustizia svolgono all’interno delle società evolute una funzione assimilabile al sistema immunitario di un organismo: cercano di bloccare i comportamenti dannosi (punizione). Le società che funzionano dovrebbero essere in grado di innescare meccanismi premiali per i comportamenti virtuosi, quali la reputazione sociale, l’aumento della “fitness riproduttiva”, ecc… Di valersi cioè, ai fini della coesione sociale, dell’appagamento delle tendenze morali istintive prodottesi nel corso dell’evoluzione.

Per il momento è tutto. Credo però sia già sufficiente ad offrire qualche elemento di riflessione. Per cominciare, a farci capire che dietro il complottismo o l’integralismo dei neo-convertiti non c’è un super-complotto. Ci sono solo cervelli in panne, o sottoalimentati. Purtroppo questa constatazione non ci consola. Le fonti energetiche per i cervelli si vanno prosciugando, e al di sotto un certo limite non sono rinnovabili. E forse quel limite lo abbiamo già superato. 

Note

1 «Nella dinamica sociale complessa, se pure priva di mente, da essi creata i batteri possono cooperare con altri batteri, imparentati o meno dal punto di vista genomico. E nella loro esistenza priva di mente risulta che assumono addirittura quella che si può soltanto definire una sorta di «attitudine morale». I membri più stretti di un gruppo sociale – una famiglia, per così dire – si identificano reciprocamente grazie alle molecole di superficie che producono o alle sostanze che secernono, le quali sono a loro volta specificate dai loro genomi individuali. Ma i gruppi di batteri devono fronteggiare l’avversità dell’ambiente e devono spesso competere con altri gruppi per conquistare territorio e risorse. Affinché un gruppo abbia successo, i suoi membri devono cooperare. E ciò che può succedere durante lo sforzo di gruppo è affascinante. Quando individuano nel loro gruppo dei «disertori», vale a dire particolari membri che si sottraggono al compito della difesa, i batteri li emarginano, persino se sono imparentati dal punto di vista genomico e fanno quindi parte della loro famiglia. I batteri non coopereranno con batteri imparentati che non svolgono la propria parte e che non contribuiscono agli sforzi del gruppo; in parole povere, ignorano i batteri voltagabbana non cooperativi». (Antonio Damasio – Lo strano ordine delle cose – Adelphi ed.)

2 «I complicati meccanismi neurali in cui sono implicate le molecole associate al «valore» rappresentano un tema importante, su cui molti neuroscienziati sono oggi impegnati a far luce. Che cosa induce i nuclei a liberare quelle molecole? Dove sono liberate, precisamente, nel cervello e nel resto del corpo? Che cosa accade con la loro liberazione? In un modo o nell’altro, le discussioni sulle nuove affascinanti scoperte tradiscono le nostre aspettative proprio quando passiamo alla domanda fondamentale: Dove si trova il motore dei sistemi del valore? Qual è il primordio biologico del valore? In altre parole, che cosa mette in moto questo sofisticatissimo macchinario? Perché esso ebbe inizio? E perché è diventato quello che è diventato?
Senz’ombra di dubbio, le note molecole e i loro nuclei di origine sono componenti importanti del meccanismo del valore, ma non sono* la risposta alle nostre domande. Io considero il valore indissolubilmente legato al bisogno, e il bisogno alla vita. Nelle quotidiane attività sociali e culturali noi formuliamo valutazioni che hanno una connessione diretta o indiretta con l’omeostasi.
Quella connessione spiega perché i circuiti del cervello umano siano stati dedicati in modo tanto dispendioso non solo alla previsione e al rilevamento di perdite e guadagni, ma anche al timore delle prime e alla promozione dei secondi. Ciò spiega, in altre parole, perché gli esseri umani siano ossessionati dall’assegnazione di un valore.
Direttamente o indirettamente, il valore ha a che fare con la sopravvivenza; in particolare, nel caso degli esseri umani, ha a che fare anche con la qualità di quella sopravvivenza, nella forma di benessere. Il concetto di sopravvivenza – e, per estensione, il concetto di valore biologico – può essere applicato a diverse entità biologiche, a partire dalle molecole e dai geni fino a interi organismi.» (Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi ed.)

3 «Innanzi tutto, la selezione opera su migliaia di generazioni. Per il novanta per cento dell’esistenza umana, gli uomini hanno vissuto da cacciatori e raccoglitori in piccole bande nomadi. I nostri cervelli sono adattati a quel modo di vivere morto e sepolto, non alle nuove civiltà agricole e industriali. Non sono programmati per far fronte a folle anonime, alla scuola, alla lingua scritta, al governo, alla polizia, ai tribunali, agli eserciti, alla medicina moderna, alle istituzioni sociali ufficiali, all’alta tecnologia e altri nuovi venuti nell’esperienza umana. E poiché la mente moderna è adattata all’età della pietra, non a quella del computer, non c’è alcun bisogno di sforzarsi di trovare spiegazioni adattive di tutto quanto facciamo. Nel nostro ambiente ancestrale non c’erano le istituzioni che oggi ci spingono a scelte non-adattive, come gli ordini religiosi, le agenzie di adozione e le società farmaceutiche, quindi fino a tempi recentissimi non c’è mai stata una pressione della selezione a resistere a quegli stimoli.» (Steven Pinker – Come funziona la mente – Castelvecchi ed)