Il lato sinistro della storia3

(parte terza)

di Paolo Repetto, 6 aprile 2022

Da questo punto in poi mi avventuro in un racconto che paradossalmente, pur concernendo epoche sempre più vicine alla nostra, e quindi conoscenze relativamente più concrete, lascia maggiore spazio a interpretazioni già orientate o orientative. Intendo dire che la paleontologia e l’antropologia, a differenza delle scienze biologiche, concedono ampi margini alle letture “ideologizzanti”, ciò che riesce evidente dal persistere oggi ancora dell’annoso dibattito sulla “natura umana”. Cercherò di mantenermi per quanto possibile al margine di questo dibattito, basandomi sui dati di fatto piuttosto che sulle ricostruzioni edeniche o bestiali della nostra preistoria. Ma proprio l’aumento esponenziale dei dati, e delle relative interpretazioni che possono esserne desunte, mi costringe a questo punto a procedere per successive “scelte di campo”. Credo sia importante dunque che, trattandosi di un lavoro che ha non ha alcuna velleità “scientifica”, queste risultino quantomeno chiare.

3.4 Creare

L’uomo ha dunque esplorato tutte le strategie per garantirsi la sopravvivenza, e per farlo si è dotato degli strumenti opportuni. Lo ha fatto, come abbiamo visto, cominciando con l’emancipare alcune parti del suo corpo dalle loro originarie funzioni istintuali. Ma se già la possibilità di fare qualcosa con gli arti superiori mentre quelli inferiori compivano un movimento diverso favoriva lo sviluppo cerebrale, in quanto esigeva che più sistemi di controllo si attivassero in contemporanea, è stata però la creazione di utensili, il passaggio cioè alla “tecnica”, a spingere verso una qualità del pensiero (e della vita) radicalmente diversa.

La tecnica era per la mitologia antica un dono di Prometeo (da pro-mathéin, aver pensato prima): il regalo di un cervello che “pensa prima”, che “pensa più veloce”. Come sempre, il mito ci offre la sintesi e la spiegazione più efficaci di quanto è effettivamente accaduto. Il volume cerebrale degli umani, e quindi la loro capacità di risposta adattiva, cresce in concomitanza proprio con la produzione dei primi strumenti litici. La nascita della tecnica segna infatti l’avvento di un pensiero mirato ad uno scopo. Creare uno strumento significa prefigurare una situazione nella quale quello strumento potrà tornare utile: quindi programmare, e insieme immaginare. Immaginare ad esempio di poter incontrare nella savana, lontano da vie di fuga o da alberi su cui rifugiarsi, dei predatori, e procurare di essere sempre attrezzati alla difesa, scegliendo nodosi bastoni e scheggiando pietre per renderle taglienti, e magari innestando queste ultime sui bastoni.

Significa anche però imboccare una direzione “lineare obbligata”: l’uscita per la tangente dal ciclo dell’eterno ritorno. (uso questa formula nella consapevolezza che si tratta solo di una percezione e di una convenzione filosofico-letteraria, perché nella realtà sui tempi lunghi in natura nulla torna mai eguale a se stesso). La “cultura” indotta dalla tecnica diventa la specializzazione (oserei dire, la “specificità”) dell’uomo, ed è qualcosa che ridisegna totalmente sia le modalità che i tempi evolutivi. Per quanto lunghissimi, estremamente diluiti nel tempo e dispersi nello spazio, i passaggi sono ormai percettibili (naturalmente, a posteriori). I più antichi manufatti umani, costituiti da ciottoli scheggiati su una sola faccia (chopper), oppure a scheggiatura alterna o multidirezionale, compaiono in Africa a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, accanto ai resti fossili di Homo habilis, e sono ascrivibili alla più primitiva tecnologia litica, quella Olduvaiana. Un milione e quattrocentomila anni fa, sempre in Africa, associata stavolta ad Homo erectus, si affermala cultura Acheuleana, caratterizzata dalla produzione di utensili scheggiati su entrambi i lati in modo simmetrico (le amigdale, o bifacciali). In ultimo, verso la fine del Paleolitico inferiore, attorno a trecentomila anni fa, si diffonde in Europa la scheggiatura Levallois, che consente la fabbricazione di strumenti più vari e specializzati.

A quel punto per sopravvivere gli uomini sono già totalmente dipendenti dalla tecnica: prima di tutto dal controllo del fuoco e dal suo utilizzo come arma di difesa contro i predatori e per cuocere i cibi e riscaldarsi. E se gli utensili creati dall’erectus e dell’habilis erano rimasti pressoché inalterati per centinaia di migliaia di anni, con una evoluzione quasi impercettibile, dopo l’avvento dell’Homo sapiens il ritmo delle innovazioni conosce una progressione costante: un milione di anni separano i primi choppers dell’olduvaiano dalle amigdale dell’ acheuleano e mezzo milione queste ultime dai veri e propri attrezzi in pietra e legno del Musteriano, ma tra la pietra levigata e le tecniche più sofisticate dell’arco e degli attrezzi per colpire a distanza ne intercorrono meno di centomila. Di qui in poi le rivoluzioni si succedono con frequenze sempre più ravvicinate: dopo l’arco l’agricoltura, la domesticazione degli animali, la lavorazione dei metalli, la scrittura, la ruota, eccetera. Senza dimenticare, fondamentale, l’approdo ad una comunicazione verbale compiutamente strutturata. Tutto questo mentre, come abbiamo già visto, la base biologica del Sapiens e la sua anatomia rimangono in quegli ultimi centomila anni praticamente invariate.

Nello stesso periodo muta invece radicalmente la sua attitudine mentale: muta nei confronti dell’ambiente in cui è immerso, della natura, perché la progettualità implica un atteggiamento intrusivo, oltre che una percezione “temporalizzata”: ma muta anche nei confronti di chi lo circonda, dei suoi simili come degli altri ominidi e degli animali coi quali ha una parentela più o meno più o meno prossima: nonché nei confronti di se stesso. Si sviluppa una “coevoluzione” che riguarda in primo luogo il rapporto tra l’azione tattile e la facoltà del linguaggio. “Mani e parole sono, in primo luogo forme di intervento che modificano il contesto in cui si insediano. Hanno un impatto ecologico tale da richiedere spesso un’azione ulteriore dal carattere intrinsecamente ambivalente: sono riparazione, poiché cercano di rimediare al cambiamento provocato (ad esempio l’estinzione delle prede cacciate o l’impoverimento del terreno sfruttato attraverso l’agricoltura); sono ancora invasione poiché l’intervento umano (l’allevamento, oggi l’uso di fertilizzanti) non può non avere un effetto antropico, non può non comportare un cambiamento dell’ambiente a immagine e somiglianza dell’Homo sapiens.[1]

Il mondo non viene più dunque semplicemente vissuto dal sapiens, e passivamente subito, ma è indagato e saccheggiato e ricreato[2]. Il primo mutamento riguarda la curiosità nei confronti dell’ambiente. La curiosità è propria di ogni organismo animale, ma nella forma propriamente “conoscitiva” appartiene solo alle specie evolutivamente più complesse, e in quella performativa soltanto all’uomo. L’uomo è l’unico animale in grado di prevedere o quantomeno immaginare le conseguenze di una determinata azione: e quindi di pianificare il futuro, e di compiere all’occorrenza scelte che possono anche mettere in forse la sua sopravvivenza, andando contro i dettami dell’istinto, ma valutando o auspicandosi possibili futuri vantaggi. Questa capacità di costruire o immaginare situazioni alternative, di sganciarsi dal qui e ora, spiega la progressiva e inarrestabile diffusione della specie umana in ogni angolo del globo. Le migrazioni dei primi ominidi sono avvenute certamente sotto la spinta dei mutamenti ambientali, dell’ esaurimento delle risorse o delle pressioni esercitate da gruppi di consimili: ma sono state rese possibili dall’incredibile capacità di adattamento che la specie ha dimostrato in ogni condizione, dalle soluzioni tecniche e culturali che è stata capace di escogitare, e soprattutto, direi, dallo spazio mentale consentito alla funzione immaginativa, che diventava stimolo a esplorare e conoscere quel che c’era oltre l’orizzonte. Non si spiegherebbero altrimenti imprese incredibili come quelle degli ominidi che cinquantamila anni fa attraversarono bracci larghissimi di mare per approdare in Australia, o lande ghiacciate per passare sul continente americano.

Al di là degli spostamenti, però, ad essere percepita in maniera diversa è innanzitutto la quotidianità. I primi strumenti usati dai nostri antenati per raggiungere i loro obiettivi erano oggetti naturali: pietre, bastoni, ossi, ecc… Né più né meno come accade per altri animali, e particolarmente per i primati superiori. L’uso che ne facevano era immediato e spontaneo: si servivano della prima cosa che capitava loro a tiro. Dal momento però in cui questi oggetti hanno cominciato ad essere lavorati e adattati in vista di una ipotetica necessità futura, sono stati proiettati un contesto “culturale” che andava a sovrapporsi a quello naturale, a trascenderlo. Il discrimine sta proprio a questo punto: negli umani il ricorso allo strumento non rimane occasionale e dettato dal bisogno immediato, ma diventa consapevolezza della possibilità di un uso alternativo di fronte alle molteplici incognite ambientali, e questa consapevolezza continua ad essere presente alla memoria anche in assenza dell’occasione di applicarla. Diventa cioè funzionale ad una possibile strategia, nella quale finiscono per combinarsi diverse opportunità. L’uomo si scopre capace non solo di sfruttare l’occasione, ma di cercarla o di crearla. Acquisisce una coscienza temporale che non ricorda solo dei fatti, ma ricostruisce degli eventi, collocandoli nel passato o nel futuro.

3.5 Specchiarsi

Contrariamente all’immagine stereotipa dei nostri progenitori come cacciatori, l’economia dei primi ominidi era basata sulla raccolta itinerante di frutti e radici e sullo spolpamento delle carcasse lasciate dai grandi carnivori[3]. In un inseguimento era più probabile che recitassero la parte della preda. Ora, l’economia di raccolta comportava l’esplorazione di ampie distese poco alberate, nelle quali la postura eretta consentiva di muoversi più rapidamente e soprattutto di mantenere un maggiore campo visivo, per evitare i predatori. Essere però a propria volta più visibili esponeva a grossi rischi. Muoversi isolati era estremamente pericoloso, per cui divenne di vitale importanza rimanere in contatto visivo con altri membri del gruppo, sviluppare legami stabili tra i membri della comunità e progredire di conseguenza verso un’organizzazione sociale più articolata[4].

L’altro cambiamento fondamentale concerne dunque il rapporto con i propri simili. L’aiuto reciproco era imposto da necessità immediate di sicurezza e di sopravvivenza, cosa che accade del resto anche per i banchi di pesci o per le società degli insetti: ma gli umani non si sono fermati al livello della pura associazione istintuale. Per cooperare su progetti sganciati dalle ricorrenze e dai ritmi naturali era indispensabile che tra i diversi attori si aprisse un credito reciproco di fiducia: ciò che implicava il riconoscimento degli altri come propri simili[5]. Si scopriva cioè l’umanità altrui (anche se questo credito non va sopravvalutato, perché in un primo momento era riservato solo ai membri del proprio gruppo o della propria tribù). Questo riconoscimento non rimaneva confinato alla superficie. Scendeva in profondità, e portava ad attribuire agli altri le stesse intenzioni che animano noi: quindi ad accoglierne, o quanto meno a interpretarne, anche il punto di vista.

Ma quali meccanismi sono entrati in gioco perché tutto questo accadesse?

Per cooperare, si diceva sopra, è necessario agire in sintonia con gli altri: cogliere le loro intenzionalità, vedendoci agire al loro posto, così come essi cercheranno di cogliere le nostre. Oggi sappiamo che la nostra capacità empatica, la nostra compartecipazione e comprensione dell’altro scaturisce da una predisposizione presente in qualche maniera in noi sin dalla nascita, su base neurale. Che insomma la radice di questa sintonia è biologica, mentre gli sviluppi sono poi culturali: e lo sappiamo grazie alla recente individuazione dei neuroni specchio.

La scoperta non è avvenuta casualmente: da tempo si cercava di dare una spiegazione scientifica ad un meccanismo mimetico che era già stato individuato come esplicativo dei comportamenti animali da etologi ed antropologi (ad esempio da Konrad Lorenz, o da René Girard – ma prima ancora era stato genialmente anticipato da Giovanbattista Vico, e da Schopenhauer[6]). Del tutto casuali sono state invece le circostanze, una serie di test effettati sui macachi per studiare i meccanismi di attivazione cerebrale in corrispondenza di particolari azioni. In sostanza, si è scoperto che in alcune aree del cervello (denominate F5 e F4) operano dei neuroni che si attivano sia quando il soggetto compie un’azione che quando osserva altri individui compiere la stessa azione. Essi riflettono cioè direttamente nel cervello dell’osservatore le azioni realizzate dagli altri, ma anche da sé (per questo sono definiti neuroni specchio). E il meccanismo è attivo non solo nei primati o più in generale nei mammiferi, ma anche in altre classi dei vertebrati, sicuramente, ad esempio, negli uccelli.

Negli altri animali però i neuroni specchio non sono attivati da qualsiasi tipo di azione: lo sono, di norma, solo da quelle transitive (cioè rivolte a o ricadenti su un altro oggetto), quelle la cui intenzionalità è palese e immediata. Ciò non vale per l’uomo: nel sistema neuronale umano il sistema specchio non si attiva solo in presenza di azioni transitive (e in molti casi anche intransitive), ma si estende anche a quelle semplicemente mimate. Questo significa che il cervello umano è in grado di selezionare non solo rispetto alla tipologia di azione, ma anche rispetto alla sequenza di movimenti dai quali essa è composta. E può farlo perché ha una coscienza “diretta” di quei movimenti, indotta dalla consapevolezza del proprio corpo.

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Noi siamo infatti in possesso delle conoscenze motorie che regolano le rappresentazioni coinvolte, nelle azioni esecutive come nella comprensione. Il rapporto cervello-mano non è puramente istintuale e a senso unico, ma comporta un passaggio di informazioni bidirezionale, in ingresso e in uscita. I dati (prevalentemente visivo-uditivi) che raccogliamo dal mondo esterno li trasmettiamo al circuito sensoriale-motorio, dopo però che quei dati sono stati pre-selezionati dallo stesso sistema. Vale a dire che se vedo la maniglia di una porta la prima informazione che viene trasmessa al mio cervello non è relativa all’aspetto estetico, alla fattura o ai materiali, ma al modo in cui posso afferrare la maniglia (l’esempio più ricorrente nella letteratura scientifica è quello del manico della tazzina da caffè). In automatico i miei neuroni attivano la “disposizione” ad afferrare. L’attivazione del sistema specchio non avviene dunque sulla base delle informazioni visive, ma sulla base dell’anticipazione di uno “scopo”. La percezione di un oggetto, ma più in generale tutte le caratteristiche oggettive di un ambiente, ci inducono automaticamente ad agire in maniera appropriata rispetto a quell’ambiente o a quell’oggetto: che significa anche, a volte, non agire affatto.

Noi dunque istintivamente “sappiamo” cosa sta alla base di determinate azioni, nel senso che abbiamo una istintiva conoscenza del loro stretto rapporto con particolari stati mentali. Diamo quindi alle azioni compiute da un’altra persona un significato che si basa su ciò che abbiamo in mente noi quando compiamo la stessa azione. Ciò naturalmente vale anche per come sono interpretate le nostre azioni agli occhi degli altri. Ovviamente gli stimoli esterni vengono riconosciuti e compresi dall’osservatore solo se il modo in cui si configurano fa parte del suo bagaglio sensoriale-motorio. Certe azioni o comportamenti che sono peculiari di altre specie o ordini animali non attivano nell’uomo alcuna risposta neuronale, se non quella della pura percezione visiva. La attivano invece, e segnatamente, anche le espressioni facciali e le azioni comunicative dei suoi conspecifici. In altre parole, siamo in grado di partecipare delle stesse emozioni degli altri, in quanto la percezione delle emozioni di base negli altri coinvolge le stesse strutture cerebrali che si attivano quando esprimiamo le nostre.

A questo punto dovrebbe essere più o meno chiaro come sia possibile per l’essere umano comprendere le intenzioni e le emozioni altrui: e come, magari, proprio riflettendosi in questo specchio, sia pervenuto a prendere piena coscienza di sé, e di conseguenza possa aver sviluppato la capacità di pensare e di agire in sintonia con altri. Di dare vita, in sostanza, a forme di comunità e di socialità dapprima elementari e poi via via più complesse.

Il gruppo (in un secondo momento, la tribù) è una società cooperativa, ma a differenza di quelle che caratterizzano altre specie o altri ordini non è tale solo per via di una determinazione genetica. Nasce da una scelta, sia pure utilitaristica. Ci si associa “volontariamente” in funzione di un progetto comune, che va dalla battuta di caccia o di raccolta alla coabitazione ai fini della difesa. Molti occhi vedono anche ciò che può sfuggire a un paio d’occhi, e molti individui hanno un potere di dissuasione anche nei confronti di un aggressore temibile[7].

3.6 Comunicare

Per socializzare, e tanto più per programmare in gruppo, è però necessario comunicare. Anche gli animali comunicano, ma i segnali che inviano, indipendentemente dal loro livello di complessità, sono risposte meccaniche alle situazioni che stanno effettivamente vivendo (per loro si parla di una “cultura episodica”). Gli scimpanzé non convocano riunioni condominiali per il giorno o per la settimana seguenti, così come non si attrezzano di armi o altri bagagli in vista di uno spostamento. Reagiscono d’istinto, in maniera se vogliamo astuta, ma non programmano[8].

Gli umani, al contrario, sono in grado di sganciarsi dal presente e di proiettarsi a piacere nel tempo, ovvero nel passato e nel futuro, e nello spazio, di prefigurare situazioni a venire partendo dalle esperienze cumulate nel passato. Più o meno coscientemente, comunque non solo istintivamente, programmano il loro avvenire. Facendo però riferimento a situazioni, emozioni, accadimenti e oggetti che non sono qui e ora, gli umani entrano in una dimensione astratta, che può essere evocata solo in termini simbolici. E a questa dimensione astratta chiamano a partecipare i loro simili, introducendo una modalità di comunicazione non più limitata ai segnali essenziali. È questo che autorizza a parlare solo per la nostra specie di un vero e proprio linguaggio. “Non diversamente dalle scimmie antropomorfe, come oranghi e scimpanzé, anche i nostri antenati erano esseri sociali capaci di risolvere problemi grazie al pensiero. Ma erano in competizione fra loro e miravano soltanto ai propri scopi individuali. Quando i cambiamenti ambientali li costrinsero a condizioni di vita più cooperative, dovettero imparare a coordinare menti e azioni per perseguire obiettivi condivisi, e a comunicare i propri pensieri ai partner della collaborazione. In definitiva l’esigenza di lavorare insieme è ciò che rende possibile il linguaggio, le forme di pensiero complesse, la cultura.[9]

La creazione di un linguaggio complesso fu dunque il fattore che permise all’uomo di sganciare il legame tra la tecnologia e la propria evoluzione biologica. Le tecniche di costruzione e le modalità d’uso di strumenti semplici potevano essere apprese per semplice imitazione, ma di fronte all’imprevedibilità degli ambienti sempre nuovi guadagnati nelle migrazioni o di quelli consueti trasformati dalle variazioni climatiche dovevano essere aggiornate e trasmesse attraverso uno scambio di informazioni più costante e completo. L’evoluzione culturale esce dalla sua lunghissima fase di decollo e si alza in volo quando lo scambio non è più solo materiale (partecipazione collettiva alla caccia o eventuale spartizione dei frutti della raccolta), ma diventa immateriale, diventa scambio di informazioni. Di qualsiasi tipo. Questo scambio non ha più a che fare con la biologia: anzi, il suo effetto è semmai quello di rallentare l’azione selettiva della natura. Attraverso lo scambio di informazioni, anche i meno adatti hanno delle chanches di sopravvivenza. La conoscenza è un’arma sganciata dalla fisicità. Questo probabilmente spiega l’invarianza anatomica del sapiens negli ultimi centomila anni.

La forma primordiale di linguaggio (il protolinguaggio attribuito all’Homo erectus) era quella gestuale, mimetica, che passa appunto principalmente attraverso le mani, ma non solo, e utilizza modalità espressive visivo-motorie per dare una rappresentazione della realtà, o per costruirne una. Ora, questo passaggio non è indifferente. A ben considerare ci dice due cose importanti: la prima è che esiste una continuità tra le nostre capacità espressive e quelle di altre specie (anche le scimmie praticano forme elementari di comunicazione mimetica), ovvero che non c’è stato un salto, ma una evoluzione; la seconda è che l’avvento del linguaggio simbolico non è subordinato al carattere fonico della verbalizzazione. Anche il linguaggio dei segni è infatti soggetto nel tempo ad una semplificazione che poco conserva dell’originario rapporto mimetico con la realtà che si vuole rappresentare. In qualche misura ha già una valenza simbolica.

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Questa seconda informazione è a mio parere in diretto rapporto col tema delle dominanze dei due emisferi. La comunicazione mimetica passa infatti per i gesti della danza, per la mimica del linguaggio corporeo o del rito, per alcune forme di musica: ovvero per tutto ciò che rientra nel dominio di competenza dell’emisfero destro[10]. A rigor di termini, non è simbolica, ma iconica: nella sua funzione descrittiva, la natura combinatoria dei gesti e delle espressioni deve rispecchiare quella degli eventi descritti. Il margine consentito all’arbitrarietà è ancora molto ristretto. È invece questo a caratterizzare la comunicazione verbale: tranne i rarissimi casi nei quali si può risalire ad una origine onomatopeica, i suoni non hanno alcuna relazione diretta con gli oggetti o le azioni che designano. La comunicazione verbale è, almeno in questo senso, totalmente astratta e arbitraria. Anche se, naturalmente, non è indipendente da vincoli di carattere neurofisiologico e dall’ organizzazione anatomica della fonazione[11].

Quella gestuale-mimetica è stata dunque solo una tappa intermedia. Con ogni probabilità lo strumento vocale l’ha inizialmente affiancata per rispondere alle necessità di una comunicazione notturna, o comunque al di fuori della portata visiva, per la presenza di ostacoli o di macchie d’alberi. Solo molto più tardi l’ha soppiantata (non del tutto, però, in quanto gestualità ed espressione sono ancora una componente essenziale della comunicazione). Il salto di qualità decisivo è avvenuto solo con l’approdo ad una fonazione sintatticamente disciplinata e complessa. Questa a sua volta ha modificato il tratto vocale, coinvolgendo altre funzioni; per decodificare i segmenti linguistici, infatti, anche la percezione uditiva si è ulteriormente specializzata. Ciò è avvenuto in tempi molto recenti rispetto a quelli globali della nostra evoluzione. Ma è il percorso ad interessarci.

Se fino a qui ho parlato in termini di una evoluzione naturale della comunicazione umana, sia pure nella sua eccezionalità, a questo punto entrano invece in scena altri fattori: quelli sociali e culturali. Entra in scena la “convenzionalizzazione”. La comunicazione “mimetica” fa riferimento come si diceva ad una riconoscibilità oggettiva e immediata, alla diretta simulazione o indicazione di ciò che si vuole rappresentare. È indubbio che col tempo dalla primitiva semplicità del gesto puramente indicativo si sia approdati ad una funzione “rappresentativa”, con combinazioni in sequenza che possono formare una frase, o con la fissazione ritualizzata ad esprimere sentimenti e disposizioni particolari (i gesti di saluto, di accoglienza, di commiato, di amicizia, ecc…). Quella verbale, evidentemente, deve prescindere in toto da questa “riconoscibilità”. Può esistere solo se in qualche modo tra gli interlocutori esiste un accordo, una convenzione appunto, per cui un determinato suono, anziché un determinato segno, espressivo o gestuale, “rappresenta” l’oggetto, il luogo o l’azione cui ci si sta riferendo. Mentre il segno mostra, il suono evoca: e per evocare deve fare riferimento a qualcosa che è già presente nella mente e nella memoria di chi lo ascolta.

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3.7 Parlare

La faccenda si complica ulteriormente. La domanda che si pone ora è: come si configura precisamente il rapporto tra pensiero e linguaggio? È il primo a generare il secondo, o viceversa? Ovvero: come è possibile che il linguaggio sia in grado di trasmettere ciò che ci passa per la mente? E che fondamento comune ha, per poter essere condiviso con altri?

È difficile immaginare un accordo in merito a un qualcosa che non è presente o che ancora non esiste. È presumibile quindi che inizialmente il passaggio da un sistema iconico ad uno simbolico sia stato casuale. Possiamo ipotizzare ad esempio che un membro autorevole del gruppo abbia associato un suono specifico al segnale visivo che indicava un particolare pericolo (ciò che rientra ancora nell’ambito degli strumenti comunicativi animali). E che questo suono sia stato successivamente usato non per segnalare la presenza immediata di quel pericolo, magari di un predatore, ma per esorcizzarlo per il futuro, o per infondere coraggio rievocandone la sconfitta nel passato. Questo uso può aver dato origine ad un processo di ritualizzazione. D’altro canto, certi vocaboli, certe locuzioni, nascono ancora oggi allo stesso modo. Se durante una conversazione conio un termine nuovo, o ne uso uno già esistente traslandone il significato per esprimere una particolare situazione o emozione, e chi mi ascolta intende comunque ciò che voglio dire, qualora quel termine abbia significative caratteristiche di icasticità è possibile che venga adottato e ripetuto.

Oppure (e questa è un’ipotesi formulata non da me ma da eminenti linguisti), la transizione può essere avvenuta tramite i suoni adottati dalle madri per tranquillizzare i neonati[12]. C’è anche chi azzarda che la comunicazione verbale abbia avuto origine dai pettegolezzi tipici che nascono nei gruppi femminili. Ipotesi bizzarra, ma non del tutto inverosimile. “Se la nostra umanità dipende dal linguaggio, sono le chiacchiere della vita quotidiana a fare andare avanti il mondo, più che le perle di sapienza che possono cadere dalle labbra degli Aristotele e degli Einstein[13]. In effetti, è ipotizzabile ad esempio che, una volta domesticato anche il buio, la sera i nostri antenati sedessero attorno al fuoco, e che dai gesti e dai grugniti scambiati in quei convegni sia scaturita una forma di comunicazione linguistica che andava a incrementare la spinta alla cooperazione e alla socialità.

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Si può anche spiegare l’esistenza di tante lingue diverse. Occorre distinguere tra due livelli. Uno è quello che potremmo definire di conformità: tutti i linguaggi attingono le loro regole all’interno di una “grammatica universale”, che è frutto della selezione naturale. L’altro è quello dell’arbitrarietà, per cui ogni comunità di parlanti sceglie poi, all’interno del primo livello, proprie regole sintattiche e propri segni lessicali. E questo attiene invece ad una tradizione culturale. Tutti i bambini utilizzano in una prima fase sistemi comunicativi molto semplici, che rispondono ad uno standard pressoché comune: poi si sintonizzano sul codice particolare della comunità in cui vivono, ma questo non esclude che possano arrivare ad utilizzarne anche altri (imparare le lingue), proprio per l’esistenza di un comune sostrato. Ma questo ci porta già oltre.

Ci interessa piuttosto il passaggio precedente, quello da segno a linguaggio, che in realtà non può essere mai del tutto casuale. Può avvenire solo se la comprensione di segni nuovi (visivi o fonici che siano) è favorita da una loro lettura nel contesto: se cioè esiste già nell’ascoltatore una disposizione a “interpretare” il segno nuovo alla luce di quello che il comunicante vorrebbe dire, entro uno spettro ampio di possibilità di significato. Se cioè è in grado di attribuire a quel complesso di segnali diverse intenzionalità, desumibili dal tono di voce, ad esempio, dalle espressioni del volto o da uno stato di maggiore o minore eccitazione.

Questa disposizione di fondo può essere intesa in modi molto diversi. Si può parlare, come fanno Noam Chomsky e altri innatisti, di una “grammatica generativa” iscritta nella mente umana, di un “dispositivo” quindi, piuttosto che di una “disposizione”, di un organo di cui gli umani sono dotati al pari dei polmoni e della milza (ciò che non esclude una origine evolutiva, ma la lascia poi nel mistero, e postula comunque una discontinuità netta tra l’uomo e gli altri animali)[14]. Oppure si adotta una linea interpretativa molto più umile, quella che pone la specie umana in diretta continuità con tutte le altre, e che presenta a sua volta svariate sfumature, riconducibili poi sostanzialmente a due: una che sostiene la natura totalmente “culturalista” del linguaggio, ovvero ritiene che la comunicazione abbia sfruttato dispositivi cognitivi nati con altre finalità, e quindi si sia adattata per utilizzare quello che il cervello metteva a disposizione; l’altra che ritiene invece che il cervello e il linguaggio abbiano seguito un percorso coevolutivo, si siano cioè influenzati reciprocamente.

Nel primo caso, quello di Chomsky, si suppone chiaramente un primato del pensiero sul linguaggio: il linguaggio può esprimere il pensiero perché ne ricalca la forma. Io capisco il mio interlocutore e lui capisce me perché nelle nostre menti è presente, già a livello genetico, lo stesso modello sintattico di base, originato da una casuale e improvvisa ricombinazione delle funzioni cerebrali.

Nel secondo, quello dei culturalisti, si va nella direzione opposta: è stato il linguaggio a dettare le regole in base alle quali si articola il pensiero, e a sua volta il linguaggio risponde alle pressioni culturali provenienti dall’ambiente esterno, le raccoglie e le traduce in segni, dapprima gestuali e poi fonici, prima semplici e poi sempre più strutturati e complessi. Ciò indirizza la mente a organizzare le informazioni secondo gli schemi sbozzati dalle funzionalità percettive (vista, udito, tatto, ecc..) e messi a punto attraverso le esperienze “culturalmente” acquisite: questi schemi non hanno origine genetica, non sono dettati dall’istinto o da una modularità invariabile, ma si adeguano di volta in volta alle trasformazioni ambientali e alle necessità di risposta che queste inducono.

Nel terzo caso invece, quello del meccanismo coevolutivo, il linguaggio origina da una serie di mutamenti anatomici, fisiologici[15], che hanno creato un rapporto diverso dell’uomo con il mondo esterno, ma anche una diversa consapevolezza del proprio essere nel mondo. Dapprima denotativo, e poi comunicativo, il linguaggio diventa così strumento riflessivo. In fondo siamo costantemente impegnati in un monologo interiore, operiamo scelte continue tra le diverse pulsioni che ci agitano, e lo facciamo ponendoci domande e dandoci risposte che prescindono dall’immediatezza o meno dello stimolo. Parliamo prima con noi stessi, e solo in un secondo momento esternalizziamo, agendo o parlando, le conclusioni e le scelte cui siamo pervenuti.

Il lato sinistro della storia3 06Ma nel monologo interiore, in che lingua parliamo? Le variazioni nelle lingue dipendono quasi certamente da un utilizzo diverso dell’insieme dei meccanismi mentali, non dall’esistenza di dispositivi diversi. Per questo è importante comprendere che origine abbia il sostrato comune.

Il lato sinistro della storia3 07Il dibattito in proposito è vivacissimo, costantemente alimentato dalle scoperte paleontologiche, ma soprattutto da quelle neurofisiologiche. Non è un dibattito ozioso, perché suppone interpretazioni molto divergenti del posto dell’uomo nella natura, dalle quali scaturiscono letture completamente opposte della nostra storia. È comunque viziato a parer mio da alcune pregiudiziali, a volte ideologiche (è senz’altro il caso di Chomsky, di Marshall Shalins, ma anche di Steven Pinker), più spesso dettate proprio dal tipo di approccio professionale (Dennett, Fodor, ecc…). Un cognitivista, un paleontologo, un neuroscienziato, un antropologo, partono da punti di vista completamente diversi, e per quanti sforzi facciano di essere interdisciplinari si portano sempre appresso lo stigma del punto di partenza.

Il lato sinistro della storia3 08Non ho competenze sufficienti per entrare nel merito. Quella che a naso più mi convince è però la tesi della natura coevolutiva del linguaggio, che oltretutto si presta perfettamente alla prosecuzione del mio percorso. Chi la sostiene[16] parte da un assunto ineccepibile: le capacità cognitive sono strettamente dipendenti dallo sforzo che ogni organismo mette in campo per mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno. Questo sforzo, lo scriveva già Darwin ne L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, è prima di tutto uno sforzo di comprensione. Noi umani, quando nel corso di un ragionamento incontriamo un ostacolo, una difficoltà, aggrottiamo le sopracciglia, e ciò accade perché ci stiamo sforzando di ovviare alla rottura del filo del nostro pensiero. Oppure, come sottolineava ancora Darwin, somatizziamo e manifestiamo il nostro imbarazzo, la nostra emozione, arrossendo. Sono riflessi involontari, che costituiscono comunque una primordiale forma di comunicazione: sono segnali offerti all’interpretazione dell’interlocutore.

Naturalmente lo sforzo adattivo non è una peculiarità esclusiva della nostra specie. Tutti gli organismi si comportano in questa stessa maniera: di fronte ad ogni interruzione dell’abituale scorrere delle cose reagiscono adattando, modificando, magari anche solo temporaneamente, le proprie risposte istintive. La differenza sta nel fatto che per gli altri organismi, per tutte le altre specie, è di norma una condizione eccezionale, e comunque subita passivamente, nel senso che di ricomporla si occupa il meccanismo selettivo, mentre nel caso degli umani si tratta della condizione abituale, perché lo squilibrio è congenito alla loro condizione di “inadatti”.

Ma qui sta anche la loro eccezionalità. Perché un animale specializzato è adatto proprio in quanto viaggia su un binario che non consente deviazioni: o risponde a certe condizioni ambientali oppure si estingue. L’uomo invece non è predeterminato da alcuna specializzazione, è un animale costantemente “potenziale”, e ha quindi di fronte un campo di possibilità più vasto, teoricamente infinito. Ciò significa che vive in uno stato di perenne “tensione”, intesa come tendenza a radicarsi in un ambiente rispetto al quale è sempre meno “naturalmente” adatto, per via sia delle mutazioni anatomiche che delle migrazioni: e che per mantenere una relazione flessibile di stabilità con l’ambiente, ha sviluppato risposte adattive basate sulla cognizione anticipatoria, ovvero sulla capacità di proiettarsi in situazioni contestuali alternative a quella in cui è effettivamente immerso.

Questa capacità si esprime anche nel rapporto con altri soggetti, e nello specifico determina la possibilità del linguaggio. Sopra il primo livello comunicativo, quello dello scambio e dell’interpretazione di segnali elementari, la comunicazione è resa possibile dalla capacità di ciascun interlocutore di decrittare il messaggio trasmesso dall’altro attraverso la sua “contestualizzazione”, prima ancora che attraverso il riconoscimento dei suoni. E qui entra in gioco la lettura di segnali come l’arrossire o il corrugare la fronte. Non si attiva quindi solo un processo meccanico di decodifica, ma uno sforzo “cognitivo” di analisi del contesto nel quale il discorso si situa. “Lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico.[17] In questo senso condivido l’ipotesi coevolutiva: non postula una “grammatica universale”, non demanda in toto all’ambiente gli input per la creazione del linguaggio, ma considera appieno questo sforzo come forma di adattamento dell’organismo all’ambiente.

3.8 Collaborare

L’adattamento degli umani, però, per le ragioni che abbiamo già visto, non passa attraverso il semplice meccanismo della selezione naturale. O meglio, passa attraverso un tipo di selezione che nella individuazione del “più adatto” contempla a questo punto anche parametri diversi da quelli naturali. Si chiama “effetto reversivo” dell’evoluzione. Darwin questa componente l’aveva già considerata: “La selezione naturale non è più, a questo stadio dell’evoluzione, la forza principale che governa il divenire dei gruppi umani, avendo essa ceduto tale ruolo all’educazione […] Le qualità morali sono progredite, sia direttamente che indirettamente, molto più per effetto dell’abitudine, delle facoltà raziocinanti, dell’istruzione, della religione, ecc. che per la selezione naturale; sebbene a quest’ultima si possano sicuramente attribuire gli istinti sociali, che hanno costituito la base per lo sviluppo del senso morale[18].

Il “senso morale” rappresentava per Darwin un problema, un po’ come accadeva con la coda del pavone. La domanda era: se la selezione naturale premia i più adatti, ovvero coloro che riescono a creare le condizioni più favorevoli per riprodursi, come si spiega il persistere dell’altruismo[19]? Gli altruisti, in teoria, non dovrebbero lasciare alcuna eredità biologica, dovrebbero essere degli “inadatti”, degli umani mal riusciti che la selezione spazza via. Per Darwin non è così, e la soluzione sta nell’angolo prospettico dal quale ci si pone. Non è infatti la selezione individuale a dover essere considerata significativa, ma quella di gruppo. In questa ottica, per la salvaguardia e la sopravvivenza del gruppo, un altruista è molto più importante di un egoista. E a suo parere le regole morali improntate all’altruismo si sono a loro volta evolute a partire dalle cure parentali e dagli “istinti sociali”. Queste regole sono poi state premiate dalla selezione naturale perché si sono rivelate utili al rafforzamento del gruppo.

Darwin non conosceva le leggi di Mendel (che lo scienziato moravo aveva peraltro enunciato solo sette anni dopo la pubblicazione de L’origine della specie), non era quindi in grado di descrivere il meccanismo attraverso il quale i caratteri premiati dalla selezione naturale sono trasmessi alla generazione successiva. E infatti l’appunto critico più ricorrente che veniva rivolto alla sua teoria riguardava proprio l’insufficienza delle spiegazioni sull’origine della variabilità biologica. Probabilmente, se le avesse conosciute si sarebbe posto il problema se le regole morali sono “premiate” o sono invece “dettate” dalla selezione naturale. Che non è, come vedremo, esattamente la stessa cosa.

Dopo essere rimasta in sonno per decenni (solo gli anarchici, come Kropotkin[20], avevano sottolineato questo aspetto) la spiegazione di Darwin è stata rispolverata nel secolo scorso, questa volta rimodulando il concetto di “gruppo” e avvalendosi del supporto della genetica delle popolazioni e della biologia teorica, che applicando il coefficiente di parentela è approdata al calcolo della “fitness”[21]. Successivamente è stata ulteriormente corretta introducendo un altro valore, quello di “reciprocità”. In sostanza, la sua formulazione attuale si può riassumere così: “Se agisco altruisticamente nei confronti di parenti, che sono portatori, in percentuale diversa a seconda del grado di parentela, dei miei stessi geni, in termini di patrimonio genetico non andrò mai incontro ad una perdita secca. Se mi comporto in modo altruistico nei confronti di un estraneo, creo quantomeno le condizioni per un rapporto di reciprocità”.

Messo così naturalmente l’altruismo perde molto del suo valore “etico” e sembra ridursi a un puro calcolo economico consentito dallo sviluppo delle facoltà raziocinanti. In realtà, abbiamo visto che per Darwin esistevano, a monte, degli “istinti sociali” che erano stati selezionati naturalmente. E proprio sulla loro esistenza o meno verte oggi il dibattito sul “senso morale” degli umani, dibattito che è peraltro speculare a quello sul linguaggio, e spesso vede protagonisti gli stessi studiosi.

Anche in questo caso, infatti, da un lato c’è un modello che postula l’esistenza di una serie di istinti, principi e giudizi morali “innati”, determinati, sia pure in modo indiretto, dal nostro corredo genetico. Secondo questo modello quindi il nostro “senso morale” è universale, è inscritto nel cervello umano, è legato fattori ereditari e non è soggetto a condizionamenti sociali[22]. Ed è anche una caratteristica esclusiva della nostra specie. La versione esasperata di questa tesi (quella trasmessa e banalizzata dalla comunicazione pseudoscientifica) ipotizza l’esistenza di geni specifici delle varie attitudini, della timidezza, della paura, degli orientamenti sessuali, ecc…; quella più morbida, proposta ad esempio da Steven Pinker, è che «forse non abbiamo nel cervello una lista di regole “tu devi”, ma almeno qualche regola del tipo “se-allora”[23]».

Dall’altro lato c’è invece chi sostiene che nel nostro cervello non ci sono né grammatiche universali né una normativa morale specifica, ma che esso agisce secondo un programma di apprendimento che ci indica cosa dobbiamo imparare: in questo modo, a partire dalla primissima infanzia noi assorbiamo dall’ambiente, dalla società in cui siamo nati, i fondamentali per una impalcatura morale, sui quali poi andremo a costruire sulla base delle nostre esperienze. Quindi non si parla di innatismo e di fattori ereditari, ma di un condizionamento storico e ambientale, ovvero culturale. Qualcosa che dipende in toto dall’esperienza esterna (quella che l’etologo De Waal, e prima di lui Konrad Lorenz, chiamano imprinting)[24].

Questo intendevo quando accennavo alla differenza tra dettare e premiare. Nel primo caso si ritiene che la selezione abbia già operato a monte, definendo dei caratteri ereditari fissati una volta per tutte, che dettano il nostro comportamento morale. Per i secondi invece la capacità morale di noi umani si è evoluta a partire da una caratteristica che condividiamo con gli altri animali sociali, e segnatamente con gli altri primati, la capacità empatica, che nella misura in cui si è rivelata determinante nella mediazione dei conflitti interni al gruppo e nel promuovere la cooperazione sociale è stata premiata dalla selezione. In questo senso esiste un condizionamento, ma non è quello naturale, bensì quello sociale, quello dei modelli comportamentali e valutativi fissati dalla tradizione culturale.

C’è infine una terza posizione, che in fondo consegue a quanto sono venuto dicendo sino ad ora e appare senz’altro plausibile, sostenuta da Michael Tomasello. In sostanza: i mutamenti ecologici (glaciazioni, desertificazioni, ecc…) hanno portato a un aumento della naturale interdipendenza tra gli umani e allo sviluppo della loro capacità cooperativa, soprattutto col passaggio da una economia di raccolta a quella della caccia ad animali anche di grandi dimensioni. Questa capacità si differenzia da quella dei primati in quanto prevede, accanto a una base empatica che è comune a tutti i primati a noi più simili, la formazione di una morale dell’equità, che è più complessa ed esclusivamente umana: ovvero postula, oltre alla capacità di cooperare per lo stesso fine, quella di riconoscere l’uguaglianza tra sé e l’altro, obbligati dall’ambiente a procurarsi insieme il cibo e tenuti a dividerlo equamente.

Detto in termini pratici, coloro che si dimostravano più affidabili, non solo per le abilità, ma per la lealtà e la correttezza nel dividere la preda, erano quelli che si preferiva coinvolgere nelle cacce successive, e per non perderli li si trattava equamente e lealmente. Tali capacità hanno quindi selezionato nel tempo i più dotati e altruisti, a dispetto delle inclinazioni egoistiche presenti in tutti gli individui.

Questa spiegazione in fondo riesce a far coesistere tutto, dall’empatia innata (quella legata ai neuroni specchio) al condizionamento storico e ambientale (quindi all’esistenza di un dispositivo di apprendimento), dalla giustificazione evoluzionistica dell’altruismo all’importanza della reciprocità. E al di là delle sfumature sembra essere quella ormai universalmente accettata. Un altro eminente “grande vecchio”, Edward O. Wilson, nel suo saggio più recente, Le origini profonde delle società umane, partendo dall’idea di eusocialità, ovvero dal fatto che le grandi transizioni evolutive si sono verificate sempre quando ha prevalso all’interno di una specie la tendenza all’aggregazione, perché questo fa emergere un livello superiore di complessità biologica e porta enormi vantaggi in termini di sopravvivenza e di riproduzione, ha così definito le tappe di passaggio della socialità umana: cura della prole e difesa collettiva del nido; divisione del lavoro e gerarchia sociale; selezione all’interno del gruppo di quei geni e comportamenti che lo rendono più coeso e lo avvantaggiano nella competizione con gruppi rivali.

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Ora, quanto si è scoperto o ipotizzato negli ultimi trent’anni a livello di spiegazione dei comportamenti umani di base non fa che confermare su base biologica una lunga serie di anticipazioni che venivano soprattutto dal campo dell’antropologia, dal campo cioè di Hertz. Ad esempio, Marcel Mauss aveva individuato già nei primi decenni del Novecento, nel Saggio sul dono (1924), come base dello scambio arcaico il triplice obbligo, radicato nella mente umana, di dare, ricevere e restituire: ossia un principio di reciprocità, dal quale dipendono le relazioni di solidarietà tra individui e gruppi, mediante lo scambio di doni pregiati. E dopo di lui il tema era stato ripreso da Claude Levi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela. Indagando la struttura invariante che sottostà a tutti i sistemi di parentela, Levi-Strauss arrivava a identificarla nella proibizione dell’incesto, perché questo rende disponibile una donna, cioè un bene pregiato, per altri gruppi sociali, consentendo di stabilire forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo.

Non sono sicuro che le conclusioni di Levi-Strauss possano essere considerate sempre valide (presso alcune culture l’incesto non è affatto proibito): ma ciò che qui importa è che se valesse la pura contabilità genetica questa proibizione apparirebbe suicida, così come lo appare la pratica del dono, mentre introducendo il principio della reciprocità i conti cominciano a tornare. Il dono, di qualunque natura esso sia, crea un vincolo solidale e seleziona gli individui capaci di rispettarlo. Quando il vincolo funziona, quando cioè la reciprocità diventa il modello collettivo di comportamento, il gruppo si allarga, diventa più competitivo e aumenta la propria capacità di sopravvivenza.

3.9 Competere

Anche De Waal, Tomasello e Wilson, però, e prima di loro Lorenz, così come in fondo persino Pinkler, non dimenticano che al di là delle dinamiche altruistiche che si creano all’interno del gruppo la pulsione di base in ciascun individuo è quella egoistica, e che l’altruismo è appunto un “prodotto” dell’evoluzione, naturale o culturale che si voglia: crea un’alternativa, ma non sostituisce in toto l’istinto primordiale. Questo ci riporta all’azione dei neuroni specchio, e all’ipotesi interpretativa dei comportamenti umani cui volevo arrivare.

La coscienza di sé, come abbiamo visto, nasce dall’osservazione consapevole dell’altro, da un suo riconoscimento, e a sua volta poi sull’altro si riverbera. Si agisce, si reagisce, si progetta tenendo conto delle azioni e delle intenzioni altrui. Si sviluppa in questo modo una “intelligenza sociale”. Ma l’intelligenza sociale può funzionare, per quanto concerne le dinamiche relazionali interne al gruppo, tanto in positivo come in negativo. In positivo, la capacità di entrare nella mente altrui consente come abbiamo già visto una empatia, una progettualità comune, una convivenza allargata. Rende possibile quell’altruismo che è necessario alla sopravvivenza del gruppo, a difenderlo dalle minacce esterne, ambientali o arrecate da altri gruppi. E rende possibile appunto il linguaggio, una comunicazione complessa e sfumata, e dal linguaggio è a sua volta esaltata.

In negativo induce invece a quello che è stato definito, a proposito anche di altre scimmie antropomorfe, un “comportamento machiavellico”. A giocare dunque, anche all’interno del proprio gruppo, con l’inganno, la finzione, la menzogna, la competizione, l’invidia.

La conflittualità interna al gruppo è diffusa presso quasi tutte le altre specie (non negli imenotteri), sia pure in misure diverse: ma quella subdola perpetrata con l’inganno e quella gratuita che si traduce in crudeltà appartengono solo ai primati, e l’ultima solo agli antropomorfi. E tra questi, gli esseri umani e gli scimpanzé sono gli unici che si impegnano frequentemente in lotte fra conspecifici con esiti letali. È un aspetto di tutta questa vicenda che sinora ho volutamente lasciato in ombra, perché è quello che consente il raccordo con il resto della narrazione, e va trattato a parte. Del resto, è anche un aspetto comprensibile. La condizione precaria in cui i sapiens hanno vissuto fino ad almeno cinquantamila anni fa, esposti costantemente al pericolo e poco equipaggiati per la grande caccia, li ha resi particolarmente bellicosi. Si è sviluppata in loro anche la crudeltà. Ma questo sentimento non è solo frutto dell’azione ambientale. Nasce prima ancora da dentro. Il perché e il come ci aiuta a capirlo la “teoria mimetica” proposta dall’antropologo René Girard.

Dopo la lunga galoppata nella biologia e nella neurofisiologia il testimone passa dunque ora all’antropologia. (…)

NOTE

[1] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio (cit)

[2] L’indagine e la manipolazione sono a loro volta connessi, col progredire della “culturalizzazione”, a quella che si può definire “esperienza mediale”. Se la realtà viene esperita attraverso particolari media, tenderà anche ad organizzarsi attraverso regole imposte dai media stessi. Questo aspetto è particolarmente importante e visibile oggi, con una percezione che mescola sempre più indiscriminatamente realtà naturale e realtà virtuale.

[3] A differenza delle altre scimmie antropoidi, i nostri progenitori sono diventati, durante il processo di ominazione, carnivori e cacciatori. Per milioni di anni però hanno cacciato piccole prede e raccolto quel che potevano, e contemporaneamente sono rimasti esposti alla pericolosa attenzione dei predatori. La selvaggina di grossa taglia è entrata nella loro dieta solo 400.000 anni fa.

[4]Tra 4,4 e 3,8 milioni di anni fa, abbiamo a che fare con creature che si diffondono in nuovi ambienti come sponde di laghi, savane e praterie. L’unico modo in cui questi animali potevano farlo era grazie a una sofisticata cultura sociale. Nella savana, un bipede lento è un bipede morto: a meno che non abbia un sacco di amici con sé”. C. O. Lovejoy

[5] Darwin stesso, ne “L’origine dell’uomo”, scriveva: “Le comunità che racchiudono il più gran numero di membri più simpatici gli uni agli altri, prosperano meglio e allevano il più gran numero di rampolli”.

[6]Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa.” Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale

[7] Il “ragazzo del Turkana”, trovato in Kenya, si spostava di continuo in cerca di cibo e di nuovi spazi in branchi di una trentina di individui, quindi in gruppi già socialmente complessi; lasciava dietro di sé accampamenti già organizzati e forse aveva già il dominio del fuoco (i primi focolari accertati risalgono a 1,5 milioni di anni fa, in Sudafrica)

[8] Infatti, i vocalizzi dei primati interessano prevalentemente le aree sottocorticali (giro del cingolo, diencefalo, tronco encefalico), mentre nell’uomo nella produzione vocale sono coinvolte le aree corticali, in particolare l’area di Broca nel lobo frontale sinistro e il lobo temporale.

[9] Michael Tomasello, Unicamente Umano. Storia naturale del pensiero, Il Mulino 2014

[10] Si ipotizza che nel corso dell’evoluzione la specie Homo habilis comunicasse attraverso una elementare forma di proto-linguaggio gestuale e che la specie Homo erectus fosse forse in grado di produrre atti motori mimico-gestuali, mentre la specie Homo sapiens presentava già strutture cerebrali (specialmente nelle aree dell’emisfero sinistro) che avrebbero consentito di sviluppare, assieme alle modalità di comunicazione gestuale, anche le prime articolazioni vocali (Michael Corballis, La verità sul linguaggio, Corbaccio 2009).

[11]Il linguaggio e l’abilità manuale si sviluppano insieme e questa evoluzione si riproduce nello sviluppo odierno dei bambini.” (A. Woods e T. Grant, La rivolta della ragione. Filosofia marxista e scienza moderna, AC Editoriale 1997)

[12] Dean Falk, Lingua Madre. Cure materne e origini del linguaggio, Boringhieri 2011. La Falk, antropologa e neuroscienziata, propone una spiegazione molto semplice dell’origine del linguaggio, rintracciandola nel rapporto madre/infante. Quando è impegnata nella raccolta la madre deve staccare dal proprio corpo il neonato, e per fargli comunque sentire la propria vicinanza comincia a fare dei versi e dei vocalizzi, e successivamente a parlargli.

[13] Robin Dunbar, Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi 1998

[14] In pratica sarebbe intervenuta, in tempi evolutivamente recenti (30 o 40 mila anni fa), per motivi ancora sconosciuti, una vera e propria mutazione genetica che ha totalmente innovato il cablaggio del cervello. È anche quanto sostengono gli assertori della la teoria della mente modulare. J. A. Fodor (Mente e linguaggio, Laterza 2003) ha definito i moduli come “sistemi cognitivi funzionalmente specializzati”. Ma anche Steven Pinker (L’istinto del linguaggio, Mondadori 1998) sostiene che la facoltà umana del linguaggio è un istinto, un comportamento innato, sia pure modellato dalla selezione naturale e adattato alle esigenze comunicative dell’uomo.

[15] L’apparato di fonazione “moderno”, con la laringe posta sopra la trachea e con la conseguente possibilità di modulare una quantità enorme di suoni, è apparso circa 300.000 anni fa. Alcuni geni, per esempio il FOXP2, coinvolti nell’articolazione del linguaggio, hanno assunto la loro forma attuale non più di 200.000 anni fa. Ciò fa presumere che il linguaggio complesso sia effettivamente nato con l’Homo sapiens. Ma è probabile che non abbia raggiunto una compiutezza “grammaticale”, sia pure elementare, prima di trentamila anni fa.

[16] Tutto un filone della ricerca filosofica/psicologica/linguistica (la linguistica cognitiva) sostiene che i nostri stesso modi di apprendere, decodificare e interpretare la realtà, sono processi mediati dalle caratteristiche del nostro corpo, a partire dalle percezioni. Per un approfondimento vedi: Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza 2010

[17] F. Ferretti, cit.

[18] Charles Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1872)

[19] Il problema in realtà è legato all’espressione “sopravvivenza del più adatto”, che Darwin peraltro non usò mai: “il più adatto” non è “il migliore di tutti”, non comporta una connotazione morale. In natura “il più adatto” è chi risulta vincente in particolari circostanze. E spesso chi sopravvive nella lotta per l’esistenza è, secondo i parametri etici oggi correnti, proprio il peggiore.

[20] Cfr, ad esempio, Il mutuo appoggio: fattore dell’evoluzione, Eléuthera 2020

[21] Introdotto dal biologo inglese William Donald Hamilton. La “fitness” considera il numero di discendenti prodotti da un singolo soggetto in relazione al numero medio di figli prodotti dai soggetti della popolazione cui appartiene. È positiva se il soggetto produce più discendenti rispetto alla media; è negativa quando il numero di figli è inferiore al valore medio.

[22] Questo modello è proposto, con sfumature diverse, dagli psicologi J. Haidt, Steven Pinker e Marc Hauser, e da ultimo anche dal biologo R. Dawkins.

[23] Steven Pinker, Tabula rasa, Mondadori 2014

[24] Sulla linea dell’origine “culturale” delle regole morali troviamo soprattutto gli etologi, da Konrad Lorenz ad Irenaus Eibl Eibensfeldt e a Franz De Waal.

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(parte seconda)

di Paolo Repetto, 18 febbraio 2022

  1. Una immersione nella biologia

A questo punto, ad uno che di neuroscienze ha un’infarinatura men che dilettantesca il buon senso imporrebbe di fermarsi: ma se avessi tutto questo buon senso non mi sarei imbarcato in una simile avventura, e allora tanto vale procedere. Anche perché temo davvero di aver già dilapidato buona parte del mio patrimonio neuronale, e di dover sfruttare per tempo quel che ne rimane. Lo farò utilizzando le poche nozioni che possiedo sul funzionamento del nostro cervello, che ritengo comunque sufficientemente fondate, e semplificando il più possibile la descrizione dei processi. Spero solo di metterli in riga correttamente, partendo da quelli elementari (anche se darò per scontate le conoscenze di base delle neuro-scienze), e di non riuscire troppo noioso né del tutto insensato.

 

3.1 Emisferi

Il cervello umano è diviso nella sua parte anteriore (o neocorteccia) in due emisferi, destro e sinistro, che sono funzionalmente simmetrici (almeno in linea generale, come tutti gli altri doppioni anatomici, dagli arti ai polmoni, ai reni, agli occhi, ecc…), ma non identici. Le simmetrie riguardano, ad esempio, il controllo incrociato dei movimenti delle due metà del corpo: la corteccia motoria dell’emisfero destro governa i muscoli della metà sinistra, quella dell’emisfero sinistro i muscoli della metà destra. Per il resto i due emisferi sono caratterizzati da lateralizzazioni funzionali, ovvero da specializzazioni diverse.

L’emisfero sinistro è quello della mente cosciente, della linearità, della catalogazione, della memoria verbale e del ragionamento consecutivo, e ha un ruolo dominante nei processi linguistici, sia scritti che orali, oltre che nel calcolo matematico[1]. Consente una percezione analitica della realtà, coglie la successione degli eventi, li concatena, gestisce ed elabora le informazioni allineandole in un discorso sequenziale. Presiede insomma alla nostra coscienza temporale, quella che si allarga al passato e al futuro, e soprattutto raggruppa gli stimoli, in primis quelli visivi, in base alla funzione cui possono servire, elaborando una risposta pratica.

L’emisfero destro controlla invece la nostra parte subconscia, è concentrato sul presente ed è specializzato nelle capacità connesse allo spazio, come quelle artistiche: disegno, musica, canto, danza. Potremmo dire che vede il mondo a colori e presiede alla comunicazione gestuale, alla sfera emozionale. È sede dell’intuito e della memoria visiva, percepisce la realtà in modo globale e sintetizza le percezioni in una visione d’insieme, in schemi generali. Non privilegia le differenze e le distinzioni, ma le somiglianze.

In linea generale, quindi, l’emisfero sinistro è utilizzato preferenzialmente per analizzare gli stimoli ambientali e tenerli sotto il controllo di un comportamento standardizzato, mantenendo un’attenzione molto focalizzata, mentre quello destro è sensibile alle novità e agli stimoli minacciosi (ad esempio, i predatori), ai quali reagisce prevalentemente con risposte di fuga, ed è responsabile dell’espressione di emozioni intense. Questa lateralizzazione non è specifica del cervello umano. A un basso livello di specializzazione queste differenze erano già presenti nei primi vertebrati[2] e si sono poi accentuate nell’uomo in modi e misure diversi attraverso l’evoluzione.

Le attitudini che ho elencato sopra hanno una storia che si perde in un passato remotissimo e che è stata scritta da mutazioni adattive, intervenute a livello sia genetico che epigenetico: sono modelli percettivi, cognitivi e comportamentali affinatisi nei tempi e verificabili oggi sperimentalmente, con strumenti sofisticatissimi. Costituiscono ormai per la scienza un dato acquisito. Meno acquisite sono invece le cause della diversificazione: la spiegazione più plausibile è che l’aumento delle dimensioni del cervello assoluto abbia esteso la distanza tra i due emisferi, riducendone la cooperazione e definendone le asimmetrie[3]. Per quanto concerne poi lo sviluppo più accentuato del lobo sinistro, o quantomeno la concentrazione in questa area di alcune funzioni primarie, dipende probabilmente dalla differenza di flusso e di pressione sanguigna tra lato sinistro e destro nelle arterie carotidi, responsabili della circolazione a livello cerebrale[4]. Ma questo già esula dagli ambiti del mio discorso.

Va precisato comunque che se le specializzazioni dei due emisferi esistono, non esiste tra essi un confine netto: c’è invece uno scambio continuo di informazioni che passano attraverso il “corpo calloso”. In realtà nessuno dei due funziona mai in maniera totalmente autonoma. Piuttosto, ci sono momenti di dominanza dell’uno o dell’altro, in relazione al tipo di attività che il cervello è chiamato a svolgere. Se leggo, scrivo, discuto o faccio di conto la temporanea dominanza sarà dell’emisfero sinistro, se disegno, ascolto musica, guardo un’immagine o mi perdo nel sogno sarà di quello destro. E, soprattutto, occorre ricordare che tutto ciò che accade nella corteccia transita anche, o almeno è in stretta relazione, per la parte più antica del cervello, costituita dal tronco encefalico (o cervello rettiliano) e dal sistema limbico, che controllano le funzioni corporali essenziali e le risposte emozionali connesse alla sopravvivenza (e alla riproduzione). In sostanza, per quanto evolutivamente specializzati dobbiamo sempre fare i conti con l’eredità del cervello pre-umano dal quale siamo partiti. Con la crescita di volume di quest’ultimo, e nella fattispecie della parte occupata dalla corteccia, è aumentata però la discrezionalità nelle risposte, sempre meno vincolate ad imboccare una direzione obbligata.

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Viene spontaneo a questo punto chiedersi quali effettivi vantaggi comporti la specializzazione degli emisferi. Uno sta senz’altro nel fatto che la lateralizzazione consente di aumentare le capacità neuronali: svolgendo funzioni distinte, gli emisferi specializzati evitano inutili duplicazioni, con un gran risparmio di tessuto neuronale. Un altro è che la lateralizzazione impedisce che due impulsi assolutamente incompatibili si trovino in contrasto nell’elaborazione di uno stimolo, e impediscano o rallentino la risposta. I vantaggi, insomma, ci sono, e a quanto pare compensano ampiamente gli svantaggi (perché ci sono anche quelli).

Ora, i nostri progenitori non sono scesi dagli alberi con il cervello già strutturato in questo modo, ma sono diventati “umani” proprio attraverso il processo di diversificazione e specializzazione degli emisferi: e questo processo è stato consentito dal fatto che il loro cervello era una struttura plastica, che rispondeva adattandosi agli stimoli ambientali, e traeva vantaggio tanto dalle esperienze maturate quanto dalle mutazioni intervenute a livello genetico per banali errori di replicazione del DNA.

3.2 Camminare

Parto proprio di qui, dalla discesa dagli alberi. Semplificando all’osso, si può dire che tutto ha avuto inizio con l’acquisizione della deambulazione eretta. Sul come e quando (senz’altro più di tre milioni di anni fa, qualcuno ipotizza addirittura sei, subito dopo la separazione della linea umana da quella degli scimpanzé) e perché ciò sia avvenuto le teorie si sprecano: di sicuro c’è comunque che i nostri più remoti antenati non scelsero di camminare eretti per un primordiale calcolo di opportunità, ma furono necessitati a farlo dal puro istinto di sopravvivenza: e che il cambiamento della modalità di locomozione ha comportato, direttamente o come effetto collaterale, una radicale ristrutturazione anatomica[5].

È questo l’evento cruciale, perché i reperti fossili ci dicono che gli Ominidi sono diventati bipedi molto tempo prima di essere dotati di un cervello di dimensioni superiori rispetto a quello delle altre scimmie antropomorfe: che è stato quindi il bipedismo a favorire lo sviluppo cerebrale, e non viceversa[6].

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Non è il caso di fare tutta la storia delle trasformazioni anatomiche che tale evento ha determinato: devo però citare almeno le più eclatanti. La postura eretta ha creato innanzitutto le condizioni per la liberazione e specializzazione degli arti superiori. È vero che gli umani non sono gli unici a usare questi arti per scopi diversi dalla locomozione, ma le differenze funzionali, ad esempio nei confronti delle scimmie, sono sostanziali. Le “mani” delle scimmie sono geneticamente adattate a svolgere mansioni specifiche, quelle umane sono invece forme plastiche, che introducono una dimensione inedita nel regno animale, quella della “techné”, e quindi in sostanza quella del lavoro. Anche gli scimpanzé creano strumenti, puliscono ad esempio i famosi rametti per “pescare” nei termitai, ma questo è un comportamento accessorio, perché in realtà sono organismi così specializzati che possono tranquillamente sopravvivere anche senza i rametti. “Gli strumenti animali sono tali esclusivamente in virtù della loro efficacia di prestazione immediata (potenza); quelli umani lo sono in virtù della loro flessibilità d’uso (potenzialità).[7] L’uomo invece, senza il suo strumentario “culturale” (abiti per difendersi dal freddo, case e ricoveri per proteggersi dai pericoli, fuoco per difendersi, per riscaldarsi, per cuocere i cibi, per illuminare le tenebre, armi per la caccia, ecc…) non sopravvivrebbe.

Le mani dell’ominide sono dunque diventate disponibili per attività di tipo consapevolmente “tecnico”, come la produzione di utensili o la domesticazione del fuoco, per il trasporto della prole o del cibo per nutrirla, e anche come strumento principale di difesa, oltre che, per un lungo periodo, della comunicazione[8]. Volendo banalizzare, si potrebbe dire che sono diventate le “protesi” organiche della parte anteriore del cervello, in quanto sempre meno condizionate alla risposta meccanica e istintuale dettata dal tronco encefalico e sempre più soggette invece al controllo da parte della corteccia. Col tempo sono poi diventate il tramite per la creazione e l’utilizzo di vere e proprie protesi inorganiche.

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Lo sviluppo di ciascuna di queste attività a sua volta implicava ulteriori ricadute. Il trasporto, il combattimento, la necessità di dilaniare le prede, tutti questi compiti sono passati dalla bocca alle mani, e ciò ha modificato radicalmente le regole del gioco[9]. Il percorso è stato lunghissimo, e gli adeguamenti sono stati necessariamente lenti e graduali: se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per combattere, essi si sarebbero trovati pressoché disarmati. La bocca si è dunque specializzata in altre attività, quella della masticazione e quella della fonazione, tramite un concorso di fattori apparentemente indipendenti ma in realtà strettamente collegati l’uno con l’altro[10].

In primo luogo, per equilibrare il peso della testa, che nella postura eretta si trova direttamente in cima alla colonna vertebrale, si è rivelato “adattivo” un graduale spostamento in avanti del foro occipitale, quello che mette in comunicazione la scatola cranica con il canale vertebrale. Ciò ha comportato che si riducesse il ruolo dei muscoli del collo per tenere la testa in posizione, e quindi anche l’area nella quale i muscoli si attaccano alla parte posteriore del cranio: e questa riduzione ha liberato a sua volta uno spazio che è rimasto disponibile per l’ampliamento del cervello, consentendo a quest’ultimo di espandersi anche anteriormente senza disturbare l’equilibrio[11].

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Ma la riduzione della massa muscolare del collo ha inciso anche sul funzionamento dell’apparato masticatorio, che per la seconda legge fisica delle leve è stato reso più efficiente (ed energeticamente meno dispendioso) dall’arretramento delle arcate dentarie sotto la scatola cranica, e quindi da una pressione delle mascelle esercitata verticalmente: cosa che ha aperto la possibilità di adottare diete alimentari diverse. In pratica, si sono create le condizioni perché l’uomo diventasse onnivoro.

Tali condizioni sono state poi pienamente realizzate più tardi (almeno un milione di anni fa), con la domesticazione del fuoco. Oltre a costituire un ottimo strumento di difesa contro i grandi predatori e contro il freddo, il fuoco consentiva la cottura dei cibi: rendeva cioè digeribili alimenti che non avrebbero potuto essere altrimenti consumati, e permetteva di assimilarli molto più rapidamente, ampliando considerevolmente la gamma della dieta e il suo potere nutrizionale, ma stabilizzando anche il livello di attenzione (lo sforzo della digestione intorpidisce le facoltà sensoriali: un leone sazio diventa più lento e distratto) e moltiplicando quindi le opportunità di sopravvivenza. Tra l’altro, l’accorciamento dell’intestino indotto dalla semplificazione del metabolismo e i tempi abbreviati di questa funzione significavano una riduzione in termini di consumo energetico da parte dell’organismo, e l’energia risparmiata poteva essere dirottata al cervello, che sotto il profilo energetico è particolarmente dispendioso[12].

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Non ultima tra le conseguenze, per importanza, è stata la discesa della laringe[13], che era posizionata originariamente più in alto, rispetto alla trachea, per consentire una migliore deglutizione del cibo. La masticazione più efficace e la minore durezza dei cibi cotti hanno comportato la riduzione del diametro del canale tracheale per il quale transitava il bolo, e lo slittamento della laringe verso il basso. Tutto questo complesso riassetto anatomico, operato attraverso il meccanismo della selezione, era funzionale ad adeguare ai cambiamenti di cui ho parlato sino ad ora gli apparati della nutrizione e della respirazione. Il fatto che le variazioni strutturali della bocca e della laringe siano poi risultate funzionali a rimodellare anche l’apparato fonatorio è una sorta di effetto collaterale. Eppure questo fattore imprevisto, intervenuto secondo le stime più caute tra i duecentomila e i trecentomila anni fa, è stato fondamentale per lo sviluppo del linguaggio[14].

Si può in effetti ipotizzare una ricostruzione del percorso abbastanza attendibile: “Ci sono prove che la lateralità manuale destra dell’uomo discende dai primati primitivi. Infatti la preferenza per la mano destra si manifesta in molte scimmie, comprese quelle antropomorfe, come gli scimpanzé, che di solito afferrano il cibo con la mano destra. Gli scienziati credono quindi che nell’uomo il controllo della parola e del linguaggio ad opera dell’emisfero cerebrale sinistro sia da collegare evolutivamente con la preferenza dell’uso della mano destra nel comportamento alimentare dei primati. L’uso della parola nell’uomo potrebbe essere riconducibile all’evoluzione della sillaba, cioè un’alternanza tra consonante e vocale. Se pronunciamo, per esempio, la sillaba “mama” iniziamo con il pronunciare una consonante sollevando la mascella e poi una vocale abbassandola…lo stesso movimento della masticazione! Gli scienziati quindi hanno ipotizzato che il movimento di masticazione, controllato dalla parte sinistra del cervello fin dall’evoluzione dei primi vertebrati, si sia evoluto nell’uomo nel movimento di vocalizzazione della prima sillaba ed è per questo motivo che il linguaggio umano è controllato dalle aree di Broca e Wernicke che si trovano nella parte sinistra del nostro cervello[15].

Col che, mi sono già spinto sin troppo avanti. Quelli che sto elencando sono comunque tutti esempi eclatanti di adattamento selettivo: ci dicono che l’organismo è in grado di riorganizzarsi costantemente in funzione della massima efficienza, e di attivare nuove funzioni adattando al bisogno vecchie strutture anatomiche[16].

Ma non è tutto: la riduzione dell’apparato muscolare di sostegno della testa e la trasformazione di quello masticatorio hanno comportato modifiche anche nella forma e nel peso di quest’ultima. Mentre in basso si creavano condizioni diverse per la fonazione, il cervello stesso veniva orientato a svilupparsi soprattutto in quelle zone (lobi temporali e lobi frontali) a struttura ossea più plastica che sono a diretto contatto con i muscoli facciali: zone nelle quali hanno trovato successivamente sede il controllo della parola e il pensiero logico.

La postura eretta determina infine l’assunzione di un ruolo primario della vista nella percezione. Nella savana gli spazi si dilatano immensamente e si sottraggono al tipo di esperienza eminentemente uditiva e olfattiva che veniva praticata nella foresta: ora è l’occhio a doversi adeguare per garantire il controllo del territorio e l’incolumità. Ma esercita anche un’altra funzione. Gli arti liberati dai compiti di locomozione vengono utilizzati tanto per difendersi che per modificare l’ambiente, e questo avviene attraverso un coordinamento sempre più sviluppato del meccanismo mano-occhio. Sono gli occhi a guidare le mani alla presa e alla manipolazione degli oggetti. Per sopravvivere nella savana è necessario velocizzare l’esecuzione di ogni gesto, sia di fuga che di attacco, e con l’aumento della velocità diventa essenziale il coordinamento tra agilità e precisione nel movimento[17].

Ciò significa che la percezione visiva induce una rappresentazione dell’ambiente in cui ci muoviamo di tipo essenzialmente pragmatico, e non semplicemente contemplativo. “Noi vediamo perché agiamo, e possiamo agire proprio perché vediamo”. Di ogni oggetto percepito cogliamo immediatamente le proprietà fisiche che ci consentono di interagire con esso, quindi lo traduciamo in potenziale motorio e di azione.

Il prevalere della percezione visiva non ha tuttavia conseguenze solo ai fini pratici, operativi. Determina anche il modo in cui noi “organizziamo” la rappresentazione mentale della realtà che ci circonda. I quattro quinti delle informazioni che il nostro cervello riceve arrivano dalla vista: e la percezione visiva coglie un quadro d’insieme strutturandolo spazialmente. Percepisce innanzitutto lo spazio, e in subordine percepisce il movimento come spostamento degli oggetti all’interno dello spazio. Non solo: il nostro campo visivo è determinato dalla posizione degli occhi rispetto al corpo. Vediamo lontano perché gli occhi sono posizionati molto in alto. L’orizzonte si allontana, il mondo diventa molto più ampio. Si rivelano nuovi scenari, spazi sconosciuti da percorrere, da scoprire e da occupare, e questi spazi sono pieni di cose da manipolare, di difficoltà ambientali da superare, di pericoli dai quali guardarsi, di presenze inedite alle quali rapportarsi.

Nella nuova realtà che la percezione visiva rivela, o entro il nuovo modo di percepire quella già conosciuta, la funzione uditiva viene ad assumere un ruolo diverso. Affina la sua organizzazione temporale, costringendo il pensiero ad articolarsi sia nei modi dell’acquisizione (a porre cioè le cose prima e dopo) che in quelli della esposizione, per rendere comunicabile agli altri quanto percepito. L’udito opera nel tempo, e quindi lavora immediatamente per sequenze. Per questo, come vedremo, il linguaggio è in stretta connessione con l’udito.

La comparsa della scrittura comporterà poi, molto più tardi, un altro rivoluzionamento nel rapporto tra i sensi, sovrapponendo alla “globalità” visiva la linearità “uditiva”. L’alfabeto è infatti composto da segni che corrispondono a suoni e che vanno ordinati secondo una certa linearità. Questo modifica ulteriormente la disposizione percettiva, per cui esiste una differenza fondamentale tra le culture alfabetizzate e quelle puramente orali. Ma non spingiamoci troppo avanti.

Piuttosto, per capire correttamente in quale cornice questi mutamenti sono avvenuti, dobbiamo considerare quanto la realtà ambientale con la quale si confrontavano i primi homo, e tutti i loro discendenti almeno fino al tramonto del medioevo, fosse diversa rispetto all’attuale. Oggi cogliamo un mondo in costante velocissimo movimento: la percezione preistorica e in sostanza anche quella antica si esercitava su movimenti lentissimi (ciò che spiega anche la capacità di avvertire, ad esempio, spostamenti astrali minimi). Di un ambiente immobile si coglie ogni minima mutazione (tracce sul terreno, un fruscio, ecc…), mentre di fronte ad un ambiente sempre in movimento si colgono solo le variazioni macroscopiche, e per poterlo mantenere sotto controllo lo si inquadra entro linee, figure e volumi geometrici. Attivando l’emisfero sinistro.

Ho cercato sin qui di rappresentare un effetto a cascata: a mano a mano che il cervello cresce[18] le sue diverse aree si differenziano e si specializzano: diminuendo ad esempio la capacità olfattiva (che oggi appare quasi totalmente atrofizzata) si restringe anche la zona corticale corrispondente, mentre quella auditiva, sempre meno utilizzata per percepire rumori e sibili, si abilita a decodificare suoni e linguaggio. Conseguentemente si incrementa proprio la zona preposta all’articolazione della parola (area di Broca) e alla sua ricezione e decodificazione (area di Werneke), che come abbiamo visto è anche quella che controlla le abilità manipolatorie, e più genericamente si sviluppano i lobi frontali.

Tutto questo avviene nel corso di milioni anni. Poi, circa centomila anni fa, la crescita sembra arrestarsi: l’anatomia e la struttura cerebrale dei primi sapiens sono in linea di massima già quelle attuali. Forse centomila anni sono uno spazio temporale troppo esiguo, se rapportati ad un percorso evolutivo prettamente biologico. O forse sono invece cambiati i modi stessi dell’evoluzione, condizionati dalle pratiche “culturali” degli umani e dalle modifiche che questi portano all’ambiente. È quanto vorrei chiarire.

3.3 Sopravvivere

Il percorso evolutivo che ho sintetizzato alla meno peggio non spiega nel dettaglio le cause e modi della lateralizzazione del cervello, ma può almeno farcene scorgere le premesse e cogliere la portata. Ma non è finita: volevo infatti arrivare ad indagare l’origine e la funzione del linguaggio. Devo perciò tornare nuovamente alla deambulazione eretta e alle sue immediate conseguenze.

Per ragioni aerodinamiche il bipedismo ha selezionato in positivo le femmine con i fianchi più stretti. Questa caratteristica consentiva loro di camminare meglio, di reggere a spostamenti più lunghi e di coprire quindi aree più vaste nell’attività di raccolta del cibo, ma soprattutto di fuggire più velocemente davanti ai predatori: in sostanza garantiva maggiori probabilità di sopravvivenza. Ma comportava anche grossi problemi al momento di partorire, perché la circonferenza cefalica dei neonati era incompatibile con un restringimento del canale vaginale, tanto più in presenza di un lento ma costante accrescimento delle dimensioni del cervello. A tale problema la specie rispose selezionando ulteriormente tra le femmine quelle con maggiore propensione al parto prematuro. Noi umani siamo dunque sin dall’origine frutto di un problema e di una soluzione che potremmo definire “innaturali”, e ci portiamo dietro il marchio di questa differenza, tanto che qualcuno (Gunther Anders, per la precisione) è arrivato a dire che l’uomo è figlio di un tragico errore della natura.

Il che è fondamentalmente vero, magari con qualche riserva per il “tragico”: ma è anche vero che il marchio è quello di un salto di qualità, quale che sia l’interpretazione che di questo salto si vuole dare. Vediamo perché.

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Nella specie umana il parto avviene sempre “prematuramente”, prima cioè che il nascituro sia perfettamente formato, ma soprattutto prima che l’ossatura del suo cranio si sia richiusa. Il neonato viene così al mondo in una condizione di assoluta “inadeguatezza” e la sua sopravvivenza dipende totalmente, per un periodo molto lungo, caratterizzato dalla persistenza di caratteri infantili e da uno sviluppo morfologico, fisiologico e nervoso particolarmente lento, dalla protezione e dalle cure parentali. In quello stesso periodo però il suo cervello continua a crescere, può espandersi anteriormente e rimane dotato di una particolare elasticità, risultando così disponibile all’apprendimento di tipo ambientale, “culturale”. E quanto appreso va a depositarsi, per processi epigenetici, influenze comportamentali o trasmissione simbolica, in aree diverse del nuovo spazio cerebrale conquistato[19].

Questo processo continua ad essere riassunto e ripercorso nelle prime fasi di ogni singola esistenza umana (l’ontogenesi ricapitola la filogenesi), perché al momento della nascita le aree del cervello connesse all’uso di strumenti e del linguaggio sono unite. La separazione avviene dopo i due primi anni di vita. Di lì in poi, in parallelo con l’acquisizione di abilità deambulatorie e manipolatorie sempre più complesse, il nostro cervello “specializza” i due emisferi e sviluppa in essi competenze diverse: in particolare, come abbiamo visto, le funzioni cerebrali deputate alla risposta motoria sono localizzate nell’emisfero sinistro, lo stesso nel quale hanno sede anche i centri responsabili del linguaggio e della abilità manuale. Insomma, l’immaturità, la “sprovvedutezza biologica” dell’animale umano di cui parla Arnold Gehlen, si risolve in un carattere indefinito e plastico, e tale presupposto genetico fa insorgere la necessità di rimedi culturali. Le lacune vanno colmate, le debolezze compensate. Questo fa sì che la somiglianza tra i comportamenti culturali umani e quelli non umani, a dispetto anche di evidenti continuità (sto pensando alle abilità “tecniche” degli scimpanzé, ad esempio) sia in realtà solo superficiale. Perché i primi sono indispensabili alla sopravvivenza, i secondi no.

Il bipedismo ha infatti rivoluzionato anche i comportamenti sessuali degli ominidi. Camminando verticali le femmine della specie homo nascondono la manifestazione dell’estro, che tra gli altri primati avviene attraverso un rigonfiamento o una coloritura particolare della zona genitale, oltre che tramite segnali olfattivi[20].

Questo fatto, associato ad altre trasformazioni fisiologiche e comportamentali femminili che sono andate consolidandosi nel tempo, ha favorito la nascita di rapporti più personalizzati tra individui di sesso diverso, facendo saltare le vecchie regole. In sostanza: in quasi tutti i primati l’accoppiamento durante i periodi di fertilità è riservato ai dominanti, i maschi alfa, mentre agli altri è precluso o consentito solo nei periodi in cui la femmina è infeconda. La scomparsa nella femmina umana dei segnali visivi dell’estro e la riduzione di quelli olfattivi ha disattivato tutto il sistema di controllo e di monopolio dei dominanti, offrendo anche agli altri maschi la possibilità di accoppiarsi e di trasmettere il proprio patrimonio genetico, e li ha indotti di conseguenza ad una diversa “assunzione di responsabilità” nei confronti dei propri discendenti, per assicurarne la sopravvivenza. In realtà, l’origine di quella che potremmo definire una “paternità responsabile” è legata alla “selezione per scelta sessuale” della quale parla già (sia pure con cautela) Darwin, ovvero alla preferenza accordata dalle femmine per l’accoppiamento ai maschi che garantivano maggiore continuità di presenza, capacità di procurare cibo e disponibilità a condividerlo. Ai più adatti, insomma, non solo a sopravvivere, ma a prendersi cura di una prole totalmente dipendente per un lungo periodo[21].

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La “condizione neotenica” costituiva oggettivamente un grave problema, per il neonato come per i genitori: ma l’astuzia evolutiva lo ha tradotto alla fine in un vantaggio[22]. Per affrontarlo dovettero infatti modificarsi anche i comportamenti parentali. Si creò dapprima un nuovo modello di legame di coppia, poi per una sorta di effetto alone, di abitudine alla convivenza continuativa, l’interazione non rimase limitata ai soggetti coinvolti nella riproduzione o nella cura della prole, ma si allargò per motivi di opportunità collaborativa agli individui più prossimi, segnatamente a quelli maggiormente portati alla socializzazione. Dalla vita animale del branco si passò a quella specificamente umana del gruppo, nella quale, come vedremo, oltre ai rapporti di collaborazione si sviluppano presto anche quelli di sfruttamento o di antagonismo.

Daniel Dennett riassume così la situazione: “È dallo stato di cronica indigenza di un corpo neotenico che sorge la necessità di stabilire legami emotivi, instaurare tradizioni storiche, tessere pratiche sociali […]. La mancanza di armi naturali di un corpo nudo e la plasticità di mani senza compiti percettivi prefissati si rivelano alla nascita come handicap insuperabili senza il sostegno, la collaborazione e il calore di altri umani adulti. L’animale umano costituisce infatti l’incarnazione per eccellenza della neotenia, quel fenomeno biologico che permette alla specie di mantenere anche in età avanzata i tratti morfologici dell’età infantile: una immaturità cronica che ci consente di apprendere fino agli ultimi giorni della nostra vita e che, al contempo, mette in costante pericolo gli equilibri raggiunti dalla nostra esistenza. L’essere umano è costretto a trovare nella precarietà della sua condizione una sicurezza labile e una stabilità sempre revocabile. Il nostro corpo ci permette di trovare percorsi individuali, di uscire dalle rigidità della programmazione istintuale, di evadere da una nicchia ecologica specifica. Per questa ragione vedremo che l’uso di strumenti nella specie umana riveste un valore biologico decisivo: è ciò che le consente di sopravvivere[23].

(continua, naturalmente)

Note

[1] Nel 93% dei destrimani, l’emisfero dominante nell’emissione di parole e di frasi è il sinistro, il 6% possiede meccanismi per il linguaggio nell’emisfero destro e l’l % ha il coinvolgimento di entrambi gli emisferi cerebrali nella produzione di parole. Nei mancini le cose stanno invece in questo modo: nella produzione del linguaggio il 70% rispetta la dominanza sinistra, mentre. solo il 17% vede dominante l’emisfero destro; nei rimanenti casi (13%) ambedue gli emisferi sono forniti di meccanismi della parola. L’area di Wernicke, comunque, una delle più importanti per la lingua, è sempre localizzata a sinistra.

[2] L’asimmetria cerebrale è presente in una varietà di specie diverse come rane, uccelli canori, rettili, topi, macachi, ecc. Tutte queste specie, compreso l’uomo, mostrano una dominanza delle strutture cerebrali di sinistra nel controllo della produzione di specifiche vocalizzazioni. Non è dunque il possesso del linguaggio verbale a determinare asimmetria tra i lobi cerebrali dell’uomo. Piuttosto, anche numerose specie di uccelli mostrano un uso preferenziale di un arto che è paragonabile alla dominanza manuale umana.

[3] La crescita delle dimensioni cerebrali è avvenuta per un incremento sia in altezza che di raggio della calotta cranica. Nell’homo di Neanderthal l’incremento riguardava soprattutto il raggio, mentre nel sapiens c’è stato un incremento maggiore dell’altezza. In linea teorica, con l’aumento del volume cerebrale, in particolare con quello della corteccia, le asimmetrie dei lobi temporali dovrebbero risultare ridotte: soprattutto nei destrimani, però, a livello del Planum temporale di sinistra (è l’area corticale appena posteriore alla corteccia uditiva, nel cuore dell’area di Wernicke) esse permangono molto marcate.

[4] Nell’uomo la carotide comune di sinistra origina dall’arco aortico; la destra è una delle biforcazioni dell’arteria anonima. Il flusso sanguigno proveniente dalle carotidi interne è rivolto in prevalenza alla cerebrale media, che ne costituisce la diretta continuazione. L’assenza di comunicazioni tra le carotidi interne dei due lati comporta la persistenza di minime differenze quantitative di flusso nelle cerebrali medie, che nelle parti iniziali hanno calibro identico a quello delle carotidi interne da cui si originano.

[5] Non sempre priva di inconvenienti, anche se vantaggiosa. Il cambiamento posturale e la nuova locomozione ne hanno creati diversi. Per distribuire meglio il peso del corpo sugli arti posteriori la pianta del piede s’inarcò, il tallone s’ingrandì, il tendine di Achille si allungò e le gambe diventarono più lunghe e più robuste delle braccia. Per mantenere l’equilibrio, comparvero le due curvature della colonna vertebrale che portano indietro il centro di gravità del tronco, ma sono spesso causa di mal di schiena. Anche i dolori della zona cervicale sono da imputarsi alla rotazione della testa all’indietro per mantenersi bilanciata sul collo. Le articolazioni del ginocchio e del femore sono diventate più soggette a usura, per il maggiore peso che sostengono. Per migliorare la postura e l’equilibrio sono anche cambiate la posizione e le dimensioni del bacino che ruotò all’indietro: mentre il cinto pelvico diventò più piatto e il pavimento pelvico si rafforzò per sostenere il peso e la pressione degli organi addominali, alla rotazione dell’anca conseguì il restringimento del canale del parto.

[6] I paleontologi Brian G. Richmond e William L Jungers  affermano che Orrion tugenensis, scoperto in Kenia nel 2001, aveva già andatura bipede oltre sei milioni di anni fa. Comunque, i fossili scheletrici, insieme alle orme di Laetoli, dimostrano senza alcun dubbio che già Australopithecus afarensis, aveva adottato, 3.5 milioni di anni fa, la postura eretta. I primi strumenti di pietra lavorata risalgono invece a circa 2,5  milioni di anni fa, e sono associati ai fossili di Homo habilis.

[7] Marco Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti 2003

[8] Al contrario che nelle scimmie, che sono quadrumani, la differenziazione funzionale degli arti superiori negli ominidi è molto accentuata: per la prensione il rapporto è di due ad uno negli ominidi e di uno a quattro nelle scimmie antropomorfe.

[9]Nel pensiero occidentale la mano subisce uno strano destino. Per un verso nella nostra cultura, profondamente visiva e legata alla scrittura, la mano rappresenta lo strumento per verifiche ultime e accertamenti senza appello. «Toccare con mano» significa conoscere direttamente, andare a capire di persona, non lasciare spazio all’inganno. Per un altro verso, però, nella tradizione occidentale la mano sembra vivere una condizione di completa inferiorità rispetto alla vista: il tatto è senso del limite in un modo del tutto diverso. Proprio perché legata alla presa diretta e al contatto con la materia, la conoscenza manuale è considerata di solito approssimativa, grezza, poco efficace. La mano, secondo questa idea, non coglie un limite ma vive un limite: deve tastare per successioni un mondo che non conosce nella sua interezza e mai completamente. La mano è senso del limite perché ristretto è il suo raggio d’azione e deficitaria la sua forma di conoscenza.” (Mazzeo, cit)

[10] Anche quando l’andatura bipede si era ormai definitivamente affermata, il volume del cervello dei primi homo continuava a rimanere più o meno simile a quello delle altre scim-mie antropomorfe (sotto i 500 cc). L’accrescimento della scatola cranica è iniziato almeno un milione di anni dopo, in concomitanza con le prime tracce della lavorazione della pietra, datate circa 2,5 milioni di anni fa, e ha raggiunto il massimo circa 100.000 anni fa.

[11] Per dirla in termini più semplici: in un quadrupede il cranio è all’estremità di un asse orizzontale, quindi il suo volume e il suo peso non possono andare oltre un certo limite, pena uno squilibrio strutturale e uno sbilanciamento nei confronti del resto del corpo. In un bipede è invece posto in cima ad un asse verticale, quindi il peso scarica direttamente a terra, senza creare scompensi. Ergo: possibilità di uno sviluppo (quasi) illimitato del cranio, e del cervello da questo ospitato.

[12] Pur occupando solo il 2% del peso corporeo, il cervello umano consuma oltre il 25% del budget energetico di tutto l’organismo.

[13]Nell’Australopiteco, la laringe, organo situato alla fine della trachea e contenente le corde vocali, si trovava in una posizione più elevata nel canale respiratorio, permettendo così un maggiore spazio per la deglutizione del cibo ma impedendo l’articolazione dei suoni e, conseguentemente, il linguaggio. L’emissione di suoni che un australopiteco poteva produrre era probabilmente molto simile a un latrato. Il processo evolutivo ha dato vita a un mutamento genetico grazie al quale la laringe si è abbassata, il canale fonatorio si è allargato, la lingua è arretrata diventando più mobile e flessibile e favorendo così la modulazione dei suoni.” (A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio, Il Mulino 2010)

[14] Altri ricercatori segnalano tracce di una faringe di tipo moderno già in Homo ergaster, quindi quasi 2 milioni di anni fa, mentre un cranio di Homo heidelbergensis rinvenuto in Etiopia testimonierebbe che questa caratteristica aveva raggiunto l’aspetto attuale già 600.000 anni fa. In tal caso (tutto da verificare) un apparato vocale capace di produrre i suoni di linguaggio articolato sarebbe stato acquisito nella specie umana più di 500.000 anni prima delle più antiche testimonianze dell’uso del linguaggio dei nostri antenati.

[15] MacNeilage PF, Rogers LJ, Vallortigara G (2009), L’evoluzione del cervello asimmetrico, Le Scienze 493

[16]L’aumento incrementale del volume cerebrale negli ultimi due milioni di anni ha progressivamente accresciuto il controllo della corteccia sulla laringe, e fu quasi certamente insieme causa ed effetto del crescente uso della simbolizzazione vocale. […] il maggiore uso della vocalizzazione in epoche successive dell’evoluzione del cervello avrebbe inevitabilmente imposto una selezione sulla struttura del tratto vocale ad accrescerne in quello stesso periodo la controllabilità.” (Terrence Deacon, La specie simbolica, Fioriti 2001)

[17] La pianificazione dei movimenti balistici da parte del cervello, ad esempio, prerogativa dei primi ominidi, potrebbe aver facilitato lo sviluppo della corteccia cerebrale specializzata nella sequenza e coinvolta nell’ascolto del linguaggio parlato (area di Wernicke), promuovendo non solo il linguaggio, ma anche la capacità musicale e l’intelligenza.

[18] La capacità cerebrale passa da 800 cm3 nell’homo erectus a circa 1350 cm3 nell’homo sapiens sapiens in circa 700.000 anni. L’incremento del volume del cranio ha determinato il rimodellamento del cervello, con lo sviluppo della neocorteccia, in particolare dell’area di Broca, nella quale è riposta l’attività inerente il pensiero e il linguaggio dell’uomo moderno.

L’aumento del volume cerebrale aveva avuto però inizio già con homo habilis, che presenta una capacità cranica media di circa 760 cc. Il primo reperto che mostra chiari segni di un maggiore livello cognitivo, associato a una considerevole espansione della scatola cranica (fino a 1000 cc) e ad un’asimmetria tra i due emisferi, segno di un uso preferenziale della mano destra, è di circa 1,6 milioni di anni fa. Si tratta di un esemplare ben conservato, soprannominato il “ragazzo del Turkana”, trovato nella zona del lago omonimo, in Kenia.

[19] La definizione di Epigenesi, introdotta da Conrad Hal Waddington, potrebbe essere “tutti i processi di cambiamento durante il ciclo vitale di un organismo le cui istruzioni non siano contenute nella sequenza del DNA”. In altre parole, durante lo sviluppo noi acquisiamo delle informazioni dall’interazione fra i componenti di base dell’organismo (geni, proteine e altre sostanze) e fra questi e l’esterno, Le influenze comportamentali sono quelle riassunte nel termine di imprinting, processi di “canalizzazione” del comportamento che derivano da stimoli esterni nelle prime fasi di vita e addirittura a partire dalla nostra permanenza in utero. La trasmissione simbolica è quella che avviene appunto per via culturale. Le prime due modalità di informazione non vanno ad incidere sul DNA, ma agiscono a livello cellulare, e diventano ereditabili.

[20] C. O. Lovejoy ipotizza che la mutazione sia avvenuta con la comparsa di femmine prive dell’estro, e che questo apparente svantaggio evolutivo si sia poi risolto in una condizione vincente. (C.O. Lovejoy, Levoluzione degli ominidi. Preominidi e australopiteci, JacaBook, Milano 1989)

[21] Questo passaggio è raccontato molto bene in Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Bo-ringhieri, 2000

[22] Non esiste in realtà alcuna “astuzia dell’evoluzione”: quest’ultima non persegue remote o superiori finalità. Uso il termine a significare che i meccanismi selettivi non creano le condizioni migliori per la sopravvivenza, ma selezionano entro quelle esistenti le più favorevoli. Certe caratteristiche, positive in una particolare situazione ambientale, possano poi rivelarsi inutili o addirittura dannose in un altro contesto.

[23] Daniel Dennett, L’idea pericolosa di Darwin, Boringhieri 2004

Mal d’Africa

testi di Stefano Gandolfi, foto di Augusta Galelli e Stefano Gandolfi , 30 dicembre 2019
in apertura: Tanzania: acacie e verdi praterie fra Serengeti e Ngorongoro

Mal d'Africa copertinaSognavo il Malawi (e non ci sono mai andato)

Sul Kenia, ma anche su tutto il resto dell’Africa

Tanzania 2006

Uganda e Ruanda

Abazumbu: un ultimo ricordo dell’Uganda

Sognavo il Malawi (e non ci sono mai andato)

All’improvviso mi venne una pulsione irresistibile ad andare in Malawi; non so perché proprio in Malawi, sicuramente avevo molti buoni motivi per desiderare di andare, o meglio di tornare in Africa, continente che ormai mi aveva rubato l’anima, alla stessa stregua delle montagne su cui avevo consumato migliaia di passi e tanta parte della mia vita.

C’erano senz’altro molte spiegazioni, razionali o meno, per il Malawi: forse perché la nostra adorabile nipote Fiorenza aveva espresso il desiderio di andarci, a malapena sapendo che cosa fosse e in quale parte del pianeta si trovasse; e se una ragazzina di 15 anni esprime il desiderio di andare in Malawi piuttosto che a Ibiza, a Miami, in qualche discoteca del riminese o  in chissà quale altro tempio del divertimento agognato da tanti suoi coetanei, questo é già un valido motivo per sostenere una tale nobile aspirazione … certo, Fiorenza aveva avuto un battesimo del fuoco niente male, l’anno precedente, quando io e Augusta regalammo a lei e a suo fratello Andrea un memorabile viaggio in Botswana che sicuramente ha lasciato in loro un ricordo indelebile, un’esperienza indimenticabile, sette notti in tenda in mezzo alla savana con gli elefanti che rivendicavano il possesso del loro territorio occupato da strani animali con “cuccioli” ancora più strani, con i leoni che ruggivano nei dintorni dell’accampamento, del tutto indifferenti a prede che a quanto pare sono in fondo alla lista dei loro cibi preferiti; o perlomeno, così ci rassicurava Ian, il simpaticissimo ranger sudafricano che nell’immaginario dei nostri nipoti, con il passare dei giorni, si era man mano trasformato in un incrocio fra Indiana Jones, Rambo, l’Incredibile Hulk e il vincitore delle ultime sette edizioni della Dakar con la sua fantastica Land Rover condotta magistralmente per più di mille chilometri su problematiche piste di sabbia in territori totalmente disabitati, nelle incontaminate terre di confine fra acqua e deserto del delta dell’ Okavango, nei parchi di Chobe, Savuti e Moremi.

Mal d'Africa (2)

sopra: Botswana, Delta dell’Okavango, colazione nella savana con Fiorenza e Andrea sul cofano del Land Rover

sotto: Botswana, Delta dell’Okavango, un elefante si rinfresca al tramonto nelle acque del fiume Chobe

Mal d'Africa (3)

Ian che con una pazienza infinita cercava di cavare qualche parola di bocca da due pestiferi ragazzini che all’improvviso diventavano timidi ed incapaci di mettere insieme tre parole di inglese per paura di fare brutta figura, nonostante lo sapessero parlare perfettamente; Ian che cercava di farsi spiegare se la loro mamma gli faceva le lasagne e i tortellini con il parmigiano, mitico, leggendario ricordo di un suo viaggio in Italia; Ian che finalmente riuscì a dialogare con Andrea, alla sesta sera davanti ad un fuoco acceso sulle rive del fiume Chobe, vantando le gesta degli Springbocks sudafricani, con l’incredibile fotogramma di un ragazzo italiano che parlava di rugby e non di calcio, in inglese, con un rude guardaparco, sotto il cielo terso dell’ Okavango, senza nostalgia del televisore e della play-station, con un piumino addosso per il rigido clima dell’ inverno australe (ma chi lo ha mai detto che in Africa c’è caldo?) senza più tanta voglia di andare a rintanarsi in tenda nel sacco a pelo, perché la brace rischiarava ancora il crepuscolo davanti alla tenda-mensa ed il gin-tonic generosamente preparato dai boys per aperitivo gli circolava ancora nel sangue facendogli sognare gesta epiche, maramaldi incontri con bestie feroci e valorose riparazioni di guasti meccanici alla jeep pericolosamente bloccata in mezzo ad una mandria di elefanti infuriati. Tutto ciò mentre sua sorella, senza neanche bisogno di aver bevuto il gin-tonic, rideva come un’ubriaca, come un “bugaa-bugaa”, così la chiamava Ian, una specie di spiritello fastidioso ma non tanto molesto che popolava le leggende boscimane; ogni tanto le risate di “bugaa-bugaa” risuonavano ancora a tarda notte nella tenda, con le imprecazioni di suo fratello che voleva dormire … poi tutti due tacevano, sognando la “loro Africa”.

Un altro motivo per desiderare il Malawi probabilmente trae spunto da una serata a casa del Paolo, il nostro amico depositario della più sconfinata conoscenza letteraria, ma anche reale, che io abbia mai conosciuto sul viaggio, declinato in tutte le sue forme più nobili; Paolo, viaggiatore dello spirito, vera incarnazione del “viandante nelle nebbie” che sigilla la terza pagina di copertina di ogni suo libro; Paolo, che a ogni Natale e compleanno costituisce una sfida impegnativa nel riuscire a regalargli un libro che non abbia ancora letto, e se poi è un libro di viaggio e di viaggiatori la sfida è ancora più accesa, e la soddisfazione ancora maggiore quando ti dice: “ma dove lo hai scovato? Pensavo fosse fuori catalogo da anni!”  e comincia già a leggerlo prima ancora di portarselo a casa.

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Paolo, viaggiatore delle nebbie, maestro di viaggi, di cammino e di idee, nella sua libreria nella casa di Lerma

Non so di cosa stessimo parlando quella sera, se di viaggi, di montagna o di uno degli altri duecentosedici argomenti di cui si puo’ parlare con lui, comunque sia a un certo punto ha tirato fuori una vecchia enciclopedia geografica; forse si parlava della nostra salita sul Kilimanjaro nel corso dell’ultimo viaggio in Tanzania e voleva farmi vedere una foto della montagna, fatto sta che aprendo una pagina a caso ho buttato l’occhio su una foto del lago Nyassa, che altro non e’ se non il vecchio nome del lago Malawi, e poi sul trafiletto che descriveva il paese come una delle mete più selvagge, integre e paesaggisticamente varie di tutta l’Africa australe, con il lago così vasto da sembrare un mare, con le sue aspre montagne terreno di gioco di remote sfide alpinistiche, con la sua forma così lunga e stretta fra la Tanzania, lo Zambia e il Mozambico. Non diceva molto, ma quel poco era più che sufficiente per farmi crescere quella sottile inquietudine che si impadronisce di ogni persona malata di movimento e di inadeguatezza allo stare fermi in un posto per troppo tempo …

con Giorgio e Annalisa: a sinistra in Tanzania, salendo sul Kilimanjaro, sotto un enorme senecio a 4000 m. s.l.m.

Mal d'Africa (5)

a destra in Nepal, al lago di Tilicho, ai piedi dell’Annapurna, a 5000 metri s.l.m.

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Un ennesimo motivo per desiderare di andare in Malawi traeva spunto da un altro grande amico e compagno di viaggi: il Giorgio di Padova, conosciuto nel 2001 con sua moglie Annalisa in una “epica” traversata della catena himalayana, da Lhasa a Kathmandu; Giorgio e Annalisa coi quali, accomunati dalla passione per i viaggi e per la montagna, abbiamo poi fatto un lungo percorso che ci ha portato dopo alcuni anni a salire in cima al Kilimanjaro, in Tanzania, in cima a un vulcano di 6000 metri in Bolivia e a compiere trekking himalayani in Nepal e Tibet. Giorgio ci aveva raccontato più volte di quanto desiderasse andare, magari al momento della pensione, in Zambia (paese confinante col Malawi) a collaborare con un suo caro amico, missionario comboniano che da anni era laggiù a fare quello che i turisti a malapena intuiscono e sicuramente rimuovono, cioè il lavoro sporco, difficile, di chi cerca di aiutare le popolazioni africane, l’altra faccia della medaglia di un continente incredibilmente bello, struggente e sciaguratamente maledetto per le sue tragedie di guerre, conflitti, crudeltà, irresponsabilità per le quali nessuno ha le mani pulite, innanzitutto le cosiddette “civiltà’” occidentali che dopo la colonizzazione hanno lasciato lo sfacelo totale, favorendo la presa del potere da parte di improbabili classi dirigenti incapaci, corrotte e manipolate dalle stesse potenze ex-coloniali che con altre modalità hanno continuato a tenere sotto controllo la situazione per ovvie ragioni di sfruttamento economico (basti pensare ai diamanti …) e di geopolitica (prima le vecchie potenze europee, poi americani, russi e cubani, adesso la Cina e in epoche ancora più recenti gli integralisti islamici con il loro intento di sottomettere ideologicamente e politicamente il Corno d’Africa e altre regioni del continente); ma anche gli stessi popoli africani, che, pur con tutte le attenuanti e le giustificazioni possibili, non sono stati e continuano a non essere esenti da colpe, come nel caso più eclatante Robert Mugabe in Zimbabwe, senza andare oltre perché ci vorrebbero decine di libri di ben più illustri ed autorevoli critici di storia e di politica per fare solo un tentativo di analisi.

Il lavoro dunque dei missionari, dei volontari, perlomeno di quelli in buona fede, perché anche in questo campo ci sono speculazioni e nefandezze inimmaginabili, come magistralmente descrive Paul Theroux nel suo bellissimo “Dark Star Safari”, in cui esprime tutto il suo disgusto per le immacolate Land Cruiser e Land Rover bianche, nuovissime, inavvicinabili dei cosiddetti benefattori, autoreferenziali e vestiti di impeccabili divise sahariane, sempre fresche, stirate e profumate.

Sembra quasi che per una sorta di oscuro maleficio ogni cosa abbia a che fare con l’Africa, anche se all’origine motivata dalle migliori intenzioni, all’atto pratico si mescoli, si inquini, si infetti con un rivolo infinito di compromessi, ricatti, malintesi, goffaggini provocate da impreparazione e superficialità, insomma tutte situazioni che o per malafede pura e semplice o, seppure con una buona fede iniziale, portano a danni ancora più gravi di quelli già esistenti … e allora ancora di più, in chi riesce a non rimanere impassibile di fronte a certe situazioni, che magari si conoscono da vicino per la prima volta nel corso dei quindici giorni superficiali di vacanza, e che comunque, seppure solo sfiorate, sono uno shock rispetto al leggerle sui giornali e al vederle nei TG, allora dunque, anche in persone cosiddette “normali”, non necessariamente eroi, missionari o Madri Terese di Calcutta, viene il desiderio di fare qualcosa di più, di conoscere meglio, con meno superficialità, di cercare di dare una mano; senz’altro un pensiero confuso, indistinto, che deve essere finalizzato per non diventare inutile o dannoso, ma che prima o poi torna ad affiorare e a farsi spazio nella giungla mentale e materiale della vita quotidiana, così masochistica e stressante, ma della quale quasi nessuno sembra poter fare a meno, per inerzia, pigrizia, impotenza, rassegnazione, o semplicemente perché poi in fondo ci piace così.

Avevo dunque molti motivi per desiderare di andare in Malawi, anche se in realtà non avevo bisogno di nessun motivo particolare per rimettermi in viaggio, con destinazione Africa o qualunque altro continente; il vantaggio di non avere viaggiato molto, perlomeno non tanto quanto i professionisti di vario genere (giornalisti, volontari..) o quanto i collezionisti di timbri sul passaporto (sottocategoria di viaggiatori  agguerrita e bellicosa, pronta a sfruttare al meglio le possibilità offerte dalla disgregazione dell’ex-URSS, dell’ ex-Jugoslavia o simili per incrementare il numero dei Paesi visitati), il vantaggio dicevo è quello di avere ancora decine e decine di mete, tante da avere bisogno di altre sei o sette vite per esplorarle tutte: ma almeno una per il prossimo viaggio ci sarà sicuramente! In realtà non sento la necessità di mettere a tutti i costi timbri di nuove nazioni sul passaporto, anzi desidererei forse più di ogni altra cose tornare in paesi già visitati per poterli conoscere meglio, per approfondire aspetti colti superficialmente, per vedere cose inevitabilmente trascurate, per poter essere un po’ meno turista e un po’ più viaggiatore.

Il viaggio in Zambia, già organizzato con biglietti aerei in mano, saltò all’improvviso per una malattia dell’amico comboniano, e per non perdere il volo già prenotato fino ad Addis Abeba (scalo tecnico per lo Zambia) ci fermammo in Etiopia, ulteriore esposizione al virus del “Mal d’ Africa”. L’idea dell’impegno in una missione umanitaria non venne rimossa, solo rinviata di qualche anno e con una destinazione diversa, il Nepal del post-terremoto del 2015. Ma di questa storia parleremo in seguito.

Sul Kenia, ma anche su tutto il resto dell’Africa

Mal d'Africa (7)

Io e Augusta condividiamo due grandi passioni: quella per la montagna e per i trekking da una parte, quella per i viaggi dall’altra; in entrambi i casi entra in gioco un’altra passione comune, quella per la fotografia e, da parte mia, anche quella per la scrittura, per contribuire a salvare i ricordi e le emozioni vissute. E proprio in Africa abbiamo avuto l’occasione di fare la nostra vacanza perfetta, quella che ci ha permesso di unire le due grandi passioni: in Tanzania, dove nella prima settimana abbiamo realizzato la salita al Kilimanjaro, il tetto dell’Africa, e nella settimana successiva ci siamo riposati ed appagati con un meraviglioso safari nei parchi nazionali di Serengeti e Ngorongoro. La Tanzania è separata dal Kenya da un confine che non è altro se non una linea retta tracciata da qualche burocrate dei tempi coloniali su una carta geografica; e fin dal nostro primo viaggio in Africa ci rimase il desiderio di visitare anche il Kenya, i suoi parchi e, perché no, anche per rivedere dalla parte opposta del confine, il nostro Kilimanjaro; abbiamo fatto molti altri viaggi in Africa che ci hanno portato in in Sudafrica, il paese forse meno tipicamente africano del continente australe, in Botswana, nel paradiso terrestre del delta dell’ Okavango, in Namibia, sulle dune più alte del mondo del deserto del Namib, a vedere le cascate Vittoria al confine fra Zambia e Zimbabwe, in Uganda e Ruanda alla ricerca dei gorilla di montagna, anche qui un impegnativo mini-trekking nella foresta equatoriale finalizzato alla indimenticabile emozione di conoscere ed avvicinare i nostri più stretti cugini, a rischio di estinzione e rimasti in non più di 700 esemplari in tutto il mondo; abbiamo visitato anche l’Etiopia, scoprendo scenari di natura e di arte inimmaginabili, e poi, alla fine, abbiamo avuto l’occasione di vedere il Kenya, in un viaggio di breve durata ma di grande intensità, finalizzato ai safari nei parchi e all’ avvistamento e alle fotografie dei loro animali.

Mal d'Africa (8)

Tanzania, Mto Wa Mbu (paese delle zanzare): il giovane Masai ha imparato molto presto ad accudire alla ricchezza di famiglia.

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Kenya, Great Rift Valley; un enorme solco nella crosta terrestre taglia l’Africa orientale: qui è nata la razza umana

Il Kenya rappresenta una meta classica per eccellenza, un luogo nel quale si possono concentrare molte delle immagini più simboliche e convenzionali dell’Africa. Penso che anche chi non l’abbia mai visitata, ma abbia avuto modo di leggere un libro come “La mia Africa” di Karen Blixen, e di vedere il film con Meril Streep e R. Redford tratto dal libro, conserverà per sempre almeno una immagine che racchiude tutta l’essenza del luogo: l’immensa distesa della savana, qualche collina sullo sfondo; in mezzo alla savana, solitaria, un’acacia con i rami ad ombrello sotto i quali, all’ ombra, si riposa un elefante o una giraffa; e se ti tratta del parco di Amboseli, sullo sfondo si vedrà il Kilimanjaro, la montagna più alta del continente, al confine, come abbiamo detto, fra Kenya e Tanzania. E il Kenya, come peraltro tutta l’Africa, si presta bene a smentire tanti pensieri preconcetti. E allora è senz’altro stimolante, quasi una sfida a raccontare un paese diverso dall’immaginato nelle atmosfere, nei paesaggi, nelle persone, nel clima, negli animali.

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Kenya, Parco Nazionale di Masai Mara: fra poco sarà notte, la jeep corre veloce verso il lodge, ma l’ultimo squarcio di luce sulla savana ci fa fermare, ammutoliti.

Il clima, per esempio: tutti pensano che in Africa faccia caldo, forse è il pensiero più ovvio, ma in realtà può fare anche molto freddo, e non solo in cima al Kilimanjaro, a 6000 metri di quota, dove abbiamo toccato 15 gradi sotto lo zero partendo a mezzanotte dall’ultimo campo per arrivare poi in vetta sferzati da un vento gelido sul ciglio dell’enorme cratere sommitale, ma anche sui grandi altipiani di Serengeti, di Masai Mara, a Ngorongoro a più di 2000 m di quota; e comunque in tutti i parchi dove abbiamo fatto safari, quando all’alba, mezz’ora prima del sorgere del sole, si parte su un fuoristrada aperto, già con il tettuccio sollevato per non perdersi i primi animali, e si è bardati come d’inverno o come in montagna, con pile, piumino cappello di lana e guanti, e si è talmente intirizziti che le prime fotografie non riesci quasi a scattarle perché se ti sfili i guanti perdi subito la sensibilità alle mani; e solo dopo una-due ore cominci piano piano a scaldarti e a toglierti qualcosa di dosso.

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Ruanda, Parco Nazionale dei Vulcani: semisommersi nella vegetazione della foresta equatoriale, scortati dai ranger armati al confine con il Congo, in marcia verso l’ incontro con i gorilla di montagna a 2700 metri s.l.m.

E poi l’Africa verde, l’Africa rigogliosa, fertile, così diversa dal deserto, dalla savana, dall’aridità di molti paesaggi che significano anche tragedie umane per siccità e carestie; l’ Africa di regioni che somigliano alla Toscana o alle campagne inglesi, come abbiamo visto in Kenya, in Uganda, in Ruanda, nelle piantagioni di the o di altre colture intensive; l’Africa equatoriale con le sue foreste che ti richiamano alla mente gli ambienti del “Cuore di tenebra” di J. Conrad, dove ti perdi fisicamente e mentalmente, come quando camminavamo in affanno per la fatica, il caldo e l’umidità alla ricerca dei gorilla di montagna al confine fra Ruanda, Congo ed Uganda, grondanti di sudore e in apprensione per la comparsa improvvisa di un possente maschio alfa con la sua schiena argentata …

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Un’altra sensazione strana l’abbiamo vissuta subito all’arrivo in Kenya, in piena notte, quando siamo stati accompagnati in un albergo alla periferia della città, vicino all’ aeroporto, dove all’alba avremmo avuto l’incontro con la guida-autista che ci avrebbe accompagnato nei parchi; alle prime luci del giorno ci siamo accorti, mentre facevamo colazione, che la terrazza del ristorante regalava un colpo d’occhio bellissimo su un’enorme distesa verde di vegetazione e di boscaglia. Si trattava del parco nazionale di Nairobi, non uno zoo ma un vero autentico parco nazionale alle porte della città, dove è possibile fare un safari con i grattacieli sullo sfondo e con gli animali liberi tanto quanto nei parchi a 300 km dalla capitale: questo rappresenta e simboleggia uno dei tanti contrasti e delle tante contraddizioni che colpiscono al cuore il turista viaggiatore, che si aspetta un’africa alla “mia africa” e non le giraffe e le zebre sullo sky-line di una metropoli da tre milioni di abitanti, dove l’incanto dell’ ambiente e della fauna selvatica si confonde con il rumore dei motori delle auto e dei camion sulle superstrade e sulle circonvallazioni..  ma tutto ciò è strano per noi, non per i locali, che vivono un’Africa in divenire, dove ai simboli del turismo vogliono associare anche l’idea di uno sviluppo, di un progresso del quale noi conosciamo tutti gli aspetti negativi mentre loro, al contrario, lo percepiscono come un obiettivo da raggiungere, costi quel che costi. E mentre noi ci commuoviamo, nei villaggi, a vedere le strade sterrate, la polvere, l’avventura da camel trophy, le capanne costruite col fango, i costumi tradizionali, i bambini che ci salutano stupiti mentre noi passiamo veloci sui nostri fuoristrada, in realtà la nostra stessa presenza, coi nostri vestiti alla moda, i nostri telefonini e smartphone, le nostre videocamere, i nostri occhiali da sole e i cappellini da baseball sono un inevitabile punto di non ritorno per ogni adolescente che cercherà in ogni modo di imitarci, di abbandonare il villaggio per cercare una nuova vita nella città con i miti del consumismo da raggiungere, magari in stile africano, con tutta la loro vivacità, i loro colori, il loro entusiasmo, il loro modo di vivere la socialità anche in mezzo alla strada, con la musica, la festa, le amicizie in mezzo al caos assoluto….

… e mentre noi andiamo a casa loro a cercare un improbabile shangri-la, un paradiso terrestre perduto, rimpiangendo la loro semplicità e l’essenzialità della loro vita, loro cercano di raggiungere il nostro stile di vita. Questa considerazione, questa contraddizione, non ci abbandoneranno mai, in ogni circostanza, nei nostri viaggi in Africa, ma non solo, ed è probabilmente una delle esperienze più significative che si riportano a casa ad ogni ritorno.

È uno dei tanti motivi perché, ad ogni ritorno, ci prende ancora più forte la voglia di rimetterci in viaggio; perché il mal d’africa non è un luogo comune, una frase fatta: si tratta di una malattia reale, una malattia piacevolissima dalla quale non si vorrebbe mai guarire né tanto meno farsi vaccinare, come per la febbre gialla, o prevenirne l’insorgenza come per la malaria. E io che sono un medico e di malattie me ne intendo, mi sento di consigliare a tutti il contagio da parte di questo meraviglioso virus.

Perché si soffre di mal d’Africa? ci possono essere tante spiegazioni, la prima delle quali è di tipo psicoanalitico: noi veniamo tutti dall’Africa, la razza umana è nata lì ed è partita da lì. All’ inizio eravamo pochissimi, un milione di individui al massimo, e poi siamo diventati quelli che siamo e abbiamo colonizzato tutto il pianeta: ma forse, come un elastico che si allunga e poi si deve accorciare, tutti noi sentiamo istintivamente, inconsciamente l’impulso di tornare al luogo delle origini. Esiste un luogo sacro per gli antropologi, è la Great Rift Valley, un enorme solco, una profonda ferita nel cuore della terra, provocato dallo spostamento dei continenti, che scende dal Libano e dalla penisola arabica da nord-est a sud-ovest e attraversa l’Etiopia, il Kenya, l’Uganda e la Tanzania per finire in Mozambico.

In questa grande valle è stato trovato lo scheletro di una delle nostre progenitrici, che adesso si trova al museo nazionale di Addis Abeba. È alta un metro e sette centimetri, ma è già un essere umano compiuto, è la nonna di tutti noi, è stata chiamata Lucy dai suoi scopritori, in onore di una canzone dei Beatles che veniva suonata alla radio durante gli scavi, Lucy in the sky with diamond. Come molti di voi sapranno, il titolo di questa canzone in realtà dissimula una sigla, LSD, che è la formula chimica di una famosa droga allucinogena che furoreggiava in quegli anni.

E mentre noi abbiamo reso omaggio alla nostra quadrisnonna ad Addis Abeba, e siamo rimasti muti e stupefatti di fronte alle gole di Olduvai, in Tanzania, uno dei siti più importanti per il ritrovamento degli australopitechi a cui apparteneva Lucy, e ancora, mentre spostandoci da Nairobi a Masai Mara abbiamo ammirato dall’alto della strada il grande solco della Rift Valley che tagliava a metà il Kenya, stupefatti di fronte alla grandiosità del paesaggio, un pensiero divertente e irreverente mi è venuto in mente: ovvero che dei seri scienziati, quali gli antropologi che rimarranno nella storia per le loro grandi scoperte sui nostri antenati e che hanno trovato lo scheletro di Lucy, hanno involontariamente legato l’origine della razza umana ad una droga allucinogena che ha simboleggiato una delle epoche più vivaci e trasgressive della nostra storia, quella degli anni ‘60 del secolo scorso.

Nelle immagini che abbiamo scattato ci siamo portati a casa l’Africa degli animali selvaggi, quindi un’ Africa classica e molto corrispondente alle aspettative, ma anche quelle scattate in un villaggio Masai: questa fiera e nobile popolazione locale ha ottenuto dal governo del Kenya il diritto di reinsediarsi nella riserva, da cui in origine erano stati scacciati, e di pascolare i propri animali nei confini della riserva, la qualcosa permette al popolo Masai di usufruire di qualche vantaggio dall’ utilizzo della riserva, a differenza di altri parchi nazionali che sono sotto la giurisdizione diretta del governo e che esclude completamente le popolazioni locali; qui stiamo parlando di uno dei luoghi simbolo di tutta l’africa naturalistica, alla pari del corrispettivo parco di Serengeti in Tanzania che in realtà è semplicemente la continuazione dello stesso territorio in un’ altra nazione confinante, ma con gli stessi paesaggi, le stesse atmosfere gli stessi animali che tutti gli anni compiono grandi migrazioni da sud a nord e viceversa, come celebrato in tanti reportage televisivi e in tante immagini sulle riviste di settore.

Addis Abeba, National Museum of Ethiopia: lo scheletro di Lucy, la nostra progenitrice. All’origine di tutto!

Mal d'Africa (14)

Kenya, Masai Mara, popolo Masai: grandi guerrieri e cacciatori, sanno fronteggiare bene anche i turisti armati di reflex e videocamere.

 E anche su questo argomento mi piace fare una considerazione: nella civiltà delle immagini, alle quali siamo esposti in continuazione spesso in overdose, tante volte io ho temuto di avere un impatto emotivo ridimensionato, nel momento in cui vedevo dal vivo i luoghi meta dei nostri viaggi, a causa del fatto di averne già visto centinaia, migliaia di immagini, di video, di resoconti; questa paura mi inquietava prima di visitare alcuni luoghi fra i più belli del mondo, come le rovine di Machu-Picchu in Perù, o come il Potala, la grandiosa residenza del Dalai Lama a Lhasa, la capitale del Tibet, o come di fronte alle cascate Vittoria al confine fra Zambia e Zimbabwe o quelle di Iguazù fra Brasile e Argentina; ma anche nei confronti degli animali selvaggi della savana, che qualcuno sicuramente avrà visto, seppure in circostanze molto tristi e deplorevoli, negli zoo-safari esistenti anche nelle nostre regioni: ma nulla di tutto ciò può minimamente valere l’impatto dell’esserci veramente, di vedere dal vivo luoghi, persone, animali, nel loro ambiente naturale, con tutto ciò che non potrà mai essere registrato su un nastro magnetico o su un supporto digitale come gli odori, i rumori sentiti con le proprie orecchie, le emozioni, la fatica, il sudore, anche l’inquietudine, alcune volte, la consapevolezza di non essere dentro un grande gioco, dentro uno zoo, perché ti trovi veramente faccia a faccia con un leone che non ha ancora fatto colazione, o un elefantessa con il proprio cucciolo da difendere e che può diventare all’ improvviso molto aggressiva. O lo stesso comportamento delle guide e dei piloti delle jeep, che spesso simulano la sicurezza indispensabile per far sentire a proprio agio i clienti mascherando un malcelato nervosismo per una situazione inaspettata o imprevedibile: come quando, in occasione di una delle tante forature di un pneumatico in un punto dove non era consentito scendere dalla jeep in quanto totalmente esposti alla presenza degli animali, siamo stati comunque obbligati, con nostra grande emozione, a scendere per permettere la sostituzione della gomma, e in quei pochi minuti, senza la protezione del mezzo meccanico, abbiamo realizzato che eravamo veramente lì, in mezzo alla savana, senza difese, estranei in un ambiente potenzialmente ostile, come uno sciatore fuoripista rispetto a quelli, magari solo pochi metri distanti, che scendono sulla pista battuta. In definitiva la sensazione di essere comunque solo degli spettatori, a casa di altre persone o nel regno di animali che meritano tutto il rispetto e la consapevolezza che non siamo dominatori. Anche questa è una grande lezione da portare con sé, soprattutto in quegli ambienti dove i predatori e gli altri grandi abitanti della savana e delle foreste sono a rischio di estinzione per la caccia perpetrata dagli esseri umani per profitto economico o per puro divertimento, o semplicemente per la riduzione dei loro spazi vitali conseguenza dell’espansione dell’urbanizzazione o dello sfruttamento delle terre. Molti degli animali che abbiamo visto e fotografato rischiano di estinguersi, a breve o a medio termine, e anche questa è una grande emozione, il privilegio di poter vedere qualcosa, assistere a delle scene di vita che magari in un futuro prossimo i nostri figli o nipoti, potranno solo rivedere sui nostri fragili supporti informatici, con lo stesso stupore ed incredulità con cui adesso guardano Jurassic Park o i documentari sui dinosauri.

Mal d'Africa (15)

Sudafrica: scolaresca a Città del Capo; sui muri della scuola testimonianze di storia recente dell’apartheid

Parlare solo della natura, dei parchi nazionali, degli animali, può dare l’impressione di un atteggiamento snobistico, superficiale, elitario: purtroppo non solo oggi ma da molto tempo, da secoli, l’Africa è un continente segnato da tragedie umane spaventose, dall’ epoca della deportazione degli schiavi fino al colonialismo e al post-colonialismo che forse ha fatto danni ancora maggiori, per finire con l ‘ “invasione” cinese (land grabbing e non solo) e con il tentativo da parte dei fondamentalisti islamici di soggiogare il corno d’ Africa a est e il territorio maghrebino e sub-sahariano.

Mal d'Africa (16)

Uganda, ragazzo con machete; cresce in fretta, ha nelle mani il suo destino: di guerra, di pace o di violenza? 

Mal d'Africa (17)

Uganda, venditrice al mercato sulla strada per Kampala, piramidi di pomodori sul ciglio della strada.

Il Kenya e l’ Uganda sono le due nazioni che contribuiscono in modo più rilevante, numericamente, alle interforze militari del continente che cercano di arginare i fondamentalisti di Al-Shabaab in Somalia e questo ha provocato numerose ritorsioni contro i civili di questi paesi, anche in tempi molto recenti; noi abbiamo avuto modo di venirne a conoscenza quasi direttamente, con due episodi simili in tempi molto vicini ai nostri viaggi in Uganda e Kenya: un mese prima del nostro arrivo a Kampala, quando una bomba in un locale dove trasmettevano le immagini del Mondiale di calcio in Sudafrica fece più di cento vittime; la seconda volta poco dopo il nostro rientro da Nairobi: al ritorno alla capitale da Amboseli siamo stati accompagnati ad un albergo in attesa della partenza dell’ aereo per l’Europa, all’una di notte; in questi casi si dispone di una stanza ove si può riposare, farsi una doccia, rimettere in ordine i bagagli prima della partenza; la nostra guida, salutandoci per l’ultima volta, ci disse che se volevamo sfruttare ancora qualche ora, potevamo girare un po’ per Nairobi, ma con molta cautela, in quanto è una città abbastanza pericolosa, quindi con tutte le precauzioni del caso, vestiti male, con pochi soldi addosso e senza dare nell’occhio; se volevamo correre meno rischi, avremmo potuto invece attraversare la strada e fare un giro nel centro commerciale davanti all’ albergo: era nuovissimo e se ci mancava ancora qualche acquisto dell’ultimo momento, l’ultimo souvenir mancante, lì avremmo trovato di tutto. Alla fine eravamo stanchi e non ci siamo mossi dall’albergo. E dopo tre mesi, quando abbiamo sentito la notizia dell’assalto a un centro commerciale di Nairobi con tutto ciò che ne è seguito (circa settanta vittime), ho guardato su Google la mappa della città e la localizzazione del nostro albergo, e ho scoperto che era esattamente davanti a quel centro commerciale: tre mesi più tardi e con un regalo ancora da comprare, ci potevamo essere anche noi.

Questa storia non significa nulla di più se non che il pericolo può essere ovunque, basta essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato, ma il posto sbagliato può essere anche quello meno prevedibile, pensiamo a New York l’11/9/2001, alla metro di Londra quando c’è stato l’attentato nel 2006 o quelli più recenti in Francia e Germania: ma una cosa del genere potrebbe anche succedere a casa nostra, a Milano o in qualunque altra città. E se uno pensa a un posto pericoloso in Kenya, semmai pensa alla costa, dove ogni tanto assaltano i turisti per rapinarli, o al nord, vicino al confine con la Somalia, dove puoi imbatterti in bande di predatori o di terroristi. Questo aneddoto, in definitiva, serve anche a ricordarci che mentre gli animali non sono cattivi per sadismo ma semplicemente possono essere pericolosi perché per istinto sono programmati a cacciare per vivere o comunque a difendere se stessi e i loro cuccioli quando si sentono minacciati, l’uomo invece può manifestare cattiveria pura, sadismo, crudeltà e auto compiacimento delle proprie efferate imprese, come, per esempio, a proposito del massacro degli elefanti per il commercio dell’ avorio, o come si potrebbe parlare a lungo, ma non è certo il momento per farlo, di tutte le storie tragiche di guerre civili etniche, religiose, economiche che hanno insanguinato il continente africano negli ultimi decenni.

Quindi, in definitiva, anche se può sembrare un po’ snobistico dedicarsi all’osservazione degli animali quando nell’Africa degli uomini ci sono situazioni tragiche che meriterebbero interventi fino all’ultima goccia di energia a disposizione, in realtà il mondo degli animali ci può dare lezioni di vita senza pari, senza cadere nella retorica del libro della giungla o nell’inganno della natura idilliaca che assolutamente non esiste; le leggi della natura sono le più spietate al mondo, poiché sono basate sulla logica della sopravvivenza pura, ma proprio per questo, come dicevamo prima, del tutto esenti da sadismo o crudeltà. Se si ha la fortuna, o per altri versi la sconvolgente esperienza di assistere ad una scena di caccia animale, di quel tesissimo gioco fra predatori e prede che quasi sempre non finisce in pareggio, ma con la vittoria dell’uno e la morte dell’altro, si è spettatori di uno dei più drammatici spettacoli cui si possa assistere. Spesso ci si immedesima nella sorte delle vittime e si fa il tifo che almeno per una volta possano sfuggire al leone o al ghepardo, ma il coinvolgimento umano è del tutto parziale ed ingiusto, perché dall’ altra parte, ribaltando i punti di vista, ci sono dei cuccioli di leone o di ghepardo che moriranno se la madre non riuscirà a catturare la preda. Quindi da qualunque punto di vista la si voglia guardare, la natura è crudele, e questo è il motivo per cui è sufficiente e gratificante la sola visione degli animali in quiete, anche se non si riesce a portarsi a casa le immagini delle scene di caccia che tante volte si vedono in tv, e spesso anche in foto e video amatoriali di turisti come noi, che suscitano emozione ma anche sgomento e raccapriccio negli animi più sensibili.

Però, se si riesce a ragionare a mente fredda, io penso comunque che guardare un qualunque telegiornale o video su internet di un qualsiasi episodio di guerra, di terrorismo, di mafia, camorra, violenza privata, sadismo, serial killer, fondamentalisti religiosi e tutte le altre varietà della follia umana, tutto questo possa far ricredere anche sulla drammaticità delle immagini di vita nella savana. Dove l’immagine che alla fine si porta a casa più volentieri è quella di mamma leonessa che pulisce il muso del cucciolo leccandolo continuamente, e se questi non fosse d’accordo, la mamma risolve tutto con una poderosa zampata che lo stende al suolo.

Mal d'Africa (18)

Etiopia, giovane discepolo della dottrina copta in una delle chiese ipogee di Lalibela

Mal d'Africa (19)

Etiopia, pastore sugli altipiani dell’acrocoro

Mal d'Africa (20)

Etiopia, pellegrine si riposano in prossimità del Monastero di Debre Libanos

Tanzania 2006

 Eccoci a parlare della Tanzania, un viaggio che ci ha permesso di fotografare l’Africa sotto un mare di nuvole dal suo punto più alto, alle otto in punto di mattina di una interminabile giornata che in sette ore di marcia ci ha portato a toccare i residui ghiacciai del Kilimanjaro, la montagna più alta del continente. Un enorme vulcano spento alto quasi 6000 metri, con la vetta scintillante per i ghiacciai che purtroppo negli ultimi anni si stanno riducendo per i cambiamenti climatici; ma proprio in questa immagine super-classica si nasconde già qualcosa di anomalo, di inaspettato: questi ghiacciai sulla vetta del Kilimanjaro sono un aspetto dell’ Africa che sicuramente, ai tempi delle grandi esplorazioni, nessuno si aspettava che esistesse, tant’è vero che il primo esploratore europeo a vederli, a metà ottocento, non è stato creduto per decenni. Tutti pensavano avesse avuto delle allucinazioni o che fosse un visionario o un bugiardo; nessuno poteva credere che proprio a ridosso della linea dell’equatore potessero annidarsi ghiacci eterni, semmai di competenza delle nostre Alpi, non certo del*l’Africa nera… e questo probabilmente è stato il più colossale dei luoghi comuni a dover essere smentito; ma forse un giorno non troppo lontano, fra pochi decenni, quando l’effetto serra avrà completato la sua opera, esisteranno nuovamente solo nel ricordo e nelle immagini di chi come noi ha avuto il privilegio di arrivarci ancora in tempo.

E dopo la salita del grande vulcano, una settimana di meritato riposo e di fotosafari nei parchi nazionali, fra i più celebri di tutto il continente, da Serengeti al cratere di Ngorongoro passando per Tarangire e Lake Manyara. Si può definire una vacanza perfetta, perché in due settimane ci ha permesso di unire due nostre grandi passioni, quella per la montagna, il trekking e l’alpinismo da una parte, e quella per la natura dall’ altra, in particolare per quell’Africa che viene definito un virus che provoca un contagio cronico e incurabile, che non pregiudica la qualità di vita salvo che in caso di astinenza prolungata dalla possibilità di ritornarci. Quel mal d’Africa che è tutt’ altro che un luogo comune, ma in questo caso corrisponde a pura verità. Se poi alle due passioni suddette si affianca quella per la fotografia, il risultato è un cocktail eccezionale di emozioni e di ricordi. La Tanzania è stata per noi la porta d’ingresso per l’Africa, il primo viaggio importante nel continente dopo un fugace passaggio in Marocco qualche anno prima; ma lì è nordafrica, bella ma completamente diversa dalle regioni centrali, equatoriali.

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salendo alla vetta del Kilimanjaro, l’alba illumina le nuvole e il vulcano secondario di Mawenzi

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Serengeti National Park, due zebre di Burchell si scambiano carezze e le ultime notizie

Un lungo viaggio passando da Amsterdam, un’assurdità volare a nord per poi scendere a sud, ma così bisogna fare per non pagare cifre folli! Poi ancora uno scalo tecnico a Nairobi, infine un piccolo aereo turistico che ci ha regalato il primo sguardo ravvicinato sulla nostra montagna per farci atterrare infine a Moshi, base di partenza per tutte le spedizioni di trekking e alpinismo. Subito tutta l’atmosfera che ci immaginavamo e che avremmo respirato molte altre volte in seguito: i colori, la gente, la vita vissuta per strada, una povertà discreta e dignitosa, bambini perennemente in movimento, selvaggi nella polvere, nel fango, in mezzo alle vie e alle piazze, nei mercati, lungo i rii. Chiese e moschee a poca distanza senza problemi di convivenza, e all’epoca era ancora fresco il ricordo dell’11 settembre, ma non si immaginava ancora quello che sarebbe arrivato dopo.

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MOSHI, TANZANIA: sartoria “on the road”, vita vissuta sulla strada

Il giorno dopo si sale sul pulmino dell’agenzia locale, insieme ai portatori e alle guide che è obbligatorio assoldare in base alle normative vigenti nel parco, ovviamente per garantire un adeguato guadagno alla popolazione locale, oltre che per motivi di sicurezza e di protezione per i trekkers; può sembrare strano, ma sul versante nord della montagna, quello che guarda verso il confine col Kenya, ci sono alcune vie di salita, peraltro più impegnative e mal tracciate, ma soprattutto è necessario avere una scorta armata per il rischio di venire aggrediti e rapinati da bande di predoni; sul versante sud, dove si concentrano le vie più frequentate, vi è maggiore sicurezza, ma è comunque obbligatorio affidarsi a qualcuna delle innumerevoli agenzie che organizzano la salita a costi diversi e con logistica più o meno spartana. Il nostro trekking inizia tre chilometri prima del previsto in quanto il pulmino si impantana nel fango nonostante lunghi tentativi di sbloccare la situazione, per cui alla fine ci si carica addosso i bagagli e si raggiunge la porta d’ ingresso della Via Machame. Si è scelta questa, anziché la più frequentata e veloce Via Marangu, in quanto quest’ultima è fin troppo diretta e veloce e non garantisce un’adeguata acclimatazione, col paradosso di un tasso di insuccessi del 60-70% per chi la affronta a causa del mal di montagna. La nostra guida italiana, Marco Cunaccia di Alagna Valsesia, ci porta invece su una via più lunga, molto più spettacolare perché taglia con un lunghissimo traverso tutto il versante sud del vulcano. Ci farà accampare 4 notti a 4000 metri e oltre per migliorare il più possibile l’acclimatazione che comunque non sarà mai adeguata per la quota della vetta, appena meno di 6000 metri. Pochi giorni per arrivare in cima, quando in Himalaya per arrivare a quote analoghe si possono impiegare anche 8-10 giorni o più, con aspettative molto migliori per non soffrire l’ipossia.

Questo ragionamento medico-alpinistico non rimane nel limbo delle speculazione teoriche, perché abbiamo sperimentato in pratica con due episodi, uno drammatico, l’altro meno, la veridicità del problema: innanzitutto su 10 persone del gruppo, siamo arrivati in vetta solo in tre, nonostante la via più lunga e la salita più graduale, per scarsa acclimatazione degli altri sette, e questo ha rappresentato solo un fastidio e un dispiacere per i protagonisti che non ce l’ hanno fatta; il secondo episodio, drammatico e che mi ha coinvolto come medico, ha avuto come vittima una ragazza olandese, appartenente ad un altro gruppo, che dopo essere stata male tutta la notte, nella sua tenda, con sintomi di edema polmonare e di edema cerebrale alla quota nemmeno elevatissima di 4000m, alla mattina era in coma. Quando sono stato avvisato della situazione, nonostante le abbia praticato tutti i farmaci che avevo con me per queste circostanze, non si è ripresa, e dopo un vano tentativo da parte dei portatori di farla scendere legata a una barella improvvisata di tronchi d’albero a bassa quota praticamente di corsa (la qual cosa ha escluso che io potessi stargli dietro, dal momento che, analogamente agli sherpa nepalesi, questi sono allenatissimi e velocissimi), è morta poche ore dopo. Se si legge la Lonely Planet, la “bibbia” delle guide per i giovani viaggiatori low-cost, si scopre che almeno una persona all’ anno fa questa fine.

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UHURU PEAK – KILIMANJARO 5895 metri s.l.m., in vetta all’ Africa alle ore 8 di mattina dopo 7 ore di marcia

Ci sono poi anche aneddoti tragi-comici, come la scena cui abbiamo assistito in vetta, di un escursionista-turista (non oso definirlo alpinista) giapponese che, stremato e sofferente per l’ ipossia, è stato letteralmente trascinato fin sotto il cartello di vetta da due portatori, ognuno dei quali  lo reggeva sotto un’ ascella, coi piedi che penzolavano dietro… tutto per la foto di vetta, senza la quale probabilmente non avrebbe avuto nemmeno il coraggio di tornare in patria ad affrontare il sarcasmo dei familiari e dei colleghi di lavoro…

Per noi non ci sono stati problemi, e abbiamo potuto goderci in pieno la salita e la varietà di paesaggi e panorami totalmente diversi a seconda della quota: la foresta equatoriale dall’ inizio del trekking fino a 3000 metri, immersi in una giungla quasi impenetrabile ai raggi del sole, con umidità del 100% e ore di marcia immersi nella nebbia e nelle nuvole.

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PRIMO GIORNO DI SALITA: fango, nebbia, caldo, umidità nella foresta equatoriale a 3000 metri di quota

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SECONDO GIORNO DI SALITA: Barranco Hut, campo tendato a 3950 metri sulla roccia lavica

A seguire una steppa con vegetazione sempre più piccola e bassa, poi, attorno ai 3500-4000m la fascia dei seneci, piante grasse uniche al mondo in un habitat limitato al Kilimanjaro e al Ruwenzori in Uganda, di dimensioni inverosimili, fino a tre-quattro metri di altezza; quindi il terreno lavico, roccioso, scuro che toglie ogni dubbio sull’ origine vulcanica del “Kibo”.

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le guide e i portatori locali sono i veri eroi del Kilimanjaro, analogamente agli “sherpa” nepalesi.

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alle 7 del mattino nuvole di umidità salgono dal fondo ghiacciato e fuoriescono dalla caldera della bocca principale del vulcano, a 5800 metri circa, siamo ancora a tre quarti d’ora dalla vetta.

Infine la vera percezione del vulcano, quando dopo 6 ore di cammino si arriva, all’ alba, sul ciglio sommitale e finalmente si intuisce che non siamo su una montagna “normale” con le pareti e la vetta, ma sul bordo di un enorme anfiteatro con la caldera della bocca principale del vulcano nella sua parte centrale, con il fondo ricoperto di ghiacciai; per arrivare sul punto più alto, bisognerà camminare ancora tre quarti d’ ora sempre sul ciglio del cratere, fino a quando il cartello di vetta toglie ogni dubbio sulla quota massima raggiunta. Si arriva alle 8 di mattina, con un vento tesissimo con raffiche a 60km orari, e già sotto di noi l’Africa è invisibile per il mare di nuvole che la ricopre fino a dove si riesce a guardare, a 360 gradi. Si era iniziata la giornata con il prologo di una cena abbondante alle sei del pomeriggio precedente, poi qualche ora di sonno (per chi ci riusciva ..) in tenda fino a mezzanotte, quando si faceva una veloce colazione e si partiva all’una, con 12 gradi sottozero reali ma almeno -20 percepiti a causa del vento già teso, lampade frontali, terreno un po’ scivoloso e umido, qualche raro passaggio di 1° grado assolutamente non impegnativo se non per il freddo e i movimenti impacciati. Il primo sole paradossalmente abbassa ancora la temperatura quando siamo più esposti al vento sull’orlo del cratere; i ramponi e la piccozza fanno una gita turistica sulla nostra schiena, non si tocca neve né ghiaccio se non spostandosi un poco dal sentiero per farci qualche foto in un campo di “penitentes”: fino a pochi anni fa prima si calzavano i ramponi ben prima di arrivare sul ciglio sommitale, fra qualche anno si potrà salire con le scarpette da ultratrail, e allora i racconti dei primi esploratori sulle nevi del Kilimanjaro diventeranno nuovamente motivo di incredulità e di commenti ironici sulla quantità degli alcolici portati in vetta.

Dunque quasi sette ore per 1330m di dislivello in salita, poi la lunga faticosa discesa che mette a dura prova la schiena con zaino, piccozza e ramponi inutilizzati, e le ginocchia; si scende per 2700m di dislivello con diverse pause per bere un po’ di the zuccherato, poi finalmente alla 5 di pomeriggio si arriva all’ ultimo campo dove si mangia alla grande, si dorme senza problemi di acclimatazione e di ipossia; alla mattina altri 1500m abbondanti di discesa, con i portatori che ci passavano a fianco e ci sorpassavano di corsa con carichi di 20-25 chili sulle spalle, con scarpette tipo da tennis con le suole liscie. Compiono la salita anche 5-6 volte all’ anno, le guide salgono sempre fino in vetta con i clienti, i portatori si fermano all’ ultimo campo a 4500 metri con tutto il loro carico: sono loro i veri eroi del Kilimanjaro.

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In conclusione di questa settimana la sensazione di una avventura bellissima, assolutamente non una grande impresa dal punto di vista alpinistico, ma neanche poi così banale per la lunghezza complessiva, per il dislivello e per la rapida salita ad alta quota; in tutto abbiamo camminato per 100km e con 5500m di dislivello positivo e negativo. Abbiamo salito la montagna più alta del continente africano; secondo i locali, la più alta montagna del mondo isolata da altre montagne e da massicci montuosi, e probabilmente è anche vero, visto che si innalza solitaria sull’ altipiano centrale, senza altri rilievi per centinaia di chilometri.

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Tanzania, un momento di quiete per gnu e zebre nel Nogorongoro Crater Conservation Area: un paradiso terrestre per noi, un’ arena spietata per loro, terreno di gioco dell’ eterno duello fra prede e predatori.

Dopo la fatica, una settimana di riposo “dinamico”, con sveglia sempre alle sei di mattina per iniziare i raid in fuoristrada per i fotosafari nei parchi nazionali del nord, i più famosi, anche se ce ne sono di bellissimi nel centro-sud, probabilmente ancora più integri e selvaggi e con meno ricezione turistica; ma come primo approccio all’ Africa degli animali e della natura, sicuramente indimenticabili. Serengeti, di cui anni dopo abbiamo visto la prosecuzione in Kenia, con Masai Mara, il cratere di Ngorongoro, altro colossale vulcano molto più grande del Kilimanjaro, ma che a differenza di questo, è collassato su stesso mantenendo solo la base di circa 2200m di altezza e un colossale bacino del cratere, di 20km di diametro; un piccolo paradiso terrestre, celebrato in centinaia di filmati e foto, forse fin troppo percorso da fuoristrada; inevitabilmente, data l’unicità dell’ambiente.

E ancora i più piccoli, ma altrettanti belli di Tarangire e Lake Manyara. Un primo approccio al fotosafari, con attrezzature “eroiche”, con teleobiettivi meno potenti e di minor qualità di quelli dei professionisti, in una stagione ancora fredda per il periodo e con minore presenza di animali rispetto al previsto, anche perché si era privilegiato il momento migliore per la salita alla montagna; un’ immagine del continente sicuramente abusata e stereotipata, molto poetica, romantica, letteraria e cinematografica; un’ immagine che non basta a raccontare la complessità dell’ Africa odierna e degli ultimi decenni.

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Tanzania, Serengeti National Park: l’ippopotamo è l’animale più pericoloso per l’uomo di tutto il continente

Ad esempio, la Tanzania, che per molti aspetti è ancora una nazione abbastanza tranquilla da visitare e stabile dal punto di vista delle tensioni etniche, politiche, religiose e sociali, è una delle maggiori responsabili del rischio di estinzione degli elefanti, per l’eclatante complicità e per il lassismo nel combattere i bracconieri che uccidono gli animali per vendere, principalmente, l’avorio delle zanne, così come i corni dei rinoceronti. E’ un problema drammatico, tale per cui chiunque desideri vedere ancora in libertà questi meravigliosi animali, non deve perdere tempo. Ora sembra, con tutte le perplessità d’ obbligo, che con la nuova presidenza ed il nuovo governo tanzaniano le cose potrebbero cambiare, forse troppo tardi, e sempre con pochi mezzi rispetto a quelli messi in campo dalla controparte. Anche questo fa parte dell’Africa, che da sempre nel bene e nel male rimane un continente unico per contraddizioni, splendori e tragedie, umane e animali. Al di là della retorica e dei simboli obsoleti e forse anche un po’ patetici che richiamano alla “Mia Africa”, si pensi che anche Kuki Galliman nel vicino Kenya ha rischiato la vita in un attentato chiaramente generato dalla sua posizione di difesa dell’integrità e della conservazione dell’ecosistema. Tutto è legato ad interessi economici, oltre che alle ben note componenti etniche e religiose. Così va il mondo e l’Africa non è da meno.

RINOCERONTE, GHEPARDO, LEONE, ELEFANTE, LEOPARDO: cinque specie a rischio di estinzione.

Uganda e Ruanda

I tanti motivi per andare (e ritornare) in Africa.

Turistici, paesaggistici, naturalistici, umanitari. Anche i ricordi storici, seppure macabri, che pure hanno segnato la storia recente del nostro mondo, come Idi Amin in Uganda, uno dei più spietati, crudeli e sanguinari dittatori dell’epoca moderna; e il massacro etnico fra hutu e tutsi in Ruanda, ferita aperta nella coscienza anche e soprattutto di noi occidentali che siamo stati testimoni passivi se non addirittura parte in causa attiva in nome di interessi politici ed economici. Ma soprattutto situazioni uniche al mondo fragili e a rischio di scomparsa a breve termine così come la minacciata estinzione di tante straordinarie specie animali, i leoni, gli elefanti, i rinoceronti, nel nostro caso i gorilla di montagna. Animali bellissimi, insieme agli scimpanzé i nostri parenti più stretti, coi quali condividiamo il 98% del patrimonio genetico. Ne sono rimasti 700 circa, di gorilla di montagna. In una ristretta area geografica compresa in un triangolo al confine fra Uganda, Ruanda e Congo. Le prime due nazioni da molti anni hanno imparato a proteggerli e tutelarli, se non per bontà umana, quantomeno per il valore economico che la loro salvaguardia crea in termini di afflusso turistico. In Congo purtroppo, una nazione in preda al caos e alla guerra civile perenne, sono a rischio di estinzione perché li uccidono per crudeltà, per gioco, per fame o per interessi economici di bassissimo spessore, come la vendita delle zampe per farne dei portacenere per i salotti buoni di ricchi stravaganti e crudeli.

Si va in Uganda col desiderio di conoscere i nostri cugini più stretti, poi si scopre un paese meraviglioso, come sempre in Africa. Si scopre il Nilo bianco le cui sorgenti, dal lago Vittoria, hanno costituito una sfida per tanti esploratori che hanno impiegato anni e talvolta anche la vita nella loro scoperta, quel Nilo bianco che più a nord, nel Sudan, si unisce a formare il grande Nilo fondendosi con le acque del Nilo azzurro che abbiamo navigato in un precedente viaggio in Etiopia.

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Uganda, Jinja, Lago Vittoria.

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Etiopia, in navigazione sul lago Tana. Esattamente dai due punti che abbiamo fotografato hanno origine, rispettivamente, il Nilo bianco ed il Nilo azzurro. Poi il grande Nilo.

Si scopre un paese verde, fertile, nel solco della parte occidentale della Great Rift Valley, con laghi vulcanici e montagne ricoperte di vegetazione che sono già il preludio alla grande foresta equatoriale del Congo. Si lascia ad est il paesaggio idilliaco della savana, alla “mia Africa”, per addentrarsi ad ovest nel mistero inquietante delle grandi foreste rigogliose, umide, che oscurano la luce del sole e che per chi ama la letteratura rievocano gli scenari del “Cuore di tenebra” di Conrad. Si naviga, anche qui, sulle acque del Nilo, su barconi piatti che potrebbero essere ribaltati in pochi secondi dagli ippopotami che gli passano a fianco e sotto fortunatamente con poco interesse ad un contatto fisico che per noi sarebbe micidiale, si naviga a poche decine di metri dalle sponde del fiume ove sonnecchiano i maestosi coccodrilli del Nilo, immobili con le fauci sempre aperte, i più grandi del mondo, che arrivano a lunghezze di 6-7 metri e a 900kg di peso.

Si naviga fino al fronte delle maestose cascate di Murchison, ancora oggi raggiungibili solo a piedi. Si viaggia a lungo sui Toyota land cruiser per i consueti safari africani, sorpresi di una popolazione di animali non così numerosa come ci si aspetterebbe, perché gli animali autoctoni erano stati tutti sterminati dalla soldataglia del dittatore Idi Amin, per noia, per gioco, per mangiarli perché anche i soldati morivano di fame…e poi passo dopo passo le savane e le praterie sono state ripopolate con esemplari acquistati dalle nazioni vicine.

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Uganda: navigando sul Nilo bianco in prossimità delle Murchison Falls, lui a poche decine di metri sulle sponde

In compenso l’Uganda è un vero paradiso per i bird-watchers, con il maggior numero di specie di uccelli di tutto il continente. Si viaggia immersi nelle nebbie alle pendici del Rwenzori. la terza montagna più alta del continente, che meriterebbe da sola un viaggio per una impegnativa meta alpinistica. Si viaggia sempre stupiti di una terra verde, fertile, un paese non certo ricco né particolarmente progredito rispetto ad altri, ma dove non abbiamo visto miseria estrema né problemi evidenti di fame o di sopravvivenza precaria; anzi talvolta ci sembrava di entrare nel mitico shangri-la, constatando condizioni di vita semplice, ma di autosufficienza e con il solito equivoco di noi turisti occidentali che faticavamo a capire che questa vita tranquilla, quasi primordiale che tanto ci affascina, è agli antipodi delle aspettative e delle speranze di tanti giovani e giovanissimi che tendono invece a riversarsi nella metropoli, la capitale Kampala. Là perseguono il miraggio di un maggior benessere economico e dei simboli universali di autogratificazione quali cellulari, motociclette, vestiti, musica, alcol, fumo, il tutto condito con quella caratteristica africana di caos, colori, suoni e rumori, di vita vissuta per strada, che rendono unica l’Africa così come tutto il mondo extra occidentale, dal Nepal al Sudamerica.

E poi…ci sono i nostri cugini, che erano un po’ la finalità principale del nostro viaggio. Si comincia con gli scimpanzè dal parco nazionale di Kibale, con un facile trekking di un’ora nella foresta, una camminata rilassante, in piano, per cominciare a sentire risuonare nell’aria rumori, grida, richiami di ogni genere, a 360 gradi, per terra e per aria. Poi, finalmente, li vediamo. Sono in assoluto i nostri parenti più stretti, con il 98,77% del patrimonio genetico condiviso. Sono incredibilmente simili a noi, negli atteggiamenti, negli sguardi, nei comportamenti sociali: sono rissosi, polemici, casinisti, territoriali, autoritari, gerarchici, gli piace risolvere ogni diatriba con uno scontro fisico e sonoro; si compiacciono quando vincono, con la coda tra le gambe se perdono, ma sembra quasi che accampino scuse per la sconfitta e già meditano la rivincita…. sembra di ricordare qualcuno, sembra una descrizione abbastanza familiare, non è vero? talora sono anche inquietanti, perché, esattamente come gli umani, possono essere estremamente violenti nei loro scontri, fino addirittura alla morte dell’avversario, soprattutto nelle contese tra maschi per il dominio del branco.

Uganda, scimpanzé nel Parco Nazionale di Kibale

Ti guardano con uno sguardo tenebroso, quasi ostile da parte dei maschi capi-branco, e per un attimo ti viene in mente il film “Il pianeta delle scimmie”, perché sorge veramente spontaneo il quesito di quanto poco ci vorrebbe per arrivare al livello umano, ammesso che non siamo già sufficienti noi! Però, se si guardano con attenzione le foto, vedete lo sguardo, vedete la mano a 5 dita con il pollice in opposizione alle altre 4 dita, che significa la possibilità di maneggiare oggetti e di fabbricare utensili, e allora viene anche in mente un’altra scena memorabile, quella iniziale del film “2001 Odissea nello spazio”, quando il nostro cugino utilizza come arma un osso e poi lo lancia nello spazio, e diventa qualcos’ altro da ciò che era fino a prima…

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Incontro ravvicinato: si muove come noi, guarda come noi, usa le mani come noi, ma cosa penserà di noi?

Si esce quindi dalla riserva di Kibale con un mix di emozioni, inquietudine, incredulità per le straordinarie similitudini con il genere umano, e poi la consapevolezza di quanto noi occidentali siamo fortunati rispetto alla gente locale, quando veniamo a sapere da Rita, la ragazza che ci accompagna nel viaggio, che oltretutto all’ epoca era studentessa in biologia, che lei non aveva mai potuto vedere gli scimpanzé perché il costo dell’ ingresso nella riserva per lei era proibitivo; e alla fine del viaggio la sostanziosa mancia che le abbiamo lasciato riponeva anche la speranza che potesse servire per coronare quel suo sogno.

Si proseguiva quindi il viaggio, stretti in 7 persone su un land cruiser con i bagagli, con la guida, una ragazza cattolica, ed il pilota, un ragazzo musulmano, fianco a fianco per ore e ore sui sedili della jeep, nelle pause a tavola con noi nelle locande lungo la strada, forse addirittura anche nelle camerate comuni per le guide di notte nei lodge e negli alberghetti di strada: un esempio di integrazione che vale mille parole, così come lo stupore di entrambi quando gli chiedevamo se non avevano problemi con le loro religioni: e ci rispondevano facendoci vedere, lungo le strade, chiese e moschee vicine a pochi metri le une dalle altre.

E tutto questo è pericolosissimo per l’ISIS ed è quanto l’integralismo sta cercando di distruggere nell’ Africa multietnica e multireligiosa, come testimonia l’attentato in un bar di Kampala un mese prima che noi partissimo, costato la vita a 130 persone che stavano guardando una partita dei mondiali di football su un megaschermo.

Per le strade di Kampala, capitale dell’Uganda, grande metropoli africana: caos, colori, vitalità, energia, mercati, polvere, traffico ingestibile, musica, religioni diverse, tolleranza e buonumore.

E allora il viaggio è proseguito fino alla frontiera con il Ruanda, una frontiera terrestre assolutamente non turistica, dove si ha netta la percezione che in certe parti del mondo puoi ritrovarti in qualsiasi momento alla mercé di persone con una divisa addosso e con una pistola in mano che diventano padrone della tua vita; noi eravamo con un viaggio organizzato e abbiamo passato solo un’ora di disagio e d inquietudine, ma da soli sarebbe stata tutta un’ altra storia, e sicuramente una bella mazzetta di dollari che cambiavano di tasca alla luce del sole per poter uscire da quella terra di nessuna che è una dogana africana … e poi ancora via verso i monti Virunga, il parco nazionale dei vulcani, territorio condiviso con l’ Uganda a nordest e con il Congo a nordovest.

Ruanda, dove inevitabilmente e con una certa curiosità morbosa si cercavano negli occhi delle persone tracce psichiche, fisiche della tragedia di vent’ anni prima, e ricevendone solo sguardi imperscrutabili, che sicuramente nascondevano storie inenarrabili e inesplicabili. Ruanda, paese ad altissimo tasso di sviluppo, nonostante e forse anche in conseguenza della strage etnica.

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Ruanda: grande impegno in salita, un mercato da raggiungere, tanta fatica ma c’è ancora il tempo per un sorriso.

Ruanda, dove i gorilla di montagna sono protetti e dove convergono visitatori da tutto il mondo per questo incontro emozionante. I nostri secondi cugini condividono con noi il 97,7% del materiale genetico. Ne sono rimasti all’ incirca 700 esemplari. Vivono in alta montagna, immersi nell’ umidità e nella nebbia alle pendici di queste montagne vulcaniche che superano i 4500m di quota. Ci si sveglia all’ alba, le jeep ci portano all’ ingresso del parco a circa 2000m, si selezionano i gruppi in base all’ età e all’ attitudine fisica alla marcia e allo sforzo perché alcuni gruppi di gorilla sono più vicini, altri più nascosti in alta quota. Noi 5, più due ragazzi spagnoli, veniamo stimati molto abili perché ci destinano al gruppo più lontano.

Camminiamo tre ore per circa 700m di dislivello, lasciamo campi coltivati a terrazzamenti ben ordinati, accompagnati da guardie armate di kalashnikov, mentre camminiamo già fradici di sudore riceviamo le prime istruzioni ed un sommario esame medico perché se qualcuno avesse il raffreddore deve dirlo adesso e verrà riaccompagnato al lodge e avrà diritto al rimborso del costo del gorilla-traking. perché uno sternuto o un colpo di tosse può essere fatale con la trasmissione di virus o batteri per noi innocui ma per loro letali.

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Senza che quasi ce ne accorgiamo il paesaggio cambia, si suda ancora di più e all’improvviso ci si trova nel cuore della foresta equatoriale; vegetazione esuberante, ad altezza d’uomo, liane, alberi alti 10-15 metri che oscurano il cielo, torbiere, marcia nel fango fino a 2700 m. Il primo gorilla ti guarda di soppiatto da dietro un cespuglio di foglie, assolutamente non spaventato, abbastanza abituato alla presenza umana; un silverback non ci degna di uno sguardo entrando in una foresta di bamboo, il dorso ha il pelo argentato in segno di anzianità e di autorità. Sono alti fino a 220 cm e pesano fino a 200-230kg. I cuccioli sono curiosissimi, verrebbero vicino a toccarci e a giocare se non fosse che da una parte le loro mamme, dall’altra le nostre guide ci impediscono ogni contatto fisico, per evitare contagi pericolosi di microorganismi e reazioni aggressive dei genitori per proteggere i piccoli. Si osserva la loro vita, sono ancora più umani, se possibile, degli scimpanzé. Hanno una socialità elevatissima, scandita da tempi, rituali, norme fatte rispettare dai maschi alfa, i capibranco. C’è il tempo del risveglio, della colazione, della pulizia e dell’igiene, del gioco per i cuccioli, del pranzo, del riposo, della ricerca del posto migliore per dormire e per cercare cibo il giorno successivo.

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Ognuno ha il suo ruolo, il capobranco, i giovani maschi subordinati, le femmine con i cuccioli, ognuno rispetta la gerarchia. Guardi i loro occhi, osservi il loro sguardo, poi noti le mani, anche loro, come gli scimpanzé, hanno il pollice che si oppone alle altre dita, solo loro, gli altri primati e noi umani.

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Sono momenti da vivere secondo per secondo perché si rimane tassativamente un’ora e non un minuto di più, l’abitudine dei gorilla alla presenza umana non può sorpassare questi limiti di tempo. Li guardi, li fotografi, li filmi, ti sembra che fotografarli sia sprecare tempo, che sarebbe più giusto guardare tutto senza l’intermediazione dell’obiettivo della reflex, ma tutti cedono all’ impulso quasi frenetico di catturare immagini. Forse è un errore, ma è quasi inevitabile. Alla fine ci si chiede se siamo noi a guardare loro o viceversa, ti chiedi cosa pensano, non se pensano, perché su questo non può esserci nessun dubbio, e anche in questo caso, come per gli scimpanzé, ti chiedi quale infinitesima percentuale di ulteriore sviluppo neuropsichico sarebbe sufficiente affinché venga totalmente pareggiata ogni differenza fra noi e loro, proprio come nel famoso film di fantascienza … ti chiedi anche se, in un ipotetico salto in avanti di sviluppo, diventerebbero esattamente come noi, con tutte le capacità distruttive del genere umano, o se invece manterrebbero una differenziazione virtuosa nei confronti dello sfruttamento della tecnologia e nell’uso perverso di essa, come facciamo noi.

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Ovviamente sono domande, almeno per il momento, senza risposta. Si spera solo che noi umani gli concediamo la possibilità di sopravvivere, non fosse altro che per il grande potenziale economico del turismo finalizzato alla loro osservazione; e sperando anche che il loro mondo non diventi uno zoo, magari grande, ma con recinzioni e limiti invalicabili. Quello che praticamente sta già accadendo per la maggior parte degli animali selvatici d’ Africa, costretti in spazi sempre più ristretti dall’ urbanizzazione e dall’ aumento della popolazione umana, laddove non vengono uccisi per speculazione, come i leoni, gli elefanti, i rinoceronti.

Un pensiero sorge spontaneo, magari cinico, egoistico, ma inevitabile: che ogni esperienza di questo genere potrebbe essere l’ultima, e allora ci si tiene dentro l’emozione ed il ricordo come un enorme privilegio che ci è stato concesso. Magari sperando di avere le parole giuste, efficaci, e delle immagini sufficientemente belle per poter condividere queste emozioni con gli amici e con chiunque abbia a cuore questi animali, ammesso che si possa chiamarli così.

Si torna in Uganda e si ritrova l’Africa degli uomini, dei colori, dei mercati lungo le strade con bellissime architetture di frutta e di verdure di ogni genere, disposte ad arte su improvvisati banchetti di legno; si ritrova il piacere di fermarsi per una sosta a comprare banane, a salutare bambini curiosi e cordialissimi, non ancora spaventati dal turista bianco, a fotografare i colori della vita di tutti i giorni, che sprigionano allegria e vitalità per ribadire il concetto che basta pochissimo per vivere in armonia con quanto ti circonda.

Si ritorna verso il caos della capitale, ci si impiega tre ore per attraversarla e dirigersi verso le sorgenti del Nilo Bianco, sulle sponde del lago Vittoria. Adesso sono in mezzo alla civiltà, vicino a dighe e ad impianti idroelettrici, ma per decenni hanno costituito uno dei misteri più ostinati ed inestricabili per i migliori esploratori dell’epoca.

A sorpresa vediamo una statua di Gandhi, che nel suo testamento aveva chiesto di spargere le sue ceneri divise in quattro parti, alle sorgenti dei quattro fiumi più importanti del mondo. Un piccolo richiamo all’India che avremmo visitato un po’ di anni dopo. Pochi chilometri dopo, le rapide di Bujale, santuario di discese in rafting fra le più impegnative del mondo, una specie di Himalaya per gli appassionati del genere, un must sportivo che non ci aspetterebbe in queste terre.

E poi ancora per l’ultima volta a Kampala, capitale africana come Nairobi, Addis Abeba e tante altre, enorme, caotica, inquinata, vitale, sempre in movimento, con la vita sempre vissuta in strada, nei mercati, sui marciapiedi, perennemente in coda sui suoi viali, ma tanto non importa a nessuno perché la concezione del tempo è radicalmente diversa dalla nostra, non siamo noi ad influenzare il tempo, ma semplicemente ci si adegua ad esso: non è male come filosofia di vita, ci si stressa di meno, con più fatalismo e meno rabbia.

Poi la corsa all’ aeroporto di Entebbe, con tre posti di blocco in 1 chilometro, con soldati armati che ci fanno scendere dalla jeep e ci obbligano a percorrere a piedi, trascinando i bagagli, per l’ultimo chilometro, a causa dei controlli dopo il recente attentato. Tutto ciò a ricordarci che non siamo noi turisti a dettare le leggi, ma le circostanze, e che un giorno potremmo essere obbligati a scordarci di poterci muovere liberamente, forse anche a pochi chilometri da casa nostra. Ma questa è un’altra storia.

Kampala, ci si arrangia fra mercati e botteghe improvvisate; i colori dell’ Africa, la vita in strada.

Mal d'Africa (55)

Jinja, sulle sponde del Lago Vittoria: il monumento a Mahatma Gandhi

Abazumbu: un ultimo ricordo dell’Uganda

abazumbu, abazumbu, au ar iu, au ar iu!!
(uomini bianchi, uomini bianchi, come va, come va?)

Ben presto imparammo questo ritornello continuo che tutti i bambini incontrati nei villaggi ci lanciavano addosso, un po’ affettuosamente, un po’ con ironia, talvolta con un misto di stupore e lieve disprezzo per questi strani personaggi rinchiusi nei loro Toyota Land Cruiser, così lontani materialmente e psicologicamente, così diversi nell’ aspetto fisico e forse anche un po’ ripugnanti nel loro pallore di uomini (e donne) bianchi.

Sicuramente esprimevano tutto il loro orgoglio per le prime frasi di inglese che imparavano a scuola, primo passo per un lunghissimo percorso che forse permetterà loro, un giorno non si sa quanto lontano, di  avere  un destino diverso da quello della rassegnazione e della accettazione passiva della vita dei loro genitori, un destino che anche grazie allo studio della lingua dominante (per il momento..) forse porterà qualcuno di loro all’ università e ad un lavoro alternativo a quello dei loro avi, nei campi e nell’ immutabile scorrere del tempo degli allevatori e coltivatori …

Quanti significati in una semplice frase detta un po’ per gioco, un po’ per orgoglio e un po’ per provocazione; quante speranze inespresse e troppo temerarie per essere anche solo pensate, e quanto affetto e la simpatia istintiva questi “scugnizzi” dalla pelle nera, sudata e impolverata sanno far emergere anche nel più cinico dei turisti-viaggiatori-esploratori nel suo impeccabile completo color cachi in stile Hemingway e con la sua reflex digitale superaccessoriata sempre pronta a sparare a raffica per portare a casa immagini semirubate, bellissime e struggenti …

Mal d'Africa (56)