Il diritto alla felicità

di Nicola Parodi, 22 marzo 2021

L’articolo di Paolo sugli “Orfani del progresso”, in cui sono esaminati i concetti di “sviluppo” e “progresso” e i diversi atteggiamenti che si manifestano oggi rispetto all’argomento, mi ha stimolato a cercare di dare ordine ad alcune riflessioni. La considerazione[1] sugli accusatori del progresso mi fa nascere il sospetto che siano uguali, se non gli stessi, a quelli che propongono di inserire nell’articolo 3 della nostra Costituzione il “diritto alla felicità”. Credo che anche ad altri sia capitato di vedere su una rete televisiva nazionale la pubblicità di un convegno sull’argomento, o di leggere sul Corriere del 24/02/2021 un articolo che ci informava che Romana Liuzzo, presidente della Fondazione Guido Carli, prendendo spunto dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti chiede che anche la nostra Costituzione lo contempli.

Non so che impressione abbia suscitato questa iniziativa. Io confesso di essere rimasto sbalordito nel vedere riproposte idee che quasi due secoli e mezzo fa potevano avere un loro perché, ma che oggi suonano assurde. All’epoca della Dichiarazione d’indipendenza infatti il sogno della felicità, per la maggior parte della popolazione mondiale, poteva trovare un corrispettivo concreto in un congruo numero di pasti giornalieri, in un’abitazione adatta e nella presenza di uno stato che proteggesse da angherie di vario genere. In questi termini era un’aspirazione più che condivisibile e almeno teoricamente realizzabile. Ma è ancora così?

Parto da una serie di dati di fatto. Il primo è che, senz’altro, per una buona fetta dell’umanità il potersi sfamare e curare non è ancora diventato realtà. Su questo non ci piove, e se in significato che la signora Liuzzo dà alla cosa è che a tutti sia garantita almeno la sopravvivenza, è all’ONU che dovrebbe rivolgere la sua richiesta. Il secondo è che invece in Italia la gran parte della popolazione ha raggiunto e superato quei traguardi: e che quindi l’inserire in Costituzione il “diritto alla felicità” nel caso del nostro paese non si sa bene a cosa faccia riferimento. Quali sono infatti a questo punto le condizioni, diciamo il “dignitoso livello di benessere” che riteniamo indispensabile per un minimo di serenità? Ma, e soprattutto, questo ha a che fare con la felicità?

L’articolo del Corriere mi ha suscitato un’istintiva reazione di rigetto. La pretesa di un “diritto alla felicità” mi è parsa immediatamente una richiesta degna di bambini viziati: e subito dopo l’ho letta come l’ennesima manifestazione della tendenza, che ultimamente conosce una deriva esponenziale, a fasciarsi di parole, di etichette, come se l’etichettatura potesse da sola riempire dei barattoli vuoti o far cambiare gusto e consistenza al contenuto (il politically correct e l’imperversare dei termini inglesi ne sono gli esempi più eclatanti). Mi è venuto anche in mente che là, dove il diritto alla felicità è inserito nella Costituzione da un quarto di millennio, non è affatto garantito quello alla salute, mentre è strenuamente difeso quello a possedere una o più armi: la felicità è accarezzare (e nel caso, usare) una 44 magnum?

Ma anche tornandoci su con più calma l’idea continua a sembrarmi bislacca. Riflettendo, sia pur da profano, sulle implicazioni giuridiche di una tale modifica, mi chiedo: quale orientamento dovrebbe seguire il legislatore per far sì che le leggi nuove e passate siano rispondenti ad un tale principio Costituzionale? Affinché non venga leso il mio diritto non posso essere costretto a fare ciò che non voglio, ad esempio vaccinarmi o andare a scuola? Oppure, addirittura, devo essere libero di fare ciò che voglio, senza alcuna limitazione? E le punizioni a vario titolo dei miei comportamenti, fosse anche una multa per divieto di sosta, non sono un attentato alla mia felicità? Ci sarebbe un bel daffare per giudici e avvocati.

E allora, volendo affrontare la cosa in modo razionale, senza farsi trascinare dalla vis polemica, è necessario innanzitutto domandarsi cos’è la felicità. Dico che è necessario, ma solo per poter immediatamente constatare che la domanda è assurda. Ogni poeta, romanziere, artista o filosofo o tifoso di calcio avrà la sua definizione, ma non è facile trovarne una sulla quale tutti concordino. Quindi il capitolo felicità si chiude prima ancora di aprirsi.

Se vogliamo venirne fuori conviene piuttosto affidarsi alla scienza: questa si limita a formulare teorie per descrivere la realtà, utilizzando fatti sperimentalmente dimostrati ed accettati unanimemente. E una affermazione scientifica unanimemente accettata è che tutti gli esseri viventi hanno bisogno di energia non solo per muoversi, ma soprattutto per mantenere la struttura ordinata che caratterizza la materia vivente, scaricando a tal fine “il disordine” (entropia) nell’ambiente. Pensiamo ad esempio alla necessità di difendere il corpo dal freddo, per consentire la circolazione sanguigna. Per gli umani, che non sono provvisti di pelliccia, l’abbondanza di energia a disposizione (pensiamo solo al fuoco) condiziona quello che ci conviene chiamare benessere, visto che in ambito scientifico il termine felicità non incontra molta fortuna. E in questo senso il progresso e la tecnologia odierna ci permettono di utilizzare energia meglio ed in quantità superiori a quelle che solo qualche migliaio di anni fa erano ipotizzabili.

Ora, il concetto scientifico che meglio potrebbe corrispondere all’idea di felicità è quello di omeostasi, termine introdotto alla fine del 19° sec. dal fisiologo francese Bernard per descrivere il meccanismo biologico che permette ad un vivente, sia esso un unicellulare o un organismo complesso, di mantenere al migliore livello i parametri vitali. Questo concetto trova oggi una più ampia articolazione[2] ad esempio negli studi di Antonio Damasio che associa nella “ricerca deliberata del benessere” sia “l’omeostasi a livello fondamentale (guidata da processi non coscienti)”, sia “l’omeostasi socioculturale (creata e guidata da menti riflessive dotate di coscienza) che operano come amministratori del valore biologico”.

Pertanto: “Il funzionamento ottimale di un organismo, che dà luogo a stati vitali armoniosi ed efficienti, costituisce il substrato stesso dei nostri sentimenti primordiali di benessere e piacere. Essi sono il fondamento di quella che, in contesti molto sofisticati, chiamiamo felicità.

Per contro, gli stati vitali caratterizzati da disorganizzazione, inefficienza e mancanza di armonia, veri e propri presagi di malattia e malfunzionamento, costituiscono il substrato dei sentimenti negativi; come osservò assai giustamente Tolstoj, le varietà di questi ultimi sono molto più numerose di quelle dei sentimenti positivi: un infinito assortimento di dolori e sofferenze, per non menzionare disgusto, paura, rabbia, tristezza, vergogna, senso di colpa e disprezzo. […]

Il valore biologico si esprime in modo semplice, per esempio nella liberazione di molecole associate a ricompense e punizioni, oppure in modo più elaborato, per esempio nel caso delle nostre emozioni sociali e nel ragionamento sofisticato. Il valore biologico, per così dire, guida e caratterizza in modo naturale quasi tutto ciò che accade nel nostro cervello, dotato in modo tanto vistoso di mente e coscienza.

[…] Già sappiamo in che modo gli esseri umani riconoscono il settore ottimale dell’intervallo omeostatico senza alcun bisogno di farsi controllare la biochimica ematica in laboratorio. La diagnosi non richiede alcuna esperienza particolare, ma solo il fondamentale processo della coscienza: nella mente cosciente, gli intervalli ottimali si esprimono come sentimenti piacevoli; gli intervalli pericolosi come sentimenti non troppo piacevoli o addirittura dolorosi.” (da Il sé viene alla mente, Adelphi)

Certamente per il neuroscienziato Damasio e per altri studiosi, nonché per un numero non marginale di curiosi appassionati, la gratificazione che viene ricavata nelle “emozioni sociali e nel ragionamento sofisticato” come appagamento della voglia di comprendere la realtà circostante costituisce uno stimolo gratificante sufficiente allo sforzo necessario per aumentare le proprie conoscenze.

Ma questo vale per tutti?

È passato quasi mezzo secolo da quando Berlinguer proponeva l’austerità come mezzo per arrivare ad una società migliore. Pochi anni dopo c’era chi predicava come modello di vita quello che avrebbe caratterizzato (e che come tale è stato ricordato) il periodo cosiddetto della “Milano da bere”. Ci troviamo allora di fronte al dilemma: è più appagante impegnarsi per acquisire nuova conoscenza, o è più gratificante soddisfare le esigenze materiali, utilizzando i molti strumenti che rendono più gradevole l’esistenza e che la grande disponibilità di energia, tramite la scienza e la tecnologia moderna, ci permette di avere a disposizione (tra l’altro, senza grande fatica da parte nostra)? La domanda può sembrare retorica, ma quanti sono quelli per cui è tale? E costoro, possono continuare a sperare che l’educazione porti ad essere maggioranza nella società chi intende “seguir virtute e canoscenza”? non è che la prospettiva sia piuttosto quella di una massa di “Idioti in marcia” (cfr. Di(re)gressioni)?

Accade infatti questo: l’abbondanza di risorse (ovvero di energia) può rendere ipertrofico un meccanismo omeostatico che si autoalimenta nella ricerca di una gratificazione costante, senza alcun vantaggio selettivo. Lo si è verificato ad esempio in alcuni esperimenti con i topi[3]. È quindi probabile che la tendenza a raggiungere “l’omeostasi a livello fondamentale” sia causa di buona parte dei problemi che le nostre “società del benessere” lamentano. E che possa crearne sempre di nuovi, se non interverranno dei corretti (naturali? Culturali?)

In tutto questo, che parte, ma soprattutto, che senso ha il “diritto” alla felicità? Non sto dicendo che dobbiamo rassegnarci tutti ad essere infelici: sto dicendo che la vita non è nata alcuni miliardi di anni fa per raggiungere la felicità, ma semplicemente come agglomerato di materia in grado di riprodurre copie di sé. E che anche gli organismi più evoluti (gli umani, per prendere un esempio a caso) sono “macchine” organiche con la funzione di replicarsi perpetuando i propri geni. Se poi possano essere felici nell’adempiere a questa funzione, parliamoci chiaro, non è solo questione di diritti, quindi di “condizioni materiali di benessere”, che senz’altro andrebbero assicurate a tutti, ma che non implicano automaticamente il conseguimento della “felicità”. Entra in gioco qui una variabile che si chiama comunemente indole, e sulla quale la scienza per il momento è in grado di dire ancora poco.

A me pare che siano ancora molti i “diritti” fondamentali concreti non fruibili da tutti i cittadini. È auspicabile che prima di discutere del “diritto alla felicità” ci si adoperi per assicurare quelli. Il Covid, ad esempio, ha fatto tornare di attualità quello alla salute, e ha fatto scoprire quanto anche in una società che consideriamo evoluta sia tutt’altro che garantito. Cominciamo allora dalle cose concrete, da una elementare aspirazione alla sopravvivenza (alla luce di quanto ho scritto prima, non mi piace chiamarla “diritto”) che diamo per scontata, ma che non lo è affatto per tutti negli stessi termini. Alla felicità potremo pensare dopo, se ancora ce ne sarà bisogno. Potremo aprire un gran bel dibattito, magari non riservato ai costituzionalisti, magari coinvolgendo gli esperti delle varie scienze che si occupano dell’uomo. Potrebbe essere interessante, e divertente. Anche se continuo a sperare (e mi spinge a farlo l’istinto) che una modifica costituzionale così peregrina non venga mai varata.

Credo che per il futuro avremo davvero un gran bisogno di Perseverance, e soprattutto di tanti lumi della ragione che rischiarino la via. Il vicolo della felicità non si sa dove porti.

[1] “Lanciare dei violenti j’accuse contro la mentalità scientifica, contro la “ragione calcolante”, contro la nemmeno troppo strisciante tecnocrazia, può far vendere qualche libro e procurare qualche comparsata televisiva in più, ma non offre risposte immediate e concrete ai sette e passa miliardi di umani che si aspettano domani di poter mangiare e di potersi curare.”

[2] L’omeostasi ha guidato, in modo non cosciente né deliberato, senza un disegno a priori, la selezione di strutture e di meccanismi biologici capaci, oltre che di preservare la vita, di far progredire l’evoluzione di specie che si trovano in molteplici rami dell’albero evolutivo.
Questa concezione di omeostasi, che si conforma più fedelmente alle evidenze fisiche, chimiche e biologiche, si scosta decisamente dal concetto tradizionale e riduttivo di omeostasi, che si limita a considerarla la regolazione «bilanciata» delle operazioni della vita.
Io credo che l’incrollabile imperativo dell’omeostasi sia stato il regolatore onnipresente della vita, in ogni sua espressione. L’omeostasi è il fondamento stesso del valore della selezione naturale, che a sua volta favorisce i geni – e di conseguenza i tipi di organismi – che manifestano l’omeostasi più innovativa ed efficiente. Lo sviluppo dell’apparato genetico, che contribuisce a regolare la vita in modo ottimale e la trasmette ai discendenti, non sarebbe concepibile senza omeostasi.
Alla luce di quanto appena detto, possiamo avanzare un’ipotesi di lavoro sulla relazione tra sentimenti e culture.
I sentimenti, come rappresentanti dell’omeostasi, sono i catalizzatori dette risposte che hanno avviato le culture umane.
È ragionevole? È concepibile che i sentimenti possano avere motivato le invenzioni intellettuali che hanno dato al genere umano 1) le arti, 2) l’indagine filosofica, 3) le convinzioni religiose, 4) le regole morali, 5) la giustizia, 6) i sistemi di governance politica e le istituzioni economiche, 7) la tecnologia e 8) la scienza? Risponderei affermativamente, senza riserve. Posso dimostrare che le pratiche o gli strumenti culturali, in ciascuno degli otto campi citati, hanno richiesto la capacità di sentire una situazione di diminuzione, effettiva o potenziale, dell’omeostasi (costituita, per esempio, da dolore, sofferenza, disperata necessità, minaccia, perdita) o di un potenziale vantaggio omeostatico (per esempio, un esito gratificante). Il sentimento ha agito da movente per esplorare, con gli strumenti della conoscenza e della ragione, le possibilità di ridurre un bisogno o di trarre vantaggio dall’abbondanza rappresentata da stati di appagamento. (Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adelphi)

[3] I cervelli di tutti gli animali sono strutturati in modo tale da creare impulsi di piacere quando si compiono azioni importanti per la sopravvivenza, sensazioni appaganti che si concretizzano mediante piccoli rilasci di un neurotrasmettitore, la dopamina, all’interno dello striato ventrale (e in qualche altra zona del cervello). L’eroina e la cocaina sono sostanze che procurano dipendenza perché innescano artificialmente tale risposta dopaminica. I topi, messi in condizione di produrre mediante la pressione di un pulsante una stimolazione elettrica verso i propri centri di ricompensa cerebrale, continuano a premere il pulsante fino a morire di fame. (Jonathan Haidt, Menti tribali, Codice ed.)

​La morale e le favole

di Nico Parodi, 28 novembre 2020

In attesa di sviluppare in maniera un po’ più approfondita il discorso sui meccanismi che determinano i comportamenti umani, vorrei contribuire nell’immediato con qualche considerazione sui temi che mi sembrano maggiormente caratterizzare, soprattutto in quest’ultimo periodo, la “linea” degli interventi apparsi sul sito: ovvero, il fenomeno del complottismo, la religione laica, l’esistenza o meno di un sentimento morale condiviso. È una prima risposta all’invito lanciato da Paolo in “Acufeni?”: spero di averne bene interpretato il senso.

Siamo tutti complottisti?

Il classico detective dei libri gialli in presenza di un delitto cerca di scoprire l’arma e il movente, basandosi su una serie di indizi per crearsi un identikit mentale del colpevole. E fin qui non agisce in modo molto diverso dai complottisti che cercano dietro ogni accadimento difficilmente spiegabile (ma spesso anche dietro quelli spiegabilissimi) gli autori di una congiura. La differenza, oltre che nelle indubbie superiori qualità intellettive dell’investigatore, sta nel fatto che quest’ultimo deve fornire delle prove, mentre il complottista ne fa tranquillamente a meno, o al più se le inventa.

Quindi, diciamo che in comune c’è una disposizione, un atteggiamento di fondo: a fare la differenza è il modo nel quale viene condotta l’indagine. Sulla disposizione originaria agisce un meccanismo di risposta biologica. In presenza di un qualsiasi oggetto o fatto la mente umana cerca di capire a cosa serve, da chi o da cosa è causato e, se si tratta di esseri viventi, quali siano le intenzioni dell’ideatore. Il tentativo di mettere in connessione dei fatti tramite una relazione di causa-effetto, che è riscontrabile in qualche misura anche in altri animali, è indubbiamente utile dal punto di vista evolutivo: è quello che ci ha permesso di sviluppare le nostre conoscenze, nonché di progettare e realizzare sulla loro scorta gli strumenti che ci hanno portato all’attuale livello di competenze tecnologiche.

Ora, nell’analizzare il mondo la mente umana sembra servirsi di un modulo mentale specializzato in operazioni di “ingegneria inversa” (quella che dallo studio di un oggetto ne ricostruire il progetto). È un percorso che di norma funziona. Spesso però le urgenze legate alla sopravvivenza impongono al nostro cervello di trovare soluzioni rapide: e allora ricorriamo a scorciatoie “euristiche” che in molti casi portano a conclusioni sbagliate.

Se infatti la ricerca delle cause o delle intenzioni non offre spiegazioni logiche soddisfacenti (o ne offre di troppo complesse, magari al di fuori della nostra portata o del nostro livello di conoscenze) finiamo per tagliare corto, sconfinando dall’ambito del razionale e del dimostrabile, e immaginarne di fantasiose che ci fanno presumere di aver trovato una risposta senza eccessivo sforzo. Questo vale naturalmente tanto più per gli accadimenti: di fronte a fatti o situazioni, siano essi reali o presunti, rispetto ai quali non possediamo gli strumenti per individuare connessioni logiche, l’idea che ci sia qualcuno che congiura per fini poco chiari risolve a basso costo il problema e maschera a noi stessi la nostra ignoranza.

Questo è il vero discrimine. Il sospetto è infatti costituzionalmente e direttamente proporzionale all’ignoranza: ma ha una funzione positiva quando opera nella consapevolezza di questa ignoranza, quando cioè ci motiva a superarla facendo uno sforzo conoscitivo: mentre opera negativamente quando ci crea la presunzione di avere già tutte le spiegazioni in mano, magari con l’avallo di una condivisione diffusa (il famigerato: se lo pensano tanti, qualche motivo ci sarà).

Senza altri giri di parole, quando da metodo d’indagine (quindi da motivatore della domanda) il sospetto diventa una componente fissa della risposta, tutta la sua valenza conoscitiva va a farsi benedire: anzi, si traduce in zavorra, e spegne la nostra sete di verità con un surrogato velenoso e paralizzante.

Il complottismo è dunque il prodotto di scarto di una normale funzione della nostra mente: e non sarebbe di per sé eccessivamente preoccupante (in ogni processo produttivo ci sono disfunzioni), non fosse che l’errore sta diventando la norma, sta dilagando, e in una società pressapochista come la nostra comincia ad essere omologato per buono. In realtà, anche in un’ottica grettamente “economicistica” non andrebbe condannato solo perché è una “perversione” di un processo mentale corretto, ma anche perché in termini “evolutivi” non funziona affatto (se non per coloro che ci marciano). Offrendo spiegazioni scorrette dei problemi non consente di affrontarli in maniera efficace, e ne crea anzi di ulteriori.

Ne sanno qualcosa tutti quei poteri, più o meno occulti, che da sempre hanno usato le teorie del complotto per scaricare su gruppi sociali, etnici o religiosi, o su poveracci designati comunque come capri espiatori, le proprie responsabilità e nequizie. La cosa vale ancor più oggi, per quei complotti cosmici di cui è popolato Internet e che rimangono misteriosi e insondabili perché hanno la stessa caratteristica che Simmel attribuiva al segreto, il quale segreto è tanto più potente e seducente quanto più è vuoto. Un segreto vuoto si erge minaccioso e non può essere né svelato né contestato, e proprio per questo diventa strumento di potere.

La differenza sta semmai nel fatto che un tempo la sindrome complottista poteva trovare una parziale giustificazione nella difficoltà per la stragrande maggioranza di accedere a conoscenze e informazioni corrette. E che comunque viaggiava sotterranea, salvi sporadici momenti di esplosione, in genere creati ad arte da chi teneva le fila. Oggi non ha più diritto ad alcuna giustificazione del genere (ma nemmeno la cerca): oggi è solo frutto di una ignoranza presuntuosa e proterva, che ambisce a farsi massa e norma, che rivendica una sempre maggiore visibilità e che trasferisce su misteriose forze occulte la paura e il disprezzo che prova quando si guarda allo specchio.

Il Valium dei popoli

Da tempo vedo con crescente insofferenza ricorrere gli indizi della nascita di una “religione laica”. Mi disturba anche il fatto che siano poche le persone provviste di una certa cultura che manifestano apertamente la loro preoccupazione al riguardo. Eppure i segnali sono molti, e per coglierli è sufficiente sfogliare i giornali o assistere a qualche trasmissione televisiva con un po’ di spirito critico.

La biologia ci insegna che ogni nicchia ecologica libera viene invariabilmente colonizzata da qualche nuova specie. Allo stesso modo, evidentemente, anche nella società a tecnologia avanzata la perdita di consenso e di credito delle religioni tradizionali ha creato un vuoto, e questo vuoto viene occupato o da un edonismo sfrenato oppure, fra quelli che per indole o cultura cercano risposte meno insignificanti, da comportamenti che finiscono per assumere la forma e i contenuti di una “religione laica”.

Certo, può sembrare un ossimoro una religione senza divinità, ma in questo caso il ruolo di divinità è assunto dal concetto di “ciò che è bene/ciò che è giusto”. A ben guardare, nella nuova religione laica è presente, come nelle religioni classiche, il mito dell’evento che dà inizio al nuovo regno del “bene” (declinato poi in innumerevoli versioni), compaiono figure di martiri, santi, profeti, così come dogmi e catechismi: ma, soprattutto, si forma una classe di “amministratori” dell’idea di “bene” che giudicano e pronunciano anatemi contro gli eretici.

Ora, quelli di buono/cattivo, bene/male sono concetti legati allo stato di benessere del singolo vivente. In particolare negli esseri umani il giudizio di valore dipende da emozioni e sentimenti, e non dall’esame razionale e astratto di uno stato o di un avvenimento. Se esaminiamo razionalmente un fenomeno per giudicarlo, avremo come risultato il “funziona” o “non funziona” per un determinato scopo, e non “è bene” o “è male”.

La nuova religione laica invece, come le altre religioni, ha la pretesa di definire ciò che è bene e ciò che è male basando i suoi giudizi non su una fredda analisi razionale, il più scientifica possibile, ma su parametri che sono frutto di emozioni e sentimenti. E per giunta i suoi adepti pretendono che tutti si adeguino ai “sacri valori” cosi identificati.

Per il momento i depositari della “verità laica” non lanciano fatwe contro gli infedeli (o perlomeno, non esplicite. Anche se non mancano gli esempi di fanatici che leggono nella denuncia un invito alla “guerra santa”): intanto però rinnovano la tradizione dei libri “proibiti” e arrivano anche a creare un “indice” dei buoni e dei cattivi. Nel caso riportato da Paolo in Acufeni? si attengono alla lettera della Bibbia, facendo ricadere su nipoti e pronipoti colpe degli avi che sembravano dimenticate. Ma ancora più grave è che si discuta di leggi che stabiliscono quali sono i modi giusti di pensare. Anzi, alcune di queste leggi esistono già, e sono ispirate ad una concezione molto ambigua di ciò che va considerato “politicamente corretto”.

Qui bisogna intenderci. La correttezza è senz’altro una gran bella cosa. Se fosse esercitata da tutti in tutte le funzioni e all’interno di ogni tipo di relazione risolverebbe d’incanto metà dei problemi dell’umanità. Sappiamo però, purtroppo, di non poterci contare, e infatti le cose vanno come vanno. È dunque giusto cercare là dove possibile di salvaguardarla. Ma sappiamo anche che imporla per legge è assurdo, è una attitudine che va educata (e spesso non basta nemmeno questo, prevalgono le disfunzioni caratteriali) e tutto in questo mondo liquido sembra congiurare invece a diseducarla.

Quindi, i problemi in questo caso sono due, e vanno affrontati in maniera diversa. Il primo è quello di chiarire che la correttezza non sta nel modo in cui si pensa, ma nel modo in cui si manifesta e si professa il proprio pensiero. Di stabilire cioè che ciascuno è libero di pensarla come vuole, purché poi, all’atto pratico, questo pensiero non si traduca in una prassi che offende o danneggia gli altri. Ma questo implica a sua volta reciprocità, e cioè che nessuno si senta offeso per il solo fatto che altri la pensino diversamente da lui. Che è invece proprio il caso dei “nuovi credenti”. L’altro problema, questo si necessitante di leggi e normative chiare e severe, è semmai quello di contenere le manifestazioni di scorrettezza davvero eclatanti, offensive e dannose, quelle che sono il pane quotidiano delle trasmissioni televisive, delle quali si nutre la stampa scandalistica, che costituiscono ormai la regola nei comportamenti diffusi, ad ogni livello, e delle quali pare invece non si scandalizzi più nessuno.

A tali comportamenti si aggiungono ora le liste di proscrizione, le statue abbattute, le teorie del complotto, i libri per il momento solo segnalati ma domani eventualmente destinati al rogo, magari assieme ai loro autori. Chissà perché, tutto questo mi suona come un “già visto”, se non da me personalmente senz’altro da chi è venuto appena prima di me, nemmeno troppo tempo fa. E penso che oggi sia più che mai necessario ribadire e difendere i principi dell’illuminismo, ricordando quanto diceva Kant: “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.

Questa si chiama correttezza!

Il buono e il cattivo, l’utile e il dannoso

Sul tema della morale, così come sugli altri cui sopra ho accennato, mi riservo di tornare con calma in un’altra occasione. Voglio però anticipare alcune brevi considerazioni, che utilizzerò come fossero dei postulati per sviluppare il ragionamento successivo. Sono considerazioni che nascono da ricerche ormai consolidate, e possono quindi essere proficuamente adottate per analizzare la realtà complessa delle nostre società. In ottemperanza a quanto scritto sopra, non hanno la pretesa di costituire delle “verità” definitivamente conquistate. Le considero “strumenti affidabili di lavoro” per avvicinarmi ad una maggiore conoscenza (ed autocoscienza).

1. Credo possiamo tutti concordare nel definire l’uomo un animale social-culturale la cui sopravvivenza è legata alla convivenza collaborativa, alla cultura e alla sua trasmissione. Esperienze alla Thoreau (o alla Rambo) presuppongono il possesso di strumenti più o meno sofisticati, conoscenze e addestramento prodotti di una cultura che può essere frutto solo di una società complessa, quindi patrimonio di tutti e non del singolo individuo.

2. Un’altra considerazione da fare è che, in natura, bene/male giusto/ingiusto sono etichette soggettive di valore che applichiamo a qualcosa che funziona o non funziona. Il valore può essere misurato sul tornaconto immediato dell’individuo o su un vantaggio per il gruppo, più indiretto, ma di efficacia maggiore nel tempo. Rubare la cacciagione ad un membro del mio gruppo nell’immediato funziona, ma funziona meglio nel tempo la capacità di collaborare nella caccia per renderla più redditizia dividendo equamente le prede.

3. La morale è il risultato dell’evoluzione. Già i batteri mostrano un comportamento che, se non sapessimo di trovarci di fronte a unicellulari, quindi esseri privi di una mente e di un cervello, potremmo interpretare come regolato da principi morali1. Anche il nematode Caenorhabditis elegans mostra in alcuni casi un comportamento cooperativo, grazie a due neuroni che, eliminati, trasformano il nematode in un individuo non cooperativo (cfr. Steven Rose – Il cervello del XXI secolo).

4. Ovviamente, anche in organismi evoluti in tempi più recenti si manifesta il comportamento collaborativo, in particolare nell’uomo. La valutazione, automatica, di funzionalità per il singolo e per il gruppo che attribuiamo ai comportamenti cooperativi (un giudizio di valore in senso biologico, secondo Michael Tomasello), diventa il fondamento dei nostri giudizi morali2\. Anche Jonathan Haidt afferma che le intuizioni morali avvengono in modo automatico e inconscio: la ragione funziona poi come un “avvocato” che giustifica la scelta fatta. Fortunatamente a certe condizioni la ragione riesce a fare qualche revisione: “la natura umana non solo è intrinsecamente morale: è anche intrinsecamente moralistica”. Insomma, la morale è a un tempo stesso innata (un insieme di intuizioni evolute) e appresa (i bambini imparano ad applicare queste intuizioni all’interno di una particolare cultura).

5. Il processo che ci ha portato ad una morale tipicamente umana si ipotizza sia iniziato circa due milioni di anni fa, procedendo in una sorta di “autodomesticazione”. Sempre secondo Tomasello (in Storia naturale della morale umana), negli ultimi due milioni di anni gli appartenenti al genere Homo hanno sviluppato una “morale della simpatia” (o altruismo di parentela) che condividono con le altre grandi scimmie, mentre partendo da circa 400.000 anni fa hanno sviluppato la “morale della seconda persona” (o altruismo reciproco), che è già un gradino più complessa. Negli ultimi 150.000 poi, con la crescita della popolazione e il passaggio ad un’organizzazione tribale più ampia, fatta di diversi gruppi che dovevano estendere una qualche forma di collaborazione (ad esempio, a scopo di difesa), hanno sviluppato quella che è definita “morale oggettiva” (impersonale), che si applica in un ambito allargato, teoricamente a tutti i propri simili. Le relazioni non sono più limitate al piccolo gruppo di cacciatori (max 150 persone) regolato da rapporti interpersonali diretti: si rende necessario collaborare con altri gruppi con la stessa cultura, con cui si condividono regole di comportamento riconosciute come “il modo giusto di fare le cose”. Su questa strada, in una progressione geometrica a partire dalle società agricole, utilizzando sistemi di comunicazione evoluti, attraverso racconti, miti, religioni, istituzioni varie, l’umanità si è dotata di un insieme di norme che regolano i rapporti non solo tra gli appartenenti al gruppo ma tra tutti gli uomini.

6. La “morale della simpatia” e la “morale della seconda persona”, selezionate evolutivamente, hanno lasciato tracce genetiche che condizionano lo sviluppo del cervello, ciò che probabilmente fanno anche alcuni aspetti della “morale oggettiva”. Altri aspetti della morale dei nostri tempi sono costruzioni puramente culturali3. La nostra “mente della moralità” utilizza strumenti che definiamo “senso di equità, di obbligo, di colpa” “mantenimento della reputazione sociale”. La critica aperta e anche il pettegolezzo sono da sempre usati per censurare comportamenti scorretti: assolvono ad un ruolo educativo nei confronti di chi partecipa o assiste alla discussione.

7. Lo sviluppo del cervello è frutto della genetica e dell’ambiente e, nell’uomo, prosegue fin oltre i 20 anni; ma anche dopo le connessioni tra i vari neuroni continuano a modificarsi (il cervello umano è fatto di 1011 neuroni e 1015 connessioni). I neuroni, collegati da assoni e dendriti, si organizzano in circuiti e sistemi di diversa complessità, che non si modificano solo durante lo sviluppo. Grazie alla plasticità del cervello si verificano creazioni e demolizioni di sinapsi in relazione agli stimoli. Se, per semplificare, vogliamo utilizzare il raffronto con i computer, potremmo assimilare i circuiti formati da neuroni, assoni, dendriti e sinapsi ad una CPU (e a memorie EPROM) che si aggiornano in relazione alle esperienze di vita del “proprietario” del cervello.

8. Nessuna forma di convivenza cooperativa può reggere se all’interno non funziona un meccanismo di premio punizione. Il meccanismo di ricompensa e punizione funziona all’interno di ciascun organismo e funziona anche all’interno di gruppi o società complesse basate sulla cooperazione. I procedimenti della giustizia svolgono all’interno delle società evolute una funzione assimilabile al sistema immunitario di un organismo: cercano di bloccare i comportamenti dannosi (punizione). Le società che funzionano dovrebbero essere in grado di innescare meccanismi premiali per i comportamenti virtuosi, quali la reputazione sociale, l’aumento della “fitness riproduttiva”, ecc… Di valersi cioè, ai fini della coesione sociale, dell’appagamento delle tendenze morali istintive prodottesi nel corso dell’evoluzione.

Per il momento è tutto. Credo però sia già sufficiente ad offrire qualche elemento di riflessione. Per cominciare, a farci capire che dietro il complottismo o l’integralismo dei neo-convertiti non c’è un super-complotto. Ci sono solo cervelli in panne, o sottoalimentati. Purtroppo questa constatazione non ci consola. Le fonti energetiche per i cervelli si vanno prosciugando, e al di sotto un certo limite non sono rinnovabili. E forse quel limite lo abbiamo già superato. 

Note

1 «Nella dinamica sociale complessa, se pure priva di mente, da essi creata i batteri possono cooperare con altri batteri, imparentati o meno dal punto di vista genomico. E nella loro esistenza priva di mente risulta che assumono addirittura quella che si può soltanto definire una sorta di «attitudine morale». I membri più stretti di un gruppo sociale – una famiglia, per così dire – si identificano reciprocamente grazie alle molecole di superficie che producono o alle sostanze che secernono, le quali sono a loro volta specificate dai loro genomi individuali. Ma i gruppi di batteri devono fronteggiare l’avversità dell’ambiente e devono spesso competere con altri gruppi per conquistare territorio e risorse. Affinché un gruppo abbia successo, i suoi membri devono cooperare. E ciò che può succedere durante lo sforzo di gruppo è affascinante. Quando individuano nel loro gruppo dei «disertori», vale a dire particolari membri che si sottraggono al compito della difesa, i batteri li emarginano, persino se sono imparentati dal punto di vista genomico e fanno quindi parte della loro famiglia. I batteri non coopereranno con batteri imparentati che non svolgono la propria parte e che non contribuiscono agli sforzi del gruppo; in parole povere, ignorano i batteri voltagabbana non cooperativi». (Antonio Damasio – Lo strano ordine delle cose – Adelphi ed.)

2 «I complicati meccanismi neurali in cui sono implicate le molecole associate al «valore» rappresentano un tema importante, su cui molti neuroscienziati sono oggi impegnati a far luce. Che cosa induce i nuclei a liberare quelle molecole? Dove sono liberate, precisamente, nel cervello e nel resto del corpo? Che cosa accade con la loro liberazione? In un modo o nell’altro, le discussioni sulle nuove affascinanti scoperte tradiscono le nostre aspettative proprio quando passiamo alla domanda fondamentale: Dove si trova il motore dei sistemi del valore? Qual è il primordio biologico del valore? In altre parole, che cosa mette in moto questo sofisticatissimo macchinario? Perché esso ebbe inizio? E perché è diventato quello che è diventato?
Senz’ombra di dubbio, le note molecole e i loro nuclei di origine sono componenti importanti del meccanismo del valore, ma non sono* la risposta alle nostre domande. Io considero il valore indissolubilmente legato al bisogno, e il bisogno alla vita. Nelle quotidiane attività sociali e culturali noi formuliamo valutazioni che hanno una connessione diretta o indiretta con l’omeostasi.
Quella connessione spiega perché i circuiti del cervello umano siano stati dedicati in modo tanto dispendioso non solo alla previsione e al rilevamento di perdite e guadagni, ma anche al timore delle prime e alla promozione dei secondi. Ciò spiega, in altre parole, perché gli esseri umani siano ossessionati dall’assegnazione di un valore.
Direttamente o indirettamente, il valore ha a che fare con la sopravvivenza; in particolare, nel caso degli esseri umani, ha a che fare anche con la qualità di quella sopravvivenza, nella forma di benessere. Il concetto di sopravvivenza – e, per estensione, il concetto di valore biologico – può essere applicato a diverse entità biologiche, a partire dalle molecole e dai geni fino a interi organismi.» (Antonio Damasio – Il sé viene alla mente – Adelphi ed.)

3 «Innanzi tutto, la selezione opera su migliaia di generazioni. Per il novanta per cento dell’esistenza umana, gli uomini hanno vissuto da cacciatori e raccoglitori in piccole bande nomadi. I nostri cervelli sono adattati a quel modo di vivere morto e sepolto, non alle nuove civiltà agricole e industriali. Non sono programmati per far fronte a folle anonime, alla scuola, alla lingua scritta, al governo, alla polizia, ai tribunali, agli eserciti, alla medicina moderna, alle istituzioni sociali ufficiali, all’alta tecnologia e altri nuovi venuti nell’esperienza umana. E poiché la mente moderna è adattata all’età della pietra, non a quella del computer, non c’è alcun bisogno di sforzarsi di trovare spiegazioni adattive di tutto quanto facciamo. Nel nostro ambiente ancestrale non c’erano le istituzioni che oggi ci spingono a scelte non-adattive, come gli ordini religiosi, le agenzie di adozione e le società farmaceutiche, quindi fino a tempi recentissimi non c’è mai stata una pressione della selezione a resistere a quegli stimoli.» (Steven Pinker – Come funziona la mente – Castelvecchi ed)