L’inventore dei capelli a spazzola

di Paolo Repetto, 4 maggio 2020

Se Saturnino Farandola discendeva i fiumi africani in groppa ad un ippopotamo (per di più a vela) qualcuno prima di lui aveva provato a farlo a cavalcioni di un caimano. Solo che non si trattava di un personaggio letterario, ma di un tizio in carne ed ossa. Il tizio si chiamava Charles Waterton: era un aristocratico inglese discendente da una famiglia cattolica di antichissimo lignaggio, un naturalista appassionato, un burlone irriverente, un magnifico atleta (addirittura un free climber ante litteram), oltre che un personaggio incredibilmente stravagante. La metà di questi requisiti sarebbero stati sufficienti a rendermelo interessante, tutti assieme mi hanno entusiasmato.

Tra le stravaganze minori di Waterton c’era quella di portare i capelli tagliati a spazzola, in un’epoca (i primi dell’ottocento) nella quale andavano di moda le teste leonine (vedi Foscolo, Chateaubriand e Beethoven) o il taglio “Roma imperiale” (vedi Napoleone). È stata proprio questa caratteristica a farmelo conoscere. Cercavo sue notizie per un semplice riferimento trovato in nota in un libro su Humboldt, e mi sono imbattuto nel ritratto di un tale con i capelli tagliati esattamente come li porto io, cosa che nella ritrattistica del primo ottocento non avevo mai riscontrato. Mi ha incuriosito, e non c’è voluto poi molto a scoprire che questa era solo l’ultima delle sue eccentricità.

Quando è uscita in edizione italiana la biografia scritta da Julia Blackburn (Cavalcare il coccodrillo, Boringhieri 1993) ho potuto godermi per intero il racconto di un uomo e di una vita eccezionali. E ad essa dunque rinvio, per una conoscenza più approfondita, chi fosse per qualche motivo intrigato dal personaggio. Garantisco che ne vale la pena. Non sono invece mai stati tradotti (e dubito che lo saranno) i diari, le opere scientifiche e il resoconto delle sue avventure nell’America del Sud. Mi limiterò qui ad una sommaria ricostruzione della sua vita e a sottolineare alcuni aspetti particolarmente singolari (in qualche caso molto attuali) del suo modo d’essere e di pensare.

Waterton vantava nella sua ascendenza una schiera incredibile di santi, tra i quali anche Thomas More, oltre a qualche sovrano come Edoardo il confessore. Era un aristocratico dello Yorkshire, la contea della rosa bianca, nato nel 1782 (quindi coetaneo di Hugh Glass, il tizio sopravvissuto ad un incontro ravvicinato con un grizzly e reso famoso da Revenant – tanto per intenderci sulla stoffa di cui era fatta questa gente), cresciuto nella magione avita di Walton Hall, in mezzo ad una natura rigogliosissima e semiselvaggia, e libero di godersela tutta. Sin dalla giovinezza non era uomo da lasciarsi mettere i piedi addosso, anche nel clima ferocemente anticattolico che in quegli anni ancora si respirava in Inghilterra: chi lo incontrava era conquistato dal suo carattere dolcissimo e svagato, ma quando si impuntava Waterton sapeva essere testardo come un mulo e terribilmente schietto: cosa che col tempo gli alienò le simpatie di molti suoi contemporanei.

Si era fatto (e rotto, ripetutamente) le ossa cavalcando alberi e catturando animali nella campagna attorno a casa, e anche nel collegio gesuita cui fu inviato continuò seguire la sua vocazione, tanto da essere investito ufficialmente del ruolo di cacciatore di volpi e di topi. Nei confronti di questi ultimi, ma solo di quelli della specie grigia, a suo dire arrivata in Inghilterra nel 1688, con l’usurpatore protestante Guglielmo d’Orange, e in breve tempo divenuta dominante a spese della specie autoctona nera, nutriva un odio feroce. Li chiamava topi “hannoveriani” e li aveva eletti a simbolo della malvagità assoluta.

A dispetto di quanto si dice della severità delle scuole gesuitiche, Waterton trovò nel college di Stonyhurst, un ambiente libero e stimolante (non è un caso che le scuole gesuitiche migliori e più “progressiste” fossero quelle tollerate, obtorto collo, nei paesi protestanti), cosa che lo indusse a rimanere in contatto per tutta la vita con i suoi vecchi insegnanti e a far loro visita ogni anno, quando era in Inghilterra, per la gioia e il divertimento dei nuovi studenti. Ho trovato anche menzione di alcune sue bravate, come lo scalare una torre vicina all’istituto, che gli sarebbe valsa una dura punizione, ma nella biografia della Blackburn non se ne parla. Le bravate peraltro ci starebbero tutte, come dimostrò la sua vita successiva, ma certamente il rapporto con i padri gesuiti non si incrinò mai.

Nell’Inghilterra “hannoveriana” non era consentito ai cattolici frequentare gli studi universitari, e Charles si trovò prima dei vent’anni a chiedersi cosa avrebbe voluto fare da grande. In realtà il suo futuro era già deciso: come primogenito avrebbe ereditato il titolo e la tenuta di famiglia, ancora notevole a dispetto degli espropri che l’avevano mutilata a partire dallo scisma protestante in poi: ma il giovane non era tipo da rimanere con le mani in mano in attesa della successione. La sua esuberanza e la fame di natura non potevano trovare sfogo nella sola Inghilterra. Nel 1802 si trasferì quindi a Malaga per aiutare un paio di zii che erano lì in affari: ne approfittò per imparare lo spagnolo, viaggiare lungo la costa meridionale e leggere in originale il Don Chisciotte, che lo entusiasmò e rimase il libro della sua vita. L’anno successivo si trovò però in mezzo ad una terribile epidemia di febbre gialla (che solo in quella città uccise oltre la metà degli abitanti), fu contagiato e ne uscì vivo, e una volta ormai immune si prodigò ad aiutare gli ammalati (tra i quali uno degli zii, che morì in poco tempo). Riuscì poi, forzando il blocco di quarantena steso attorno alla città, a fuggire su un veliero svedese e a tornare in Inghilterra.

Vi rimase per poco. Un anno dopo, a 22 anni, si imbarcava nuovamente, e questa volta per varcare l’oceano: la meta era la Guyana britannica, dove si recava in qualità di sovrintendente di una piantagione di cotone acquistata dal padre nei pressi di Georgetown. L’ambiente coloniale lo disgustò immediatamente, a partire dalla vita pigra e annoiata e dal lusso ostentato dei proprietari fino alla condizione miserabile degli schiavi. Evitò quindi accuratamente i circoli e i salotti cittadini, mentre cominciò a girovagare sia all’interno della colonia, sia tra le isole antillane, da Grenada a Barbados. L’unica amicizia vera la maturò con uno strano personaggio, per certi versi non molto dissimile da lui, Charles Edmonstone, uno scozzese che si era ritirato nel mezzo della giungla interna, sposando la figlia di un capo nativo ed evitando i rapporti con gli altri europei, ed era diventato una sorta di protettore e rappresentante degli indigeni. Waterton tornava comunque ad intervalli quasi regolari in Inghilterra, dove aveva un mentore in sir Joseph Banks, fondatore del giardino botanico di Londra ed ex compagno di esplorazioni del leggendario Cook. E proprio sotto lo stimolo di Banks intraprese a partire dal 1812 quattro successive spedizioni esplorative all’interno del continente.

Nel 1812 si inoltrò per quattro mesi nel cuore meridionale della Guiana, sconfinando anche in Brasile, viaggiando nella stagione delle piogge, in parte in canoa e in parte a piedi (anzi, a piedi nudi: questa era un’altra delle sue eccentricità, non sopportava le calzature), senza uno scopo ben definito, se non il constatare l’inesistenza del mitico lago dell’Eldorado: in realtà a muoverlo era il puro piacere di stare a contatto con la natura nel suo stato più primordiale.

Quattro anni dopo ripartì, ancora una volta col viatico di Banks, che gli affidò il compito di raccogliere il maggior numero possibile di semi “di ogni pianta notevole per bellezza o rarità”, da donarsi ai giardini reali di Kews. La spedizione in realtà non decollò mai, un po’ per la confusione e le velleità di Waterton (inizialmente voleva risalire addirittura tutto il Rio delle Amazzoni, proseguire sul Rio Negro e arrivare alle montagne di Cristallo), un po’ per una serie di inconvenienti che lo costrinsero a cambiare più volte i piani. Dopo aver zizzagato a lungo dal Brasile al Suriname e alla Caienna, alla fine si risolse ad accantonare il progetto e a compiere la sua ricerca vagabondando in solitaria per sei mesi tra le paludi e le montagne della Guiana britannica, raccogliendo soprattutto centinaia di esemplari di uccelli che trattava personalmente con un suo specialissimo metodo tassidermico.

Tra la seconda e la terza spedizione si inserì uno stravagante siparietto. Tornato in Europa, Waterton si recò nell’autunno del 1817 a Roma, per una udienza del papa Pio VII. Voleva offrirgli un quadro realistico di come era vissuta la religiosità dagli indigeni, in base alle osservazioni che aveva potuto fare durante la sua permanenza in colonia. Ma imbattutosi, appena arrivato in città, in un vecchio compagno del collegio gesuita, ricadde nello spirito adolescenziale e con il compare si arrampicò sin sulla punta del parafulmine della cupola di san Pietro, dove lasciò infissi un paio di guanti. La bravata non piacque affatto al pontefice, che intimò ai due di andare a rimuovere i guanti e di sparire velocemente dalla circolazione.

Il richiamo della foresta si faceva comunque risentire, e Waterton sarebbe partito già l’anno seguente se non fosse rimasto vittima durante il viaggio di ritorno dall’Italia di un grave incidente, dovuto come al solito ad una delle sue acrobazie, che lo mise a rischio di perdere la funzionalità di un ginocchio. Tornò ad una forma accettabile solo dopo due anni, nel 1820, e stavolta decise di organizzare la nuova spedizione con maggiore criterio. Aveva scelto come base l’azienda ormai in abbandono del suo amico Charles Edmonstone, che era rientrato in Europa. Di qui, con una ridottissima squadra (tre compagni) partiva per incursioni nell’interno, in cerca di esemplari di fauna da imbalsamare col suo particolare metodo. Si era munito di casse apposite per trasportarli poi in Europa, e le riempì tutte.

Proprio in questa occasione compì la prodezza che doveva renderlo popolare. Voleva imbalsamare un caimano, ma un esemplare che per dimensioni non avesse eguali in Europa, e per farlo aveva bisogno di catturare l’animale senza rovinare l’integrità della pelle, quindi di conservarlo vivo fino al ritorno presso la fazenda, dove aveva installato il suo laboratorio tassidermico. Riuscì ad organizzare la cattura, fra lo sbalordimento dei compagni, facendo uscite il caimano dall’acqua, avvicinandoglisi con estrema cautela, balzandogli all’improvviso sul dorso e abbrancandone le zampe anteriori per impedire loro di toccare terra e all’animale di tornare verso il fiume. Dopo una breve cavalcata da rodeo, con il caimano che si torceva da ogni parte e dava violenti colpi di coda, i suoi compagni riuscirono finalmente ad immobilizzare la bestia. Una cosa analoga fece di lì a poco con un boa constrictor lungo quasi cinque metri.

Questa volta rimase nella foresta undici mesi, vivendo alla maniera degli indigeni, ammalandosi e curandosi poi con i loro metodi, e facendo incetta di animali. Quando le casse non furono più in grado di accoglierne altri, si ritenne soddisfatto: “Avevo raccolto alcuni insetti rari, duecentotrenta uccelli, due testuggini di terra, cinque armadilli, due grandi serpenti, un bradipo, un formichiere gigante e un caimano”. Al ritorno però l’impatto con la civiltà e la burocrazia del vecchio continente fu disarmante. Ad accoglierlo non c’era più sir Joseph Banks, morto ormai da qualche anno, e i funzionari di dogana trattennero i suoi esemplari per un sacco di tempo, col rischio di far andare a male i frutti dei suoi sforzi, e gli chiesero anche il pagamento di un pesante dazio. Waterton ne fu particolarmente urtato, e risolse che avrebbe di lì innanzi limitato al massimo i rapporti con la “cricca hannoveriana” che governava il paese, concentrandosi invece nel fare di Walton Hall una sorta di zona franca.

Il quarto viaggio americano fu dunque di natura completamente diversa, a partire già dallo scenario. Questa volta, e siamo nel 1826, la meta fu la neonata repubblica statunitense. Il viaggio nell’America del nord non fu una spedizione esplorativa, ma una sorta di pellegrinaggio. A Waterton era capitata tra le mani una copia di American Ornitology, un’opera straordinaria del naturalista e pittore scozzese Alexander Wilson, che a quasi trent’anni si era trasferito in America con l’intento di censire e descrivere, soprattutto attraverso le immagini, tutti i volatili del continente. Wilson aveva attuato il suo proposito senza poter contare su alcuna sponsorizzazione, si era mantenuto praticando i mestieri più diversi, aveva camminato per migliaia e migliaia di chilometri lungo i fiumi e dentro le foreste dell’est americano. Waterton avvertì, dietro le descrizioni e i disegni, una immediata affinità, e decise di ripercorrere almeno in parte gli itinerari del pittore, morto ormai da più di dieci anni, per condividerne appieno anche le sensazioni. Appena giunto nel nuovo continente si mise quindi in contatto con coloro che erano stati intimi di Wilson, soprattutto con lo zoologo George Ord, che ne aveva completata e valorizzata l’opera. Tra i due si instaurò una strana amicizia, stante la differenza dei caratteri, che proprio perché coltivata poi solo a distanza sarebbe durata tutta la vita.

Waterton percorse parte del cammino fatto da Wilson, non mancò di lasciarsi andare a qualche stranezza, come quella di andare a curarsi una slogatura mettendo la gamba sotto il getto delle cascate del Niagara, (pare impossibile, ma sembra l’abbia fatto davvero), ma soprattutto rimase affascinato dal paese e dalla gente libera e schietta che lo abitava. È interessante in tal senso confrontare le sue impressioni con quelle di Tocqueville, che visitò le stesse zone sette anni dopo, e con quelle di Dickens, che lo fece quasi vent’anni dopo, traendone impressioni ben diverse. Per Waterton paradossalmente era l’immagine di una certa arretratezza a conferire fascino alle terre americane: “Mi sembra rappresentare ciò che deve essere stata l’Inghilterra cinquant’anni fa. Si sente parlare molto raramente di criminalità, e tutto il paese sembra unito e in pace con se stesso”. Anche se non mancava di rilevare che “in queste vaste regioni la natura sta perdendo rapidamente il suo antico aspetto e indossa vesti nuove. La maggior parte degli imponenti alberi da legname sono stati asportati: migliaia di alberi giacciono al suolo esanimi; mentre prati, campi di cereali, villaggi e pascoli sorgono di continuo davanti agli occhi del viaggiatore che percorre i tratti di bosco superstiti”.

Il momento negativo di questo viaggio fu invece costituito dall’incontro con John James Audubon, un altro pittore naturalista impegnato in un’opera simile a quella di Wilson e destinato ad oscurare la fama di quest’ultimo. I due non avevano in effetti, a parte l’interesse per gli uccelli – che si manifestava però in modo opposto: Audubon era un cacciatore quasi feroce – nulla che li accomunasse. Il francese era un uomo di spettacolo, che coltivava accuratamente la propria immagine di scorridore della frontiera: lunga chioma arricciata e ingrassata, abiti in pelle di lupo indossati anche nei ricevimenti eleganti, fucile in spalla o imbracciato in tutti i ritratti. Waterton non era certo il tipo da farsi impressionare da queste cose, ed era parecchio infastidito nel constatare come l’opera di Audubon stesse surclassando quella di Wilson nel gradimento del pubblico. Per questo motivo, negli articoli di scienze naturali che pubblicò in Inghilterra durante gli anni successivi si dedicò con sottile piacere a smontare pezzo per pezzo le osservazioni naturalistiche e i racconti avventurosi di Audubon, facendo intendere in pratica che erano quasi tutte panzane, o cose scopiazzate da altre fonti. Il che naturalmente gli attirò i fulmini degli ammiratori (e degli editori) del francese, che ribaltarono la faccenda: “Mentre il signor Audubon è esposto a pericoli o privazioni, e deve attendersi sostegno e ricompensa solo dal patrocinio del pubblico, il signor Waterton se ne sta tranquillamente insediato nella sua magnifica residenza nella campagna inglese, nel mezzo dei suoi possedimenti ancestrali”. (Magazine of natural History, 1833)

Nulla di più falso, intanto perché Waterton, quanto a pericoli e privazioni sofferti, non era certo secondo a nessuno, meno che mai ad Audubon, e poi perché il nostro se ne stava tutt’altro che tranquillamente insediato nei suoi possedimenti, a vivere di rendita. Nelle pause tra un viaggio e l’altro Waterton aveva infatti già cominciato a risistemare Walton Hall secondo un piano e in vista di un fine ben determinati. Aveva fatto costruire attorno al parco che circondava la magione un muro lungo oltre cinque chilometri e alto in alcuni punti quasi cinque metri, opera che mise a dura prova le sue finanze. Il muro doveva costituire una barriera contro i bracconieri e contro i grossi mammiferi predatori (volpi, tassi), per offrire rifugio ad ogni altra specie avicola o terrestre (comprese gazze, corvi, cornacchie, gheppi, allodole, puzzole e donnole, ed esclusi naturalmente i ratti grigi, a liquidare quali concorrevano in effetti tutte le altre specie). All’interno della recinzione erano bandite trappole e tagliole di ogni tipo, nessun animale poteva essere cacciato e anche gli alberi morti e caduti non dovevano essere rimossi. Per alcuni animali, ad esempio per i ricci, Waterton pagava addirittura una piccola taglia ai contadini che glieli portavano vivi. Versava loro anche una sorta di cauzione annua perché non sparassero agli stormi di oche che si fermavano in zona, soprattutto sulle rive del suo laghetto, durante le migrazioni. Le piante cadute diventavano base per la crescita selvaggia dell’edera o si trasformavano lentamente in fertilizzante, mentre nei tronchi cavi, spesso opportunamente chiusi con piccoli interventi in muratura, trovavano dimora le innumerevoli specie che animavano il suo piccolo e selvaggi paradiso terrestre.

In effetti, aveva creato il primo parco naturalistico al mondo, e continuò poi a difenderlo per tutta la vita. Stanti le devastazioni che la rivoluzione industriale stava producendo in tutta l’Inghilterra, e segnatamente in quella del nord-ovest, Walton Hall divenne una sorta di piccolissima oasi dove si conservava la natura di un tempo. Una battaglia legale contro un fabbricante di sapone che aveva piazzato i suoi impianti ai confini delle terre di Waterton e che con gli scarichi e le emissioni delle sue ciminiere inquinava aria, acque e terreni per un ampio raggio circostante, durò cinque anni, e si risolse con una vittoria più simbolica che reale per Waterton: il saponificio fu spostato più in là, ma venticinque anni dopo, e solo una decina dopo la scomparsa di Waterton, l’intera Walton Hall passò nelle mani del figlio di quel fabbricante, che si affrettò a consumare una postuma vendetta stravolgendo tutto il lavoro del naturalista.

Chi andava a visitare Walton Hall, come fece ad esempio lo stesso Charles Darwin dopo il ritorno dal viaggio con la Beagle (ma conosceva Waterton già da prima), non poteva non essere conquistato dal candore del proprietario e dalla giustezza del suo assunto, anche quando magari ne condivideva solo in parte il radicalismo e il modo di vivere. Tra i visitatori famosi ci fu probabilmente anche Dickens, che senz’altro conobbe Waterton personalmente: ma di questa visita non rimane testimonianza, perché la gran parte dell’epistolario di Waterton è andata perduta in un malaugurato incendio. D’altro canto lo “squire” non sembrava dare molta importanza alle differenze di estrazione o di fama dei visitatori: il parco era gratuitamente aperto a tutti, senza distinzioni, nobili, borghesi e popolani, operai e braccianti, e persino ai pazzi internati in un vicino manicomio. Il proprietario li accoglieva sempre conciato alla stessa maniera, nella sua “divisa da lavoro”, di solito a piedi scalzi, e li trascinava senza tanti convenevoli ad ammirare le meraviglie naturali, gli alberi secolari, gli aironi del lago, ecc… Si esibiva magari anche nei suoi numeri di arrampicata, per andare a prendere un nido, farlo ammirare e riportarlo al suo posto. I pazzi, probabilmente, si sentivano molto a proprio agio.

Poi li conduceva alla magione, dove già nell’ingresso e lungo le scale i visitatori erano accolti dai suoi capolavori di tassidermia, dai suoi inquietanti ibridi, nonché da una vera e propria galleria di quadri, disegni, oggetti e armi primitive, ed erano accompagnati dai suoi racconti e dalle sue spiegazioni. A fare gli onori di casa c’erano anche un pappagallo e un enorme gatto selvatico che Waterton si era portato appresso dalla Guinea, e che provvedeva a scongiurare la presenza degli odiati ratti grigi. Insomma, le visite a Walton Hall tutto dovevano essere, tranne che noiose.

Ma cosa trovavano i visitatori nel feudo di Waterton? Sin dall’ingresso avevano la sensazione di entrare in un altro mondo e in un’altra era. L’arco d’accesso era ridotto ad un rudere ed era interamente ricoperto dall’edera, un paio di torrette diroccate erano state trasformate in rifugi per gli storni o per i rapaci, ai lati del viale era tutta un’esplosione di vegetazione liberamente cresciuta, una sorta di giungla tenuta a bada solo con interventi minimi. La dimora di famiglia sorgeva su un’isoletta naturale, situata all’estremità di un lago di dieci e passa ettari di superficie, dalla forma molto allungata, che tagliava a metà la proprietà. L’isola era collegata alla sponda da un piccolo ponte di ghisa. Sulla terrazza antistante la facciata della casa era piazzato un grosso cannocchiale, che consentiva di esplorare tutta la superfice del lago e di ammirare la fauna avicola stanziale e quella di passaggio. Attorno al lago, che era al centro di una vallata ondulata, correva uno stretto sentiero, ma gli spostamenti erano molto più agevoli muovendosi sull’acqua con una piccola imbarcazione. Aggirandosi per la tenuta il visitatore coglieva immagini che parevano tratte dai paradisi terrestri dipinti da Jan Brueghel, fatti salvi le pecore e i leoni. Gli alberi secolari, le querce e gli olmi, coabitavano con i tassi e gli agrifogli piantati appositamente per favorire la nidificazione. Walton Hall era infatti un paradiso soprattutto per gli uccelli. A metà del secolo, nel suo pieno rigoglio, arrivò ad ospitare dai tre ai cinquemila volatili acquatici nella stagione estiva, e aveva colonie residenti di centinaia di aironi, di corvi, di cornacchie, di gheppi e di rapaci di ogni genere, tutti animali ai quali al di là del muro era data una caccia spietata. Ma c’erano anche i ricci, le donnole, le vipere (“le vipere sono numerosissime dentro le mura del parco, dove le attiro per proteggerle”), insomma, tutti i “nocivi” che altrove venivano sterminati.

Alcuni testimoni raccontano che Waterton si muoveva in mezzo a questo eden primordiale come Adamo prima della cacciata. Gli animali erano così abituati alla sua presenza discreta da accorrere a mangiare dalle sue mani, o da accompagnarlo nelle sue passeggiate. Mentre fuori l’aspetto del territorio stava diventando sempre più irriconoscibile, a Walton Hall il tempo sembrava essersi fermato, e anzi, essere tornato indietro.

Nel frattempo Waterton non si era chiuso al mondo. Non solo riceveva visitatori, ma lui stesso si muoveva frequentemente, magari evitando con cura i convegni e i congressi ufficiali, ma correndo ad esempio a esaminare ogni animale esotico nuovo che approdasse in Inghilterra, in genere come attrazione da fiera (e ne opzionava poi le salme da imbalsamare, sapendo benissimo che non sarebbero sopravvissuti a lungo), oppure studiando in loco le nidificazioni di cormorani e gabbiani nelle scogliere a picco sul mare dello Yorkshire, lungo le quali si calava e risaliva con la tecnica alpinistica della corda doppia.

Per un certo periodo partecipò inoltre con articoli e piccoli saggi, spesso violentemente polemici, al dibattito naturalistico, che già prima dello “scandalo” creato da Darwin era accesissimo (non ho notizia invece di come abbia accolto la teoria evoluzionistica. Da cattolico fervente senz’altro non ne fu entusiasta, ma propendo a credere che all’epoca quella battaglia fosse ormai lontana dai suoi interessi). I suoi interventi erano soprattutto volti a denunciare la distruzione progressiva della fauna e del paesaggio inglese, o a sfatare leggende e credenze sugli animali esotici o sui selvatici di casa. In coerenza con la sua posizione “fissista” si ostinò a negare in qualche caso (come in quello dei gorilla esibiti dall’esploratore Paul du Chaillu) l’esistenza di nuove specie, e arrivò ad architettare, come vedremo, vere e proprie burle per screditare i suoi colleghi naturalisti, finendo invece per minare la propria credibilità: ma rimaneva pur sempre l’uomo che aveva cavalcato un coccodrillo e che prendeva i serpenti per la coda. E su questo faceva sotto sotto leva, soprattutto quando prendeva di mira gli studiosi da tavolino, coloro che presumevano di poter descrivere il mondo senza averlo mai percorso. In questo c’era anche una punta di acredine nei confronti di chi, invece di produrre esperienze sul campo, faceva aggio su quei titoli accademici che a lui erano stati negati. “Gli errori del professor Rennie si possono spiegare solo col fatto che il professore, come tanti altri naturalisti di chiara fama, ha più pratica di manuali che pratica manuale. È da deplorare che non si sia abbastanza sporcato le mani, perché da un tale esercizio i suoi scritti ornitologici avrebbero tratto grande giovamento”.

In un campo poi non ammetteva rivali, quello dello studio dei veleni. Si era portato dall’Amazzonia una notevole quantità di curaro, e non ebbe difficoltà a distribuirlo a tutti gli studiosi che gliene facevano richiesta, a testarne personalmente gli effetti con esperimenti sugli animali e a ipotizzarne possibili usi terapeutici.

La sua militanza polemica si interruppe però a metà degli anni trenta, dopo una violenta diatriba che gli aveva procurato attacchi da ogni parte dell’establishment scientifico e accuse di essere un bugiardo. Per reazione, nello stesso periodo decise di aprire definitivamente il suo parco al pubblico, quasi a tradurre in gesti concreti quella divulgazione di conoscenza naturalistica che sulle riviste gli era contestata. In qualche modo fu un gesto molto elegante di disprezzo nei confronti dei suoi avversari.

A Waterton si poneva però un altro problema. Approdato ormai alla piena maturità non aveva ancora un erede. Quando decise di provvedere sposò, quarantasettenne, una ragazza di trent’anni più giovane, Anne, figlia del suo vecchio amico Charles Edmonstone, della quale era stato anche padrino di battesimo. e nelle cui vene scorreva sangue indiano e scozzese. Per quanto comprensibilmente un po’ intimidita dalla stranezza del personaggio e dalla differenza d’età, sembra che la giovane non abbia affatto sofferto il matrimonio come una costrizione o un sacrificio. Dopo in rientro in patria lei e le sorelle, tutte belle ragazze ma recanti palesemente nei tratti e nel colore della pelle l’impronta del meticciato, avevano vissuto un isolamento dettato dal pregiudizio razziale che le circondava. Walton Hall era in fondo un ambiente a metà strada tra quello in cui erano cresciute e quello col quale si trovavano ora, molto spaesate, a confrontarsi.

Un anno dopo le nozze Anne diede alla luce un figlio, Edmund, ma a poche settimane dal parto morì. Charles non seppe mai darsi pace. Quasi ad espiare una colpa, dopo la morte della moglie scelse di dormire sempre sul pavimento di una vecchia soffitta piena di spifferi, avvolto in un mantello e con un pezzo di legno per cuscino.

La paternità fu forse il più grosso infortunio della sua vita. Il figlio crebbe con le sorelle della madre, che Waterton aveva chiamato a vivere a Walton Hall, ed è presumibile che queste lo viziassero molto. Inoltre il rapporto con un padre del genere, che pure almeno durante la giovinezza gli fu sempre molto accanto, non poteva che essere complicato. Era difficile seguirne le orme, ma lo era altrettanto prenderne serenamente le distanze. Edmund non fece né l’una né l’altra cosa. Divenne una persona inconcludente, avida e perennemente indebitata, che inseguiva le onorificenze quanto il padre le aveva snobbate, e che non essendo in grado di imitarla si vergognava di quella figura così stravagante. Alla fine si ridusse come dicevo a vendere la proprietà, ormai onerata di debiti e di ipoteche, proprio a chi era stato il più caparbio nemico del padre, contravvenendo anche alle clausole testamentarie che quest’ultimo aveva disposto, proprio nella coscienza della debolezza del figlio, e che lasciavano eredi le due cognate (le quali, naturalmente, di fronte alle pretese del nipote cedettero).

L’inclinazione del figlio alla vita scioperata amareggiò molto l’ultima parte della vita di Waterton, ma non ne cambiò affatto le abitudini. Subito dopo la morte della moglie aveva intrapreso una serie di viaggi “turistici” in Europa, con le cognate e con Edmund al seguito, rimanendo spesso lontano da Walton Hall per periodi molto lunghi. Ne approfittò per ampliare le sue competenze naturalistiche e incontrare i suoi corrispondenti scientifici, per verificare i metodi di conservazione degli esemplari adottati nei musei di storia naturale o per battere i mercati degli uccelli, ma anche per rendere omaggio alle espressioni più superstiziose della sua fede, dal miracolo di san Gennaro alle processioni delle salme mummificate per le vie di Palermo. Sceglieva di preferenza le mete dei suoi soggiorni nei paesi cattolici, in Belgio, in Italia o in Austria, nei quali riusciva a trovare tutto entusiasmante, persino le abitudini meno nobili. Dalla metà degli anni quaranta iniziò però a fare vita molto più ritirata, per dedicarsi anima e corpo al suo parco.

Waterton era nel frattempo diventato, nell’immaginario popolare, una sorta di macchietta, una singolare sopravvivenza di un passato pre-industriale, cui si attribuivano le parole e i comportamenti più bizzarri e si concedeva una dubbia attendibilità. E Walton Hall si era trasformato quasi in una meta turistica, della quale il proprietario era una delle attrazioni.

Negli ultimissimi anni della sua esistenza ebbe però almeno una consolazione. Un giorno si recò a trovarlo, arrivando a piedi da Manchester, un sedicenne lavoratore che frequentava studi serali di scienze naturali, e che sarebbe poi diventato uno dei più famosi medici d’Inghilterra (fu anche il medico curante di Darwin). Il giovane si chiamava Norman Moore, e la sua passione per le conoscenze naturalistiche conquistò immediatamente Waterton. A sua volta il ragazzo fu affascinato dall’anziano ma arzillo signore, che lo associò immediatamente alle sue ronde attraverso il parco per visitare e riparare i vari rifugi degli animali o per verificare la presenza di uova nei nidi, oppure alle sue traversate in barca per vedere gli stormi degli uccelli migratori, e persino ai tentativi di imbalsamazione di vari animali, tra i quali un enorme gorilla. Le annotazioni di Moore, nella loro semplicità e innocenza, danno probabilmente l’immagine più vera dei modi e del carattere di Waterton. Quando lo conobbe rilevò che “è un vecchio di media statura. Ha i capelli bianchi, ma i suoi sensi sono più acuti di quelli di un uomo molto più giovane, e non è affatto curvo”. All’epoca Waterton aveva già superato gli ottant’anni. Durante le visite successive (furono otto, e in alcuni casi si prolungarono per diverse settimane) descrisse l’ambiente, la casa, il museo, il parco, ma soprattutto colse momenti come questi: “Siamo andati all’albero cavo presso il bordo dell’acqua. Stavamo per tirarne fuori degli stecchi quando sono volati via due bei gufi bianchi. […] più tardi dai rovi è uscita in volo un’oca canadese. Su un salice vicino al canale dei pesci abbiamo visto una coppia di cince dalla lunga coda. Abbiamo visto anche un picchio bianco e nero, al quale mi sono avvicinato […] abbiamo visto anche alcuni aironi, colombelle, corvi neri, gheppi e diversi altri uccelli” Oppure: “Stamane alle due io e il signor Waterton stavamo sulla scalinata. Scrutavamo in giro per vedere se fosse rimasto qualche uccello acquatico. La luna risplendeva sul ghiaccio, ma a parte l’oca canadese non vedemmo nulla di nulla”. E ancora: “Alle sei e un quarto sono salito alla stanza di Waterton, e l’ho trovato seduto accanto al fuoco che leggeva il Don Chisciotte. Mi ha mostrato un bel fungo a cui stava lavorando e un grosso rospo di Bahia che stava colorando”. Nei giorni di pioggia i due trascorrevano interi pomeriggi a parlare vicino al fuoco, nella grotta naturale in prossimità del lago, seminascosta dagli alberi di tasso, che Waterton aveva fatto adattare a ricovero e a luogo di svago per le comitive.

Le immagini di questo anziano signore e del ragazzo seduti nel cuore della notte sulla scalinata a guardare la luna riflettersi sul ghiaccio, o a parlare per ore accanto al fuoco di alberi, di uccelli e di avventure alla Guiana sono toccanti. È quanto Waterton aveva probabilmente sempre sperato di fare con il figlio, e quanto Moore aveva magari sognato di poter fare con il proprio padre, che invece non conobbe mai. E senza dubbio l’incontro con Waterton fu determinante per i futuri successi del giovane

Moore era a Walton Hall anche al momento della morte dell’anziano amico, e ce ne ha lasciata la cronaca. Durante una escursione Waterton cadde malamente su un ceppo d’albero, ma fu in grado di tornare a casa sulle sue gambe. Era tuttavia consapevole che questa volta non se la sarebbe cavata, come aveva fatto per tutta la vita, con un semplice salasso, e infatti morì la notte successiva, non prima di aver dato con molta calma istruzioni alle cognate e a tutta la servitù, e di aver salutato Norman Moore. Il quale scrisse: “Morì mentre i corvi cominciarono a gracchiare e le rondini a garrire. È morto come aveva sempre previsto: ritto a sedere e lucido fino alla fine”. Era uscito di scena allo modo in cui vi aveva vissuto: dignitosamente, e senza procurare problemi a nessuno.

Proprio la testimonianza fresca ed ingenua di Moore mi autorizza a tentare una sintetica rilettura della figura di Waterton, che ridimensioni un poco la patente di eccentricità della quale fu insignito e per la quale ancora oggi è conosciuto.

Leggendo la biografia della Blackburn, scritta con tutta la simpatia possibile, ma mantenendo una corretta attinenza ai fatti documentati, balza evidente che Waterton era fuori registro persino per gli standard inglesi, che quanto ad originalità sono già di per sé decisamente alti. E in tal senso definirlo bizzarro è persino riduttivo. Eppure questa bizzarria non disturba affatto il quadro. Voglio dire che Waterton riuscì a fare ciò che fece, e non mi riferisco alle sue imprese ma alla costruzione e alla difesa di Walton Hall, proprio in ragione della sua eccentricità. Tutto il resto è contorno. Non che facesse parte di una qualche messinscena: Waterton si comportava come gli sembrava e gli riusciva naturale, e semmai la sua differenza sta nel fatto che non conosceva o non accettava alcun limite dettato dalle convenzioni sociali. Si potrebbe parlare di una forma di infantilismo, anche se l’impressione è che in qualche misura ci marciasse consapevolmente. Era infantile in certi comportamenti e in certe reazioni, ma aveva anche capito che la sua fama ormai consolidata di bizzarro gli consentiva di fare cose che nessun altro nella sua posizione avrebbe osato fare, pena perdere ogni reputazione sociale. Waterton ad un certo punto non aveva nessuna reputazione da perdere: la fama del suo coraggio e della sua incoscienza lo avevano fatto comunque amare dal grande pubblico, e ci si aspettava da lui che fosse coerente. Cosa che non gli era difficile: non doveva interpretare un personaggio, ma solo essere se stesso.

È dunque pensabile che dietro le sue bravate, dalla scalata a san Pietro alle innumerevoli altre di cui la sua vita fu costellata, ci fosse anche una componente di esibizionismo. Ma nel caso di Waterton non credo si possa ridurre tutto ad una infantilistica ostentazione di sé. C’era invece, ad esempio, lo scotto dell’appartenenza ad una minoranza fortemente discriminata, ciò che obbliga ad essere sempre un po’ al di sopra delle righe, per cercare una rivalsa che riequilibri il rapporto: e c’era anche la volontà, legata alla stessa condizione, di cimentarsi costantemente con se stesso per darsi sicurezza. Queste pressioni ambientali e psicologiche, quando trovano la materia prima adatta, finiscono per forgiare caratteri forti e anticonformisti, a volte sin troppo, e non maschere di convenienza. Nel caso di Waterton lo dimostra il fatto che, secondo le testimonianze di coloro che gli furono più vicini, certi comportamenti non li riservava agli ospiti, con i quali anzi cercava di mantenersi il più “normale” possibile, ma li teneva soprattutto quando era libero di dare sfogo alla sua natura. Fino ad ottanta anni suonati continuò ad arrampicare sugli alberi più alti del suo parco per osservare la vita e la salute delle nidiate di uccelli che li affollavano.

Se alla luce di certi suoi exploit Waterton potrebbe sembrare un totale incosciente (in effetti lo era, e anche parecchio), si trattava però di una incoscienza senz’altro genuina, mai esibita per dare spettacolo o per crearsi un personaggio. Era convinto di ciò che faceva, e questo da un lato perché aveva una grossa consapevolezza delle sue risorse fisiche, dall’altro perché era fiducioso nel fatto che gli animali, persino i più feroci, non attaccano se non sono minacciati. Riteneva, evidentemente a ragione, visto che arrivò incolume alla tarda età, di poter stabilire con la natura un rapporto di perfetta parità, senza sentirsi né un dominatore né una vittima. Per questo camminava a piedi nudi nelle foreste, o cacciava il braccio in una cassa contenente una decina di serpenti a sonagli per trasferirli ad uno ad uno in un altro contenitore.

Una identica fiducia, a quanto pare, riusciva a trasmetterla anche ai suoi interlocutori non umani. Ecco come descrive l’incontro con un orango, avvenuto nel 1851, in una fiera inglese. La povera bestia era rinchiusa in una gabbia, e secondo il dottor Hobson, che per un lungo periodo fu un amico di Waterton (ma che dopo una violenta rottura ne scrisse una biografia piena di astio), era furibonda. Waterton evidentemente la vedeva invece tranquilla, tanto che si fece aprire la gabbia ed entrò. “Mentre mi avvicinavo all’orango questi mi venne incontro a mezza strada e ci accingemmo subito ad un esame delle rispettive persone. Ciò che mi colpì più vivamente fu la non comune morbidezza dell’interno delle sue mani. Quelle di una delicata signora non avrebbero potuto essere di una grana più fine. Egli si impossessò del mio polso e scorse con le dita le vene azzurrine che vi si trovavano; io per parte mia, mi ero perso nella contemplazione della sua enorme bocca prominente. Con la massima cortesia egli lasciò che gliela aprissi, cosicché potei esaminare a mio bell’agio le sue magnifiche file di denti. Poi ci mettemmo l’un l’altro una mano intorno al collo, restando per un po’ in questa posizione […] sarebbe tempo perso mettersi a riferire tutte le cerimonie che si svolsero tra di noi […] gli spettatori che ci attorniavano parevano estremamente divertiti alla solenne pantomima cui assistevano”.

Una scena simile si ripeté un’altra volta con un leopardo: Waterton entrò nella gabbia, e i due rimasero a studiarsi a lungo. Ad un certo punto l’animale si ritirò per distendersi nel suo angolo, con un grande sbadiglio. La stessa fiducia Waterton la concedeva persino alla specie da sempre considerata la nemica più subdola dell’uomo, quella dei rettili velenosi. “Il serpente labari è molto velenoso, ma io mi ci sono spesso avvicinato a meno di due metri senza timore. Ho avuto cura di muovermi con gran delicatezza e cautela, tenendo immobili le braccia, e lui ha sempre consentito che lo osserva a mio bell’agio, senza mostrare la minima intenzione di balzarmi addosso. Pareva che tenesse fissi gli occhi su di me con fare sospettoso, ma questo era tutto”. E a proposito della storia dei serpenti a sonagli, testimoniata dallo stesso dottor Hobson, che ne era stato coprotagonista, scriveva: «Consapevole del fatto che non c’era pericolo a patto che conservassi la mia presenza di spirito, infilai con la massima calma la mano nella cassa e misi con precisione due dita su un lato e su un altro del collo del rettile, in prossimità della testa. Con questo semplice procedimento trasferii tutti i serpenti dalle casse di legno alla mia cassa di vetro. Quei furbacchioni fecero tintinnare per tutto il tempo i loro sonagli, quasi per dirmi: “Non farci del male, o ci ribelleremo”». Va bene l’understatement tipico inglese, in questo caso davvero sottilmente ostentato, ma insomma, si sta parlando di serpenti a sonagli e di un gesto che ci riesce istintivamente repulsivo anche con quelli più innocui.

A questo punto potrebbe apparire contraddittoria la professione di amore per gli animali da parte di Waterton con la sua pratica della tassidermia. Dobbiamo però calarci nel contesto dell’epoca. Waterton si confrontava con una passione per la caccia, particolarmente diffusa in Inghilterra, che si traduceva in stragi insensate e stava portando all’estinzione sul suolo inglese di intere specie. Dietro questo furore distruttivo stava una sorta di rivendicazione sociale: la caccia era rimasta per secoli un privilegio distintivo della nobiltà, ed il suo esercizio era diventato recentemente uno dei simboli del nuovo status che gli acquirenti borghesi delle antiche proprietà nobiliari volevano esibire. Non solo: per i contadini e i piccoli proprietari costituiva una sorta di rivincita nei confronti di un sistema che a lungo aveva protetto la fauna, sia pure in funzione venatoria, a discapito dei raccolti e quasi in dispregio della povertà e della fame diffuse. Per questo motivo veniva praticata indiscriminatamente, a volte col pretesto di eliminare animali nocivi, ma più spesso per un malinteso spirito sportivo, o per puro sadismo revanscista. Nei diari e negli appunti di Waterton ricorrono costantemente le denunce di questa pratica, le annotazioni dei momenti in cui erano stati abbattuti gli ultimi esemplari di particolari specie. “Comitive di cacciatori da ogni angolo del regno visitano Flamborough (la località sulla costa dello Yorkshire nella quale andava ad osservare i nidi arrampicando sulla scogliera) e i dintorni nei mesi estivi, spargendo attorno a se una cupa devastazione. La carneficina non ha nessun utile, gli sventurati uccelli servono semplicemente da bersaglio e vengono in genere abbandonati sul luogo in cui cadono”. Oppure: “Nel 1813 ho visto per l’ultima volta una poiana. Nella primavera di quell’anno se ne andò per non fare più ritorno e, pressappoco nella stessa epoca, il nostro ultimo corvo imperiale fu abbattuto nel suo nido da un mio vicino”. È comprensibile che si fidasse molto più degli animali che degli uomini. Ma, da par suo, non si limitava a deplorare. Intraprese nel suo piccolo anche delle campagne di stampa, che raccolsero consensi e sfociarono più tardi in una parziale modifica delle leggi inglesi sulla caccia.

E la tassidermia? Anche questa va considerata in rapporto all’epoca. L’unico modo per far “toccare con mano” agli europei la fauna esotica, per consentire al grande pubblico di conoscerne le reali fattezze e dimensioni e i colori, al di là delle descrizioni fantasiose dei viaggiatori e delle raffigurazioni in genere molto stilizzate, miranti all’effetto artistico piuttosto che a quello realistico, prodotte dai pittori-naturalisti, era l’esibizione di esemplari imbalsamati o impagliati. Waterton normalmente, in patria, esercitava la sua perizia su animali trovati già morti nel suo parco o sulle salme delle povere bastie importate per essere esibite nelle fiere e negli spettacoli, che avevano una vita molto breve. Così racconta l’ultimo incontro con una femmina di gorilla tenuta segregata in una squallida topaia: «“Addio, povera piccola prigioniera, – le dissi – ho paura che questa nostra fredda e cupa atmosfera abbrevierà i tuoi giorni”. Jenny scosse la testa come per dire: “Non c’è nulla qui che sia fatto per me: la stanza è piccola e surriscaldata; gli abiti che mi costringono a indossare sono del tutto insopportabili, mentre il cibo che mi danno non è quello di cui ero solita cibarmi quando ero sana e libera nelle mie foreste natie”». Il fatto poi che il corpo della povera Jenny lo abbia personalmente imbalsamato non toglie credibilità alla sua sincera compassione e indignazione: rientrava nel ruolo del quale si era investito, quello del naturalista.

Anche nella storia delle “burle” si possono cogliere le particolari e apparentemente ambigue sfumature dell’infantilismo di Waterton. La vicenda ebbe un ruolo importante nella sua vita e va ricordata. Durante il viaggio di ritorno dalla quarta spedizione americana Waterton aveva fatto una capatina nelle regioni meridionali da lui in precedenza esplorate, e ne era ripartito portandosi dietro alcuni esemplari di scimmie urlatrici già trattati col suo metodo tassidermico. Uno degli esemplari era però il frutto di una ingegnosa manipolazione, attraverso la quale con i quarti posteriori di una scimmia erano stati creati il volto e il busto di un essere a metà strada tra l’uomo e gli altri primati. Una sorta di “anello mancante”. Aveva mostrato il risultato già a Georgetown, suscitando l’ilarità dell’intera colonia e mantenendo la cosa nei confini dello scherzo. Ma al ritorno in Inghilterra fu tentato di strafare, e presentò il suo mostro accompagnandolo con una descrizione avventurosa delle modalità della scoperta e con una breve descrizione “scientifica”. L’errore fu quello di inserire questo scherzo in coda al volume dei Wanderings in South America, nel quale aveva raccolto i suoi diari delle esplorazioni, col risultato di far dubitare della veridicità di tutto il resto, che già in alcuni punti rasentava l’incredibile. L’opera stessa andava per molti aspetti contro i canoni della letteratura naturalistica corrente, e di questo Waterton era ben consapevole, ed anzi, ne rivendicava l’originalità: “Il mio unico obiettivo era di esortare il lettore a recarsi ad esplorare quelle remote regioni. Avrei potuto fornire il nome scientifico e quello indiano di tutti gli uccelli e gli altri animali, ma me ne sono guardato accuratamente. Ho dato al mondo un resoconto scientifico originale, buttato giù a matita sera dopo sera, non deturpato da caricature né mistificato da chiose da naturalista di laboratorio”. Il pubblico apprezzò, i suoi colleghi naturalisti molto meno.

Le motivazioni ad una trovata del genere erano diverse. C’era senz’altro da un lato, come molla occasionale, il desiderio di giocare uno scherzo al “consesso dei primari naturalisti del momento”, e di ridicolizzali (in tal senso si inseriva in una tradizione che aveva precedenti illustri, non ultimo quello del fantomatico verme di Spallanzani, e che sarebbe proseguita con falsi clamorosi come quello dell’uomo di Piltdown). Questo perché in fondo Waterton si considerò per tutta la vita, a dispetto della mancanza di titoli e di riconoscimenti accademici, uno scienziato, depositario di conoscenze molto concrete, maturate sul campo: e gli pesava senz’altro, al di là delle sue professioni di indifferenza, di essere escluso da quel “consesso”, o quanto meno che le sue conoscenze non fossero tenute nella dovuta considerazione. A modo suo in effetti uno scienziato lo era, e diede contributi non indifferenti al sapere naturalistico: ma gli mancò quella scoperta, quel guizzo che avrebbe potuto giustificare senza riserve questa sua ambizione, anche perché ostacolato da una profonda ortodossia religiosa, che lo portava a guardare con sospetto ad ogni novità e a non tirare le fila di indizi che magari aveva intuito, ma che spingevano verso direzioni pericolose.

Dall’altro lato c’era la volontà di dimostrare la sua eccezionale bravura come tassidermista (su questo non aveva dubbi: si considerava il miglior tassidermista del mondo, e si arrabbiava moltissimo se qualcuno definiva i suoi esemplari “animali impagliati”), ma anche un gusto particolare, e un po’ macabro, per le figure bizzarre; l’Inclassificato – così aveva nominato la sua creazione più famosa – non fu infatti l’unico esemplare da lui trattato in quel modo.

Io credo tuttavia che alla fine a prevalere, a fargli compiere il passo sbagliato che avrebbe compromesso per sempre la sua credibilità, sia stata la voglia pura e semplice di divertirsi. Qualsiasi calcolo d’altro tipo avrebbe dovuto indurlo infatti a lasciar perdere. Ma forse non era altrettanto bravo nel prevedere le reazioni umane che nel sentire gli umori degli animali.

Tutto sommato, rimango convinto che la vicenda delle burle abbia impresso una svolta positiva alla sua vita. Intuendo che il suo maldestro sberleffo alla comunità scientifica non gli sarebbe stato mai perdonato, Waterton si concentrò su quello che gli piaceva davvero e in cui riusciva meglio, la cura del suo parco. Il che gli consentì di vivere il resto della sua esistenza scalzo, trascurato nel vestire, monastico negli orari e incredibilmente frugale nell’alimentazione, ma soprattutto sincero, e libero di scegliere i suoi interlocutori e di organizzare in perfetta autonomia le proprie giornate. Ciò che, a pensarci bene, non è poco.

Aggiungo, infine, un paio di notazioni molto personali. La prima concerne il suo aspetto. Anche i capelli a spazzola, così come l’abbigliamento trasandato e assolutamente fuori moda, non rappresentavano una ricerca di originalità a tutti i costi, ma rispondevano ad un bisogno di praticità. Le parrucche erano ormai desuete, tranne che nelle conventicole aristocratiche più reazionarie, e le nuove acconciature maschili mal si addicevano a un uomo che amava muoversi in ambienti pieni di insetti e di parassiti di vario genere. Nella camera-soffitta in cui Waterton dormì per più di trent’anni non c’erano specchi: l’unico suo autocompiacimento fisico riguardava la propria straordinaria agilità e la incredibile resistenza fisica. Non voleva piacere agli altri, ma aveva rispetto per se stesso.

Un’altra notazione riguarda il culto di Don Chisciotte, che Moore testimonia essere rimasto vivo sino alla fine. Essendo stato io stesso fin dalla giovinezza un cultore del cavaliere dalla trista figura, non ho potuto che salutare una ulteriore consonanza. Credo che l’amore per l’eroe di Cervantes, intendo l’amore di pelle e di sangue, non quello puramente letterario, la dica lunga su una particolare disposizione nei confronti della vita e sul senso che si vorrebbe darle. Caratterizza una particolare tipologia umana, e Waterton di quella tipologia incarna senz’altro uno degli esemplari più significativi.

Infine, l’unica cosa che nella vita di Waterton non ho trovato è un incontro, o almeno una qualche corrispondenza, con Alexander von Humboldt. Sembra quasi impossibile che i due non si siano mai incrociati. Erano contemporanei, hanno esplorato la stessa area sudamericana pressappoco negli stessi anni, hanno sperimentato gli stessi veleni, hanno continuato entrambi per tutta la vita a vestire contro ogni canone, erano famosi entrambi. Mi aspettavo di trovare qualche menzione l’uno dell’altro, magari anche in negativo. Invece nulla. Non mi resta che sperare nella pubblicazione dell’epistolario completo di Humboldt, annunciata da un pezzo in Germania. Pare che occupi una ventina di volumi, quindi avrò da divertirmi per quel che mi resta da vivere.

Non sarà certamente come cintare Walton Hall, ma la possibilità di chiudere un cerchio entro il quale mi sto aggirando da anni è già un buon motivo per tirare avanti.

Chi volesse leggersi in lingua originale (in italiano non sono mai state tradotte) le opere di Waterton può trovare:
Charles Waterton – Wanderings in South America – CreateSpace Independent Publishing Platform 2015 London
Charles Waterton – Essays on Natural History – Forgotten Books 2012

Per le opere su di lui, naturalmente, e unica, la biografia scritta da:
Julia Blackburn – Cavalcare il coccodrillo – Bollati Boringhieri 1993

Vita e avventure di un mondo perduto

Vita e avventure di un mondo perdutoa cura di Paolo Repetto, 23 maggio 2018

Le origini di un impero tra storia e leggende

Sven Hedin e i misteri del lago errante

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

Cercando l’Australia

Alexander von Humboldt

L’ultimo lago

Il viaggio al Tibet

Il milanese che valicò le Ande

l mito americano della Natura

Humboldt e l’alba dell’ecologia

La poesia di Wystan Hugh Auden

Donne con la  bussola

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

Le origini di un impero tra storia e leggende

di Paolo Novaresio

Dal 1960 il Mali è una Repubblica, ma la memoria popolare è tuttora rivolta ai secoli splendidi in cui era un vasto e potente impero.

Le interminabili genealogie dei re, tramandate dai canti e racconti epici fino ai nostri giorni, non sono sterili elencazioni ma storia viva e presente in cui spesso si intrecciano elementi magici e leggendari dovuti alla scarsità di documentazione scritta. La tradizione africana, infatti, viene tramandata soprattutto oralmente e tutto questo non fa che aumentare il fascino di questo Paese, della sua gente frazionata in decine di etnie diverse.

Zoumana Traoré dice di avere sessant’anni, abita a Gao ed è di origine Songhai, popolo che fondò il regno del Mali. Ai bei tempi faceva il meccanico per l’Air Mali e si arrangiava a portare a spasso i turisti nella zona. Ora Gao è isolata, irraggiungibile e pericolosa: di aerei neppure l’ombra, di turisti non ne parliamo.

Zoumana è ovviamente disoccupato, senza troppe ansie per il futuro, sopravvive al presente. Mentre sorseggia con metodo una birra mi racconta della storia di Gao, o almeno la sua personale versione, tramandata attraverso una serie di eventi simbolici che parlano di battaglie, re, eroi e magia: «Quando in Mali c’erano i francesi circolava una barzelletta. Si studiava la storia di Francia, quindi di conseguenza i nostri antenati erano i Galli – nos ancêtres les Gaulois – così si leggeva sui libri. Per un Songhai una discendenza piuttosto strana, non trovi?».

La tendenza a considerare l’Africa un continente senza storia, un esotico relitto dell’Eden, è un vizio duro a morire, anche se di origini recenti. In realtà solo da un paio di secoli gli Europei vedono l’Africa come un continente selvaggio. Per i Romani e per gli uomini del Medioevo e del Rinascimento, l’Africa evocava immagini di regni sontuosi e ricchezze straordinarie. Era la culla della sapienza e della civiltà. A Gao le tracce di questo illustre passato sono ben visibili.

Da ciò che resta del famoso Hotel Atlantide, con una breve passeggiata (due chilometri, fatali senza un cappello) si arriva di fronte alla tomba degli Askia, la dinastia che portò Gao al rango di capitale del vastissimo Impero Songhai.

La tomba è un mausoleo in terra cruda, in puro stile sudanese. Pare che l’iniziatore di questo stile sia stato un architetto e poeta andaluso che raggiunse il fiume Niger dal Cairo, al seguito della corte di Kankan Musa. Il mansa (re) del Mali era di ritorno da uno dei suoi famosi pellegrinaggi alla Mecca. Era l’anno 1325.

Oggi nei manuali in uso alle scuole secondarie di Bamako non si parla più di Galli e cerimonie druidiche, ma di imperi sudanesi. La loro storia passa attraverso interminabili genealogie di re e sovrani mitici: dal nostro punto di vista possono apparire sterili elencazioni ma per gli africani, discendenze e parentele tramandate dai canti e dai racconti epici, sono storia viva e presente. Tant’è che nel marzo del 1957, il dottor Kwame Nkrumah nella qualità di primo Presidente si prese una “licenza storica” e dette all’antica Costa d’Oro il nome di Ghana, il cui impero e sfera d’influenza erano in realtà situati assai più a nord.

Le rovine della presunta capitale del regno, Koumbi Saleh, si trovano addirittura nel territorio dell’odierna Mauritania.

In compenso, per rimescolare ulteriormente le carte nel discutere le modalità dell’indipendenza per l’Africa occidentale francese, i rappresentanti della Costituente di Dakar scelsero per i territori lungo il corso del Niger il nome di Mali, inoltrandosi in un pellegrinaggio ideale alle più profonde radici della storia della regione.

Non a caso Timbuktu, Gao, Djenné e le grandi città mercato del delta interno, conservano nel semplice svolgersi della vita, nelle caratteristiche della pianta urbana, nel carattere degli abitanti, la luminosa eredità dell’antico Mali.

L’odierna Repubblica del Mali copre una vasta frazione dei bacini dei due grandi fiumi dell’Africa occidentale, il Senegal e soprattutto il Niger.

Quest’ultimo attraversa il Mali per 1800 chilometri, asse privilegiato di comunicazione e insediamento, con la grande ansa verso nord che attraversa le sabbie del Sahara.

Il paragone col Nilo è d’obbligo: come il “padre dei fiumi”, il Niger scorre nel deserto, si impaluda in un grande delta interno ed è agitato da rapide fin quasi alla foce.

Come il Nilo, il Niger è stato via di penetrazione commerciale e militare e testimone di grandi civiltà. Dai tempi remoti che videro sorgere il regno di Ghana fino all’epoca attuale, il traffico di genti e merci non ha mai smesso di solcare il fiume. Il Niger riassume in sé la continuità della storia del Mali, dagli splendori passati alle speranze di oggi.

Il Paese può essere sommariamente diviso in tre grandi regioni naturali che corrispondono, in concreto, a due zone climatiche: quella sahariano-saheliana e quella sudanese.

La regione che costeggia il deserto appariva alle carovane che venivano dal Nord come la riva dell’oceano, da cui il nome Sahel (in arabo, letteralmente “sponda”). Una distesa piatta, uniforme, sabbiosa, con precipitazioni torrenziali e irregolari, vegetazione limitata a ciuffi di arbusti spinosi e a qualche acacia. È la terra dei pastori nomadi.

Più a sud, dopo aver lasciato Timbuktu, il Niger si allarga in un immenso delta interno. Un fitto reticolo di canali, affluenti e stagni è quel che resta di un vasto lago, prosciugatosi alcune migliaia di anni fa. La vegetazione è più rigogliosa, la terra fertile: gli arabi chiamarono questa regione, dall’Atlantico al Nilo, Bilad el-Sudan, la Terra dei Neri.

Il Sudan, sufficientemente irrorato dalle piogge, è adatto all’agricoltura e l’abbondanza dei raccolti permise l’insediamento sedentario di popolazioni urbane numerose e attive.

Fu proprio nelle città del delta interno che si sviluppò una nuova e originale dimensione di civiltà, legata a doppio filo al grande commercio carovaniero attraverso il Sahara.

L’oggetto principale di questo traffico era l’oro, estratto in notevoli quantità nelle regioni di Bouré e Bambouk e scambiato con sale, tessuti e rame. Il monopolio del commercio dell’oro fu uno dei fondamenti dello sviluppo dei regni di Ghana, Mali e Songhai.

I documenti commerciali, fortunosamente conservati negli archivi del Cairo, ci danno prova di come le monarchie lungo il Niger fossero inserite nel gigantesco sistema commerciale che, facendo perno sull’Egitto, si estese dopo l’anno Mille dalla Spagna alla Cina.

A riprova di questa tesi, ecco cosa scrive un mercante egiziano dell’ epoca a un suo socio e corrispondente al Cairo.

Sono appena giunto da Almeria in Spagna. Il vostro collega in affari della marocchina Fez mi ha mandato qui un lingotto d’oro, certamente proveniente dal Sudan, per comprare seta spagnola per voi. Ma non credo sia una buona idea, e vi mando invece l’oro. Al tempo stesso un amico del vostro collega d’affari mi ha consegnato una certa quantità di ambra grigia che vi mando sempre per questo mezzo. Vuole che gli mandiate cinque fiaschi di muschio per lo stesso valore. Vendete per piacere l’ambra grigia e comprate il muschio perché devo spedirlo subito.

Questa piccola operazione commerciale amichevole riguardava ambra grigia dall’Africa tropicale, muschio dall’Asia e oro proveniente dai mercati di Djenné e Timbuktu.

I compartimenti in cui si svilupparono i regni sudanesi non erano poi così stagni come si tende a credere. Le mappe commerciali dell’epoca danno forma a un quadro di viaggi sicuri e regolari, un commercio continuativo che faceva largo uso del credito a lunga scadenza e la cui rete garantiva la costante distribuzione di merci su distanze incredibili per l’epoca.

Ma che tipo di civiltà esprimevano questi sistemi monarchici? Quale potere rappresentavano i mansa del Mali? Nonostante le frequenti guerre di conquista, l’ordine sociale e politico non era mantenuto con la forza delle armi. L’autorità del re era rituale, di diritto e non di fatto. La figura del mansa garantiva l’armonia della società con le tradizioni e gli antenati, incarnava il bene materiale e spirituale del proprio popolo. La letteratura araba del tempo formicola di aneddoti e descrizioni ma poco ci dice sulla natura di questi regni e sulla loro origine.

Le prime tracce di un’istituzione di governo, facente capo a una dinastia, possono ravvisarsi già nel regno di Ghana, dalla metà del primo millennio della nostra epoca.

In pratica, la nascita delle monarchie nell’Africa occidentale subsahariana segue una cronologia parallela a quella dell’Europa anglosassone e francese. La penetrazione commerciale e culturale dell’islam a sud del Sahara, contribuì ad accelerare e modellare la trasformazione della discendenza in dinastia, del consiglio degli anziani in governo.

Il controllo del traffico commerciale, il grande volume e valore delle merci che affluivano ai mercati, la crescente domanda di oro, esigevano apparati di gestione più complessi e articolati. Il commercio inoltre stimolò una produzione di beni voluttuari, o comunque superiori alla stretta necessità, e si formarono nuove caste di artigiani e mediatori.

Nasce a questo punto la necessità di un controllo centralizzato che garantisca la sicurezza, diriga le specializzazioni e protegga l’integrità della stirpe nel contatto con nuove civiltà.

Le origini del regno del Mali hanno a che fare più con la leggenda che con la storia. L’accentrarsi del potere nelle mani del clan Keita, dietro l’aneddotica e la magia, è l’esempio storico di questo processo. Nel 1076 il regno di Ghana, saccheggiato dagli Almoravidi, dissolveva la sua fragile identità in un mosaico di domini locali. Tra questi il Sosso, che sotto la guida di Sumanguru, riuscì a conquistare il predominio. Ma il piccolo regno Keita non tardò a reagire e la sua riscossa ebbe in Sundiata un mitico protagonista.

Dopo un lungo periodo di guerra, la battaglia finale tra Sundiata e Sumanguru ebbe luogo sulle rive del Niger, fra le terre dei Sosso e quelle dei Malinké. La vittoria di Sundiata, risultato dei suoi poteri magici, aprì ai successori le porte di un dominio vastissimo: nasceva l’Impero del Mali, la cui struttura doveva essere in qualche modo simile al modello feudale europeo, dove i rapporti di vassallaggio implicavano le relazioni tra i vari lignaggi.

Tra i grandi re del Mali la storia ricorda soprattutto mansa Kankan Musa, autore di un famoso pellegrinaggio alla Mecca. In quell’occasione la quantità di oro immessa sul mercato del Cairo dal re e dal suo seguito fu tale che il prezzo crollò verticalmente e per 12 anni non si ristabilì un indice corretto. Sotto Kankan Musa, il Mali raggiunse il massimo dello splendore. Dal Cairo e da Alessandria una nutrita schiera di poeti, architetti, letterati e medici venne a stabilirsi alle corti di Timbuktu e Djenné. Le grandi città universitarie lungo il Niger divennero poli di attrazione della cultura del tempo, una cultura originale e viva il cui rapporto con l’islam non fu mai di dipendenza, bensì un fecondo scambio di dottrine.

La ricchezza del mansa era favoleggiata come immensa. Il geografo arabo Ibn Battuta soggiornò lungamente alla corte di un successore di Kankan Musa ed ebbe a osservare con stizza che a tanta ricchezza non corrispondeva uguale munificenza.

Accompagnato nei suoi alloggiamenti, in luogo di oro e seta trovò “tre focacce, un pezzo di bue fritto in olio locale e una zucca di latte cagliato acido”. Per un re che governava una terra di “quattro mesi di viaggio in lunghezza e altrettanti in larghezza” era decisamente un po’ poco. Al deluso Ibn Battuta che sognava doni e appannaggi principeschi, sembrò più l’accoglienza tradizionale di un capo tribale che di un principe islamico. Non aveva torto, in effetti in Africa occidentale l’islam fu interpretato in forma del tutto particolare. Di fronte a una classe di notabili e mercanti che osservavano, pur superficialmente, i dettami dell’ortodossia, stava il mondo rurale, tenacemente chiuso nelle sue credenze animiste.

Il declino del Mali fu lento e irreversibile. Le incursioni di Tuareg, Mossi e Fulani si moltiplicarono. Nel 1435 i Tuareg saccheggiarono Timbuktu. A est il nascente impero Songhai conquistò Gao e vi pose la capitale. Il Mali si smembrò in una quantità di piccoli regni e l’egemonia che il regno di Mali aveva esercitato per oltre due secoli sul Sudan si trasferì naturalmente all’impero Songhai. Poi, nel 1594 un corpo di spedizione calò dal Nord e giunse a saccheggiare Gao. Un migliaio di mercenari marocchini e spagnoli, armati di cannoni e fucili, bastarono a sbaragliare le forze del Songhai.

Al posto di quelli che erano stati i grandi imperi dell’Africa occidentale rimase un gruppo di popoli frazionati e divisi, pronti a vendersi l’un l’altro. Il traffico degli schiavi verso le Americhe – nei 250 anni che seguirono – svuotò letteralmente il Sudan del potenziale umano necessario a costituire una società civile. Il clima di terrore e di insicurezza degradò profondamente le strutture sociali e all’autorità legittima si sostituì il potere. Le linee di sviluppo della storia africana furono tagliate alle radici. La schiavitù distrusse la cultura e la civiltà dell’Africa. La ricostruzione di una variante moderna delle grandi civiltà perdute è il grande enigma del futuro africano.

Sven Hedin e i misteri del lago errante

di Paolo Novaresio

 “Da un anno intero io non ho potuto ridere per colpa tua, perché tu mi hai mentito, io non ho avuto nessuna gioia da te, le mie lacrime sono scorse come un fiume. Dio non ha voluto che fossimo amici. Le tue pupille e le tue ciglia sono fra le più belle che esistano”. Sven Anders Hedin

La monotona melodia risuonava da più di un secolo sulle labbra degli abitanti del Lop Nor, il lago errante perduto nel cuore dell’Asia. Sven Hedin, o He-Dani come lo chiamavano gli indigeni, la trascrisse puntualmente nel suo giornale di viaggio. Era l’undici giugno del 1899 e la breve estate continentale concedeva notti tiepide e cieli limpidi.  Hedin era partito un anno prima da Stoccolma per la sua seconda grande spedizione in Asia centrale.

Nel primo viaggio l’esploratore svedese si era addentrato nelle sconosciute distese desertiche del Taklamakan, nel cuore del Turkestan orientale. Inesperto e quasi privo di mezzi, aveva rischiato di morire di sete nel deserto, com’era successo a gran parte dei suoi compagni.

Questa volta invece il suo bagaglio era proporzionato all’impresa: 1130 kg di attrezzature eccellenti, ripartite in ventitré casse e contenenti un letto smontabile, un battello in tela di fabbricazione inglese (pieghevole e così leggero da poter essere trasportato da un uomo solo), quattro macchine fotografiche e un’intera biblioteca. Le due spedizioni compiute da Sven Hedin alla fine dell’Ottocento attraversando i deserti del Taklamakan e di Gobi e l’altopiano del Tibet

Non mancavano gli occhiali da ghiaccio: Hedin ne aveva con sé ben cinquantotto paia. Le scorte di cibo sarebbero state sufficienti per due anni.

Il ricco corredo di strumenti di misurazione dimostrava che il salto di qualità dal tipo di esplorazione classica a quella moderna era ormai un fatto compiuto. Il nuovo esploratore partiva, infatti, con uno scopo ben preciso, volto alla ricerca scientifica: raccogliere e analizzare dati sui territori attraversati.

Il 19 febbraio 1901 Hedin festeggiava il suo trentaseiesimo compleanno in una zona inesplorata del deserto di Gobi. Il giorno prima una tremenda bufera di sabbia aveva cancellato ogni traccia e confuso l’orizzonte delle dune.

Gli uomini esausti vagavano alla ricerca di una sorgente, un punto imprecisato, sperduto chissà dove nel micidiale mare di sabbia.

Ancora un giorno, forse poche ore, e i cammelli, da dodici giorni senz’acqua, avrebbero cominciato a morire l’uno dopo l’altro. E gli uomini non avrebbero tardato a seguire la medesima sorte. Tuttavia quel giorno Hedin ebbe il più bel regalo di compleanno che a suo dire gli fosse mai capitato: improvvisamente uno dei suoi uomini scivolò per caso su un grande ammasso di ghiaccio.

Era la sorgente, gelata dalle temperature polari di fine inverno, che durante la notte raggiungevano i venti gradi sotto zero. Hedin distribuì il ghiaccio triturato ai cammelli e ai cavalli sfiniti: i loro occhi, disse, brillavano di contentezza. Placata la sete, gli uomini scavarono grandi buche che, riempite di brace ardente, vennero poi ricoperte di sabbia. Sdraiandosi sulla terra calda, era possibile strappare qualche ora di sonno al gelo della notte. Su quella antica via carovaniera si era probabilmente avventurato, quasi seicento anni prima, Marco Polo.

Ormai l’oasi di Altimisch Bulak era a poche decine di chilometri ma Hedin piegò verso sud, in direzione dell’antico bacino prosciugato del Lop Nor. Pochi mesi prima, vagando a tentoni in una tempesta di sabbia, uno dei membri della spedizione aveva scoperto per caso le rovine di un antico insediamento urbano. Hedin presumeva che il fortunoso ritrovamento fosse la chiave per svelare i segreti dell’antica città di Loulan, in passato fiorente centro carovaniero sulle sponde del gran lago.

Ben presto gli scavi diedero i primi risultati: monete cinesi, una lampada in rame, un frammento di legno scolpito a forma di pesce (ciò che testimoniava la passata esistenza dell’acqua). Ma non bastava, Hedin era testardo: “Queste rovine io voglio costringerle a parlare e non intendo partirmi di qui a mani vuote”, scrisse nel suo diario. Dalla sabbia emersero i resti di un tempio dedicato a Budda e, infine, la grande scoperta. In una casupola d’argilla, a sessanta centimetri di profondità, Hedin trovò 200 manoscritti e molti bastoncini coperti di caratteri cinesi. Quei pezzetti di carta consumata dal tempo contenevano la spiegazione del mistero del Lop Nor.

I sinologi russi e tedeschi che in seguito li decifrarono, confermarono che l’intuizione di di Hedin era esatta: la città di Loulan era davvero situata sulle sponde del lago. Prima della sua distruzione a causa di un’inondazione, nel IV secolo, la città era un importante centro commerciale dell’impero cinese, in cui confluivano le merci (soprattutto grano) che venivano distribuite per tutta la regione. Hedin si imbatté anche in una ruota, che faceva supporre l’esistenza di una rete carrozzabile. La scoperta era importante non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello geofisico, poiché dimostrava le migrazioni del lago errante, il Lop Nor. Hedin fece accurate livellazioni della regione, che era assolutamente piatta: misurato su una distanza di trentadue chilometri, il dislivello non era che 11 centimetri.

Proseguendo l’esplorazione Hedin si trovò ben presto in un vero e proprio labirinto di acque. Il paesaggio era mutato drasticamente, nell’arco di una sola settimana: un nuovo lago di circa 50.000 metri quadrati si era formato per infiltrazione, quasi sotto gli occhi dell’esterrefatto esploratore.

In certi punti l’acqua zampillava fino a un metro di altezza, mista a grosse bolle d’aria. Il lago si stava progressivamente spostando verso nord.

A sud la sponda si prolungava in depositi di fango, sabbia e piante in putrefazione, mentre a nord il forte vento scavava le superfici asciutte, preparando al lago un nuovo letto. Così la vegetazione, la vita animale e gli abitanti seguivano il Lop-Nor in queste sue peregrinazioni periodiche.

“In avvenire sarà possibile determinare la lunghezza del periodo di queste oscillazioni; per ora non sappiamo altro di certo che nell’anno 265, ultimo anno di regno dell’imperatore Yuan Tis, il Lop Nor si trovava nella parte settentrionale del deserto”. Con queste parole Hedin sapeva di aver trasformato una leggenda in una serie di dati scientifici, commensurabili e in certa misura prevedibili. Gli antichi segreti del Lop Nor erano finalmente stati svelati.

L’ultimo saluto del grande lago fu un vero e proprio uragano di sabbia, il temuto kara-buran. Per due giorni Hedin fu costretto a rimanere rinchiuso nella sua yurt, la grande tenda mongola adibita a quartier generale.

Alla tremula luce di una lampada cinese l’esploratore aggiornò il suo diario di viaggio con le nuove eccitanti scoperte. Poi cominciò a organizzare la parte più problematica del viaggio: raggiungere l’altopiano tibetano e penetrare nella misteriosa città santa di Lhasa, preclusa agli stranieri.

Per entrare a Lhasa, Hedin meditava di travestirsi da pellegrino mongolo, con l’aiuto di un autentico Lama incontrato nella città di Urga, che acconsentì ad accompagnare la carovana lungo il pericoloso itinerario. Hedin tentava intanto di imparare il mongolo.

La spedizione lasciò la regione del Lop nel maggio del 1901, in assoluto incognito. Ma Hedin, nonostante la voluminosa pelliccia gialla e le scarpe a punta rialzata, non riuscì a ingannare le sentinelle tibetane.

Fu fermato e rimandato indietro per ordine personale del Dalai Lama.

La marcia per sottrarsi all’autorità tibetana, verso ovest e il Ladak, fu lunga e piena di patimenti. L’esploratore scrisse nei suoi appunti: “Quando verso il tramonto il cielo comincia ad offuscarsi ad oriente, mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del Dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude…”

Nel maggio del 1902 la spedizione arrivò a Kashgar, con la primavera al massimo splendore. Poco più di un mese dopo Hedin rivedeva le coste svedesi. Le sue peregrinazioni erano durate tre anni e tre giorni.

I granelli di sabbia del Gobi, annotò, “ancor oggi cascano dal mio giornale di viaggio”.

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

di Paolo Novaresio

Chi era Carlo Piaggia? Un esploratore, un cacciatore, un mercante? Certo, tutto questo e anche qualcosa in più. È difficile inquadrare la sua personalità nell’affollata platea degli esploratori del bacino del Nilo.

Sicuramente, come molti altri, Piaggia era spinto da una curiosità divorante per il nuovo, e agitato da un’irrequietezza di fondo che lo trascinava a fuggire dal quotidiano. L’Africa fu per lui la grande occasione di un’esistenza diversa. La semplice e sincera confessione di Joseph Thomson, il viaggiatore scozzese che attraversò le steppe dei Masai fino alla regione dei Grandi Laghi equatoriali, sembra attagliarsi perfettamente alla sua figura: “Sono destinato a essere nomade. Non sono un fondatore di imperi, né un missionario, e neanche un vero scienziato. Voglio solo tornare in Africa per continuare i miei vagabondaggi”.

Carlo Piaggia partì per l’Africa nel 1851, all’età di ventiquattro anni.

Proveniva da una famiglia di contadini di Lucca: era sprovvisto di cultura accademica e scientifica ma in compenso dimostrava un’incredibile versatilità negli affari pratici, che gli consentiva di imparare qualunque lavoro in poco tempo. Nell’ambiente vivace e cosmopolita di Alessandria d’Egitto, Piaggia si trovò perfettamente a suo agio: fece il pescatore di conchiglie nel mar Rosso, il legatore di libri, il cappellaio, il verniciatore, l’armaiolo e altri mestieri diversi.

L’itinerario seguito da Carlo Piaggia per raggiungere da Khartoum le immense regioni del Bahr al-Ghazal dove abitavano i temuti Azande, detti “niam-niam”.

Nel 1856 lo troviamo a Khartoum, in compagnia di un gruppo di mercanti bolognesi e francesi, intento alla caccia dei marabù (le cui piume erano allora esportate in Europa come articolo di lusso). Fu allora che Piaggia scoprì la sua indole di viaggiatore. Lasciò Khartoum e si mise a risalire il corso del Nilo, attraversando le grandi paludi che il fiume forma alla confluenza con il Sobat, e giungendo fino all’avamposto di Gondokoro, dove erano sorte le prime missioni cattoliche. Piaggia vagabondò per ben tre anni su e giù per il fiume, a caccia di elefanti, entrando in diretto contatto con la sordida realtà del traffico degli schiavi.

A ovest del Nilo si estendevano le immense regioni del Bahr al-Ghazal, il Fiume delle Gazzelle, soglia di accesso all’impenetrabile cuore del continente, allora completamente sconosciuto all’Europa (ma non ai mercanti di schiavi musulmani). Le notizie che giungevano ai villaggi lungo il Nilo parlavano di animali misteriosi e popolazioni di cannibali con la coda.

Dai tempi di Erodoto la conoscenza di quelle terre non era progredita di un solo passo. Piaggia tornò in Italia, ma non vi restò a lungo.

Il demone della scoperta lo aveva ormai catturato.

Qualche tempo dopo rieccolo a Khartoum, che allora funzionava come trampolino di lancio per le spedizioni dirette verso l’interno del continente.

Dopo lunghe trattative riuscì ad aggregarsi a una carovana di mercanti di avorio: in cambio della sua guida, una scorta armata lo avrebbe accompagnato fino ai primi villaggi dei temuti Azande, detti “niam-niam” e considerati cannibali (ne abbiamo parlato in Cannibali, leggende e verità).

Prima di partire, in un paio di settimane, aveva raccolto materiale e provviste. Ben poca roba, a quanto risulta: cinquanta chili di biscotti, un po’ di riso, zucchero, caffè, fiammiferi, candele, pochi metri di tela di cotone bianco, filo da cucire e “una piccola tenda da viaggio, una cassetta di ferri per la riparazione delle armi da fuoco, cento libbre di piombo da caccia, palle, un migliaio di capsule, una trentina di scatole di polvere da caccia, i ferri da falegname, un cannocchiale, un termometro e una bussoletta tascabile”.

Il bagaglio di un artigiano più che di un esploratore di terre ignote.

Le popolazioni locali ostacolarono duramente la marcia della colonna, che si salvò a stento da un incendio appiccato dagli indigeni alle erbe della savana. Dopo un mese la carovana arrivò ai limiti del territorio dei famigerati Niam-Niam.

Il comandante dei soldati fece firmare a Piaggia un documentò che lo scaricava di ogni responsabilità e tornò immediatamente indietro.

Piaggia rimase solo e ben presto fu avvicinato dal capo di un vicino villaggio, che lo accolse amichevolmente. Fu alloggiato in una capanna costruita apposta per lui e per le mogli che senz’altro, nella sua posizione, sarebbe stato suo diritto avere.

Piaggia restò fra i “niamniarri”, come li chiamava lui, per più di un anno e mezzo. All’inizio aveva una gran paura di essere mangiato dai suoi ospiti (vedeva ovunque inquietanti segni di antropofagia), poi si tranquillizzò e si tuffò con zelo nella nuova vita. Per ingannare il tempo andava a caccia di uccelli rari per le sue collezioni, discuteva con i fabbri del luogo sui metodi più pratici per lavorare il ferro e costruì con mezzi di fortuna un mulino per macinare le sementi. La novità destò grande entusiasmo nel villaggio, ma pochi giorni dopo il re ordinò di distruggere il macchinario, in quanto invenzione foriera di inquietanti novità, poiché “le donne non sanno più cosa fare, invece di restare nelle capanne vanno nei boschi… e  la donna quando non lavora va in cerca dell’uomo”.

Nel frattempo gli abiti e gli stivali di Piaggia erano andati a brandelli e l’esploratore dovette  adattarsi a vestire di pelli e a camminare con sandali di cuoio di bufalo da lui stesso confezionati. Intanto, giorno dopo giorno, Piaggia annotava sul suo taccuino tutto ciò che vedeva, disegnando come gli riusciva sagome di capanne, pipe, scudi e utensili. Forse le sue descrizioni dei Niam-Niam appaiono oggi ingenue e imprecise, prive di metodo scientifico, ma restano comunque una testimonianza importante per l’atteggiamento di rispetto e simpatia che ne guida lo stile.

Era la prima volta che un viaggiatore bianco si adattava per così lungo tempo, in totale isolamento dal mondo esterno, ad affrontare la vita quotidiana e i problemi di un popolo considerato primitivo. Gli appunti di Piaggia furono largamente sfruttati dall’esploratore baltico Schweinfurth, che si recò pochi anni dopo in quelle regioni. L’opera di Schweinfurth, intitolata “Nel cuore dell’Africa”, ebbe un grande e immediato successo editoriale.

Invece Carlo Piaggia, poco istruito e incapace di bella letteratura, non riuscì mai a far pubblicare i suoi voluminosi manoscritti.

Eppure Piaggia fu, più di altri, cronista attento e acuto: dei Niam-Niam annotò le tecniche dì estrazione del ferro e di fusione del minerale in forni di terra cruda, le usanze alimentari, le relazioni sociali e le pratiche religiose, descrivendo anche la fauna della zona e le caratteristiche del territorio (la definizione “foresta a galleria” è di sua invenzione). I suoi rapporti con gli africani furono sempre ottimi.

Il ritorno con la carovana dei mercanti fu un disastro: i soldati razziavano e uccidevano uomini, donne e bambini, lasciandosi dietro terra bruciata.

Infine, sulla via di Khartoum, la barca di Piaggia naufragò nel Nilo: alcuni uomini furono divorati dai coccodrilli e molte delle collezioni ornitologiche e parte degli appunti andarono irrimediabilmente perduti.

Dopo un breve soggiorno in Italia, Piaggia tornò per l’ultima volta in Africa, deciso a proseguire i suoi viaggi nell’interno. Poche cose colpiscono il viaggiatore africano come il baobab, che con la sua mole gigantesca e contorta si erge ìn mezzo alle distese di erba gialla che· si prolungano all’infinito verso l’orizzonte. Sotto uno di quegli alberi maestosi, chissà dove, giace ancor oggi Carlo Piaggia, morto di febbri sulla pista che dalle pianure del Sudan meridionale corre verso le montagne etiopiche e le gole del Nilo Azzurro.

Cercando l’Australia

di Paolo Novaresio

 «Vi è ragione di ritenere che un continente molto esteso possa trovarsi a sud della rotta seguita recentemente dal capitano Wallis…». Il messaggio, tradotto in linguaggio burocratico, era scritto su un plico sigillato, che fu consegnato in via riservata al capitano Cook. L’Australia. Tra i pochi grandi miti geografici scampati al razionalismo tagliente dell’età dei Lumi, la Terra Australis conservava un posto di prestigio.

James Cook, nato in Inghilterra nel 1728, animato da una prepotente vocazione per gli oceani inesplorati, partì per il primo dei suoi tre viaggi di scoperta nel 1768, finanziato dalla Royal Geographic Society.

A sua disposizione: cento tra marinai e soldati di equipaggio, un gruppo di astronomi per studiare il passaggio di Venere sul disco solare previsto a Tahiti, due botanici, pittori e cartografi per rilevare le eventuali nuove terre scoperte, destinate a popolare le cartine geografiche dell’epoca.

La nave si chiamava  “Endeavour”, cioè Tentativo, ed era una carboniera di 368 tonnellate di stazza, ristrutturata e perfettamente attrezzata per le attività di ricerca ed esplorazione. Il compito di Cook era racchiuso nelle sommarie indicazioni che il capitano aveva ricevuto dall’Ammiragliato: navigare verso sud, fino al 40° parallelo, poi puntare a ovest.

E tenere gli occhi aperti, perché laggiù, forse, si sarebbe trovata l’Australia.

La prima tappa di Cook fu Tahiti, allora tappa d’obbligo per i navigatori del Pacifico. Grossa isola dagli attracchi sicuri, benedetta dalla natura e sognata dall’Europa esotizzante, che amava il “buon selvaggio” e leggeva avidamente Rousseau.

Tahiti fu circumnavigata in barca e battuta palmo a palmo a piedi da Cook e dai suoi uomini, che con centinaia di schizzi e acquerelli ne disegnarono l’intero profilo, la costa e i porti naturali. Ogni aspetto della vita dei tahitiani fu accuratamente studiato, secondo i canoni puntigliosi dettati dagli scienziati illuministi e con tutto il rispetto che l’Europa del settecento poteva garantire a una cultura non europea.

Joseph Banks, il futuro presidente della Royal Geographic Society, che aveva voluto a tutti i costi partecipare all’impresa, annotò meticolose descrizioni del regime alimentare delle popolazioni locali, che mangiavano frutti dell’albero del pane, pesce, qualche maiale, banane, frutti selvatici e cucinavano la carne di cane in rudimentali forni di pietra: “Il cane del mare del Sud”, annotò impassibile Banks, “ha un gusto buono quasi quanto quello dell’agnello inglese; e a suo vantaggio si deve dire che vive quasi interamente di verdure; probabilmente i nostri cani non avrebbero un sapore così buono”. A Tahiti c’erano anche oche e tacchini, probabile eredità della spedizione inglese di un anno prima.

Mentre Banks si occupava della gastronomia locale, Cook spendeva le proprie energie nel tentativo di rendere meno traumatica e invadente possibile la sua presenza sull’isola. Tanto per cominciare, vietò immediatamente al suo equipaggio di barattare con gli indigeni oggetti di ferro.

La nave di Wallis, infatti, durante la precedente sosta a Tahiti, aveva rischiato di affondare perché in un mese i marinai avevano clandestinamente estratto tanti chiodi di ferro da compromettere lo scafo: dato che a Tahiti bastava un chiodo per ottenere qualunque cosa, comprese le ragazze dell’isola, la minaccia era più che reale.

Cook cercò anche di premunirsi contrò i furti, per i quali i tahitiani mostravano un’insistente inclinazione e un’abilità tale “da coprire di vergogna il miglior tagliaborse d’Europa”.

Nel frattempo il gruppo di scienziati a bordo non perdeva tempo: furono studiate le canoe, le lenze da pesca e le stoffe degli indigeni, ricavate da fibre vegetali con risultati giudicati da tutti sorprendenti.

Cook fece incetta di grandi scorte di viveri freschi, per variare la dieta dei marinai durante la navigazione.

Prima di lasciare l’Inghilterra, con singolare lungimiranza per l’epoca, alla carne salata e ai biscotti, il capitano aveva aggiunto crauti e minestra in tavolette, senza esitare a ricorrere a punizioni corporali per chi rifiutava le razioni.

In virtù di questa saggia politica alimentare, a differenza di quasi tutti gli equipaggi impegnati in lunghe traversate marine, gli uomini non si ammalarono di scorbuto. In compenso, metà di loro prese la sifilide mentre la nave era ferma a Tahiti.

Come il capitano ebbe cura di precisare, la malattia era stata portata sull’isola da spedizioni precedenti.  Il paradiso in Terra aveva subito la prima, fatale corruzione.

L’Endeavour lasciò Tahiti dopo qualche mese di esplorazioni e di osservazioni astronomiche, avventurandosi verso la costa ovest della Nuova Zelanda.

I paradisi polinesiani erano ormai un altro mondo: in Nuova Zelanda la spedizione fu accolta dalle canoe da guerra degli indigeni maori, da cui dovette difendersi facendo uso delle armi da fuoco.

I rilevamenti si fecero difficili e pericolosi, ma Cook riuscì a circumnavigare interamente la nuova terra, dimostrando che si trattava di due isole e non di una sola, come si credeva.

Il momento cruciale era giunto. Non restava che eseguire gli ordini segreti dell’Ammiragliato. Cook si inoltrò nell’oceano verso occidente.

Senza saperlo, stava per entrare in uno dei tratti di mare più pericolosi del mondo: il labirinto di secche e bassifondi della Grande Barriera corallina australiana. L’Endeavour si incagliò nelle rocce madreporiche, rischiando di affondare.

Il capitano la pilotò faticosamente fino alla sconosciuta costa orientale dell’Australia, poco più a sud di dove oggi si trova Sydney.

La costa est del nuovo continente fu rilevata con una precisione senza precedenti, collezionando una serie di osservazioni e dati che sono ancora oggi validi.

Riparata la nave e ripreso il mare, dopo due mesi di navigazione Cook riuscì a raggiungere il possedimento olandese di Batavia (Giava).

E infine, dopo più di tre anni di viaggio, a missione compiuta, l’Endeavour giunse in vista delle coste inglesi.

James Cook sarebbe salpato ancora due volte, per circumnavigare l’Antartide e poi per esplorare le coste dell’America Settentrionale fino allo stretto di Bering. Non furono i rischi e gli imprevisti della navigazione a sorprenderlo. Per uno strano gioco del destino, morì proprio per mano di quei “buoni selvaggi” che tanto amava e rispettava: fu ucciso alle isole Hawaii il 14 febbraio del 1779.

Alexander von Humboldt

di Paolo Novaresio

L‘uomo bianco faceva sempre domande, qualunque cosa vedesse. Raccoglieva testimonianze e scriveva, scriveva. Al ritorno avrebbe svelato all’Europa i segreti affascinanti della natura equatoriale del Nuovo Mondo. Quella notte, però, il 6 aprile 1800, vinse lo stupore. La luna illuminava la sommità di Tepu-Mereme, la “roccia dipinta”, rivestendola di un’aurea surreale. Chi mai aveva potuto tracciare quei segni sui massi di granito che emergono dal fitto della vegetazione soffocante dell’alto Orinoco? Figure di corpi celesti, serpenti e coccodrilli erano scolpiti su strapiombi irraggiungibili. Furono gli indios Tamanac a spiegare sorridendo allo straniero bianco che all’epoca delle Grandi Acque i loro padri arrivavano fino a quell’altezza in canoa. Lo straniero si chiamava Friedrich Heinrich Alexander, barone von Humboldt.

Nato a Berlino, età anni 28, altezza metri 1.70, capelli bruno-chiari, occhi grigi, grande naso, fronte aperta segnata da cicatrici di vaiolo… viaggia per acquisizione di sapienza”. Così recita e lo descrive il passaporto francese, ottenuto pochi anni prima a Parigi, capitale scientifica e intellettuale del tempo e sua patria d’adozione.

Oggi il mondo ha quasi dimenticato la grande opera di Humboldt, il progetto di sistemazione organica del sapere geografico, basata su una strategia generale dello studio della natura. Ma allora, al ritorno dal grande viaggio nel Nuovo Mondo, Humboldt era uno degli uomini più famosi e stimati d’Europa. Moltissimi i luoghi che portano tutt’oggi il suo nome: più di quelli dedicati a qualunque altro scienziato ed esploratore. Quattordici città negli Stati Uniti, una in Canada. Montagne in Australia, Antartide, Nuova Zelanda. La grande corrente fredda al largo delle coste peruviane. Il più esteso ghiacciaio della Groenlandia e uno dei mari sulla superficie della luna.

Neppure un monumento, invece, a Cumaná, la sonnolenta cittadina del Venezuela dove Humboldt sbarcò insieme al botanico Aimé Bonpland per intraprendere il più grande viaggio privato della storia. Eppure Cumaná, dove avvenne il primo incontro di Humboldt con la natura equatoriale lungamente sognata, fu forse il più amato dallo scienziato prussiano, che non scordò mai quel luogo: “Cumaná e la sua terra polverosa si riaffacciano ancor oggi nella mia mente, più sovente di tutti i meravigliosi scenari delle Cordigliere”.

Dopo sei anni di studio e di preparazione, e molti tentativi infruttuosi, il giovane scienziato poteva finalmente contemplare il cielo tropicale, ricco di meteore e stelle cadenti: per gli indios nient’altro che i riflessi delle pietre d’argento del leggendario lago Parima. Da Cumaná la spedizione si addentrò nei llanos, le desolate praterie che si stendono tra la costa e l’Orinoco.

Il caldo torrido, con temperature fino ai 50° (Humboldt riempì il cappello di foglie per avere un po’ di sollievo), l’orizzonte infinito e polveroso, confuso dai miraggi, misero a dura prova la resistenza dei viaggiatori. Dopo la stagione delle piogge, che trasformavano i llanos in un immenso acquitrino, erano rimaste grandi pozze fangose. Qui Humboldt ebbe modo di studiare una delle più stupefacenti creature del Nuovo Mondo, l’anguilla elettrica dell’Amazzoni, che può dare scosse fino a 650 volt, sufficienti a stordire e uccidere un uomo. Per catturarle vive senza pericolo gli indios fecero entrare a forza un branco di cavalli nell’acqua. Alcuni, terrorizzati e storditi dalle scosse elettriche, annegarono, ma cinque grosse anguille furono catturate vive. Humboldt le studiò accuratamente, sperimentando suo malgrado la loro potenza elettrogena.

Superati i llanos, la spedizione raggiunse il Rio Apure, uno dei primi affluenti dell’Orinoco. La guida di Humboldt, nel dedalo di corsi d’acqua della foresta amazzonia, fu un frate francescano spagnolo, abituato da anni alla vita nella giungla. Padre Bernardo Zea condusse i due scienziati a una delle poche spiagge dell’Orinoco dove deponevano le uova le grandi tartarughe note in loco come arrau. Dalle uova, mediante bollitura, gli indios ricavavano un olio limpido e di ottimo sapore. Humboldt calcolò che su quella sola spiaggia si radunavano a deporre le uova almeno 330.000 tartarughe.

Il viaggio procedeva verso l’interno, lungo il corso dell’Orinoco. La navigazione era resa penosa dal crudele tormento degli insetti, soprattutto sciami di zanzare, le cui punture provocavano ferite dolorose e infezioni. Poco più avanti si stendevano le pericolose rapide di Maypures e Atures, lunghe più di quaranta miglia. Un labirinto di acque spumeggianti fra i massi di granito. Per superare l’ostacolo fu approntata una canoa più piccola, sulla quale fu stipato tutto il materiale scientifico, i bagagli, gli erbari e le gabbie con le scimmie e gli uccelli. “Oltre le Grandi Cateratte inizia una terra sconosciuta”, scrisse Humboldt, “il paese delle favole e delle visioni fantastiche”. E aldilà delle montagne la tradizione poneva i miti dell’Eldorado e del lago di Parima. Dopo tre secoli dalla scoperta la conoscenza geografica della regione non era quasi per nulla progredita.

A un certo punto Humboldt lasciò l’Orinoco per un piccolo affluente che seguì fino a trovarsi a dieci miglia dal Rio Negro, il più grande tributario del Rio delle Amazzoni. La canoa e i bagagli furono trascinati a braccia attraverso la foresta fino al fiume. Le acque del Rio Negro erano limpide e fresche. In pochi giorni la spedizione raggiunse il Casiquiare, un canale naturale che collega i due grandi sistemi fluviali dell’Amazzonia, il bacino dell’Orinoco e quello dell’Amazzoni.

 Le due settimane di navigazione sul Casiquiare, il cui corso era praticamente inesplorato, furono le peggiori di tutto il viaggio. Il cielo era sempre coperto di nuvole, notte e giorno. La foresta, alta e impenetrabile, chiudeva il fiume in una morsa verde. I due scienziati erano costretti a dormire sulla piroga, già carica all’inverosimile. È difficile immaginare la difficoltà di procedere in quell’ambiente ostile trascinandosi dietro bagagli, attrezzature, il carico di campioni botanici e 14 uccelli e 11 mammiferi vivi,  con un equipaggio di nove persone stipato in uno spazio ristretto. La foresta era tanto umida da rendere impossibile accendere un fuoco. E non offriva cibo: Humboldt fu costretto a mangiare semi di cacao crudi e, una volta, un ignobile pasticcio di formiche. Una notte un giaguaro si portò via, senza il minimo rumore, il grosso mastino che faceva la guardia al centro del campo. Infine la biforcazione dell’Orinoco fu raggiunta.

Dalle carte geografiche spariva il lago Parima ed entrava, accuratamente rilevato, il Casiquiare. Il villaggio semiabbandonato di Esmeralda era l’unico luogo abitato della regione. Qui Humboldt vide preparare il curaro, il letale veleno estratto dalla corteccia della liana Strychnos. Un uomo colpito da una freccia avvelenata moriva in poco più di dieci minuti. Da Esmeralda la spedizione decise di tornare indietro fino a Cumaná.

Il viaggio però non era ancora terminato. Humboldt si recò di nuovo a Cuba, poi attraversò la Cordigliera andina dalla Colombia al Perù. Da Lima, passando per il Messico, fece ritorno in Europa nel 1804, dopo cinque anni di assenza.

 

L’ultimo lago

di Paolo Novaresio

Il conte Teleki von Szeck era un nobile asburgico di rango: bon vivant, piuttosto bene in carne (gli africani lo chiamavano Bwana Tumbo, il “Signor Pancia”), di carattere socievole e buon conversatore. Celibe fino alla fine dei suoi giorni, spese la propria vita tra occasioni mondane, impegni politici, battute di caccia e viaggi. Era immensamente ricco. Benché buon scrittore, come testimoniano le sue lettere al principe Rodolfo, non scrisse una sola riga sul viaggio che lo rese famoso, probabilmente per pura indolenza.

La molla che fece scattare il desiderio di un viaggio in Africa non fu certo spinta dalla brama di gloria: Teleki era restio ad assumersi impegni troppo gravosi e voleva semplicemente divertirsi, collezionando trofei di caccia. La regione del lago Tanganyka, sua prima meta, era già selvaggia a sufficienza per i suoi scopi.

Fu quasi a malincuore che cedette ai consigli del suo illustre amico, il principe Rodolfo d’Asburgo: trasformare una battuta di caccia in un viaggio di scoperta verso terre ancora sconosciute. Come compagno di viaggio e suo luogotenente il conte scelse Ludwig von Hönhel, uno sconosciuto ufficiale di marina.

Teleki era l’aristocratico e lo sponsor, di carattere brillante e determinato, ai limiti della testardaggine. Von Hönhel aveva origini modeste, era un appassionato lettore di libri di viaggio e sognava da sempre l’avventura africana: Teleki gli stava offrendo la più grande occasione della sua vita.

Nonostante le differenze di estrazione sociale e di carattere, i due divennero amici: in ogni caso il loro accordo fu sempre perfetto, poiché la gerarchia imponeva a von Hönhel il ruolo di subalterno. Il loro viaggio, concluso con la scoperta del grande lago battezzato Rodolfo (oggi Lago Turkana), segna il distacco tra la grande epoca dell’esplorazione africana e la modernità.

IL VIAGGIO

Nell’ottobre del 1886 von Honel giunse a Zanzibar per predisporre la logistica e assumere le famose guide locali Jumbe Kimemeta e Qualla Idris. Teleki partì da Pangani, sulla costa dell’odierna Tanzania. La spedizione, equipaggiata con circa trecento armi da fuoco, contava oltre 670 effettivi ed era così composta: 450 portatori, 200 Zanzibariti (con compiti più specializzati), 9 guide, 9 soldati e 7 asinai. Inoltre seguivano il corteo 25 asini, una mandria di 21 vacche e 60 tra pecore e capre.

Per trovare i fondi per l’impresa Teleki vendette una grossa proprietà terriera e un diamante di grande valore storico, già appartenuto ai suoi antenati.

Le spese complessive ammontarono a 130.000 Corone, equivalenti in valore a 40 chilogrammi d’oro (ovvero, alla quotazione attuale, 1.600.000 Euro).

IL MATERIALE

Oltre al materiale da campo, agli effetti personali e alle scorte di viveri, nel bagaglio della classica spedizione ottocentesca in Africa figuravano stoffe, fili metallici, perline di vetro a altri articoli usati come doni e merci di scambio durante il percorso. Teleki ne acquistò quantità inverosimili, tanto che questa voce costituiva oltre la metà del carico al seguito della spedizione.

Ecco una lista sommaria degli articoli destinati ad accattivarsi la simpatia degli indigeni:

600 pezze di cotone bianco merikani (circa 18 chilometri di stoffa)

250 pezze di cotonina indiana blu scuro (7 metri l’una per un totale di 1750 metri)

100 pezze di tessuto rosso vivo bendera assilia (28 metri l’una per un totale di 2800 metri) varie pezze di tessuto di prima e seconda qualità di manifattura araba

perline maasai (da 1/12 a 1/8 di pollice di diametro) di colore rosso, blu, bianco, 2285 kg.

perline Parigi del diametro di un pisello

perline bianche comuni

anelli di vetro (murtinarok) verde, blu, marrone chiaro, circa 1/2  pollice

perline rosso chiaro e blu turchese per la gente del Kilimanjaro

una quantità di grosse perline assortite (mboro)

perline marrone chiaro, blu, bianche (dette perline orientali, introdotte da poco nel commercio dalla casa Filonardi)

filo di ferro (1/5 di pollice), circa 3500 chili

filo d’ottone e rame robusto, 525 chili

406 chili di polvere da sparo (in piccole casse da 11 libbre l’una)

molte migliaia di capsule per fucili ad avancarica

stagno

piombo

filo di ferro fine

conchiglie cauri (Cyprae moneta)

coltelli

occhiali

libri illustrati

marionette

filo dorato

braccialetti e anelli

pugnali

sciabole da marina e cavalleria

vari altri articoli.

Qualche giorno dopo la partenza gli esploratori cercarono di stilare un inventario, assegnando ad ogni portatore il suo fardello, pari a circa 35 chilogrammi.

Dal diario di Ludwig von Hönhel:

“Allora iniziammo ad occuparci della revisione dell’equipaggiamento della spedizione, accatastato in un mucchio talmente consistente nel mezzo dell’accampamento da impedire l’accesso alle nostre tende.

Avevamo:

  • tende, tavoli, sedie, letti, valige piene di vestiti, strumenti, etc.: 65 ca richi
  • armi e munizioni: 35 carichi
  • articoli di uso quotidiano (sapone, tabacco, zucchero, tè, caffè, etc.): 44 carichi
  • equipaggiamento per guadare fiumi e paludi (cavi robusti): 2 carichi
  • medicine, bendaggi, filtri: 3 carichi
  • razzi ed esplosivi: 2 carichi
  • alcool: 1 carico
  • materiale per illuminazione: 3 carichi
  • seghe da legna, pale, asce: 4 carichi
  • utensili, ricambi, corde: 3 carichi
  • lubrificanti per fucili, etc.: 1 carico
  • riso: 5 carichi
  • cognac, vino, aceto: 4 carichi
  • imballaggi: 2 carichi
  • stoffe: 90 carichi
  • fili metallici: 80 carichi
  • cauri, catenelle di metallo, etc.: 5 carichi
  • moneta di rame(per la zona costiera): 3 carichi
  • battello smontabile in 6 parti di metallo, battello smontabile in 2 parti di tela: 22 carichi

Totale  470 carichi

Teleki e von Hönhel raggiunsero il lago Turkana il 5 marzo del 1888, un anno dopo la partenza da Zanzibar. Durante il percorso la spedizione perse oltre i due terzi dei componenti, fuggiti col proprio carico o uccisi in combattimento con tribù ostili. Teleki perse nel viaggio circa 30 chili del proprio peso.

Sulle carte geografiche dell’Africa scompare l’ultimo Ignoto.

Comincia la spartizione coloniale del continente.

 

Il viaggio al Tibet di Padre Cassiano Beligatti

di David P. Gelman

1738-1745. Portavano la parola e l’evangelo del Cristo in capo al mondo, patendo umiliazioni, difficoltà, soprusi. Non hanno avuto troppo successo visto che si sono trovati dinanzi la diffidenza e poi l’aperta ostilità dei religiosi di Lhasa.

Trecendo anni fa i monaci cappuccini giunsero in Tibet, impegnati nella paziente quanto indefessa opera di diffusione del cattolicesimo, senza tuttavia tentare di imporlo o di prevaricare.Tra loro padre Cassiano Beligatti.

Il suo Viaggio al Tibet, pubblicato da Edizioni Il Polifilo (www.ilpolifilo.it) ci appare oggi come  un autentico viaggio nel tempo, caratterizzato da un’insolita franchezza e modestia. Lo sguardo di padre Beligatti è privo di supponenza e pregiudizi: lo spirito di osservazione è quello del vero reporter.

Il suo giornale di viaggio coglie l’essenziale, portandoci alle soglie di un luogo in cui la spiritualità e la divinità ordinano e presiedono il mondo. Per questo il Viaggio al Tibet è un libro importante e ancora attuale.

Noi, profani e improvvisati viaggiatori, non possiamo che avvertire un’eco lontana, seppur consistente, di quel mondo. Anche noi ci siamo recati in quei luoghi, pur senza raggiungere Lhasa, la meta finale. Ci siamo andati assai più comodamente, atterrando sulla coda di un monsone, all’aeroporto di Katmandu. E non abbiamo animo di chiamare la nostra: avventura, se paragonata con quella di padre Beligatti. Trecento anni fa i monaci cappuccini, e oggi noi. Cos’è cambiato in quei luoghi? Tutto e niente.

L’uomo moderno ha il privilegio di entrare e uscire da quel mondo misterioso, che la leggenda narrava abitato da giganteschi serpenti. Un mondo in cui tutto parla di pace, armonia, tolleranza. L’atmosfera che immediatamente avvolge il viaggiatore è preludio a percorsi dello spirito che possono segnare l’esistenza. O più semplicemente rendersi indimenticabili.

In quei luoghi, per ciò che abbiamo visto e avvertito, curiosando fra templi, statue di pietra e divinità di ogni sorta, aleggia una spiritualità diffusa, percepibile, autentica e condivisa dalla gente. Il medioevo asiatico laggiù è ancora di casa.

Ma torniamo al Viaggio al Tibet e al suo autore. Chi era padre Beligatti? In verità della sua vita si hanno scarse notizie. Nacque e morì a Macerata (1708-1785)  e nel 1725 vestì l’abito religioso. Nel 1738 partì per la missione in Tibet e vi rimase due anni, quindi passò in Nepal e nel Bengala. Operoso e modesto, autore di fondamentali opere storiche ed etnografiche riguardanti gli usi, i costumi e le religioni dei territori che lo videro missionario, Beligatti scrisse anche un Alphabetum Tibetanum e due grammatiche: una della lingua indostana, l’altra dell’idioma sanscrito in caratteri malabarici. Diverse altre sue opere, in parte ancora inedite, si conservano nella Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata.

Dell’indimenticabile reportage di padre Beligatti, riportiamo, senza commentarli, alcuni brani.

A pagina 18

… Provvisti dell’occorrente i missionari partirono, e dopo un lungo e dificile viaggio arrivarono a Lhasa nel gennaio del 1741. Fu lor fatta buona accoglienza, specialmente dal re, e, dopo aver appresa la lingua del paese, si dettero a predicare, ma con frutti piuttosto scarsi. Ben presto poi i religiosi tibetani cominciarono a veder di malocchio il favore che i missionari godevano presso il re. Nacque fermento che andò man mano crescendo finché un bel giorno parecchie centinaia, di preti buddhisti, raccoltisi dai vari conventi di Lhasa e dei dintorni, invasero il palazzo reale, e rimproverarono al re il suo contegno. Questi, atterrito, temendo di fare la fine dei suoi tre predecessori, uccisi appunto per odio dei lama, dichiarò ipso facto i padri decaduti dalla sua grazia; impose loro di non predicare nel Tibet se non ai mercanti venuti di fuori…

A pagina 23

… I missionari… si posero in cammino alla spicciolata per raccogliersi poi tutti al porto di Lorient, che doveva essere il luogo d’imbarco… il viaggio attraverso la Francia. Compiuto sempre a piedi, fu assai molesto e malagevole; i frati patirono spesso la fame, e dovettero perlopiù adattarsi a dormire nelle stalle, perché ben di rado i conventi li ospitavano, ma con mille pretesti li mandavano altrove, ed essi erano sempre scherniti, insultati e fatti segno a mille scherzi grossolani…

A pagina 31

… Traversato il fiume Bagmati entrarono in Nepal, e valicata un’alta montagna trovarono il fiume Kakokù, che dovettero passare a guado 9 volte, e viaggiando in mezzo a foreste di pini e d’ippocastani, dopo essre passati per il castello di Kuà giunsero il 6 febbario a Bahagdaon, capitale del regno del medesimo nome, dove da qualche tempo i cappuccini avevano un ospizio. Furono bene accolti dal re e trattati con somma famigliarità, e il Beligatti s’intrattiene a parlare delle prove ricevute della benevolenza regale…

A pagina 33

… La città di Bhagdaon numera 12.000 famiglie. Le genti sono cortesi e affabili: la religione dominante è quella dei brahmani; …La città di Kathmandu conta 18.000 famiglie, e la città di Patan ne conta 24.000…  

A pagina 48

… Il satu non è altro che la farina dell’orzo mondo alquanto abbrustolito prima di macinarlo nelle macinette a mano. La carne è molto abbondante nel Tibet avendo quantità di montoni voltati, e macellando ancora lo yak, specie di bove selvatico; ma fuori dei benestanti non ne fanno grand’uso, per mancanza di legna per cuocerla, la qual mancanza sia stata la cagione dell’uso ch’anno gli tibetani di mangiare la carne cruda…

A pagina 73

… Il giorno del Santo Natale, avemmo la consolazione di dire una messa per ciascuno… che ci recò singolare consolazione. Questo stesso giorno il padre prefetto volle regalarci una pozione, che sogliono fare gli religiosi del Tibet nei tempi più freddi, qual pozione chiamano condè; è composta di decozione di tè, di birra, di zucchero, latte, e un poco di butirro insieme lungamente bollito; lo bevemmo più per compiacere il buon vecchio, che per inclinazione, ma sia lui che la più parte di noi, ne trovammo l’utile di scaricare gli nostri stomachi delle flemme ammassatevi nel viaggio. Dopo il mezzogiorno fummo rammaricati per un accidente che accorse. Gli mulattieri lasciarono alla campagna tutte le loro bestie,quali entrarono a pascolare in un prato riserbato, per lo che furono tutte confiscate…

A pagina 76

… Due giorni prima che noi arrivassimo al lago, la lamessa era partita per Lhasa. Gli tibetani hanno per questa lamessa la stessa venerazione che hanno per il Gran Lama, credendola informata da uno spirito di Cianciub…. Quando esce va sempre sotto baldacchino e è preceduta da due incensieri fermati sopra due muli ne quali gli religiosi brugiano continuamente profumi. Vive celibe facendo voto di castità; ciononostante circa 5 anni prima del nostro arrivo sortì da essa una lamessina, quale per quante diligenze che usarono, pure non poterono impedire che non si rendesse pubblica, lo che raffreddò un poco la venerazione…

Il milanese che valicò le Ande

Vita di Antonio Raimondi,  l’esploratore e cartografo ottocentesco divenuto eroe in Perù

di Marco Boscolo

 Un paese che si libera dal peso del colonizzatore straniero ha la necessità di scrivere la propria storia e di celebrare i costruttori del nuovo Stato. Servono a questo le liturgie pubbliche, i libri e i monumenti. Come le tombe di pietra e marmo che dall’inizio dell’Ottocento raccontano la storia della Repubblica peruviana nel cimitero intitolato al Presbítero Matías Maestro di Lima. Tra i 766 mausolei ce n’è uno che colpisce il visitatore italiano più attento. È quello dove riposa un milanese che ha lasciato l’Italia del Risorgimento per esplorare un “paradiso tropicale” ancora sostanzialmente ignoto e diventare il primo cartografo del nuovo Perù. Il suo nome è Antonio Raimondi e per capire perché oggi è celebrato come un eroe nazionale, con scuole intitolate a suo nome in ogni angolo della cordigliera peruviana, non c’è occasione migliore della mostra che il Museo delle Culture di Milano gli ha dedicato.

La storia di Antonio Raimondi comincia veramente a due passi dalla madunina. Nasce infatti il 19 settembre 1824 in Corsia del Duomo, lo slargo direttamente a nord del Duomo che oggi è parte integrante della sistemazione a piazza dell’area. In età avanzata scriverà di essere “nato con una precisa inclinazione ai viaggi e allo studio delle scienze naturali” e di sognare “dalla prima fanciullezza le splendide regioni della zona torrida”. Sostiene che all’età di tredici anni ha preferito impiegare i soldi ricevuti dalla madre per comprarsi la Storia naturale di Georges-Louis Leclerc de Buffon, punto di riferimento per i naturalisti d’Europa all’epoca. Legge avidamente i resoconti di viaggio di scienziati del Settecento, come Alexander von Humboldt e Louis Antoine de Bougainville, ma anche di esploratori, come James Cook e Cristoforo Colombo. “Nelle mie letture seguivo sulla carta gli itinerari percorsi da quegl’illustri viaggiatori e mi pareva di visitare con essi le numerose isole dell’Oceania le vaste selve dell’America tropicale, apparendomi allo sguardo come in uno specchio i più bei panorami, così pieni di vita, come offre soltanto la zona del nostro globo compresa fra i tropici”. A Pavia, mentre assiste ai corsi sui banchi dell’Università (senza laurearsi), o mentre si sofferma sulle collezioni dell’Orto Botanico di Brera, il suo pensiero è già fissamente altrove.

È la politica a trattenerlo dal prendere il mare verso l’America Latina. Siamo in pieno fervore risorgimentale, con un’Italia divisa, oppressa a nord dall’occupazione austriaca, bloccata dal potere clericale al centro e guidata paternalisticamente dai Borboni nel Meridione. Nel 1848, l’anno in cui, per usare l’immagine di Alexis de Tocqueville, il vulcano della rivoluzione erutta in tutt’Europa, Antonio Raimondi è sulle barricate della sua Milano durante le Cinque Giornate. Ha 24 anni e, come molti suoi coetanei, è percorso da ideali liberali: scacciare lo straniero è la giusta causa da combattere. Il fallimento della liberazione può forse farlo vacillare, ma non lo abbatte. L’anno successivo, infatti, è tra le fila garibaldine a combattere per la Repubblica Romana nata con il ritiro di papa Pio IX dalla città eterna. È solo quando anche quest’atto eroico si infrange contro le armi dell’esercito francese – giunto in aiuto alla Chiesa – che Antonio Raimondi si decide per la partenza. A bordo del brigantino L’Industria salpa da Genova alla volta del Perù: non farà più ritorno in patria.

È un’epoca caratterizzata dallo spirito enciclopedico della scienza: in Italia e in Europa si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

Raimondi arriva al porto del Callao, nei pressi di Lima, il 28 luglio del 1850. Ha con sé la Storia Naturale di Buffon – un po’ come Charles Darwin vent’anni prima era sbarcato alle Galapagos con la Teoria della Terra di James Hutton –, qualche strumento scientifico da campo e una volontà di ferro. A parte questo però, Raimondi, anche se di buona famiglia, deve trovarsi di che vivere. L’occasione si presenta quasi subito grazie a Cayetano Heredia. Il Perù è indipendente da poco meno di trent’anni e deve ricostruire tutte le istituzioni pubbliche necessarie allo sviluppo e alla gestione del nuovo Stato. Heredia, grazie alla sua fama di medico eccellente, è incaricato dal governo per dirigere il Colegio de la Indipendencia, la futura Facoltà di Medicina di San Fernando di Lima. Intuendo nel giovane italiano le doti del naturalista di razza, gli affida il compito di ordinare la collezione mineralogica: è l’inizio di un’amicizia e della carriera accademica di Raimondi, che presto comincia a insegnare Storia Naturale.

Con lo stipendio che gli garantisce di che vivere, Raimondi può cominciare realizzare il suo vero sogno: esplorare ogni angolo del Perù. La scelta del paese non è stata casuale, perché, come scrisse più tardi esagerando un pochino, “la sua proverbiale ricchezza, il suo vasto territorio, che sembra riunire in sé gli arenili della costa, gli aridi deserti dell’Africa, i vasti altipiani, le monotone steppe dell’Asia, le alte vette della cordigliera, le fredde regioni polari, gli intricati boschi di montagna e la lussureggiante vegetazione, mi spinsero a preferire il Perù come campo di esplorazione e studio”. Dal 1851, per quasi vent’anni, non perde occasione di allargare le sue conoscenze del territorio. Nel corso delle sue 19 campagne esplorative, Raimondi si comporta come il perfetto naturalista dell’epoca, abbracciando tutte le discipline scientifiche. Le sue raccolte parlano da sole: 3.000 minerali e rocce, 4.000 insetti, 400 esemplari di mammiferi e rettili, 1.265 uccelli, 2.000 fossili, 2.000 molluschi, 72 teschi umani, 300 reperti etnografici, 500 semi, 20.000 piante e 2.000 tra conchiglie, denti e uova fossili. Numeri che dicono dello spirito enciclopedico della scienza dell’epoca, quando in Italia e in Europa si costituiscono alcuni dei grandi musei di Storia naturale moderni e si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

I viaggi oltre la cordigliera delle Ande, nelle aree più remote dell’Amazzonia come negli aridi deserti o lungo la costa pacifica appagano la sete di conoscenza di Raimondi. Nel corso della sua vita raccoglie note in 195 taccuini, alcuni dei quali dedicati a temi specifici, tutti impreziositi dai suoi splendidi acquerelli. Vi annota tutto quello che gli strumenti e il suo occhio attento gli permettono di catturare. A tratti sembra un lavoro maniacale, come quello che farà qualche decennio dopo Alexandre Yersin, lo scopritore del bacillo della peste, che sceglie anche lui i tropici preferendoli all’instabilità politica della Francia. Così, per mano di un italiano con lo spirito d’avventura, il Perù indipendente comincia a fare la conoscenza di se stesso e delle sue ricchezze. L’idea di scienza che ha Raimondi, infatti, è enciclopedica alla maniera illuminista, sempre intesa come strumento per un futuro fatto di progresso e miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Nei suoi rilievi cartografici, quindi, non mancano mai riferimenti precisi alle risorse naturali: giacimenti di metalli preziosi sì, ma soprattutto di carbone, salnitro e guano, risorse indispensabili per lo sviluppo del paese. Grazie alla conoscenza del territorio che acquisisce viaggiando, Raimondi diventa una specie di consulente tuttologo per il governo. Ogni volta che c’è da progettare un ponte o una ferrovia viene consultato in qualità di esperto. La sua perizia anche negli aspetti che oggi diremmo ingegneristici è testimoniata dai disegni tecnici che ha realizzato, come quelli che riguardano un progetto di una fabbrica per la fusione dei metalli del 1875.

Dal 1862 i viaggi di Raimondi assumono un nuovo significato. Viene incaricato ufficialmente dal governo di realizzare un progetto grandioso: un’esplorazione sistematica per la realizzazione della prima carta geografica completa del Perù. Sarà composta di 38 fogli pubblicati tra il 1887 e il 1897 dall’editore parigino Erhard e, come sottolineato da una mostra sull’esplorazione peruviana tenuta a Lima nel 2015, è la “radice della cartografia nazionale” del Perù. Oltre all’importanza dello strumento in sé per lo sviluppo del paese, la grande mappa ha anche un’altra funzione nella storia peruviana: riallacciare i fili della storia con il passato pre-coloniale. Raimondi, infatti, non solo applica tutta la sua maniacale precisione nell’indicare emergenze fisiche, geologiche e quant’altro ci si aspetti da una carta di questo tipo, ma vi segnala anche i toponimi indigeni come origine dei nomi attuali delle principali città e dei villaggi. Per esempio, dà la stessa importanza a Lima e Cuzco, in quanto capitali del paese in due diversi momenti storici. Dagli appunti dei 195 taccuini di campo, inoltre, Raimondi comincia a preparare, con l’aiuto di una vera e propria redazione multidisciplinare, un’opera finanziata dal governo e intitolata semplicemente El Perù che avrebbe dovuto essere una grandiosa enciclopedia del paese indipendente.

La mappa di Raimondi tornò utile a Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

Un altro aspetto delle esplorazioni di Raimondi è quello legato all’antropologia e all’archeologia. Nell’incontrare le popolazioni indigene ne annota usi e costumi, raccoglie esempi di artigianato e di abbigliamento come parte integrante del grande affresco del Perù che sta cercando di dipingere. In questo ambito, pur rimanendo un uomo dell’Ottocento, convinto della superiorità della civilizzazione di stampo europeo, non ha mai sentimenti di esclusione per le diverse popolazioni indigene, ma le reputa parte integrante della complessità e della varietà del Perù suo contemporaneo. Quando visita Cuzco avviene un cortocircuito tra ciò che vede e quello che ricorda dell’Italia: “Alla fine sono arrivato nella Roma d’America, in questa grande città di memorie che ci chiama Cuzco, dove non si può fare un passo senza imbattersi in una testimonianza della sua antica civiltà”. Raimondi, forse spinto dalla sua profonda fede nel progresso, vede una continuità tra i fasti dell’antico impero Tahuantisuyo (Inca, in lingua quechua) e le potenzialità di sviluppo del Perù in cui vive.

Purtroppo il futuro dorato immaginato da Raimondi non si realizzerà. Il paese indipendente fatica a trovare un equilibrio interno e i rapporti esteri sono ruvidi. Già nel 1864, c’è una scaramuccia con la Spagna per il controllo delle isole Chincha, un enorme deposito di guano al largo della città di Pisco, a sud di Lima. Ma è la Guerra del Pacifico (1879 – 1883) a giocare un ruolo determinante. Nello scontro con il Cile, il Perù perde il dipartimento di Tarapacá, una regione esplorata ovviamente anche da Raimondi e ricca di giacimenti di salnitro e minerali. Con essa se ne va una grossa fetta delle risorse del paese e il Perù, sfiancato e sull’orlo della bancarotta, deve rivedere i piani per il proprio futuro, compresa la pubblicazione dell’opera di Raimondi, che si blocca la terzo tomo del 1880. L’esploratore milanese, intanto, comincia a sentire il peso degli anni e la responsabilità di provvedere alla propria famiglia (si è sposato solo nel 1869, al termine dei suoi viaggi, e ha avuto tre figli). Continua il suo lavoro di insegnante, finché una lunga malattia non se lo porta via il 26 ottobre 1890. Di tutta l’eredità scientifica che ha lasciato, probabilmente a Raimondi sarebbe piaciuto sapere che la sua grande carta geografica tornò utile all’archeologo americano Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

 

l mito americano della Natura

Raccontata come un Eden, l’America prima di Colombo era molto diversa da come la immaginiamo.

di Matteo Cossu

Il mito della natura incontaminata, della ‘Great American wilderness’, è profondamente radicato nella cultura occidentale. Il continente americano pre-colombiano è spesso dipinto come un luogo selvaggio, scarsamente popolato: un mondo dove la presenza umana era appena percepibile. L’attrazione per questo mito pervade molta della letteratura statunitense del XIX secolo. Le descrizioni di natura incontaminata fanno da sfondo al mito eroico del pioniere. Basti pensare a un libro come Walden e alle altri odi alla natura di Thoreau. Thoreau cantava di una natura intonsa, selvaggia, sconfinata, e la immaginava ancora più primordiale nei secoli precedenti alla venuta degli occidentali.

L’idea della grande America selvatica non ha solo giocato un ruolo rilevante nella percezione culturale della natura, ma ha anche influenzato generazioni di studiosi e attivisti ambientali. Nel 1950, John Bakeles in The Eyes of Discovery, parlava della sua opera come di un libro ‘che presentava le visioni, i suoni e gli odori di un’America in uno stato inalterato. Quarant’anni esatti più tardi, Kirkpatrick Sale pubblicava Conquest of Paradise dove affermava che erano stati gli europei a cambiare l’ambiente, trasformando la natura sulla scia di Colombo e dei conquistadores. Similmente, un anno dopo, Shetler (in un libro pubblicato dallo Smithsonian) sosteneva che:

L’America pre-colombiana era ancora un Eden, un regno naturale integro. I nativi erano trasparenti rispetto all’ambiente, vivendo come elementi naturali dell’ecosfera. Il loro mondo, quello che Colombo chiamò il Nuovo Mondo, era di impercettibile disturbo umano.

Ma era davvero così? L’impatto delle popolazioni native sull’ambiente era stato così trascurabile? Oggi sappiamo che la popolazione sia nel nord che nel sud America raggiungeva cifre paragonabili e, per alcuni studiosi, persino superiori a quelle raggiunte in Europa.

Il dibattito demografico

Quando l’Ammiraglio John Smith esplorò le coste del Massachussets nel 1614, i suoi rapporti descrivevano una terra “così rigogliosa di giardini e campi di mais, diffusamente abitata da gente forte e ben proporzionata”. Ma appena sei anni dopo, quando i pellegrini del Mayflower sbarcarono sulle stesse coste, trovarono solo miseria e morte. Thomas Morton, un commerciante inglese, scrive della sua visita nel 1622: “gli Indiani morivano in massa dentro le loro case, i teschi e le ossa sparsi in diversi posti delle loro abitazioni erano uno spettacolo [degno di] una nuova Golgota”.

L’incongruenza delle fonti, generò ben presto un dibattito antropologico che continua al giorno d’oggi. Le stime demografiche pre-colombiane erano molto difficili da ottenere, e i primi studiosi essenzialmente tirarono ad indovinare. Nel 1910, l’antropologo James Mooney incrociò fonti di esploratori e primi coloni con studi sulla capacità agricola delle popolazioni indigene, e concluse che in tutto il Nord America, viveva appena un milione persone. Mooney era rispettatissimo all’epoca e per molti anni le sue conclusioni non vennero mai messe in discussione. Per questo ci volle un periodo di grande fermento culturale come la fine degli anni Sessanta per rivisitare questa stima. E infatti nel 1966, alla luce del suo lavoro a stretto contatto con molte comunità di nativi americani, l’etnografo-storico Henry Dobyns, pubblicò stime decisamente più alte: al tempo del primo contatto europeo, a nord del Rio Grande vi sarebbero state tra le dieci e le dodici milioni di persone. Dobyns ricevette durissime critiche, ma anziché ricredersi, circa 20 anni dopo ripubblicò ulteriori ricerche e aumentò il limite superiore fino a diciotto milioni.

Dobyns (assieme ad altri antropologi come Alfred Crosby), rivelò così l’esistenza di dinamiche ignote fino ad allora. Secondo le sue stime, negli anni direttamente successivi ai primi contatti europei, si consumò la più grande epidemia della storia, direttamente responsabile di una decimazione delle popolazioni pari a oltre il 90%. Ai tempi, negli anni tra i ‘60 e gli ‘80, non esistevano metodi scientifici che potessero confermare le ipotesi degli antropologi, ma qualche mese fa un gruppo di ricercatori dell’università di Adelaide, ha pubblicato un articolo su Science Advances, sul DNA di 92 mummie e scheletri pre-colombiani, tutte datate tra i 500 e gli 8600 anni fa. Lo studio ha dimostrato l’estinzione pressoché totale, nella popolazione odierna, delle linee genealogiche individuate nelle mummie. Uno scenario concordante con le teorie di Dobyns.

Danni involontari

La suscettibilità delle popolazioni native americane alle malattie europee era dovuta a diversi fattori. Uno dei più importanti era l’assenza di diffuse pratiche di allevamento. Per la maggior parte, le comunità native in America si sostenevano con l’agricoltura e con la caccia. D’altra parte invece, in Europa, l’allevamento aviario, di suini, bovini, e ovini era praticato da millenni, e aveva portato alla diffusione, e alla conseguente immunizzazione, da diverse malattie zoonotiche, malattie cioè che ‘saltavano’ di specie per aggredire l’uomo: praticamente tutte le grandi epidemie, dal vaiolo al morbillo hanno questa origine.

Nel maggio del 1539, Hernando de Soto sbarca nella baia di Tampa con nove navi, più di 600 uomini e 220 cavalli. Secondo le ricostruzioni di Charles Hudson, un antropologo che ha dedicato la sua carriera a ricostruire il percorso di de Soto, la spedizione incontrò in quello che è oggi l’Arkansas, “città ben popolate” e “insediamenti così ravvicinati da potersi scorgere tutti insieme, tutti difesi da colline artificiali, fossati e schiere di arcieri”. De Soto passò anche attraverso a estesi campi di mais, zucche e fagioli.

Lo spagnolo morì nel 1542, e nessun europeo visitò quei luoghi per oltre un secolo. Nel 1682, quando Réné-Robert Cavelier, Sieur de la Salle esplorò le stesse zone, trovò condizioni ben diverse. Dei cinquanta insediamenti visitati dallo spagnolo, ne descrisse solo dieci, forse ri-occupati da nuove tribú.

La missione di de  Soto non era certo pacifica. Nei quattro anni passati tra quello che oggi è il sud degli Stati Uniti e le aree intorno al Mississippi, la compagnia distrusse, uccise e derubò tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Ma il peggior danno causato dall’hidalgo avvenne a sua completa insaputa: de Soto si accompagnava a un gruppo che lo avrebbe dovuto aiutare contro ogni avversità: guide, mercenari, ingegneri, e… maiali. Recenti analisi di antico DNA mitocondriale hanno stabilito che i maiali domestici arrivarono in Europa al seguito dei primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente circa 7500 anni fa. Con gli animali, arrivarono anche le malattie: da solo, il maiale è responsabile di antrace, brucellosi, leptospirosi, teniasi, trichinosi e tubercolosi. Se si considera la loro vorticosa riproduzione e la possibilità di trasmettere malattie a tacchini selvatici e cervi (due specie centrali nell’alimentazione dei nativi), i maiali di de Soto erano, a tutti gli effetti, delle armi biologiche.

La natura indigena

La deforestazione e l’agricoltura intensiva sono due dei principali fattori dell’impatto antropogenico sull’ambiente. Prima del contatto colombiano, in America entrambe queste attività venivano compiute attraverso l’appiccamento regolare di fuochi controllati. In diverse misure, i nativi americani usavano il fuoco per creare terreni coltivabili, per mantenere ‘aperte’ le foreste, e per favorire la crescita di nuovi germogli attraendo quindi le specie da cacciare. Lo dimostra il fatto che diversi studiosi hanno trovato tracce di incendi controllati dalle zone sub-artiche fino al deserto di Sonora. Le caratteristiche e gli impatti di questi incendi dolosi variavano a seconda delle regioni e localmente dipendevano da fattori demografici e ambientali, ma in ogni caso avevano impatti non trascurabili addirittura su scale continentali.

In Nord America, gli incendi delle popolazioni native non solo plasmarono le foreste creando praterie, ma cambiarono attivamente la composizione degli ecosistemi forestali, creando condizioni favorevoli a specie utili alle comunità. Fragole, mirtilli, lamponi e altre bacche, ma anche varie specie di pino, e querce, sono quasi certamente un subclimax ecologico di origine antropogenica, create (e mantenute) attraverso il fuoco. Già nel 1958, il padre fondatore del concetto di “cultural landscape” Carl O. Sauer, da studi sulle precipitazioni medie e composizione dei suoli, concluse che la maggioranza dei biomi a bassa vegetazione del Nuovo Mondo erano di origine antropogenica.

La piccola era glaciale

Tra circa la metà del 1500 e per i 250 anni successivi, il mondo si ritrovò in un ciclo climatico di temperature significativamente più basse. Le conseguenze furono globali, e l’Europa non fu da meno. Si ghiacciò il Tamigi, il Corno d’Oro e parte del Bosforo. Interi villaggi alpini furono spazzati via dall’avanzata dei ghiacciai. Nel 2003, un paleo-climatologo e biologo marino, William Ruddiman, pubblicò un articolo in cui argomentava essenzialmente che l’impatto dell’uomo non è mai stato trascurabile, e che molte delle anomalie climatiche possono trovare spiegazione in eventi legati agli uomini. La piccola era glaciale non fa eccezione, e Ruddiman ipotizzava che fosse correlata al cambio d’uso della terra avvenuto dopo il contatto colombiano sia nel nord che nel sud America. In breve, il declino delle popolazioni americane portò a una riforestazione, da lì a una minore emissione di CO2 e quindi alla conseguente diminuzione dell’effetto serra e all’abbassamento delle temperature globali.

L’impatto umano sull’ambiente non è semplicemente un processo di degrado o cambiamento in risposta a un aumento di popolazione o di fattori industriali, agricoli o economici. Anche piccole popolazioni possono avere conseguenze drammatiche nel tempo. L’impatto umano è interrotto da periodi di inversione, riabilitazione ecologica e diversificazione di linee temporali, con l’insorgenza di nuove condizioni aumentano, diminuiscono o in certi casi addirittura si evolvono nuove specie. L’impatto può essere costruttivo, benigno o degenerativo, ma è bene notare che questi termini, e quindi la naturalità di un sistema, sono tutti concetti soggettivi.

Hernando de Soto si aggirò in Nord America per quattro anni e in nessun racconto del suo viaggio descrisse mai la specie che la nostra cultura associa maggiormente alle grandi praterie: il bisonte. Un secolo dopo, mentre attraversava gli stessi territori di de Soto, La Salle descrisse invece abbondanti mandrie di bisonti al pascolo nelle terre circostanti i fiumi. Considerando il repentino crollo della presenza umana e osservando il problema da un punto di vista ecologico, si può spiegare questa discordanza solo individuando nei nativi la specie chiave. In ogni ecosistema, le specie chiave esercitano una grande influenza stabilizzante su tutta una comunità ecologica, nonostante la loro relativamente piccola abbondanza numerica. Esercitando la caccia, è possibile quindi che i nativi americani limitassero le popolazioni di molte specie, favorendone altre. Questa dinamica era comune sia ai bisonti, che a diverse specie di cervi. Da studi di strati archeologici, si evince per esempio che il numero di cervi nell’America del nord aumentò drasticamente circa 500 anni fa in contemporanea con l’arrivo degli europei e il tracollo dei nativi. Il piccione migratore, una specie estinta che per anni fu usata come esempio della distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo, era praticamente una rarità prima del contatto colombiano. A man a mano che la frontiera dei coloni si spostava verso Ovest, essa veniva anticipata da un’ondata microbiologica e virale che, sterminando gli indigeni, causava un conseguente rimescolamento e riequilibrio degli ecosistemi, che andava a tutti gli effetti adattandosi a un impatto umano significativamente minore che in precedenza.

Longfellow inneggiava alla ‘forest primeval’ nel suo poema epico Evangeline: A Tale of Acadie. Se con quel termine intendeva boschi liberi da presenze umane, allora – come si è visto dalle ultime ipotesi di scienziati, antropologi che abbiamo riassunto in questo articolo – è possibile che lo fossero maggiormente nel 1800 che non nel 1500.

Humboldt e l’alba dell’ecologia

di Federico Nejrotti

Alexander von Humboldt, fratello minore del filosofo Wilhelm von Humboldt, nasce a Tegel nel 1769 da una ricca famiglia prussiana che gli assicura un’ottima educazione. Dopo la morte del padre rimane in balia di una madre iperprotettiva, che non manifesta particolare sensibilità per la passione per il viaggio di Alexander e gli permette di visitare solo i grandi centri culturali europei. Proprio per questo motivo, quando nel 1796 la madre muore, Alexander non perde un attimo di tempo e comincia a organizzare la sua prima spedizione: non senza intoppi, si imbarca per il Venezuela insieme al botanico Aimé Bonpland.

Viaggia per due anni, percorre il corso del fiume Orinoco, lotta ferocemente con delle anguille elettriche e nel novembre del 1800, ancora assieme a Bonpland, parte per Cuba ed esplora le Ande. Un giorno viene a sapere che la spedizione del capitano Nicolas Baudin, partita da Nantes e finita per dirigersi in Australia, sarebbe passata tra Guayaquil, in Ecuador, e Lima, in Perù. Senza esitazioni decide di aprirsi un varco nella foresta amazzonica per riuscire ad arrivare esattamente in tempo per imbarcarsi. Giunta a Quito, in Ecuador, nel gennaio del 1802, la compagnia viene a sapere che le notizie sulla spedizione di Baudin erano tutte sbagliate: il capitano si stava dirigendo verso Capo di Buona Speranza. Colto clamorosamente in fallo, Humboldt non si perde d’animo e decide di passare i mesi successivi a scalare tutti i vulcani della zona. Non contento, cinque mesi dopo si dirige cento miglia a sud di Quito e con tipico aplomb prussiano scala il Chimborazo, la cima più distante dal centro della Terra.

Sarebbe ingenuo cercare di sbrigare le tappe di Alexander von Humboldt in così poche righe: d’altronde dopo le Ande ha esplorato il Messico, gli Stati Uniti, si è fatto di nuovo un giro in Europa e infine ha toccato gli estremi orientali della Russia. Persino Andrea Wulf, con la sua straordinaria biografia The Invention of Nature, è riuscita appena a sfiorare la vastità delle terre calpestate da Humboldt nonostante avesse a disposizione trecentocinquanta pagine. Ma la cosa che più conta è come tutti quei viaggi abbiano permesso ad Humboldt di ottenere una visione totalizzante della natura, e di intuire una astrusa e misteriosa armonia globale che lega ogni singola manifestazione di vita sulla Terra. Proprio per questo non stupisce che sia stato Humboldt uno dei primi grandi personaggi a chiedersi se l’uomo, in pieno impeto pre-industriale, non stesse rischiando di interferire con il naturale corso di questa armonia.

Quando le foreste vengono distrutte

Le traversate amazzoniche di Humboldt non gli hanno permesso soltanto di raccogliere un inventario botanico invidiabile, ma soprattutto di acquisire una singolare consapevolezza di violenza, pervasività e ingordigia dell’imperialismo coloniale europeo. Così scrive in Personal Narrative:

Quando le foreste vengono distrutte, come succede ovunque in America a causa della fretta imprudente dei coltivatori europei, le sorgenti vengono interamente prosciugate, o diminuiscono drasticamente di numero. I letti dei fiumi, rimanendo asciutti per parte dell’anno, diventano torrenti ogni volta che la pioggia cade abbondante. Le praterie e i muschi scompaiono sotto i rami accatastati ai lati delle montagne, l’acqua che scende sotto forma di pioggia non trova impedimento al suo passaggio: e invece che aumentare progressivamente il livello dei fiumi attraverso filtrazioni costanti, scava violenta ai lati delle colline, portando con sé il terreno smosso e formando queste inondazioni improvvise, che devastano le pianure.

Nel 1804, concluso il suo tour del sud America, Humboldt decide, insieme ad Aimé Bonpland, di fare una tappa a Washington per conoscere Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti e scienziato. Accolto calorosamente, trascorrerà con lui una settimana in cui il principale tema di dibattito sarà l’intersezione tra natura e politica: per Jefferson l’unico modo per ottenere felicità e indipendenza è attraverso un repubblicanesimo agrario, una totale concentrazione sui valori della terra, così profonda e sentita da convincere Jefferson che i veri membri del Congresso dovrebbero essere proprio i contadini, “veri rappresentanti degli interessi americani”. Le discussioni tra i due riguarderanno spesso temi legati all’America del colonialismo spagnolo e alle politiche estere degli Stati Uniti. A questo riguardo Humboldt non ha dubbi: oltre che per l’enorme stima nei confronti di Jefferson, è in nome di una scienza libera che decide di fornire al presidente tutte le informazioni raccolte durante i suoi viaggi: credeva infatti che la crescita della comunità scientifica internazionale dovesse trascendere gli interessi nazionali.

Durante la settimana a Washington, Humboldt approfondisce assieme a Jefferson le assurdità perpetrate dagli imperialismi coloniali. Gli racconta della “insaziabile avarizia” spagnola per oro e legname: il vero carburante dell’era coloniale, così ambito che, nel 1664, in Sylva, a Discourse of Forest Trees, John Evelyn scrive: “sarà meglio finire l’oro prima del legname”, con riferimento alle innumerevoli industrie messe in moto dalla sua lavorazione.

Di passaggio dal Lago Valencia, in Venezuela, Humboldt per esempio studia il progressivo prosciugamento del lago, attribuito dai locali a un misterioso “buco sotterraneo”. Analizzando le sabbie rinvenute nella zona e paragonando i ritmi di evaporazione a quelli europei, la conclusione di Humboldt è lapalissiana: la deforestazione della zona da parte degli europei ha privato il lago di un fattore preziosissimo per il proprio fragile ecosistema. Poco distante, nella valle di Aragua, troverà intere popolazioni ridotte alla fame perché obbligate a sostituire le coltivazioni per il sostentamento agricolo con quelle di indigofera tinctoria, una pianta da cui viene estratta una tinta blu particolarmente ambita dai commercianti europei. Queste coltivazioni, nota Humboldt, avevano rapidamente prosciugato la fertilità del terreno e reso inospitale l’intero territorio.

Che si trattasse di pratiche agricole o di interventi infrastrutturali – come le dighe piazzate nella rete fluviale senza cognizione di causa – Humboldt intuì per primo l’impatto dell’uomo sull’armonia della natura e cominciò a sospettare, e a scrivere, che l’incoscienza di quegli anni avrebbe potuto causare danni irreparabili per le generazioni future. Nel successivo lavoro di rielaborazione dei dati raccolti, Humboldt cominciò a unire i puntini per scoprire – o meglio, accorgersi – che le stesse pratiche sfruttate dai coloni spagnoli erano state replicate in Europa, e avevano allo stesso modo disturbato l’ecosistema. Si trattava dei primi studi sul cambiamento climatico antropogenico.

Naturgemälde: la natura è un tutt’uno vivente Qualche tempo prima di formulare questi pensieri, ancora immerso nella foresta amazzonica, Humboldt vive la sua epifania: sulla vetta del Chimborazo, infatti, vive un momento quasi estatico, in cui con un “singolo sguardo” riesce a comprendere la natura nella sua interezza, da un punto di vista fisico, ma anche spirituale. Tornato all’altezza del mare, Humboldt dipinge il Naturgemälde, una mappa del vulcano corredata di informazioni sulla distribuzione geografica delle piante, un “dipinto della natura come insieme” che corrisponde a una vera rivoluzione copernicana per la scienza naturale: gli ecosistemi non sono composti di compartimenti stagni, ma sono parte di un insieme vivente su scala globale. Gli equilibri sono fragili e strettamente interdipendenti. Dall’insetto più piccolo fino alla vetta più alta, ogni elemento contribuisce alla conservazione della natura, e ogni interferenza è un duro colpo a questo innato e costante sforzo.

Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale”.

È proprio nella visione unificata del Naturgemälde che Humboldt inizia a concepire il progetto delle isoterme, le linee metereologiche che uniscono i punti della terra e del mare che hanno la stessa temperatura, e che unite ai dati raccolti da Humboldt durante le sue spedizioni non fanno che confermare la sua teoria: la natura è un vero e proprio organismo vivente, non una risorsa inerte alle azioni dell’uomo. Queste riflessioni e scoperte non sono altro che l’inizio di un percorso molto più grande di Humboldt, quasi si trattasse di una presa di coscienza umana, più che individuale, e che nei secoli successivi finirà per influenzare tutto il mondo della scienza, e non solo. Nelle decadi seguenti John Muir, padre del movimento ambientalista americano, sarà mosso dalle stesse aspirazioni di Humboldt per la preservazione di una natura in quanto tutt’uno. Muir si batterà per la conservazione di intere foreste e contribuirà alla protezione delle sequoie americane inaugurando parchi e riserve naturali, come quelle dello Yosemite National Park.

Due secoli dopo, a cavallo del nuovo millennio, la missione di Humboldt è in seria difficoltà: il sistema Terra sta passando i suoi anni più caldi da quando abbiamo cominciato a registrare la sua temperatura e le calotte polari, proprio in questi giorni, stanno registrando ritmi di scioglimento inspiegabilmente anomali. Il 2016 è stato anche l’anno del superamento definitivo dei limiti di carbonio per l’atmosfera terrestre, che ha toccato le quattrocento parti per milione: una soglia sotto la quale, probabilmente, non scenderà mai più. Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale,” ovvero colui costretto a migrare dalle condizioni estreme imposte dal riscaldamento globale e dal cambiamento climatico.

Le istituzioni di tutto il mondo stanno lentamente prendendo parte a un processo di cambiamento che sarà ancora lungo e faticoso: il Trattato Climatico di Parigi, firmato da oltre centonovanta nazioni del mondo e ratificato da più di cento, mira a contenere l’innalzamento delle temperature globale a 1.5C° sopra i livelli pre-industriali. La brutta notizia è che non rispettare questi accordi potrebbe, questa volta definitivamente, significare conseguenze irreparabili per l’intera umanità, senza distinzione di razza, sesso, religione o classe sociale. Quella peggiore è che Donald Trump, il nuovo Presidente della prima economia del mondo sembra non credere a nulla di tutto questo.

  

La poesia di Wystan Hugh Auden

Un ricordo di quella che Brodskij definì “la più grande mente del ventesimo secolo”

di Flavio Santi

Quando si pensa alla più grande mente del ventesimo secolo, i primi nomi che si affacciano sono quelli di scienziati (Einstein, Heisenberg), statisti (Gandhi, Churcill), magari pittori (Picasso), musicisti (Stravinskij), architetti (Le Corbusier), financo filosofi (Simone Weil). Difficilmente si pensa a un poeta. Ma proprio in questi termini (“la più grande mente del ventesimo secolo”) parla di Wystan Hugh Auden il poeta russo Iosif Brodskij nel saggio “Per compiacere un’ombra”, tratto da Fuga da Bisanzio e opportunamente posto sulla soglia della recente edizione Adelphi delle Poesie scelte di Auden, nella versione di due maestri della traduzione, Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica.

“La più grande mente del ventesimo secolo”. Che un ingegno acuto come Brodskij – premio Nobel per la letteratura nel 1987, forse il più grande poeta russo della seconda metà del Novecento – si spinga a tanto avrà un significato, una spiegazione, un punto d’appoggio. Non sarà il semplice frutto di un commosso omaggio amicale. Chi conosce i saggi di Brodskij sa che il russo pratica un profondo scavo critico, mai arreso a slogan o a facili soluzioni. E dunque? Che un poeta sia la più grande mente del ventesimo secolo è una bella rivincita per chi crede nella poesia. Auden non è il semplice “cronista” che intravide Eugenio Montale (un’entrata a gamba tesa che complicò, tra l’altro, la fortuna del poeta in Italia), ma ben altro.

Nel testo originale l’aggettivo è greatest: la greatness è fatta di intuito e buon senso, visione e retroguardia, acribia e cialtroneria, fango e arcobaleno. La più “grande” mente non significa la più intelligente. Né la più geniale. Questa grandezza poi non deriva romanticamente dalla pura e semplice conduzione di vita di Auden. Che fece quel che doveva fare, senza strafare per altro: non visse molto, in fondo, appena sessantasei anni (1907-1973), fu inglese nell’accezione più classica e blasonata (fu oxoniense), e poi americano, ma anche austriaco (d’estate, a Kirchstetten, in un cottage seminascosto ai passanti, in fondo a una via ribattezzata “Audenstrasse”); vide la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale; viaggiò in Germania, Cina, Islanda, Italia; bevve molto whiskey e fumò molte sigarette.

La grandezza, naturalmente, risiede nelle poesie. Le poesie di Auden formano un mondo a sé, autonomo, dotato di gravità propria e proprio ossigeno. Come in ogni mondo, c’è tutto. Referti epocali:

Dall’Archeologia

è dato trarre almeno una morale:

cioè che tutti i nostri libri

di scuola mentono.

Di quella che chiamano Storia

non c’è da menar vanto,

fatta com’è di quanto

c’è in noi di criminale;

la bontà è senza tempo.

Preveggenze brucianti come in questo “Blues del profugo”:

Questa città avrà, mettiamo, dieci milioni di anime,

C’è chi vive in palazzi e chi in topaie,

Ma per noi non c’è posto, mia cara, no non c’è.

Avevamo una patria, e ci pareva bella,

Se guardi sull’atlante è sempre quella:

Adesso non ci andremo, cara, no, non andremo là.

Scalpellature epigrammatiche:

Ora che i porci son rifatti uomini

Ed è propizio il cielo e quieto il mare,

Tutti a casa possiamo ritornare.

Slanci fulminanti:

Vai, macchinista, accelera e vai

Dove splende il sole sulla Springfield Line.

Vola come un aereo e non frenare;

Non prima di New York, Stazione Centrale.

Campiture mozzafiato:

Oh la valle d’estate dove col mio John

Presso il fiume profondo camminavamo tanto

Mentre i fiori dal basso e gli uccelli lassù

Parlavan con debolezza di amore ricambiato.

Mi chinai sulla sua spalla: “Oh Johnny, giochiamo”;

Ma scuro in volto come il tuono se n’è andato.

L’Orazio anglosassone, si è detto. Del poeta latino Auden possiede la caratteristica, insieme banale e lussureggiante, di essere uomo e umanità, singolarità e sintesi, uno e folla. Wystan (Wystan era il nome di un principe medievale venerato come santo dalla Chiesa anglicana) Hugh Auden è ora una delle (tante) carrozze di un lungo, forse interminabile convoglio, ora la locomotrice di testa; ora l’apprendista, ora il mago. Tutto ciò risalta ancora meglio nella tensione di una partitura quasi sussurrata:

Splendi: che nessuno stanotte

Di soprassalto desto

Solo nel letto al buio pesto

Si senta augurare con furore

La morte al suo amore.

Amore e morte. Cosa c’è di più universale e, al tempo stesso, unico?

Anche qui la cognizione della morte

Le dà un amore struggente.

Fa breccia il fervore dell’amante:

Che hai in mente piccioncino, coniglietto;

Come le piume crescono i pensieri, impasse della vita;

Di far l’amore o di contare soldi,

O d’arraffare gioie, piani degni d’un ladro?

Così come il suo speculare, lo strazio:

Ah, ma di che tarlo di colpevolezza,

Di che dubbio maligno

Sono vittima?

Perché tu poi, sfrontato

Facesti ciò che mai avrei voluto

Confessando un altro amore;

E io sentendomi indesiderato

A testa bassa me ne andai?

Fino a coagularsi nella poesia forse più celebre (per via del film Quattro matrimoni e un funerale), “Funeral Blues”, che riportiamo per intero:

Fermate gli orologi, staccate il telefono,

Zittite il cane con un osso succulento,

Tacciano i pianoforti e tra tamburi afoni

Esca la bara, vengano i dolenti.

Gemano sorvolando gli aeroplani,

Scribàcchino il messaggio Lui È Morto,

Mettete crespo al collo dei piccioni

Guanti neri di cotone i vigili ora portino.

Lui era il mio Nord, Sud, Ovest, Est,

I giorni di lavoro e i dì di festa,

Meriggio e mezzanotte, voce e canto;

Credevo amore eterno ma s’è infranto.

Le stelle ormai inservibili, spegnete una a una,

Smantellate il sole e imballate la luna,

Spazzate il bosco e svuotate il mare;

Nulla di buono ormai c’è da sperare.

Poesia in cui, non a caso, tornano insieme amore e morte. Ora, la morte ha vari modi di camuffarsi per presentarsi a noi senza farci impazzire. Uno di questi è sub specie temporis, sotto forma di tempo (“Il Tempo che non puoi debellare”). Le poesie di Auden sono piene di tempo. Percepito, misurato, pensato, subìto, meteorologico, astrale, epocale. Come si è visto, “Funeral blues” comincia con gli orologi. “In memoria di W.B. Yeats” attacca con una gelata invernale:

È scomparso nel cuore dell’inverno:

Gelati i ruscelli, gli aeroporti quasi deserti,

La neve sfigurava i monumenti;

Sprofondava il mercurio in bocca al giorno moribondo.

Ecco, secondo tutti gli strumenti

Il giorno in cui morì era un giorno buio e freddo.

Altri travestimenti della morte sono più ameni (ma sempre toccati da un soffio rabbrividente):

Ormai cresciuti, ricordiamo sere come questa

A zonzo insieme nel frutteto senza vento

Dove il torrente corre sulla ghiaia, lontano dal ghiacciaio.

[…]

A qualcuno i rumori dell’alba

Daranno libertà; non questa pace che nessun uccello

Può contraddire: breve ma sufficiente per qualcosa

Di compiuto è già quest’ora, di amato o di subìto.

Contro la morte ci sono soluzioni praticabili? Per evitarla no di certo, come sappiamo tutti noi. Ma si può renderla tollerabile, quasi amichevole, se non amica. Come? Con il buon senso, il senso comune. Anche qua la scintilla scaturisce dal saggio di Brodskij, da un teatralissimo scambio di battute: “Il migliore scrittore russo è Cechov”. “Perché?”. “È l’unico […] che abbia un briciolo di senso comune”. È il senso comune – inesauribile risorsa – che fa pronunciare ad Auden parole come queste:

Facile è fare la domanda difficile;

Domandare all’incontro

Con una semplice occhiata d’intesa

Questi dove vanno

E come stanno questi:

Facile è fare la domanda difficile,

Semplice atto di volontà confusa.

Oppure riflessioni come questa, al limite dell’idiot savant:

Se noi, caro, sappiamo di non saperne più

Di loro sulla legge,

Se io non più di te

So quello che si deve e non si deve

Salvo che ognuno conviene

Con gioia o dispiacere

Che la legge è

E che tutti lo sanno.

O confezionare autoritratti, come qua dove Yeats visita la tomba di Yeats ed è come se stesse parlando davanti a uno specchio (basta sostituire l’Irlanda dell’originale con Inghilterra):

“Eri sciocco come noi: il tuo talento sopravvisse a tutto;

Alla congrega delle donne ricche; al fisico degrado;

A te stesso; la folle Irlanda t’inferse la poesia.

Ora l’Irlanda ha sempre il suo clima e la follia

Perché la poesia non fa accadere niente; sopravvive

Nella valle del suo dire ove il burocrate

Mai metterebbe becco; sbocca a sud

Dalle tenute dell’isolamento e dagli assidui crucci,

Scabre città in cui si crede e muore; sopravvive,

Un modo di accadere, una bocca.

Chiudiamo con le parole finali del saggio di Brodskij perché tutto è già stato detto lì, inno bifronte al sublime e al senso comune: “lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile.”

Donne con la  bussola

di Paola Rinaldi

Viaggio è maschile o maschilista? Seppure non siano poche le donne che hanno contribuito alla cartografia, alla geografia e all’esplorazione, le storie dei piedi rosa che hanno stretto i lacci e camminato per il mondo sono rimaste nell’ombra per secoli. Da Freya Stark a Louise Arner Boyd, da Léonie d’Aunet a Ida Pfeiffer, sono state centinaia le donne che hanno avuto il coraggio di rovesciare gli stereotipi ed esplorare luoghi lontani.

«La storia di Ulisse e Penelope descrive sotto forma di metafora quanto tramandato dalla notte dei tempi: l’uomo fatto per il movimento, l’avventura, e la donna per la stanzialità», spiega la professoressa Luisa Rossi, docente di Storia della geografia e delle esplorazioni presso l’università di Parma e autrice del libro L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe.

«Nomi femminili si incontrano nella storia della letteratura, della medicina, della pittura e di molte altre discipline culturali, mentre la geografia, sapere territoriale e strategico, è rimasta a lungo appannaggio di chi governava o faceva le guerre, e dunque degli uomini».

Nonostante tutto, le donne si sono fatte largo tra i pregiudizi. Geografe da tavolino o viaggiatrici?

Sarebbe stato più “logico” il primo ruolo, proprio perché sedentario, ma per rivestirlo occorrevano competenze di preparazione scientifica, come il latino, che le donne non possedevano. Un tempo, alle figlie venivano insegnati il ricamo e i mestieri legati alla vita domestica piuttosto che le discipline tecnico-scientifiche. Per questo motivo, l’unico modo a disposizione di una donna interessata a conoscere il mondo era partire. Nelle motivazioni del partire risiede la prima differenza tra il viaggio maschile e quello femminile: il primo era commissionato dai governi o dalle compagnie commerciali, il secondo era spontaneo e generalmente dettato da una sete di sapere personale.

La diversità si riflette anche nel bagaglio?

Certo. Basti pensare all’orientalista Giuseppe Tucci, grande viaggiatore e studioso italiano che – scopriamo dai suoi diari – era partito per il Tibet con una ricca attrezzatura, mentre nello stesso periodo Alexandra David-Néel raggiunge Lhasa con un fagottino.

Chi erano le esploratrici?

Erano donne come altre, forse con un pizzico di coraggio in più, con uno spiccato desiderio di conoscenza che le spingeva ad abbandonare tutto e scoprire il mondo. Alcune intraprendevano un viaggio religioso, perché era più semplice giustificarlo agli occhi della famiglia, per poi appassionarsi e diversificare le mete. Solitamente, appartenevano a un ceto medio-alto con una discreta istruzione, anche se non manca qualche operaia. Molte viaggiavano con il marito, ma sono tante anche quelle che hanno viaggiato da sole, in condizioni difficilissime.

Mary Montagu ha scritto: “Il mondo raccontato dagli uomini è vero solo a metà”. C’è differenza tra sguardo maschile e femminile?

Sicuramente i resoconti di viaggio sono molto diversi.

Quelli redatti dagli uomini sono più tecnici, quelli scritti dalle donne sono più particolaristici e maggiormente attenti alla dimensione sociale.

Mary Montagu era una viaggiatrice inglese, che nel primo Settecento ha raggiunto Costantinopoli insieme al marito ambasciatore. È la prima ad accorgersi che le donne turche praticavano l’inoculazione del vaiolo ai loro figli, pratica che lei descrive minuziosamente e porta in Inghilterra.

Nessun viaggiatore prima di lei lo aveva notato. Gli uomini hanno sicuramente scoperto il mondo, ma le donne hanno arricchito questa conoscenza con dettagli che prima non erano emersi.

Questo è stato apprezzato?

Sì, anche se forse le donne sono state più stimate come scrittrici che come geografe. Ancora oggi è più facile trovare una donna impegnata nei servizi sociali piuttosto che nell’urbanistica all’interno di un’amministrazione pubblica: la conoscenza e la gestione del territorio è ancora questione di potere, e pertanto in larga misura nelle mani degli uomini. Ma il cammino femminile, anche se lento, sicuramente continua.

 

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

di Paola Rinaldi

Se il viaggio avesse il volto di una donna, probabilmente l’ovale di Ida Pfeiffer sarebbe quello che gli somiglia di più.

Nata a Vienna nel 1797, sin da piccola, Ida divorava libri che parlavano di evasione, irrequietezza, cambiamento, viaggio come uscire “fuori” dal quotidiano. Quinta di sei fratelli, a soli 9 anni si ritrova ad affrontare il dolore per la morte prematura del padre e, a 22 anni, viene costretta dalla madre a unirsi in matrimonio per convenienza con un vedovo, molto più anziano di lei, dal quale ha due figli e dal quale si separa. Nel frattempo, in lei cresce il desiderio di conoscere il mondo: studia le lingue, le mappe geografiche, le piante, gli usi e i costumi dei popoli.

Intorno al 1842, ormai quarantacinquenne e madre di due figli diventati adulti, inizia a girare il mondo per soddisfare la sua curiosità e allontanarsi dalla limitata realtà femminile viennese. Siccome in quell’epoca l’unico pellegrinaggio consentito alle donne era quello in Terra Santa, Ida sceglie Gerusalemme, ma in circa nove mesi tocca anche Egitto e Malta. Da quel momento, il suo amore per i viaggi è siglato per sempre: la viaggiatrice solitaria percorre oltre 140 mila miglia marine e 20 mila miglia inglesi via terra.

Tra le regioni visitate c’è anche l’Oriente: Ida decide di andare controcorrente e visita di persona quella terra di sogni e spiritualità che aveva conosciuto solo attraverso la lettura. “In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò”, scrive nel suo diario di viaggio.

Da Smyrna il viaggio continua via mare per Rodi, Cipro e Beirut.

Donna coraggiosa e tenace, Ida intraprende cinque lunghi viaggi nella sua vita. In Egitto, visita le Piramidi di Giza e impara a cavalcare un dromedario; in Islanda preleva campioni di piante e rocce che, secondo alcuni racconti, ha successivamente venduto ad alcuni musei; in Brasile, visita la foresta pluviale per conoscere le condizioni di vita degli indigeni, usando i loro mezzi di trasporto. I suoi pellegrinaggi la portano dappertutto e le permettono di scrivere tredici diari, tradotti in sette lingue, ricavati dagli appunti che ogni notte scriveva a matita per raccontare la giornata appena trascorsa.

Muore a Vienna, poco tempo dopo essere rientrata dal suo ultimo viaggio in Madagascar.

Quello di Ida Pfeiffer ricorre più di ogni altro nome femminile nella documentazione ufficiale della geografia ottocentesca, persino in pubblicazioni sino ad allora “antifemministe” come quelle della Società geografica di Parigi e di Londra. In uno dei suoi due lungi giri intorno al mondo (uno intrapreso nel maggio 1846 per due anni e sette mesi, il secondo effettuato tra il marzo 1851 e il maggio 1855), riesce a entrare in un noto villaggio di cacciatori di teste del Borneo, raccontato in maniera dettagliata nei suoi resoconti.

Ida dimostra una grande maturità culturale, perché – se per chiunque sarebbe stato difficile giudicare con freddezza il rituale di quei popoli – lei ha la freddezza di asserire: “Ci meravigliamo tanto di questa pratica, ma quante teste sono appese nei saloni di Versailles?”. Come dire: “Quante guerre e quanti morti sono costati i nostri palazzi e i nostri agi?”.