Tre manifesti sul futuro dell’umanità

di Paolo Repetto, 3 novembre 2022

Tre manifesti copertina

Sentiamo che il mondo antico sta per finire, ma come sarà quello nuovo? I più grandi intelletti di oggi non sono in grado di prevederlo, esattamente come quelli dell’Antichità non erano in grado di prevedere l’abolizione della schiavitù, la società cristiana, l’invasione dei barbari e tutti i grandi eventi che hanno trasformato il volto terrestre.
(Alexis de Tocqueville)

Due letture recenti mi riportano ad un argomento che ho già trattato in più occasioni (cfr. soprattutto La discesa dal monte analogo). Temo però di averlo fatto piuttosto confusamente, e provo allora ad affrontarlo per l’ennesima volta cercando di essere più chiaro (e di chiarire le idee in primo luogo a me stesso).

Gli scritti che mi hanno offerto lo spunto sono molto diversi. Il primo è un “manifesto” redatto in stile futurista, comparso sulla rivista on line “L’indiscreto” il 14 settembre col titolo “Incivilizzazione”. Anche il secondo si presenta come “Manifesto del grande risveglio”, ma il titolo ufficiale è “Contro il grande reset” e ha la struttura di un vero e proprio pamphlet. Il terzo è un saggio pubblicato a inizio anno da Aldo Schiavone, intitolato “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che ho letto solo pochi giorni fa.

L’idea di un intervento era già nata in realtà dopo la lettura del primo, ma avevo in mente solo una ironica demolizione; l’incontro con Dugin e il libro di Schiavone mi hanno invece convinto a tentare un approfondimento più serio. Spero non riesca soltanto più pesante.

I tre testi viaggiano a livelli assolutamente diseguali, per valore e per profondità nella trattazione, e un raffronto alla pari non avrebbe alcun senso: ma tutti e tre si prestano altrettanto bene al mio scopo, perché consentono di mettere a fuoco poli diversi, addirittura opposti, dell’atteggiamento nei confronti della civilizzazione “occidentale”, della razionalità e, implicitamente, del futuro della nostra specie. Cerco quindi di trattarli come “documenti”, testimonianze significative di come una stessa atmosfera possa essere interpretata con disposizioni antitetiche.

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Incivilization: The Dark Mountain Manifesto è uno scritto relativamente breve pubblicato nel 2009 da Paul Kingsnorth e Dougald Hine, per annunciare l’inaugurazione del The Dark Mountain Project. I due militano nella galassia tanto diffusa quanto confusa degli eco-integralisti d’oltreoceano. Nel testo fanno riferimento costante, come ispiratore e nume tutelare del progetto, al poeta Robinson Jeffers, popolare negli anni ‘20 e ‘30 nella cerchia dei bohemiens e dei letterati che affollavano le coste californiane (era un amico di George Sterling e di Edgar Lee Masters, e per un certo periodo ha frequentato anche D.H. Lawrence), ma quasi sconosciuto al di fuori di quel giro (malgrado una sua foto sia stata pubblicata sulla copertina della rivista Time, cosa piuttosto rara per un poeta, e il suo profilo compaia su un francobollo del servizio postale). Conviene partire direttamente da lui.

Jeffers era un personaggio singolare, capace di costruire con le proprie mani una casa con tanto di torre tutta in pietra (“Cercate le fondamenta di granito levigato dal mare,/ le mie dita conobbero l’arte/di sposare pietra a pietra, troverete alcuni resti”), quella che compare nella immagine di apertura, e di vivere poi in essa un’esistenza appartata e austera, ma anche attento ad alimentare il mito che attorno a questa casa e a questa esistenza si andava creando. Ha esercitato senza dubbio una grande influenza sugli scrittori ambientalisti della generazione successiva, come Edward Abbey e Gary Snyder, ma anche Bukowski, cui dell’ambiente non importava un fico, lo idolatrava. (“Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”) Negli anni settanta-ottanta è stato poi ripescato dalla cultura new-age, continuando però ad essere un autore di nicchia: e per quello che conosco della sua opera mi pare destinato a rimanere tale. Al momento le uniche sue raccolte poetiche tradotte in italiano sono “La bipenne e altre poesie” (1969) e “Cawdor” (1977: è in realtà un vero e proprio poema “epico”), e non hanno suscitato particolari entusiasmi.

Al di là delle eccentricità e dei meriti, però, ciò che davvero qui importa di Jeffres è l’appartenenza ad una tradizione “nobile” della cultura statunitense, che vede tra gli antesignani ottocenteschi personaggi come Thoreau, Muir e soprattutto Ralph Waldo Emerson e i “trascendentalisti”, e che predica un rapporto completamente diverso con la natura, empatico anziché antagonistico. Alle spalle di questi proto-ecologisti c’era un sentire religioso profondo, lontano da quell’ipocrita dogmaticità ecclesiale alla quale gli uomini del nuovo mondo avevano voluto sottrarsi: davanti a loro c’era una natura ancora incontaminata, spazi immensi e solitari nei quali il rapporto col trascendente si imponeva immediato e che andavano salvaguardati dalla colonizzazione distruttiva delle attività umane. Sulla spinta di questa tradizione sono nati infatti i primi grandi santuari naturalistici, come Yellowstone o Yosemite.

Jeffers ne ha ereditato entrambi i presupposti di base, ma è poi andato oltre. Ha predicato una sorta di panteismo che mescola la scienza e il culto mistico della bellezza della natura, nella “convinzione che l’umanità sia troppo egocentrica e troppo indifferente alla sorprendente bellezza delle cose”: e ha coniato per il suo atteggiamento la definizione di “inumanesimo”. Lo definiva esplicitamente come “…uno spostamento dell’enfasi e del significato dall’uomo al ‘non uomo’; il rifiuto del solipsismo umano e il riconoscimento della magnificenza transumana…”.

Per dare voce a questo atteggiamento la sua poesia si compiace di immagini brutali, indulge alla descrizione della violenza (stiamo parlando di un secolo fa: oggi gli stomaci dei lettori sono abituati a digerire ben altro), insiste su un atteggiamento misantropico e su un pessimismo esasperato e addirittura auspica un suicidio liberatorio (per la natura) dell’umanità. E a questo si è voluta attribuire la sua limitata fortuna critica e di pubblico.

In realtà credo che la ragione sia un’altra. L’ambizione di Jeffers era di ridare alla poesia un respiro epico, sul modello del “Paradiso perduto” di Milton, e per farlo era necessario usare una franchezza aspra, creare emozioni ma anche accompagnare con la suggestione di immagini forti il pensiero: “La poesia racchiude ed esprime il tutto, come la prosa non potrà mai. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito… La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte ugualmente valide e allo stesso tempo creando.” La sua era evidentemente una cifra poetica controcorrente, in un’epoca nella quale i suoi contemporanei (da Eliot a Pound agli ermetici italiani) adottavano un linguaggio elitario e infarcito di difficoltà; e quella poetica Jeffers l’ha perseguita con coerenza e in sprezzante solitudine lungo tutta la sua carriera, infischiandosene delle mode e delle correnti, e anzi, bollando l’uso escludente della parola come puro manierismo.

Jeffers leggeva effettivamente la storia dell’umanità tutta in negativo. Era attratto dalla scienza, ma giudicava devastanti i suoi risvolti pratici, la tecnologia sfuggita al controllo. Disprezzava la politica, ma non esitava a prendere posizioni radicali e impopolari (come quella del pacifismo isolazionista all’epoca della seconda guerra mondiale). Questo modo di sentire non era comunque a suo parere né misantropico né pessimista. Piuttosto consentiva “un ragionevole distacco come regola di condotta, invece di amore, odio e invidia … offre magnificenza all’istinto religioso”.

La verità è che Jeffers non nega la violenza né la esalta: la analizza come un dato di fatto, come la caratteristica fondamentale del vivere. Lo fa da un punto di vista “materialistico”, che contrappone a quello “umanistico”. “L’umanesimo ci insegna meglio perché soffriamo, ma il materialismo ci insegna a soffrire”. Scrive: “L’universo esterno divino non è in pace con se stesso, ma pieno di tensioni e violenti conflitti. Il mondo fisico è governato da opposte tensioni. Il mondo delle cose viventi è formato da una lotta continua e da desideri irriconciliabili. Il dolore è una parte essenziale della vita”. Per “materialismo” intende quindi la coscienza darwiniana della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza.

In sostanza. Per Jeffers il dolore non è stato introdotto in una preesistente serena armonia del cosmo dalla trasgressione umana: quella che è stata introdotta è invece la percezione come dolore di un conflitto che è di per sé intrinseco alla natura. Questa percezione l’uomo non l’accetta, e cerca di liberarsene modificando l’ordine delle cose, abusando quindi dell’ambiente e degradandolo. E non si limita a trasformare la terra, ma la distrugge, condannando la sua stessa specie all’estinzione. In questo senso l’uomo è il peggiore di tutti gli animali, il più dannoso e il più scriteriato. La sua è un’intelligenza malata: attraverso la presunzione razionalistica e le sue ricadute tecnologiche si stacca sempre più dalla natura, e nel contempo però non può non riconoscere la sublime bellezza di quest’ultima, nella quale intravvede l’opera di Dio; ma, ed è questo il paradosso, anziché riconciliarsi con essa è ulteriormente spinto, proprio dalla straziante coscienza di quanto sta perdendo, alla crudeltà e all’autodistruzione. Ciò vale tanto più per i popoli presso i quali il processo di “civilizzazione” è più avanzato, ovvero per la civiltà occidentale, che è avviata ad un palese declino, travolta dall’egoismo, dalle guerre, dalla mercificazione.

E così, solo una volta scomparso l’uomo l’armonia cosmica si ricomporrà, in un’altra forma, ma non ad un livello inferiore. Nel farci capire ed accettare tutto questo la poesia ha un ruolo determinante, e al poeta va tributato un religioso rispetto (che il poeta deve guadagnarsi resistendo alle tentazioni del successo e della fama: “Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta/ Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi/ Che l’uccidono. Un poeta è colui che sa ascoltare/ La natura e il proprio cuore; e se il frastuono del mondo lo circonda, se è forte saprà sbarazzarsi dei nemici./ Ma degli amici no”.

La coerenza di Jeffers non è forse stata così totale come le sue stesse parole chiederebbero, altrimenti non saremmo qui a parlarne: il mio problema con lui non è però questo, non ho il diritto di essere così integralista. Il problema sta nel fatto che la sua poesia, pure così chiara e diretta, lascia comunque spazio sia a interpretazioni forzate (il Bukowski di cui sopra) sia ad una degustazione puramente “estetica”, per amanti dei sapori forti. Chiama insomma ad essere testimoni passivi del naufragio, o addirittura a compiacersi della violenza delle onde. E non sono del tutto sicuro che nel profondo Jeffers la pensasse davvero così: probabilmente delle onde aveva anche paura.

Una curiosità: Jeffers è quasi omonimo di un altro letterato ambientalista, appartenente però alla tradizione inglese, Richard Jefferies, grande camminatore, naturalista ed esploratore delle campagne britanniche, nonché autore di un romanzo post-apocalittico, “Dove un tempo era Londra” (1885. cfr. il mio Pensare con i piedi). Quest’ultimo immagina che dopo una improvvisa catastrofe, della quale non viene precisata la natura, il paesaggio inglese venga riconquistato dalle foreste, che si mangiano tanto la campagna quanto le strade e le città, e Londra sia ridotta ad una palude venefica. Non so se Jeffrers l’abbia mai letto, non mi risulta che lo abbia citato, ma credo che questa prospettiva gli sarebbe piaciuta.

Tre manifesti 03

Mi sono soffermato a lungo su Jeffers perché gli estensori del manifesto del Dark Mountain Project non si sono sforzati molto: hanno ripreso pari pari la sua visione, aggiornandola alle attuali emergenze ambientali, economiche e politiche. In effetti avevano solo l’imbarazzo della scelta. Cerco comunque di riassumere il loro testo attraverso i passi più significativi.

Il Manifesto parte appunto dalla presa d’atto delle radicali trasformazioni in corso:

Tutt’intorno a noi avvengono cambiamenti che suggeriscono come il no stro modo di vivere stia già passando alla storia. Stiamo cadendo. Viviamo in un’epoca nella quale i limiti cui siamo abituati stanno scomparendo, e le nostre fondamenta ci vengono strappate da sotto i piedi. Dopo un quarto di secolo di noncuranza, durante il quale siamo stati spinti a credere che la bolla non sarebbe mai esplosa, i valori mai crollati, ecco la fine della storia … La Hybris ha ora la sua Nemesi. […] Una storia a noi familiare si sta concludendo. È la storia dell’impero che crolla dall’interno. È la storia di un popolo che ha creduto, per molto tempo, che le proprie azioni non avrebbero avuto conseguenze. È la storia di come quel popolo dovrà fare i conti con la fine del proprio mito. È la nostra storia.

Mentre scriviamo queste righe, nessuno può dire con certezza quando finirà lo sfaldarsi del tessuto finanziario e commerciale della nostra economia. Nel frattempo, fuori dalle metropoli, lo sfruttamento industriale incontrollato sgretola le basi materiali della vita di moltissime parti del mondo, e grava sul sistema ecologico che la sostiene.”

Vengono poi messi in discussione i plinti di fondazione della civiltà:

“La civiltà umana è una costruzione particolarmente fragile. È costruita su poco più che una semplice convinzione: la certezza che i propri valori siano quelli giusti; la fede nel suo sistema di leggi e ordine; la fede nella sua valuta; ma al di sopra di tutto, probabilmente, la fede nel suo futuro.”

Queste convinzioni sono state riassunte e rielaborate, soprattutto nel mondo occidentale, in una narrazione mitologica che ha come protagonista il progresso. La storia di questa mitologizzazione passa attraverso successive declinazioni dell’utopia razional-capitalistica:

“Sulle radici della cristianità occidentale, l’Illuminismo all’apice del suo ottimismo ha innestato una visione del paradiso terrestre, cui le gesta umane, guidate da calcolo razionale, potranno condurci. Grazie a questa guida, ogni generazione vivrà una vita migliore di quella che l’ha preceduta. La storia diventa un ascensore, e l’unica via possibile è verso l’alto. All’ultimo piano c’è la perfezione umana: è fondamentale che questa rimanga fuori portata quel tanto che basta al fine di sostenere l’illusione del moto.”

La storia recente, invece, ha dato un duro colpo a questo meccanismo.

“Il progresso ha, in molti modi, fallito nel suo tentativo di produrre benessere. Le generazioni di oggi sono evidentemente meno soddisfatte, e di conseguenza meno ottimistiche, di quelle che le hanno precedute. Lavorano di più, con meno garanzie, e hanno meno possibilità di lasciarsi alle spalle il contesto sociale nelle quali sono nate. Hanno paura del crimine, del collasso della società, dello sviluppo incontrollato e della catastrofe climatica. Non credono che il futuro sarà migliore del passato.”

E allora? Allora “è tempo di cercare nuovi percorsi e nuove storie, che ci conducano attraverso la fine del mondo per come lo conosciamo, fuori da esso. Pensiamo che mettendo in discussione le fondamenta della civilizzazione, il mito della centralità umana, il nostro immaginario isolamento, possiamo trovare i principi di questi percorsi.

Questo è il Dark Mountain Project. Inizia qui.”

Tre manifesti 04

Uno si aspetterebbe a questo punto lo spiegone che illustra le virtù della nuova società darkiana e indica le vie per instaurarla. Ma rimane deluso. La caduta di tono è repentina e ridimensiona drasticamente le aspettative.

“Dove finirà? Nessuno lo sa. Dove condurrà? Non ne siamo certi. La sua prima incarnazione, avviata assieme a questo manifesto, è un sito web, che indica la strada per i campi. Conterrà riflessioni, scarabocchi, schizzi, idee; lavorerà sull’Incivilizzazione, e inviterà, chiunque verrà, ad unirsi alla discussione.

Gli estensori del manifesto sembrano aver esaurito le forze e le idee nell’anamnesi: per la terapia tagliano corto e si affidano agli otto principi fondamentali dell’“incivilizzazione”.

  • Viviamo in un tempo di disfacimento sociale, economico ed ecologico. Attorno a noi si affollano le avvisaglie che il nostro intero modo di vivere sta già passando alla storia. Affronteremo con franchezza questa verità e impareremo a conviverci.
  • Rifiutiamo la fede nell’idea che le crisi convergenti dei nostri tempi possano essere ridotte a un insieme di ‘problemi’ bisognosi di ‘soluzioni’ tecnologiche o politiche.
  • Crediamo che le radici di queste crisi si trovino nelle storie che ci siamo raccontati. Intendiamo mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà: il mito del progresso, il mito della centralità umana e il mito della nostra separazione dalla ‘natura’. Tali miti sono ancor più pericolosi poiché abbiamo dimenticato che lo sono.
  • Vogliamo riaffermare il ruolo della narrazione come qualcosa di più di un mero intrattenimento. È attraverso le storie che intessiamo la realtà.
  • Gli umani non sono il senso e lo scopo del pianeta. La nostra arte avrà inizio con il tentativo di porsi al di fuori della bolla umana. Con prudente attenzione rientreremo in contatto col mondo non umano.
  • Vogliamo celebrare la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo. La nostra letteratura è stata troppo a lungo sotto il controllo di coloro che abitano le cittadelle cosmopolite.
  • Non ci perderemo nell’elaborazione di teorie o ideologie. Le nostre parole saranno elementari. Noi scriviamo con lo sporco sotto le unghie.
  • La fine del mondo per come lo conosciamo non è la fine di tutto il mondo. Insieme troveremo la speranza oltre la speranza, i percorsi che conducono al mondo sconosciuto davanti a noi.

Vediamo allora di ricapitolare. Né Jeffers né tantomeno gli autori del manifesto della Montagna Nera dicono qualcosa di realmente nuovo. Rientrano come già dicevo nella tradizione apocalittica di matrice biblica, che in America, dai Padri pellegrini in poi, ha trovato espressione in una miriade di sette millenariste. La novità sta semmai nel fatto che non contemplano una via di fuga, un eskatòn, ma predicano il ritorno e la resa incondizionata alle leggi di natura. Il legame più diretto, segnatamente per Jeffers, è con i trascendentalisti: come questi ultimi ritiene che l’unica via praticabile dall’uomo per riconciliarsi con se stesso sia quella estetica: nel confronto estetico con la Natura, dinanzi alla sua Bellezza, l’uomo ritrova la propria dimensione spirituale (“Un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti” scriveva Walt Whitman): ma, a differenza che per i trascendentalisti, l’infinita varietà della natura e delle sue forme lo rende anche consapevole della propria irrilevanza e della transitorietà della specie umana. Non lo lascia estatico, ma sgomento e arrabbiato.

Su questa tradizione s’innestano via via, a partire dalla fine dell’Ottocento, da un lato il buddismo importato d’oltreoceano (Pacifico) e rivisitato all’americana (ovvero accentuandone l’individualismo e spettacolarizzandone la ritualità), dall’altro gli echi del pensiero filosofico post-nietzschiano che giungono dall’Europa (il poema Cawdor di Jeffers è pubblicato dieci anni dopo Il tramonto dell’Occidente di Spengler e arriva un anno dopo Essere e tempo di Heidegger). Il tutto dà origine a un singolare e contradditorio miscuglio di religiosità biblica e di sentire panteistico, di misticismo e di nichilismo, di umiltà professata e di presunzione di sé praticata.

Il fatto è che gli americani non hanno alle spalle una storia “profonda”, e tantomeno una mitologia originaria di fondazione. Hanno dovuto reinventarsene una, adattando alla nuova situazione la narrazione biblica, per giustificare il possesso di terre espropriate ad altri (il mito della frontiera) e trovare conferma ad una concezione assolutamente individualistica della libertà. Per questo sono i maggiori mitopoieti dell’età moderna e si esprimono con un linguaggio enfatico che trova supporto nelle nuove modalità espressive, a partire dal cinema (dove un incidente stradale non può vedere coinvolti e distrutti meno di dieci veicoli e una sparatoria non può durare meno di un quarto d’ora). Enfatizzano alla stessa maniera infantile i sentimenti, le tragedie, la malvagità, il coraggio, e ogni aspetto della quotidianità.

Per lo specifico del nostro discorso è esemplare il caso della Tor House, la dimora in pietra di Jeffers, divenuta meta di pellegrinaggio per i suoi ammiratori. In fondo Jeffers ha fatto solo ciò che milioni di pionieri avevano fatto prima di lui, senza peraltro vedere in ogni blocco angolare la mano di Dio. La vita sobria e appartata (sino ad un certo punto) che vi conduceva rimandava a sua volta all’esperienza naturistica di Thoreau, alla capanna che quest’ultimo aveva costruita con le proprie mani nei boschi di Concord e nella quale aveva dimorato per due anni, due mesi e due giorni. Quella capanna è diventata, attraverso le pagine di Walden, l’icona della scelta di una vita rude e solitaria, quando nella realtà non distava più di un miglio dal villaggio (Thoreau avrebbe potuto benissimo andarci a piedi ogni mattina per bere un caffè alla locanda). Entrambe queste esperienze sono state trasmesse dai protagonisti già circonfuse di un’aura ascetica e sapienziale, e come tali sono state poi consacrate dai lettori–spettatori.

Ci insisto perché so di cosa parlo. Anch’io ho costruito un capanno con le mie sole mani (senz’altro più ampio della dimora di Thoreau), e ho tirato su lì attorno decine di metri di muri a secco e posato rustiche pavimentazioni, ma non ho sentito in alcuna delle pietre che sistemavo la presenza di Dio (al più ho visto qualche volta la Madonna, quando mi scivolavano su un piede o al termine di giornate particolarmente faticose). Né ho ritenuto di celebrare poeticamente o filosoficamente la cosa: ho scritto una paginetta sulle origini del capanno solo perché legate ad un aneddoto che mi sembrava divertente. E soprattutto, la bellezza della natura circostante che mi fermavo ad ammirare nelle pause-sigaretta non mi ha mai indotto recriminazioni o violenza: mi ispirava anzi allora e continua oggi ad ispirarmi la determinazione a contaminarla il meno possibile. Sentivo di farne parte comunque, anche quando lavoravo sotto la pioggia o nelle giornate più roventi o afose.

Si sarà capito che ho scarsa simpatia per tutto ciò che puzza di cornici messe alle finestre per dire che sono quadri (in questo caso l’immagine si attaglia perfettamente). Per avere davvero un senso e una credibilità certe situazioni o vicende dovrebbero essere vissute come normali, non è il caso di scomodare l’epos. E lo stesso vale per le idee: non è certo l’incarto nuovo a renderle originali, ha semmai un valore riconoscerne i percorsi pregressi. Il tema dell’equivoco di fondo nel nostro rapporto con la natura era già centrale in Leopardi, sfrondato di ogni verniciatura mistica e pretesa epica; quello della necessità di reintegrarsi in essa stava alla base, oltre che del trascendentalismo americano, dei movimenti proto-ecologici fioriti anche in Europa, principalmente in Germania, agli inizi del Novecento (ma ben prima ancora era presente in Rousseau); le perplessità nei confronti della tecnica, e soprattutto dell’uso che l’uomo tende a farne, erano manifestate da quasi tutti gli scrittori di fantascienza venuti dopo Verne, da Robida a W.H. Hudson a Wells; le prospettive di degenerazione della democrazia erano state già lucidamente indicate da Tocqueville, le colpe del colonialismo e le ipocrisie della cultura occidentale denunciate da Conrad.

Insomma, tutte queste cose Jeffers non le ha spinte solo alle estreme conseguenze, ma le ha condotte in un vicolo cieco, travisando tra l’altro il succo del pensiero dei suoi ispiratori. Thoreau scriveva infatti: “Si dice che la civilizzazione è un reale progresso nella condizione dell’uomo – e io sono convinto che lo sia, anche se solo i saggi migliorano i loro vantaggi”). Jeffers non ne era evidentemente altrettanto convinto, avrebbe piuttosto condiviso con Cioran e con i professionisti del pessimismo l’idea che l’uomo è un intruso, un tragico errore dell’evoluzione, al quale la natura porrà rimedio. Vien da dire, come alla moglie del vescovo Wilberforce a proposito della nostra “discendenza” dalle scimmie: magari è proprio così, ma almeno non facciamolo sapere troppo in giro.

Gli odierni estimatori di Jeffers si fermano un po’ prima. Cercano la speranza oltre la speranza, vale a dire oltre quel poco o nulla cui oggi la scienza e la tecnologia ci consentono di guardare nella ricerca di una improbabile salvezza. E non riescono a trovare di meglio che “mettere a dura prova i racconti che sorreggono la nostra civiltà e restituire l’agire artistico a una pratica ‘incivilizzata’”. Nel fare ciò arrivano quantomeno in ritardo, da almeno un secolo la demolizione dei miti della modernità è diventata lo sport intellettuale più praticato. Se poi gli strumenti di demolizione sono la scrittura e l’arte radicate in un luogo e in un tempo (e cioè?) e praticate con lo sporco sotto le unghie da novelli costruttori di nuraghi, allora le generazioni di oggi hanno tutte le ragioni di non credere che il futuro sarà meglio del passato.

Tre manifesti 05

A questo punto può sembrare non valesse la pena prendere così sul serio il manifesto del progetto della Montagna Nera (e magari anche la poesia di Robinson Jeffers). Non è così. Il documento sarà pure patetico, non fosse altro per la sproporzione tra lo scenario apocalittico che dipinge e la miseria delle soluzioni che propone, ma fotografa perfettamente un atteggiamento molto diffuso nei confronti di un tema come quello della sopravvivenza della civiltà occidentale e, in seconda battuta, della specie umana (intendo quello più diffuso tra chi il problema se lo pone, perché in realtà la maggioranza dà l’impressione di non porselo affatto).

Al fondo di questa disposizione negativa sta una vocazione generalizzata al “risentimento”. Anche se nello specifico degli ambientalisti radicali alla Jeffers potrebbe sembrare il contrario, il loro è né più né meno l’atteggiamento di chi si ritiene perennemente in credito nei confronti della vita e del resto dell’umanità. Avremmo la possibilità di vivere in armonia con la natura, dicono, semplicemente accettandone tutte le leggi, anche quelle che ripugnano alla nostra ipocrita morale “civilizzata”: ma qualcuno o qualcosa ce la sta negando. Come in ogni situazione di crisi occorre identificare i responsabili (i capri espiatori di cui parla René Girard), e responsabili sono naturalmente sempre “gli altri”. Una volta poi individuato quel qualcuno o qualcosa su cui scaricare ogni colpa, ci si può sentire sdegnosamente innocenti. Si è compiuto il proprio dovere di Cassandre, Troia può ora tranquillamente bruciare. Nel nostro caso i capri espiatori sono, secondo una crescente scala di “consapevolezza” dettata dalle singole condizioni culturali ed esistenziali, le multinazionali, i “poteri forti”, il capitalismo, ma soprattutto la civilizzazione occidentale nel suo complesso; e l’imputazione è quella di aver sacrificato al proprio dominio l’armonia del cosmo e la libertà degli umani. Il perno di questa operazione di conquista essendo identificato nella razionalità, la soluzione è quella di liberarsi dai vincoli di quest’ultima. La vittima vera del “sacrificio rituale” che dovrebbe ristabilire gli equilibri, ripristinare l’armonia del cosmo violata, è dunque la ragione.

Non sono stato sconvolto dalla lettura del Manifesto, si tratta di cose trite e ritrite; ma ho avuto la conferma che questo modello di pensiero, a diversi livelli di articolazione, è ormai dominante nella maggioranza. Le tesi che gli estensori del documento banalizzano, e cioè che la civilizzazione, intesa nella sua accezione occidentale, sta portando il mondo allo sfascio, che il progresso scientifico e lo sviluppo tecnologico sono gli strumenti per imporre questo dominio e che le istituzioni democratiche sono la foglia di fico dietro la quale questo dominio si nasconde, sono le stesse sostenute con argomentazioni più complesse e raffinate da una élite culturale agguerrita, che opera al di qua e al di là dell’Atlantico e trova i suoi teorici più accreditati in pensatori come Foucault, Agamben, Negri, Severino, ecc. L’influenza di questa élite sul sentimento delle grandi masse non è naturalmente diretta, arriva attraverso la mediazione semplificatoria e spesso distorcente operata dai suoi epigoni telegenici alla Fusaro o alla Massimo Fini, da comici o da giornalisti in fregola di presenzialismo, da moderni Masanielli in cerca di una qualsiasi tribuna e da politici scafati pronti a saltare su ogni cavallo di passaggio: ma comunque arriva, si innesta su quel risentimento populista confuso e diffuso cui accennavo sopra e a giustificare il quale si parla genericamente di un “disagio” (che esiste davvero, ma è appunto soprattutto mentale, legato alla paura di fronte ad una complessità che appare incomprensibile).

In cosa si traduce questo risentimento? Lo vediamo quotidianamente, lo sentiamo tutt’attorno a noi: nella rabbia indiscriminata verso tutti, nel rifiuto di ogni responsabilizzazione, nel negazionismo pervicace, nella crescita del massimalismo che si accompagna alla volubilità nelle scelte politiche, nella rincorsa costante ai diritti e nella negligenza sui doveri, nell’irrisione delle competenze e nell’esaltazione dell’ignoranza “democratizzante”, nella sfiducia nei confronti della scienza e nella credulità superstiziosa, ecc… E poi ci sono altri sintomi che andrebbero colti, meno clamorosi ma non meno inquietanti.

Un banale esempio può valere per tutti. Negli ultimi mesi avrò visto cinquanta servizi sulle innumerevoli specie animali in estinzione, dal leopardo delle nevi alle foche monache e ai pesci del lago nel deserto, ma non uno sulle guerre che si stanno combattendo ad esempio nel sud-Sudan (oltre 80.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati), o nello Yemen. Direi che l’antropocentrismo contro il quale tuonava Jeffers è ampiamente superato, anche se ha lasciato il posto ad una consapevolezza pelosa, che tende piuttosto a escludere l’uomo dalla natura anziché includerlo. L’animalismo ha preso pieghe grottesche (lo psicologo per cani e gatti) e ha spinto fino all’assurdo quella negazione delle differenze che nell’interpretazione corretta era stata uno dei cardini della modernità.

Ma non è tutto. Ultimamente il dibattito sulle intelligenze non umane si è allargato a considerare, oltre quelle animali, anche quelle delle piante. A presto una carta dei diritti vegetali, e i decespugliatori saranno messi fuorilegge.

In compenso l’elenco delle specie a rischio prossimo di estinzione si allunga: ci siamo dentro anche noi. E non per eventi naturali, ma per suicidio da decerebrazione. Finisce cha il presagio di Jeffers si avvera.

Tre manifesti 06

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Tre manifesti 07a

Se la lettura del manifesto Dark Mountain mi ha solo un po’ infastidito, quella di “Contro il Grande Reset. Manifesto del grande risveglio” di Alexander Dugin mi ha lasciato perplesso e preoccupato. Perplesso perché si tratta di un documento decisamente rozzo, o che almeno appare tale in una traduzione che deve essere stata affidata ad un dispositivo digitale o ad un ubriaco, senza più essere rivista nelle bozze. Voglio credere che lo standard delle opere di Dugin sia diverso, altrimenti c’è da chiedersi cosa ci hanno trovato gli “intellettuali” italiani e francesi che da anni lo frequentano (va bene, uno è il solito Fusaro, ma anche Alain de Benoit è un suo assiduo). Probabilmente l’operazione di lancio è stata montata in tutta fretta, per sfruttare l’onda della visibilità offerta a Dugin dall’attentato nel quale è rimasta uccisa la figlia, ma già il testo originale era indubbiamente sbozzato con l’accetta. In copertina è anche annunciata una introduzione di Stefano Borgonovo, che evidentemente è poi saltata, per l’urgenza di mettere on line il documento o per qualche ripensamento del vicedirettore de “La verità” (ho dei dubbi: uno che scrive su “La verità” difficilmente si fa degli scrupoli); o forse più semplicemente perché c’era poco da spiegare.

Ed è proprio questo che mi preoccupa, perché le idee di Dugin, ancorché deliranti, sono terribilmente chiare (nel senso, naturalmente, che persino Borgonovo può intenderle), e l’argomentazione segue una logica elementare di contrapposizione tra cultura occidentale e “idea russa” (o, come vedremo, “eurasiatica”), nell’ottica di un dissolvimento della prima e di un trionfo della seconda. Che tanti occidentali, con una schiera di intellettuali in testa, trovino così affascinante questa idea mi porta a pensare che davvero il deragliamento sia già in corso.

Comunque, procediamo con ordine. Dugin adotta per la sua narrazione un percorso inverso a quello degli estensori del manifesto darkiano. Parte dalla situazione attuale, fa un salto indietro per andare alle origini di quello che definisce un “progetto di globalizzazione e disumanizzazione” e seguirne il percorso nel tempo e analizza infine gli strumenti per contrastarlo (tra i quali non è affatto prevista la poesia). Dal momento che lo fa molto sinteticamente, lascio il più possibile a lui la parola.

L’esordio è da grande complotto. Prende le mosse dal “Great Reset”, un piano che intendeva sfruttare le restrizioni in tempo di Covid per digitalizzare i processi produttivi e le attività sociali, sottoscritto a Davos dal principe di Galles, l’attuale Carlo III d’Inghilterra (il libello è stato scritto prima della scomparsa di Elisabetta, durante l’ultima emergenza pandemica, e non è stato aggiornato), nel quale si delineavano le strategie per avviare un futuro sostenibile.

Tre manifesti 07Nell’interpretazione di Dugin queste strategie sono intese in realtà solo a puntellare l’ordine esistente. “L’idea principale del Great Reset è la continuazione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti”. Gli obiettivi di fondo del diabolico disegno possono essere riassunti in:

  • Controllo della coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della “cultura dell’annullamento” — l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
  • Transizione a un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture industriali (punti 2 e 5);
  • Ingresso dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

Adesso sappiamo (più o meno) cos’è il Great Reset. Ma come si è arrivati a programmarlo? E chi c’è dietro? Lapalissiano: “Leader mondiali e capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri”. Il povero Carlo è quindi solo un prestanome, anche se in verità la famiglia reale inglese è chiamata volentieri in causa dagli smascheratori di complotti mondiali. Paga ancora il fio del colonialismo ottocentesco e dell’imperialismo del secolo scorso.

La prima mossa dell’offensiva globalista scatenata “dopo una serie di fallimenti” (l’11 settembre, l’elezione di Trump, il pasticcio afgano, ecc…) è stata la vittoria di Biden, che “ha strappato la vittoria a Trump utilizzando le nuove tecnologie, attraverso la ‘cattura dell’immaginazione’, l’introduzione della censura su Internet e la manipolazione del voto per corrispondenza.” Ma come abbiamo visto il globalismo aveva già approfittato dell’occasione offerta dalla pandemia. Infatti: “L’epidemia di Covid-19 è una scusa. Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale”.

Nello scacchiere geopolitico il piano si muove attraverso “una combinazione di ‘promozione della democrazia’ e ‘strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta scala’”. A tal fine “i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica) si coniugano con l’affermarsi di una politica militare aggressiva”.

La parte più intrigante del “Manifesto” arriva però adesso:

Per capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il ‘nuovo’ corso di Washington per il Great Reset, bisogna guardare l’intera storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.

Le radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi: alcuni riconoscevano l’esistenza del comune (specie, genere, universalia), mentre altri credevano solo in certe cose concrete — individuali, e interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione convenzionali puramente esterni, che rappresentano ‘suono vuoto’. Coloro che erano convinti dell’esistenza del generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di Aristotele. Vennero chiamati ‘realisti’, cioè coloro che riconoscevano la ‘realtà di universalia’. Il rappresentante più in vista dei ‘realisti’ era Tommaso d’Aquino e, in generale, era la tradizione dei monaci domenicani. I fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati ‘nominalisti’, dal latino nomen . La pretesa — ‘le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” ‘— risale proprio a uno dei massimi difensori del ‘nominalismo’, il filosofo inglese William Occam.”

Il progetto ha avuto dunque una quasi millenaria gestazione. Non è figlio della “modernità”, ma piuttosto della “occidentalità”. È nato già con lo “scisma d’Oriente” che nel 1054 ha lacerato la vecchia cristianità (e peraltro anche prima della nascita della Russia).

Sono interessanti le ascendenze che Dugin identifica. La modernità è per lui figlia del francescanesimo, un ordine religioso e un atteggiamento spirituale sempre prossimo alla devianza ereticale – e viene poi presa in carico e affermata dalle sette protestanti. È una lettura genealogica molto rozza, perché non distingue tra luteranesimo, puritanesimo e anabattismo, e non considera il fatto che gli anti-globalisti americani, quelli che più oltre identifica come i “resistenti trumpisti”, sono per lo più animati proprio dalla una fedeltà allo spirito originario del protestantesimo (pietisti, moravi, quaccheri, soprattutto anabattisti e mennoniti-amish, ecc) e arrivano da gruppi religiosi ultra-conservatori. Attribuisce inoltre alla chiesa ortodossa orientale, quella che fa capo al metropolita di Mosca, il merito di aver opposto la maggior resistenza al “nominalismo”. E in questo ha invece pienamente ragione.

Dugin si lancia poi in una cavalcata storica che copre quasi un millennio e chiarisce tutti i nodi fondamentali. “Il ‘nominalismo’ ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite.

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica del New Age (sic: immagino intenda dell’Era moderna) — nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

[…] La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione. L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor più dall’ortodossia), è stata sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Ciò ha creato un gran numero di sette protestanti controverse.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come ‘identità collettiva’ (qualcosa di ‘comune’), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti. La gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da indefiniti ‘cittadini’, secondo il significato originario della parola ‘borghese’. La borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea. Ma il borghese era esattamente il miglior ‘individuo’, cittadino senza clan, tribù, professione, ma con proprietà privata.

Fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero Romano d’Occidente, quale altra espressione di ‘identità collettiva’. Al suo posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una specie di ‘individuo politico’.

[…] La filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al liberalismo.

Il senso della storia e del progresso era ormai di ‘liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva’ fino al limite logico.

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Per tutto questo periodo il processo di globalizzazione ha proceduto lineare, ovviamente nei limiti consentiti dalle resistenze opposte dal vecchio mondo. La rivoluzione scientifica e quella industriale ne sono stati la mente e il braccio, e anche i grandi sconvolgimenti politici e sociali, le rivoluzioni inglese, americana e francese, rientravano nel disegno, anzi, ne hanno accelerato l’esecuzione. Le cose si sono invece complicate a partire dal secolo scorso.

[…] Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale. Questa strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore del comunismo), furono vinte [? Nell’originale sarà ‘vinsero’] le rivoluzioni proletarie.

Parallelamente ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze nazionaliste estreme. Hanno agito in nome della “nazione” o di una “razza”, sempre contrastando l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato, come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente. Ma erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Lo capirono chiaramente i teorici del liberalismo (Hayek e il suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di ‘nemici della società aperta’, e iniziarono con loro una guerra mortale “.

Da questa guerra nel corso del Novecento sia il comunismo che i fascismi sono usciti sconfitti. Per questo: “Negli anni ‘90, i teorici liberali iniziarono a parlare della ‘fine della storia’. Questa è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più avanzata: la fase del globalismo. L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori occidentali avevano vinto su scala globale.”

[…] “A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Innanzitutto il genere. Dopotutto, il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile. Quindi il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile. Gli oppositori esterni hanno ostacolato la politica di genere: quei paesi che avevano ancora i resti della società tradizionale, i valori della famiglia, Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista.

Con il successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso divenne ovvio che ai liberali restava un ultimo passo da fare: abolire gli esseri umani.

Dopotutto, l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere superato, abolito, distrutto. Questo è ciò che richiede il principio del nominalismo: una ‘persona’ è solo un nome, privo di qualsiasi significato, una classificazione arbitraria e quindi sempre discutibile. C’è solo l’individuo — umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Pertanto, l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato secoli verso il loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica. L’umano opzionale segue logicamente il genere opzionale.

[…] “Questa agenda è già prefigurata dal postumanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando ogni giorno più realistica. Futurologi e fautori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo futuro quando l’intelligenza artificiale diventerà paragonabile nei parametri di base agli esseri umani. Questo momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro dieci o vent’anni.”

Questa la trama. Lo schizzo storico che Dugin abbozza non è poi, per quanto sbrigativo, del tutto peregrino. Voglio dire che le cose sono andate grosso modo così, anche se poi Dugin legge l’accaduto con occhiali deformanti. E non è nemmeno particolarmente originale. Pesca un po’ dovunque nel pensiero occidentale, da Max Weber a Hegel fino a Heidegger e ai postmoderni più radicali, e cuoce il pescato nella pentola della tradizione slavofila. In sostanza, partendo dai danni reali che la civilizzazione occidentale ha prodotto, in parte come effetti collaterali indesiderati, in parte come distorsioni intrinseche alle scelte fatte – danni che stiamo scontando pesantemente, e che la cultura occidentale più consapevole ha comunque sempre denunciato – arriva a metterne in discussione tutto l’impianto. Che è più o meno quanto faceva Jeffers e quanto predicano i militanti della Montagna Nera, con la differenza però che Dugin prospetta una cura molto peggiore della malattia.

La cura è il “Grande Risveglio”. Che procede per gradi, con velocità diverse nelle diverse parti del mondo, ma già è visibile.

Riassumendo il quadro completo della situazione attuale Dugin ammette: “In effetti le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei ‘diritti umani’, le norme della ‘società civile’, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in particolare la tecnologia digitale — sono stati in qualche modo affermati in tutta l’umanità”.

Ma la storia non è affatto finita. La madre di tutte le battaglie deve essere ancora combattuta.

Il Great Reset ‘non è niente di meno che l’inizio dell’‘ultima battaglia’. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, appaiono a se stessi come ‘guerrieri della luce’, portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica, alle masse.

Tutti coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, ‘forze delle tenebre’. Così inizia a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso. I nemici della ‘società aperta’ ora sono comparsi all’interno della stessa civiltà occidentale.

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Sono immagini che, ribaltando un po’ (ma non troppo) i ruoli delle forze in gioco, evocano Il signore degli anelli e Guerre stellari, e ho l’impressione che soprattutto al primo siano debitrici (Tolkien è in fondo un alfiere della conservazione, anche se le ‘forze del male’ per lui venivano da Oriente). In realtà comunque i nemici della ‘società aperta’ non sono comparsi all’improvviso. Erano già presenti da un pezzo, ma si muovevano a ranghi sconnessi, senza avere un’idea ben precisa della natura vera dell’avversario, delle strategie da perseguire e degli obiettivi cui mirare. “Erano quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli statinazione e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata ‘populismo’ (o ‘populismo di destra’), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi ‘valori’ e ‘punti di riferimento’ nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo senso.

Certo, i campioni di questa resistenza non brillavano per la ricchezza del loro bagaglio culturale o per la finezza delle loro proposte, ma avevano il pregio di coinvolgere attivamente quelle masse popolari che il globalismo stava cloroformizzando:

“Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla nemmeno vicino al ‘prosciugare la palude’ e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante ciò, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance e Big Tech inseparabili da loro.”

In realtà: “Trump non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

[…] La forza trainante della mobilitazione di massa dei ‘Trumpists’ è diventata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.”

Per Dugin il fattore davvero importante e decisivo per il passaggio da una strategia di resistenza ad una di attacco è rappresentato proprio dall’emersione nel cuore nell’Occidente di un “nemico interiore”, dal quale “la storia degli ultimi secoli con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali è messa in discussione”.

Torna anche a sottolineare ripetutamente l’esistenza di un fronte esterno che si sta compattando, e che va dalla Russia di Putin alla Cina (Pechino ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà), al mondo islamico (nel quale tanto l’Iran sciita quanto la Turchia e il Pakistan sunniti hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione), all’Africa (sia quella mediterranea che quella subsahariana), e che comincia a coinvolgere anche l’India e il Sudamerica: ma ciò che davvero lo conforta nella sua visione è la nascita di un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.

Questo dualismo si fa strada anche nell’ambito intellettuale: “Sul piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accettato le paradossali conclusioni della postmodernità e del realismo speculativo”.

Ma bada a non insistere troppo su questo piano: “Il Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le masse, le persone in quanto tali. E il risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica. È una reazione spontanea delle masse, poco competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più spazio per le persone in futuro.

D’altro canto, quando deve citare qualche “autorevole” intellettuale schierato contro il Great Reset sembra in difficoltà. Si limita a dire che “Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Lo stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde”. Oppure cita Pat Buchanan, Richard Weaver e Russell Kirk, degli illustri carneade, o Alex Jones, che ha il solo merito di aver coniato lo slogan del “grande Risveglio”.

In realtà il materiale non gli mancherebbe, potrebbe pescare persino in Italia, ma preferisce insistere sul carattere spontaneista, genuino e popolare (o populista, termine che usa in una accezione positiva) del movimento: “La tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della protesta. Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza della sua fine imminente”.

Arriva ad ammettere che “Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non è affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi storica approfondita. Come abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti Trumpist e i partecipanti a QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel. La cospirazione è una malattia infantile dell’antiglobalizzazione. Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale. Nasce così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione liberale”.

Consapevole o meno (certo è difficile parlare di consapevolezza in presenza di QAnon), il Risveglio è comunque tangibile. E anzi, è favorito proprio dal sostrato povero ma genuino di cui si nutre:

Liberati da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno. Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali di portare a termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.”

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L’ultima parte del libello è dedicata alle prospettive di tradurre questa resistenza in vittoria.

“Il Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è nemmeno iniziato. Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, è di grande (forse cruciale) importanza.

Se c’è chi proclama il Grande Risveglio, per quanto ingenue possano sembrare le loro formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta maturando un nocciolo di resistenza, che cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Great Reset e i suoi seguaci. Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità. È l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e sulla direzione del futuro.

Ma andando poi sul concreto, Dugin deve ammettere che: “Naturalmente, il Grande Risveglio è completamente impreparato. Negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo. Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e comunisti sono state recentemente rilevate dai liberali e riorientate dal condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari”. Questo si chiama vederci chiaro.

Allo stesso modo “La destra, d’altra parte, è confinata nei suoi stati-nazione e nelle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione disperata.

Quindi c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica. Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse nei tempi moderni nello stesso Occidente.

Qualcosa di totalmente inedito, insomma. E tanto per cominciare questo qualcosa ha da scavalcare le logiche di contrapposizione bi- o tri-polari:

Per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità. Questa non è solo la salvezza dell’‘Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.”

In questa prospettiva l’esito dell’inevitabile confronto finale si rivela molto meno incerto. Una rapida carrellata su quelli che potrebbero diventare i poli del Grande Risveglio ribalta i rapporti di forza.

Si parte naturalmente dagli Stati Uniti, che sono già oggi essenzialmente “in uno stato di guerra civile. Sebbene lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori – 70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano preso la dittatura liberale come un dato di fatto. Sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di diventare illegali, ma un’opposizione di 70.000.000 di persone è seria”.

Pertanto: “Non importa come ci sentiamo nei confronti degli Stati Uniti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio. Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro compito comune”.

Si passa quindi all’Europa. “L’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due parti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, distruttori della cultura europea e becchini della classe media. Allo stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, a volte contraddittorie e frammentarie.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici: il definitivo superamento del confine tra Sinistra e Destra (cioè il rifiuto obbligato dell’‘antifascismo’ artificioso di alcuni e di ‘anticomunismo’ inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo integrale – in un modello ideologico indipendente”.

Per quanto concerne la Cina, “ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società. Ma non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva. L’individualismo cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale. La civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura su tutta l’individualità.”

Un grande serbatoio dal quale attingere odio antiglobalista è l’Islam. “Durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso assume questa missione. In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla globalizzazione liberale.” D’altro canto: “Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme.”

Infine: “Il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia (nessuno ne dubitava). Nonostante la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti dell’Occidente.

L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il passato ne era solo una preparazione. E in questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al liberalismo, la peste del ventunesimo secolo.

La Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo. L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico. Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale fissata nel nostro destino storico.”

Questa è la nostra missione: essere il katechon, ‘colui che trattiene’, impedendo l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali. Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano, africano… e europeo.

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Che dire? Il testo si commenta da solo (anche la foto sopra). Mi scuso se le continue e lunghe citazioni lo hanno reso di faticosa lettura, ma mi sembrava inutile parafrasare le argomentazioni di Dugin, dal momento che sono esposte già in maniera sintetica e tutto sommato abbastanza chiara. Mi limito pertanto ad aggiungere un’indicazione e un paio di osservazioni.

L’indicazione è per “L’idea russa”, di Bengt Jangfeldt, breviario indispensabile per chi volesse approfondire la storia profonda che sta dietro questo manifesto, a partire dal panslavismo ottocentesco. È un libro snello quasi quanto quello di Dugin, ma di ben altro “spessore”.

La prima osservazione riguarda l’uso o il non uso di determinati termini. In tutto il testo la voce Eurasia compare una sola volta. Eppure riassume l’idea di fondo di Dugin, per il quale la Russia è una realtà culturale e territoriale totalmente autonoma e sostanzialmente compatta, pur se insistente su due continenti diversi (i continenti sono una convenzione geografica). Forse non voleva forzare troppo la mano su questo concetto, che suppone un legame forte, sia culturale che storico-politico, con l’Oriente, e quindi una propensione espansionistica ed egemonica in quella direzione: cosa che non può suonare gradita né alla Cina né all’Islam, gli altri due grandi poli del Risveglio. Tra l’altro, in questo unico riferimento Dugin cita lo storico e antropologo Lev Nikolaevič Gumilëv (figlio di Anna Achmantova), che in realtà non attribuiva affatto al termine Eurasia un significato politico ma lo considerava solo un paradigma storiografico. Piuttosto, il riferimento a Gumilëv è significativo se si considera il concetto da questi coniato di ethnos, inteso come “un collettivo che si differenzia dagli altri per un proprio stereotipo comportamentale e contrappone sé stesso a tutti gli altri collettivi”. Definizione che si presta molto bene a spiegare l’idea che Dugin ha del popolo russo.

Un altro termine che nel testo non compare mai è razionalismo, pure aleggiando costantemente, sotto le specie del suo derivato applicativo razionalizzazione, dietro i progetti dei liberali globalizzanti. Credo che anche questa cosa abbia un senso: Dugin non vuole lasciare in appannaggio agli avversari il monopolio della ragione, e anzi tende a sottolineare la loro perversa devianza da quello che ne sarebbe un uso onesto e corretto: ma non può nemmeno farne la bandiera di un movimento che, per sua stessa ammissione, è nato ed è tuttora mosso da pulsioni irrazionali.

Allo stesso modo, non mette sotto accusa direttamente la scienza, se non per denunciarne l’uso criminale volto ad azzerare le coscienze e a sostituire l’uomo con un suo clone digitale. I richiami costanti all’impero e alla tradizione ortodossa non ne fanno un nostalgico reazionario, così come le strizzate d’occhio al trumpismo e a QAnon non ne fanno un complottista grossolano e ignorante: sono esche per la pesca a strascico, i primi ad uso interno, le seconde lanciate in acque internazionali: allo stesso modo in cui i riferimenti a Tommaso d’Aquino, ultimamente tornato di moda e non solo tra i teologi, lo sono negli ambienti culturali più all’avanguardia.

E ancora. Il termine “democrazia” compare nel testo sempre legato a “liberale”, in una accezione che l’aggettivo rende negativa, perché sta come “rappresentativa”. In luogo della rappresentanza democratica Dugin propone invece quella “comunitaria”: “L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – sebbene artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

Dugin ha in mente (altrove lo cita espressamente), il mir, l’assemblea di villaggio che nella Russia zarista gestiva tutti gli obblighi comunitari nei confronti dello stato, dalle esazioni fiscali al reclutamento per l’esercito. La rievoca a sostegno dell’immagine di un’identità russa che sino alla vigilia della prima guerra mondiale aveva resistito alle sirene della modernizzazione e dell’individualismo. L’idea che ha della democrazia non si scosta molto da quanto scritto da Massimo Fini – un intellettuale antisistema, come lui stesso si definisce – qualche settimana fa su “Il fatto quotidiano” (credo che i servizi russi di controinformazione abbiano sottoscritto l’abbonamento – e forse più di uno – al quotidiano di Travaglio):

Non credo alla democrazia rappresentativa (cfr. Sudditi. Manifesto contro la Democrazia). Credo solo alla democrazia diretta, quella immaginata del ginevrino Rousseau. La democrazia esisteva quando non sapeva di essere democrazia. Nell’ancien régime l’assemblea del villaggio, formata da tutti i capifamiglia, in genere uomini ma anche donne se il marito era morto, decideva su tutto ciò che riguardava il villaggio.” Che è una ricostruzione di quanto avveniva nell’ancien régime piuttosto fantasiosa.

Quella di Fini è solo una delle tante voci – non certo tra le più autorevoli, ma che trova comunque un suo non trascurabile uditorio tra gli indignati a vita e una cassa di risonanza negli organi della “controinformazione” antiglobalista, pentastellata o meno – che propugnano come nuovo (o antico) modello di socialità il comunitarismo. La nebulosa comunitaria offre il migliore spaccato del mare ideologico interno all’Occidente nel quale Dugin può pescare. Di comune c’è in realtà solo la concezione di massima per la quale l’individuo esiste in virtù delle sue appartenenze culturali, etniche, religiose o sociali, ovvero della sua possibilità di creare comunità. Questa concezione può poi essere declinata in varie maniere, che vanno dall’integralismo cattolico all’anti-illuminismo della Nouvelle Droite fino alla ibridazione col marxismo, più rozza in Costanzo Preve e più articolata in Andrè Gorz: e ha forti implicazioni, oltre che sul piano del rapporto individuale con le istituzioni (il concetto di cittadinanza attiva e di partecipazione politica è molto simile a quello della pòlis greca), su quello etico (ad esempio, rifiuta l’aborto).

A questo si riferisce evidentemente Dugin quando parla di una quinta colonna antiglobalista che sgretola dall’interno la “civiltà” occidentale.

La seconda osservazione concerne ancora il tema degli “apparentamenti”. Mentre leggevo il manifesto di Dugin provavo una sensazione di déjà vu, e mi è tornato in mente qualcosa di molto simile in cui mi ero imbattuto diversi anni fa. Ho verificato poi che si tratta della prolusione ad una Conferenza Internazionale sulla Depressione (svoltasi nel 2004). L’autore era il cardinale Javier Lozano Barragán, che al termine di una carrellata ancor più sintetica di quella di Dugin sulla storia del pensiero occidentale arrivava a riassumere così la situazione attuale:

Non vi è unità ma solo frammentazione. La società si trasforma in gruppi di simboli, associazioni, movimenti. La solidità del partito politico, ‘della comunità, della nazione, sono così sostituiti.

L’uomo radicale professa un individualismo totale, possessivo e anarchico; si manifesta in una serie di negazioni: è antifamiliare, antimilitarista, anticlericale, antipartito, antistatale. Alla sua spontaneità attribuisce un valore assoluto, con le conseguenze socio-politiche della liberazione sessuale, dell’omosessualità, del femminismo, dell’aborto, del divorzio, della lotta contro i manicomi, contro le carceri, contro i concordati, per l’abolizione dell’insegnamento religioso, ecc. È l’uomo dell’anticultura radicale.”

Le diverse valutazioni che il cardinale dava del peso da attribuirsi alle vicende storiche o alle successive correnti di pensiero non inficiano la sostanziale omogeneità dello schema di lettura adottato. Ad Occam ad esempio Barragán faceva appena cenno, ma per contrapporlo “ai grandi pensatori che culminano nella Scolastica”, in primis a proprio a Tommaso d’Aquino. Un modo elegante per liquidare il nominalismo, senza per questo tacerne l’influsso negativo. Lo stesso dicasi per gli esiti della riforma protestante. Certo, il documento non prendeva in considerazione il ruolo di ‘resistenza’ del cristianesimo ortodosso, che tanta importanza ha per Dugin, e lo attribuiva invece in toto alla Chiesa cattolica: ma insisteva comunque sull’effetto di disgregazione indotto dalla modernità, e in termini non molto diversi da quelli usati dall’ideologo russo.

Non credo che negli ultimi vent’anni la posizione del mondo cattolico militante sia cambiata molto, se non nel senso di essere diventata ancor più critica nei confronti della “globalizzazione capitalistica”. Questo spiega e “giustifica” le convergenze sul piano della politica internazionale con l’universo ex-sovietico, la comprensione per i regimi che si reggono sull’integralismo religioso, le posizioni filo-putiniane professate recentemente, a fronte dell’invasione dell’Ucraina, non solo dall’ala arroccata su postazioni preconciliari, ma anche da molti esponenti della base (condivise ad esempio dal nuovo presidente della Camera, assieme all’apprezzamento per la “coerenza” patriottica e antiliberale del metropolita di Mosca).

È ciò cui si riferisce Dugin quando afferma che nella battaglia contro il globalismo, per far decollare il Grande Risveglio, tutti i mezzi e tutti gli alleati vanno bene: non è importante partire da una piattaforma di idee comuni, ma identificare il nemico comune. A uniformare le idee e a stabilire i confini si provvederà dopo, e ciascuno degli insorgenti lo farà a casa propria e a modo suo (sempre che i confinanti glielo permettano). Come abbiamo visto sopra, quindi, si parli di “grande risveglio” (che è peraltro l’etichetta usata anche dai gruppi avventisti d’oltreatlantico), di rinascita spirituale collettiva, di Jihad o di sindrome complottista, il banco del quale Dugin aspira ad essere il pesce-pilota è ricchissimo, vi nuotano nella stessa direzione le specie ittiche più diverse, dai pescecani ai tonni. Ma soprattutto è decisamente sguarnito e scarsamente motivato quello dei suoi difensori, o almeno di quelli che pur riconoscendo la strumentale malafede dell’ideologia di Dugin non possono fare a meno di condividerne almeno in parte la lettura storica. Costoro si trovano a combattere su due fronti, stando nel bel mezzo dello scontro, senza vedere alcuna realistica via d’uscita. Non occorre essere apocalittici per capire che si annunciano tempi duri.

Tre manifesti 12

***

I due “manifesti” precedenti (ma a questo punto possiamo dire tre, comprendendo anche quello del cardinal Barragán) ci prospettavano diversi scenari possibili del crollo dell’occidente: il primo per implosione interna, il secondo per un attacco dall’esterno, il terzo per trasgressione delle leggi divine.

Aldo Schiavone non è così pessimista. Ne “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, che non è un manifesto ma ha la densità e le ambizioni di un vero saggio, vede le stesse cose che vedeva Jeffers e che vedono oggi gli “incivilizzati”, parte da constatazioni che sono proprie anche di Dugin, ma lo fa da un angolo prospettico e con una disposizione d’animo completamente diversi. Non potrò seguirlo passo dopo passo come in pratica ho fatto nei due casi precedenti, ma cercherò di ordinarne le tesi in una sequenza ordinata. Andrà persa la ricchezza delle argomentazioni, ma m’importa arrivare al nocciolo.

Già dalla prima pagina si capisce che Schiavone non è un catastrofista; non dice che il mondo va a ramengo, ma che è sempre più complicato viverci.

Viviamo in un mondo che non è mai stato così complesso e anche così caotico – di una complessità̀ che produce (tra molte altre cose) disordine – con due principali componenti che concorrono, sia pure non da sole, a determinare questi caratteri.

La prima è un prodotto delle nuove possibilità della tecnica, che mettendo in contatto realtà finora non comunicanti e anzi drasticamente separate – nello spazio e nel pensiero – ha moltiplicato reti di interazioni sempre più intricate e difficili da decifrare, creando un contesto che è estremamente arduo comprendere e padroneggiare.

La seconda è costituita dalla convivenza intorno a noi – quasi dovunque in Occidente, come esito del salto tecnologico – di due insiemi culturali e sociali del tutto disomogenei, ma intrecciati l’uno nell’altro, ciascuno dei quali condiziona e coinvolge in modo opposto: uno che sta sparendo – in maniera spesso dolorosa e a volte perfino cruenta – mentre l’altro sta appena cominciando a formarsi, e non ha ancora un volto ben definito, anche se già se ne avvertono la presenza e l’impatto.”

Il che significa che gli occidentali non sono sgomenti e passivamente rassegnati come vorrebbero tanto Dugin che Jeffers (sia la natura o siano altre culture a metterli sotto attacco), ma sono senz’altro sconcertati.

Prima di spiegarci il perché di questo sconcerto, Schiavone chiarisce cosa intende per Occidente: “Occidente si dice in molti modi, per lo più contrapposti. È una parte del mondo o la matrice di valori universali? Lo spazio in espansione della democrazia o quello del suo declino? La terra del tramonto o l’alba di un nuovo inizio?

Per Schiavone c’è intanto un Occidente geopolitico (il global North), che è definito in linea di massima dal maggiore sviluppo industriale, e di conseguenza dalla maggiore ricchezza individuale, sia pure distribuita inegualmente. Questi parametri sono al momento attuale invalidati dalla crescita rapidissima di altre potenze economiche, fino a ieri relegate nel global south, quello che una volta si chiamava terzo mondo: l’accezione “economica” va quindi perdendo rilevanza, perché corrisponde sempre meno alla reale situazione.

Il termine assume poi un secondo significato, che designa invece una categoria universale dell’incivilimento umano, una forma di civiltà. Questo Occidente – dice Schiavone – è “un insieme di cultura, acquisizioni tecnologiche, economia, rapporti sociali, modelli e valori politici e giuridici, stili di vita, sviluppatosi originariamente in Europa, poi trapiantato in America e diffuso nel mondo fino a presentarsi ormai come tendenzialmente delocalizzato”. Ed è a questo secondo significato che l’autore farà costante riferimento.

Ad una percezione superficiale, quella che tiene conto soprattutto dei parametri economici, vince l’impressione che al rapido scombussolamento in corso degli assetti economici corrisponda una crisi ben più profonda, quasi un crollo, della intera “civiltà” occidentale. Non è cosa nuova: già nella prima metà del Novecento, quando ancora l’Occidente dominava in pratica tutto il resto del globo, si moltiplicavano le voci di un suo imminente rovinoso collasso (Spengler per tutti, ma anche Freud o i francofortesi, o economisti come Schumpeter e sociologi come Revel, o distopisti come Orwell e Bradbury). “[…] Possiamo dire sin d’ora che in tutte le predizioni di declino o addirittura di rovina dell’Occidente c’è un tratto comune, al di là degli eventuali elementi di verità che in qualche caso possono contenere.” Il tratto comune sarebbe appunto l’aumento, divenuto esponenziale, della complessità.

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E tuttavia, a dispetto di eventi catastrofici (crisi economiche, conflitti mondiali, ecc.) il crollo non c’era stato, o non era stato comunque così rovinoso. Anzi, verso la fine del secolo, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, che per quasi l’intero secolo aveva rappresentato il principale competitor, il modello liberal-capitalistico era parso uscire definitivamente vincitore, così da far ricomparire un cauto ottimismo (espresso ad esempio da Fukuyama ne “La fine della storia”)

Le cose sono rapidamente cambiate dopo l’ingresso nel nuovo millennio: prima con l’11 settembre 2001, con la guerra in Afghanistan e la fine della “pace americana” nel mondo; poi con il dissesto finanziario ed economico esploso nel 2008; quindi con l’epidemia del Covid-19 e infine con la guerra nel cuore dell’Europa, il tema è tornato in voga. Sono cadute in pratica le certezze sul proprio ruolo-guida che l’Occidente aveva maturato nel corso degli ultimi cinquecento anni. Si sono dissolte sotto la spinta dei “risvegli” altrui, ma soprattutto per una esasperazione del sentimento autocritico che da sempre ha controbilanciato la presunzione di superiorità (persino un apologeta della civilizzazione occidentale come Arnold Toynbee ammetteva che “Nell’incontro fra il mondo e l’Occidente, in corso da ormai quattro o cinque secoli, la parte che ha vissuto un’esperienza significativa è stata finora il resto del mondo, non l’Occidente. Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall’Occidente”).

Per Schiavone il risultato è che si sta diffondendo “una sorta di sindrome occidentale […]; uno stato d’animo che ha dato origine a una vera e propria cultura della paura e della crisi […]; tensioni che, in alcuni ambienti e circostanze soprattutto europei, hanno assunto caratteri propriamente anticapitalistici e antiamericani […]; orientamenti riconducibili a una specie di fondamentalismo antitecnologico, che fanno coincidere la tecnica con l’Occidente […]; un illanguidirsi delle appartenenze e delle identificazioni nazionali; la maggiore permeabilità sociale e personale tra i generi […]; la minor presa dei legami familiari; la trasformazione dell’etica del lavoro […]; le nuove forme di solitudine […]; l’appannarsi e il relativizzarsi del sentimento religioso, e in specie della comune identità cristiana – paragonata al fervore dell’Islam […]”.

Sono elencati in pratica tutti quei sintomi che abbiamo visto comparire nei tre precedenti manifesti, segnatamente in quello di Dugin, ma che là erano letti “positivamente” come segnali di risveglio, o quanto meno di una presa di coscienza. Schiavone li interpreta invece come frutto di “una lettura (apologetica e nostalgica) del passato, trasformata in previsione e in giudizio (fortemente negativi) sul futuro”.

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Questa lettura “emotiva” è alimentata dalla deplorevole tendenza a trascurare gli studi storici a favore dei “cultural studies”, che alla ricerca di una sia pur imperfetta “oggettività” sostituiscono le interpretazioni delle vicende. La storia come la conosciamo e come veniva insegnata sino a ieri è accusata di essere una ricostruzione “occidentale”: ad essa viene opposta la “memoria storica”, che non è una disciplina, nel senso che non prevede il confronto sulla base di regole e criteri il più possibile oggettivi e condivisi. Ora, se i risultati del dibattito storico non danno la verità assoluta, ma almeno una verità sempre in fieri, le ricostruzioni operate sulla base della memoria ci rimandano ad esperienze singole o collettive che quasi mai sono state vissute e percepite allo stesso modo dagli altri protagonisti (e meno che mai dagli antagonisti). Si dice che la storia è scritta dai vincitori, ed è vero: ma è altresì vero che poi la correggono o la riscrivono gli storici, e che il compito di costoro è di arrivare, attraverso il confronto, ad una ricostruzione che regga il vaglio degli strumenti critici. In questo senso, con tutte le cautele del caso, si può affermare che la storia è una disciplina scientifica.

È la storia che ci può aiutare a capire, – scrive Schiavone – che può rendere possibile questo radicale ma indispensabile cambio di prospettiva, aperto sul futuro. Non soltanto la storia, probabilmente: ma lei di sicuro. Ed è innanzitutto un difetto di adeguata storicizzazione a impedirci di mettere nella giusta luce quel che si vede dal nostro oggi, e a farci confondere l’alba con il tramonto, l’incompiutezza con il declino. Quasi avessimo smarrito la capacità di connettere gli eventi secondo strutture di senso che solo se colte attraverso la loro storicità possiamo sperare di rappresentare nella loro completezza, e quindi di conoscere veramente. Come se la ragione delle cose che stanno accadendo avesse sovrastato la razionalità del pensiero che dovrebbe comprenderle: una condizione che se durasse a lungo, allora sì, che potremmo dire di essere perduti.

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A dire il vero, quella che emerge dal libro è una concezione non particolarmente scientista: sembra anzi riprendere la filosofia della storia hegeliana, in quanto Schiavone cerca nel futuro le chiavi per l’interpretazione del passato, anziché viaggiare in senso opposto (e va aggiunto che anche Hegel vedeva nell’Occidente – quello che era tale alla sua epoca, quello europeo – il principale motore della storia universale, o addirittura l’unico.)

Per l’autore “la storia correttamente letta ci insegna che l’umano ha un futuro. Questo è indubbio. Come è altrettanto indubbio che l’umano, non essendo vincolato a un’essenza in forza di una legge di necessità, sta cambiando e continuerà a farlo, a oltrepassarsi, in una dimensione post-umana che lo ha accompagnato non da oggi ma da sempre, in una lotta infinita con i propri limiti”.

Dopo quanto accaduto negli ultimi decenni l’Occidente sembra però avere persa la sua capacità di guardare avanti: “L’Occidente immagina il futuro o come un prolungamento indefinito del presente o come un luogo abitato da ansia e paura. Un luogo di incertezza e di peggioramento della propria condizione sociale ed economica. Un luogo di perdita di vita complessiva della propria dignità. Arroccati nella nostalgia di un passato ormai esaurito, perdiamo la direzione complessiva del processo in corso, il suo senso d’insieme.”

Questo accade proprio nel momento in cui si annuncia una trasformazione epocale. “E così non vediamo il salto di civiltà che abbiamo di fronte. Non sappiamo sintonizzarci alla svolta che viviamo. Orientarsi in questo intrico, venire a capo delle sue sconnessioni, è tutt’altro che facile. Come se fossimo finiti in una zona morta della nostra capacità di vedere.”

La svolta di cui Schiavone parla sta nel fatto che “oggi la storia evolutiva sta smettendo di essere un presupposto immodificabile e sta per diventare un risultato delle nostre scelte. Questo perché nel giro dei prossimi decenni, non dei prossimi secoli, avremo una capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla.”

È questa l’idea portante che attraversa tutto il libro. Quella del passaggio della nostra specie da una storia “naturale” – controllata soltanto dai meccanismi dell’evoluzione, quindi affidata alla biologia – alla storia “culturale”. Non è certamente un’idea nuova, ma qui viene spinta sino alle estreme conseguenze. D’altro canto, era un tema già presente diversi anni fa nel saggio più famoso di Schiavone, “Storia e destino”, e sta alla base anche di tutti i suoi studi successivi sulla natura del diritto. È “[…] il superamento della separazione tra storia della vita e storia dell’intelligenza. Le basi naturali della nostra esistenza smetteranno presto di essere un presupposto immodificabile dell’agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato dalla nostra cultura. Questo ricongiungimento, il passaggio dal controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente non è lontano […]”.

La storia “culturale” nasce con la comparsa della tecnica, anzi, è la storia di come la tecnica abbia modificato i rapporti dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, con la natura e con i suoi simili, ma soprattutto con se stesso e con il proprio destino. Perché la tecnica compare in funzione e a supporto di una progettualità, mirata ad un aumento del benessere e della sicurezza dei singoli e della specie: ovvero, compare associata all’idea di “progresso”.

L’idea di progresso – ci spiega Schiavone – esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Dentro un’idea positiva del futuro come progetto, come speranza, come proiezione in avanti delle nostre vite ecco che appare l’idea di progresso.”

Non va dunque liquidata come un rottame illuministico: “Oggi più che mai, noi come specie umana, abbiamo bisogno di recuperare una parola come progresso. Ne abbiamo bisogno perché quella parola ci consente di riappropriarci del futuro.”

Quel “noi”, prima ancora che all’intera specie umana, si riferisce agli occidentali. E qui sta la specificità della posizione di Schiavone. La fiducia nel progresso va recuperata innanzitutto da chi ne è stato sino ad oggi il principale interprete. Alla faccia della “cancel culture” dilagante, Schiavone rivendica all’Occidente un primato (anche se scrive: “non si tratta di rivendicare primati. E tanto meno di fissare gerarchie antropologiche, ma di riconoscere percorsi storici disuguali”). Perché “solo l’Occidente ha prodotto l’autonomia della scienza e la rivoluzione industriale”.

E aggiunge: “l’Occidente è definito dal proprio eccezionalismo perché è il continente delle idee e della libertà”.

La civiltà “eccezionale” che l’Occidente ha espresso è frutto della superiore capacità performativa della sua tecnica. Torna dunque l’annosa questione: la tecnica, proprio per lo stretto legame che immediatamente stringe con il capitale, ma anche a prescindere da questo, per l’atteggiamento performativo che induce nei confronti della natura, è di per sé “disumanizzante”? le derive sociali, ambientali, politiche e psicologiche di cui oggi è chiamata responsabile, le sono intrinseche? Schiavone non ha dubbi. Intanto, usa i termini capitale e capitalismo spogliati di ogni valenza ideologica, positiva o negativa: il capitale è il fondamento economico che permette alla tecnica di svilupparsi, traendo dalla tecnica stessa le risorse da reinvestire. Ritiene poi che le derive non siano un problema attinente la tecnica. Quest’ultima è solo un mezzo che apre all’uomo infinite possibilità di scelta e varianti di sviluppo. Produce risorse, e quindi anche strumenti di dominio o di distruzione, che dovrebbero però poi essere controllati e guidati dalla politica, dall’etica, dal diritto.

Il problema vero sta per lui nel fatto che quanto la tecnica ha più o meno direttamente indotto, dalla filosofia alla politica, al diritto, ai valori cardine della libertà e dell’uguaglianza che si esprimono nella democrazia, non tiene il passo con la tecnica stessa (e con l’economia che le è connessa). Non lo tiene perché è oggettivamente difficile marciare in pari con uno sviluppo tecnologico ed economico così prodigioso come quello odierno, ma anche perché da tempo l’eccezionalismo occidentale è messo in discussione, come abbiamo visto nei manifesti precedenti, dal suo stesso interno: il modello di crescita che ha informato questo sviluppo ha contraddetto troppo spesso i valori di cui si faceva portatore, principalmente quello dell’uguaglianza, suscitando le reazioni più disparate (estremismo, populismo, rivendicazioni identitarie, cancel culture, ecc..). Ma ciò che soprattutto pesa, secondo Schiavone, è “il declino di un intero sistema di saperi”, quello che stava invece alle spalle della tecnica e del capitale nell’Ottocento. Manca la capacità di “leggere” in un quadro d’insieme tutti gli aspetti dello sviluppo tecnologico, e quindi di governarne e orientarne le ricadute economiche e sociali.

Comunque, a dispetto delle sue contraddizioni, “l’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità – e l’ha fatto non solo per se stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto. In effetti però, se guardiamo bene come solo ora ci è consentito di fare, ci accorgiamo che quella che abbiamo finora sperimentato non è stata la modernità nel suo pieno realizzarsi – come si è a lungo creduto – ma solo una specie di suo straordinario per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare: una specie di protomodernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo Novecento e con il culmine politico dell’impero americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi di quell’oceano.”

Se la smettessimo per un attimo di autoflagellarci, scrive ancora Schiavone, dovremmo ammettere che dopo l’impatto con la civiltà occidentale “masse di donne e di uomini sono uscite per la prima volta dalla naturalità di un’esistenza spesa solo per sopravvivere, e hanno alzato lo sguardo oltre l’acqua per dissetarsi e il cibo per sfamarsi. In una manciata di anni, parti intere del pianeta – in Asia, specialmente, soprattutto nei grandi contesti urbani – hanno acquistato una visibilità mai posseduta; e chi ci vive è riuscito ad appropriarsi, per quanto poteva, del proprio destino. Enormi blocchi di umano sono per così dire usciti dalla natura ed entrati nella storia: in diversi modi, e per diverse vie. Hanno incontrato pezzi di modernità e si sono dati un tessuto identitario secondo l’unico modello disponibile: quello che l’Occidente ancora una volta vincitore – molto al di là di quanto egli stesso, anche per sfuggire alle proprie responsabilità, non riesca e non voglia riconoscere – ha saputo loro proporre”.

A questo punto secondo Schiavone si aprono per il futuro dell’umanità scenari ancora inesplorati, e il tono della trattazione diventa quasi visionario – anche se l’autore cerca di tenere i piedi sempre poggiati sulla concretezza. “Si riesce a capire il significato del presente solo così, cercando di guardare quel che ci aspetta per decifrarne il senso. Il mondo intero sta entrando nella versione globale della modernità”. La nostra epoca è testimone di un evento senza precedenti: la nascita della prima civiltà planetaria della storia. Una civiltà che vedrà fusi in un sistema unico il capitalismo e la tecnica, perché il capitalismo è esso stesso una potenzialità tecnica, è una macchina economica: e una volta che l’azione di questa macchina sarà diffusa a livello sovranazionale verrà liberata tutta la sua forza emancipativa. La crescita esponenziale della potenza prodotta dalla tecnica darà presto all’uomo, quasi totalmente affrancato dalla dipendenza dalla natura, la possibilità di decidere del proprio destino biologico.

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Questa radiosa (?) prospettiva è però al momento tutt’altro che scontata. La strada è ancora molto lunga. “È al centro di una lotta in parte non anc0ra decisa che dobbiamo prendere coscienza di trovarci. Ed è questa la sfida che aspetta l’Occidente. Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo: questo in qualche modo lo ha già fatto. Ma completarne la fisionomia secondo la razionalità che è capace di esprimere, e dargli un’anima e un destino – come solo lui si è dimostrato in grado di poter fare.

Sappiamo bene che sono in questione aspetti della nostra identità ai quali abbiamo legato parti importanti delle vite appena trascorse […] a cominciare da una certa idea di nazione, di classe, di lavoro, di famiglia, di genere – e saranno da trasformare radicalmente, se non da dismettere. […] Ma è proprio una caratteristica dell’Occidente quella di vivere rivoluzionando continuamente se stesso.

Prima di arrivare a questo stadio tuttavia l’Occidente dovrà superare una serie di contraddizioni. “La prima è quella tra l’unificazione tecnocapitalistica del mondo e la sua frammentazione politica. Va quindi impedito il consolidarsi di una “alleanza asiana”, che veda la Russia, la Cina, il Pakistan, l’India e parte dei paesi mediorientali consolidare un blocco in funzione anti-occidentale e anti-democratica.” Per Schiavone questo rischio è concreto e presente (non so se abbia letto Dugin, ma ha scritto il saggio già avendo presente quanto accade in Ucraina); al tempo stesso però non crede possa nascere un sistema egemonico alternativo centrato sull’Asia (Cina o India) e/o sulla Russia, perché a suo parere nessuna di queste potenze è in grado di esportare su scala globale una visione del mondo e un modello culturale e sociale universalmente appetibili (sono d’accordo), e possiede capacità di innovazione tecnologica analoghe a quelle dell’Occidente (non sono d’accordo). D’altro canto “anche la Russia post-sovietica è diventata qualcosa di diverso, sulla cui carne i processi di mondializzazione stanno incidendo in modo lento ma irreversibile. Da una società neocapitalistica, per quanto ancora fragile, è assai complicato uscire, una volta che il meccanismo si è avviato”. E in Cina “il progetto perseguito dai gruppi dirigenti di modernizzare in senso occidentale la società apre a prospettive che vanno seguite con attenzione: anche lì si creeranno contrasti difficili da gestire”.

Al di là però delle arretratezze e dei problemi dei competitori, l’Occidente ha già in sé secondo Schiavone gli anticorpi per scongiurare la formazione di una alleanza asiana, o eurasica, o islamica o di qualsiasi altro tipo: e questi non sono rappresentati da un superiore armamento nucleare, ma dalla capacità di costruire “una geopolitica intesa non solo come confronto tra le potenze, ma come costruzione di canali di collaborazione e di connessione dei popoli oltre gli stati, puntando sulla valorizzazione delle reti tecnologiche e capitalistiche globali”. Ciò implica naturalmente che l’Occidente sia capace di accogliere una molteplicità di prospettive, di adattarsi per costruire sintesi unitarie più avanzate.

Ma la geopolitica nuova che l’autore auspica, e che teoricamente avrebbe anche un senso, si concilia poi con il modello di organizzazione economica proprio del capitalismo? Ebbene: “Occorre accettare realisticamente questo dato: che l’organizzazione capitalistica è solo un esito storico provvisorio, che non ha dentro di sé nulla di naturale, e come tale va accolta e discussa”. Vale a dire che nessun modello è proprio del capitalismo, ma è storicamente determinato. “La forma del mercato e delle merci non è iscritta in modo naturale in quella della nostra specie e della sua storia: ne è semplicemente un prodotto di successo” (di “meritato successo”, si affretta ad aggiungere Schiavone).

Allo stato attuale delle cose, comunque, l’organizzazione capitalistica sembra muovere in una direzione ben diversa da quella auspicata, e crea una nuova contraddizione, “quella tra carattere intrinsecamente privato e sempre più concentrato delle attuali strutture capitalistiche dal punto di vista dei poteri, delle decisioni e dell’inaudita accumulazione di profitti: e di contro il carattere sempre più ‘pubblico’ delle ricadute sociali di quei dispositivi di produzione e di mercato”. Le ragioni economiche della produzione, le ragioni del mercato, stanno insomma progressivamente “autonomizzandosi”, scindendosi da quelle sociali: nello stesso tempo pesano in misura sempre maggiore sulle scelte politiche degli stati e su quelle comportamentali degli individui. “Per questo l’Occidente ha bisogno di esercitare quella capacità di autoanalisi che ha ben imparato a mettere in campo: per la critica della sua economia, che è cosa ben diversa e più seria dell’inutile e autodistruttivo rinnegamento del proprio passato: per correggere fin dove possibile il meccanismo alla base di questo contrasto.

L’esercizio di una corretta autoanalisi ci dice che “una volta che il lavoro ad alta intensità tecnologica ha preso il posto del vecchio lavoro di fabbrica, una volta abolito cioè il carattere sociale della produzione, e l’antagonismo strutturale che esso produceva […] la contraddizione si è trasferita dal dentro al fuori dell’ingranaggio capitalistico.”. E che anche rispetto a questa nuova contraddizione l’Occidente disporrebbe di un antidoto, che è la democrazia, se solo fosse capace di pensare quest’ultima come una costruzione (e astrazione) storica, quindi in costante evoluzione, e di conseguenza adattabile a rapporti inediti con il capitale e con il mercato. “In realtà, è l’intero rapporto fra forma capitalistica dell’economia e forma democratica della politica quale si è venuto delineando nel corso del Novecento che va ripensato a fondo, insieme al rapporto tra gestione della democrazia e uso delle più recenti tecnologie. Sapendo che nuove connessioni e compatibilità sono non solo storicamente possibili, ma appaiono funzionalmente indispensabili, e vanno a tutti i costi mantenute e sviluppate, sia pure con caratteri tutti da ricostruire.

Quando si tratta di arrivare al dunque, però, sul modello di democrazia compatibile con l’età digitale Schiavone rimane molto vago (ed è anche comprensibile che lo faccia: è uno storico, non uno scrittore di fantascienza). Si limita a parlare di un dispositivo democratico che consenta ai cittadini un esercizio della sovranità più ravvicinato, “come oggi è tecnicamente possibile”. Liquida l’improponibile mito di una democrazia diretta esercitata per via telematica, della quale già conosciamo i disastrosi esiti sperimentali, ma è anche certo che per il futuro l’esercizio della sovranità non potrà più essere affidato al modello rappresentativo, o almeno alla sua versione attuale, che non corrisponde più al sentire comune. Parla di costruire di una cittadinanza globalmente condivisa, come accade ad esempio nei movimenti per la tutela ambientale o per quella dei diritti legati alla differenza di genere, che combini in modo nuovo iniziativa dal basso e presenza nelle istituzioni e garantisca una interazione equilibrata tra potenza tecno-economica e potere politico. Un obiettivo encomiabile, ma evidentemente ben poco realistico.

Tre manifesti 17

Nell’ultima parte del saggio l’azzardo sul futuro della nostra specie è spinto ancora oltre. L’autore fonda le sue anticipazioni sul presupposto che una situazione compiutamente globalizzata farà riemergere l’“invarianza del comune umano”. Ripropone cioè in termini nuovi l’annosa questione dell’esistenza o meno di una “natura umana” (tornando sul tema col quale aveva aperto il saggio, e che percorre un po’ tutti i suoi scritti). È indubbio per lui che di “natura umana” si può parlare, e che anzi da essa non si può prescindere, tenendo comunque fermo che “su una base genetica sempre eguale a se stessa in ogni esemplare si intreccia il gioco di una illimitata combinazione di caratteri morfologici e intellettivi”. Questo sostrato biologico però non è affatto immodificabile. “Osservata dalla giusta distanza, qualunque strutturazione naturale è anch’essa storia, nient’altro che storia.

Come tutto ciò che ha a che fare con la natura, anch’esso è soggetto alle leggi dell’evoluzione. Con una novità, consistente nel fatto che “la rivoluzione attuale, dove prima c’era una enorme difformità di contesti, sta sovrapponendo all’identità della base genetica una identità globale di stimoli e di sfondi mentali e sociali”. In altre parole: la tecnica sta uniformando il volto economico del pianeta e la morfologia del suo territorio, ma sta omologando anche i comportamenti di massa dei suoi abitanti, includendoli tutti nello stesso circuito di consumi, tanto materiali quanto culturali: persino le idee sono già confezionate come merci. Questa omologazione da un lato apre alla speranza, perché per certi versi rende obsolete le guerre (l’uniformità di pensiero dovrebbe azzerare i contrasti ideologici, così come la razionalizzazione dei mercati dovrebbe attenuare quelli economici) e inutili anche i regimi autocratici; dall’altro spaventa, perché costringe il mondo nella rete di una ragione tecno-economica che in realtà non coincide con la razionalità complessiva della specie, e cancella diversità, peculiarità, ecc Ora, la sfida è quella di preservare queste differenze senza rinunciare al percorso dell’unificazione. E per differenze si intendono, oltre a quelle tra le civiltà, anche quelle con le altre forme di vita animali.

Schiavone preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, e legge la trasformazione all’interno di un più ampio divenire storico. Di fronte ai grandi mutamenti indotti dalla prima modernità il pensiero europeo aveva elaborato un’immagine dell’uomo come “individuo”, e questa immagine è rimasta dominante per tutta la stagione della grande industrializzazione (a dispetto anche di dottrine alternative che cercavano di opporle il modello del collettivo). La mondializzazione economica fa invece emergere il fondo comune della specie, creando attraverso un sistema universale di bisogni, quello che regge la rete globale dei mercati, una “prossimità globale”. Diventa possibile considerare l’umano, in tutte le sue complessità e differenze, come il manifestarsi di un’unica e totale soggettività impersonale. “La soggettività della specie che finalmente approda all’orizzonte della storia.” Hegel avrebbe detto che è lo Spirito che si manifesta.

La condivisione dei bisogni rende davvero possibile iniziare un discorso sull’eguaglianza, mentre l’individualismo, esaltando le differenze, le specificità, metteva in secondo piano ciò che accomuna ogni essere umano ai suoi simili. Ora invece “la tecno-economia globale esige, per venir regolata, di poter essere confrontata con una soggettività altrettanto globale, che si ponga sullo stesso piano. Per costruire un modello di soggettività e di eguaglianza che senza rinunciare ad un imprescindibile impianto formale sappia però anche guardare in tutte le profondità del diseguale che la nuova economia oggi ci propone”.

Ma alla fine, scendendo dal piano superiore della “soggettività globale” 0 “soggettività di specie” a quello terreno del “soggetto individuo”, che futuro gli riserva Schiavone? Intanto si tratterà di un individuo non più definito dalla sua attività lavorativa. “Col passaggio dalla forma industriale alla forma tecnofinanziaria del capitale, il lavoro (che era stato sin dai primordi della modernità la culla della figura dell’individuo e del paradigma di eguaglianza moderno) muta radicalmente, tanto che si può parlare di una ‘fine dell’età del lavoro’”. Con questo “non si vuol certo dire che abbia smesso di esistere il lavoro come attività propria della specie umana. Si vuole indicare soltanto che è finita una maniera storica di lavorare, che è stata costitutiva della nostra modernità e del nostro modo di pensare […]. E si vuole anche alludere, con quella formula, al fatto – di non minore importanza – che i nuovi lavori che stanno sostituendo in Occidente quello ormai al tramonto, non possono né potranno mai avere, per ragioni strutturali, indipendenti da ogni scelta politica, giuridica o etica, la stessa funzione della figura che sta scomparendo”.

Nella vita dei nostri discendenti, se le cose andranno come Schiavone pensa siano destinate ad andare, il lavoro sarà una cosa completamente diversa (lo è già adesso, con la cosiddetta “flessibilità”: ma a ben considerare è stato tale anche per un lunghissimo periodo in passato), e rivestirà un ruolo marginale. La liberazione, “l’emancipazione” degli umani non avverrà più attraverso esso, ma arriverà da una globale condivisione di strumenti conoscitivi e operativi che consentiranno alla specie il controllo non solo sull’ambiente e sulla tecnica, ma anche sulla propria natura. Avendo tra le mani il nostro destino biologico, saremo padroni delle nostre condizioni materiali di esistenza: saremo quello che vorremo essere.

Sommario: niente fine della storia o epoca del tramonto. Schiavone è anzi convinto che la vera storia cominci ora, e che a scriverla sarà ancora una volta l’Occidente, o meglio l’impronta della sua “civilizzazione” impressa su tutto il globo. Non si nasconde che la “mondializzazione” del modello occidentale ha messo in moto un percorso problematico, irto di rischi, che può anche condurre alla catastrofe, e nemmeno ignora le resistenze e i ripiegamenti che continueranno ad opporsi a questo processo. Quindi non lo considera ineluttabile, ma lo vede come l’unica vera possibilità di sopravvivenza dell’umano. Non solo, ma una sopravvivenza ricca di straordinarie potenzialità: la vicenda di un umano ormai quasi del tutto affrancato dalla dipendenza dalla natura, e sul punto di diventare completamente padrone del proprio destino.

Tre manifesti 18

E ora provo a tirare un po’ le fila. Intanto, non vorrei aver dato l’idea che nell’ultima parte del saggio Schiavone sia partito per la tangente. Non è così. È vero piuttosto che ho faticato molto io a costringere in poche pagine una ricchezza di argomentazioni che corre come un fiume in piena e che l’autore ha condensato in una serie di passaggi logici incalzanti. E dubito assai di esserci riuscito, anche solo parzialmente. Rimane tuttavia il fatto che dovendo passare dall’analisi del presente alla parte propositiva aperta sul futuro Schiavone cambia le tonalità del discorso: e come chiunque combatta una battaglia culturale (perché questo è, al di là della diversa profondità, un pamphlet, speculare a quello Dugin) le ha alzate di parecchio, senza peraltro mai trascurare di sottolineare come ciò che va prospettando rappresenti non una profezia ma una “possibilità.”

Che è già un ottimo distinguo. Una possibilità non è un’utopia. Non cancella il tempo o la condizione presente per rifare tutto daccapo, ma intravvede nel presente qualcosa che va interpretato nell’ottica di una futura trasformazione. In questo senso il saggio di Schiavone offre notevoli stimoli, se non a fare, perché sembra che tutto accadrà (o potrebbe accadere) dietro la spinta di forze superiori, almeno a capire, ad essere consapevoli di quali direzioni potrà prendere l’umanità dopo di noi, o magari (come sottolinea a più riprese l’autore) sta già prendendo sotto i nostri occhi. E mi offre anche l’occasione di riconfrontarmi per l’ennesima volta con le mie convinzioni.

Ora, non ho la presunzione di aver capito proprio tutto quel che Schiavone stipa in queste centottanta pagine, o di essere riuscito a seguire l’autore in certi passaggi che imponevano vere acrobazie mentali. Ma il senso generale del discorso credo di averlo afferrato, e in fondo condivido buona parte della sua impostazione e delle interpretazioni che offre del presente. Eppure non sono affatto persuaso che lo scenario futuro che ci prospetta sia coerentemente fondato. Per più di una ragione.

La prima concerne la possibilità di riconquistare il controllo sulla tecnica e di riorientare quest’ultima a finalità etiche. Ho l’impressione che sia già tardi, o meglio ancora, che sarà l’etica a riaggiornarsi sulla scia degli sviluppi tecnologici. In effetti, dobbiamo prendere atto che la tecnologia ha ormai di gran lunga sopravanzato la scienza e l’etica. Prendiamo il caso ad esempio delle scienze biologiche e della ingegneria bio-medica. Quest’ultima è in grado di produrre risultati che a livello scientifico non hanno alcun interesse o giustificazione, come le ibridazioni genetiche interspecifiche. Realizzare un uomo-scimmia non fa avanzare di un millimetro la conoscenza scientifica, mentre può avere terrificanti ricadute spettacolari o implicazioni economiche. È una cosa abietta, eppure decine di laboratori vi stanno lavorando: è tecnologia da apprendisti stregoni, fine a se stessa, intesa a mostrare sin dove può arrivare il suo potere, all’interno di una sfida continua nella quale non c’è più regola che tenga.

Un motivo ulteriore di perplessità concerne l’altra auspicata “domesticazione”, quella del capitale finanziario. Pur assumendo per scontato che il capitale sia indispensabile per reggere lo sviluppo della tecnica, e quindi che dal supporto offerto alla tecnica possa legittimamente attendersi un ritorno, mi sembra che Schiavone non dia il giusto rilievo al fatto che come la tecnica anche la finanza si è autonomizzata, ha preso una strada totalmente autoreferenziale nella quale il gioco speculativo prevale su quello produttivo. Il capitale tecno-finanziario è sempre più teso a creare ricchezza, e sempre meno a creare innovazione. O meglio, crea innovazione solo in prospettiva del ritorno, e di fatto brucia tutte le altre possibilità. Non si capisce cosa possa intervenire a disciplinarlo, a dissuaderlo dalla corsa all’accumulo. Sino ad oggi le nuove connessioni e le compatibilità etiche cui Schiavone accenna (quando scrive ad esempio che tra non molti decenni mangiare carne ci parrà un obbrobrio), e che gli paiono esemplificative della via da seguire, si sono risolte nella creazione di formidabili business che ruotano attorno alle etichette di “biologico” e di “ecosostenibile”, buone per far accettare costi maggiorati, ma che nella sostanza non mettono affatto in discussione la coazione al consumo (e anzi, in qualche modo la assolvono).

Di fronte a una situazione del genere è lodevole lo sforzo di Schiavone di richiamare in campo valori e saperi che stiamo perdendo, ma la cosa cozza contro la convinzione che lui stesso a più riprese esprime, e cioè che la trasformazione interesserà necessariamente anche l’ambito etico. Quando scrive: “Vedo che stiamo usando gli strumenti della tecnica non in eccesso, ma per difetto. Li stiamo usando al di sotto delle loro potenzialità” fa un’affermazione in parte vera, ma pericolosa. La “capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla”, che prevede per i prossimi decenni, non per i prossimi secoli, non appare certamente oggi finalizzata a una liberazione. Mi ripeto, ma credo che questo sia il punto più debole dell’argomentazione di Schiavone. Anche rimanendo entro i confini di ipotesi meno fantascientifiche di quella che ho prospettato sopra, gli interrogativi già oggi suscitati dallo sviluppo delle biotecnologie e dalle applicazioni (e implicazioni) dell’intelligenza artificiale sono tutt’altro che gratuiti. Toccano nel profondo il senso stesso dell’appartenenza all’umano, cambiano radicalmente i parametri di definizione della specie, fanno intravvedere non una trasformazione ma una vera e propria mutazione, che andrebbe ad interessare non solo la morfologia ma tutto il sostrato biologico, e di conseguenza gli stessi fattori di comunità nei quali Schiavone ripone la sua fiducia. Altro che “invarianza del comune umano”. L’uomo, da “antiquato” che era, rischia di diventare superfluo.

Un conto è parlare dell’uso di protesi o strumentazioni che migliorano le nostre condizioni di esistenza, di resistenza o di produttività, o suppliscono a carenze naturali o accidentali (dalla pietra scheggiata ai robot della catena di montaggio, dagli abiti alla farmacopea, dagli occhiali al bypass o agli arti artificiali), e che modificano senz’altro il nostro rapporto con l’ambiente e con il nostro prossimo, ma non vanno a toccare i ritmi e i percorsi evolutivi del nostro patrimonio genetico (o lo fanno in tempi lunghissimi, che consentono di ovviare ad eventuali effetti collaterali indesiderati): un altro conto è la presunzione di “decidere noi il nostro destino”, di programmarci totalmente in proprio l’esistenza, di accedere alla condizione post-naturale, senza in realtà nessuna idea di dove vorremmo o potremmo andare a parare. A meno di intendere che a decidere sarà la “soggettività globale della specie” (e temo che Schiavone intenda proprio questo), prospettiva che nella sua indeterminatezza fa accapponare la pelle. Pur facendo le debite tare, somiglia troppo al suo esatto contrario, a quello che Dugin, mostrando senz’altro lungimiranza, definisce “lo scambio dell’identità collettiva umana con l’identità collettiva postumana: la creazione di strumenti tecnici che diventano passo dopo passo i maestri, e smettono di essere strumenti”.

Tre manifesti 19

Mi spiego meglio. Questo discorso chiama automaticamente in causa il tema della libertà, che a sua volta si tira appresso quello dell’eguaglianza, e naturalmente quello della democrazia, che dovrebbe garantire sia la prima che la seconda. Senza volerla fare troppo lunga, sul concetto di libertà concordo pienamente con Isaiah Berlin, per il quale una persona è libera innanzitutto quando non è impedita di fare ciò che desidera fare da un atto o da un’omissione di un altro essere umano (la definisce “libertà negativa”). Per Berlin esiste però anche un’accezione più estesa del concetto, quella di “libertà positiva”, che implica che l’individuo non solo non subisca coercizioni da parte di altri, ma sia totalmente “autonomo” (alla lettera, “capace di governare se stesso”). Vale a dire che l’impedimento ad agire non gli deve venire neppure da ostacoli interni, come possono essere l’ignoranza, i desideri o le emozioni. Il che in teoria è molto vero, ma presuppone distinguere tra un soggetto autentico, interamente razionale e capace di dominare le passioni, e un Io empirico, condizionato dalle pulsioni naturali. Per la concezione positiva essere liberi significa accedere alla prima condizione, ovvero agire “moralmente”: ma, e qui nasce il problema, chi stabilisce cosa sia “moralmente” giusto? Perché se la normativa morale è dettata da altri, si è liberi in realtà solo di obbedirle.

Ora, Schiavone dice più o meno che quando la tecnica ricondotta alla sua originaria funzione ci avrà liberato dai condizionamenti, dagli impedimenti, dalle malformazioni che la natura ci riserva, e anche dalle inique differenze sociali ed economiche, ciascuno di noi potrà esprimere al meglio se stesso: ma la stessa tecnica gli fornirà anche la consapevolezza che in una società del genere la vera realizzazione individuale non può che coincidere con il benessere collettivo e con la sopravvivenza dell’intera specie. Quindi non saranno “altri” a dettare le norme morali, ma queste scaturiranno da una volontà collettiva concorde e razionalmente illuminata.

L’impressione che ho ricavato io dalla lettura è che qui non si parli più di un aggiornamento dell’etica, ma di una sua completa rifondazione. E se a decidere di ciò che è bene e ciò che è male fosse davvero la “soggettività della specie”, credo che nemmeno si potrebbe più parlare di etica, perché ci troveremmo in una condizione molto simile a quella degli insetti sociali. Con la differenza, certo, che quella condizione sarebbe ciascuno di noi a sceglierla, una volta messo in grado di decidere davvero del proprio destino e di capire cosa è meglio per lui, mentre gli insetti sociali rispondono ad una determinazione biologica: ma questo è comunque in contraddizione con quella difesa della diversità che l’autore rivendica costantemente, e presume anche una identificazione tra il bene individuale e l’utile collettivo che suona molto sospetta. Non sarei poi nemmeno così sicuro che tutti gli umani, anche messi di fronte ad una (discutibile) evidenza del “bene”, sceglierebbero di conseguenza.

Berlin invece la mette così: senz’altro la “libertà positiva” indica un livello di libertà superiore, ma la pretesa che esista una sola concezione universalmente valida del bene, e che quindi tutte le questioni etiche abbiano, almeno in linea di principio, una sola risposta corretta, sta purtroppo alla base delle tentazioni totalitarie. Tutti i grandi Utopisti (quelli con la maiuscola, che hanno immaginato – e qualche volta cercato di attuare – grandi disegni sociali) partono dal presupposto che una volta conosciuto il vero sistema morale potranno essere appianati tutti i conflitti e diverrà possibile creare una società perfetta, trovare un accordo universale su un unico modello di vita. Il paragrafo che riporto da “Due concetti di libertà” (1957) sembra scritto apposta per mettere in guardia contro gli entusiasmi un po’ facili di Schiavone:

Una credenza è più di ogni altra responsabile delle stragi di esseri umani sull’altare dei grandi ideali storici: giustizia o progresso o felicità delle generazioni future o la sacra missione o l’emancipazione di una nazione, di una razza o di una classe, o persino la libertà stessa, che esige il sacrificio degli individui perché sia libera la società. Si tratta della credenza che da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza, o nel cuore semplice di un uomo integralmente buono vi sia una soluzione finale”.

Per questo al “monismo morale” Berlin oppone il “pluralismo dei valori”, concetto sul quale peraltro, in una accezione più sfumata, insiste molto anche Schiavone. Entrambi sono coscienti che far coesistere valori diversi è tutt’altro che facile, ma prendono poi strade diverse quando si tratta di trovare una conciliazione. Il primo ritiene che questi valori siano delle creazioni storiche dell’umanità e non dei dati di natura, anche se alcuni – la libertà individuale in primis – attraversano tutte le culture. E che pur essendo in linea di massima i valori morali tutti validi, non sempre le diverse idee relative al bene e al giusto sono commensurabili. Il secondo crede invece che a una conciliazione si possa pervenire, proprio attraverso la grande trasformazione della quale stiamo scorgendo gli inizi. Parte cioè dalla posizione di Berlin, ma finisce poi bene o male in quella degli utopisti. Insomma, il discrimine sta nel fatto che Berlin accetta l’idea che la ‘natura umana’ sia costitutivamente imperfetta, e che a ciò si possa sia pure solo parzialmente ovviare mediando tra libertà positiva e libertà negativa, mentre Schiavone ritiene che l’imperfezione sia solo una condizione temporanea, destinata ad essere cancellata.

Tre manifesti 20

Il caso più clamoroso di incommensurabilità dei beni è per Berlin quello tra libertà e uguaglianza. “Libertà e uguaglianza – scrive – sono tra gli scopi primari degli uomini, ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli”. D’altro canto – come dice ancora – “nel loro entusiasmo per creare le condizioni economiche e sociali affinché la libertà sia un valore autentico, gli uomini tendono a dimenticare la libertà stessa; e se ci si ricorda di essa è facile che si spinga da parte per far posto a quegli altri valori che hanno assorbito i rivoluzionari o i riformatori”.

Quindi, anche valori di per sé imprescindibili possono non andare pacificamente assieme: bisogna prendere atto che l’uguaglianza e la giustizia sociale entrano in conflitto con la libertà individuale, così come l’ordine e la sicurezza confliggono con la tolleranza o la giustizia con la misericordia: perseguono fini diversi, che devono essere bilanciati con prudenza e moderazione.

Per Schiavone invece la vera libertà non esiste se non in presenza dell’uguaglianza (ma lo pensava già Condorcet). Egli fonda come abbiamo visto la sua concezione sull’esistenza (e sulla riscoperta) dell’universale umano – per cui occorre ridefinire l’idea di uguaglianza sulla base del carattere impersonale del soggetto intra-individuale che caratterizzerà la società del futuro. In un saggio precedente, intitolato proprio “Eguaglianza”, scrive che bisogna “cominciare a pensare a un nuovo patto di uguaglianza, per salvare il futuro della democrazia; […]. Un patto che sappia farsi programma politico […], e parta non dalla parità degli individui, ma dall’illimitata eguale divisibilità della cose […], da condividersi equamente fra tutti i viventi. Un patto stretto, non nel nome di una classe, o di un qualunque soggetto che per indicare sé stesso debba escludere altri dalla definizione […], ma del comune umano come soggetto e come valore includente e globale”.

Nella sostanza, la formula di mediazione potrebbe essere questa: per come è fatto oggi l’uomo, se una società vuole essere giusta deve promulgare delle leggi che impongano questa giustizia, negando di fatto la libertà. Se invece vuole essere libera deve eliminare qualunque restrizione alla libertà; cosa che, sempre considerando la natura attuale dell’uomo, porta inevitabilmente a storture e ingiustizie. Non sappiamo se e come evolverà questa natura domani, e nel caso, se ai termini libertà ed eguaglianza potremo attribuire gli stessi significati e lo stesso valore che diamo loro oggi.

È chiaro che tra le due concezioni mi riconosco molto di più in quella di Berlin. Quanto a “soluzioni finali” ne abbiamo già viste sin troppe, ed erano tutt’altro che ispirate al trionfo della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia e della democrazia. So bene che Schiavone ha in mente altro, che si limita a dire che possono crearsi “occasioni continue di comunione solidale rispetto a un patrimonio genetico, ambientale, culturale la cui unitarietà sostanziale è esaltata dal dominio di strumenti conoscitivi e operativi che lo padroneggiano e lo trasformano sempre più a fondo”. E che “si renderebbe possibile così la formazione, intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali”. Ma tutto questo rimane per forza di cose talmente vago da prestarsi a qualsiasi interpretazione: e anche lasciando perdere quelle che ne sono state date nel passato dai totalitarismi genocidi, è già sufficiente a farmi diffidare ciò che sento predicare dai vari Baricco e Maffesoli e dai postmoderni di complemento, che profetizzano l’avvento di una nuova “barbarie” a spazzare via le rovine della “modernità criminale”.

Nutro come Berlin una fiducia molto limitata nella essenza positiva della natura umana, e ritengo più importante per la nostra specie difendere gli ultimi ridotti di una civiltà sotto assedio piuttosto che attendere inerte l’arrivo dei nostri, di una tecnologia che venga a spalancare pianure di libertà. Sono convinto altresì che l’eguaglianza e la democrazia non si realizzano quando tutti vogliono le stesse cose, nemmeno se a suggerirle è la soggettività di specie, ma quando tutti per ottenere ciò che vogliono seguono le stesse regole. Naturalmente quando quelle regole le hanno dettate e accettate gli stessi che sono tenuti a rispettarle.

Penso infine anche che l’uguaglianza abbia a che fare solo con i diritti e con l’inviolabilità dell’esistenza di ogni essere umano: il “fondo umano comune” non ci rende uguali nelle caratteristiche corporee e nemmeno in quelle mentali. Come scrive Edoardo Boncinelli “come singoli siamo animali … il collettivo umano, e con esso l’individuo che gli appartiene, mostra un carattere storico ed è figlio di una continuità culturale che non ha l’eguale in nessun altro tipo di realtà. Di questa nostra ultima particolarità andiamo giustamente fieri, ma non è conveniente né proficuo ignorare i vincoli e le condizioni che ci limitano come singoli”. Che ci limitano, ma che alla fin fine ci rendono anche liberi, perché se la “soggettività globale della specie”, come la chiama Schiavone, o “l’identità collettiva postumana”, come la definisce Dugin, cancellassero la conflittualità tra i fini diversissimi che gli uomini perseguono, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Non solo. La continuità culturale è quella che ha partorito il diritto, ma se si fonda l’uguaglianza dei diritti sul presupposto che siamo tutti uguali, non solo si proclama una falsità evidente, ma si creano le basi per rimettere in discussione l’uguaglianza dei cittadini ogni volta che si scoprisse tra loro qualche differenza biologica.

Basta. Mi accorgo che sto viaggiando verso la stesura di un quarto manifesto, e a questo punto non mi sembra proprio il caso (il che non significa che non abbia già in mente un’altra puntata). Anche perché ho perso completamente di vista il tema di partenza, quello del destino dell’Occidente. O forse ci ho solo girato attorno.

E allora taglio corto e lo riaggancio in extremis. I tre manifesti raccontano rispettivamente un funerale, un’agonia e un battesimo. La protagonista è sempre la stessa, la civiltà occidentale, ma ripresa da angolazioni ideologiche molto diverse, per cui i film che ci arrivano sono naturalmente discordanti. Io ho cercato bene o male di metterli a confronto. Chiunque può fare la stessa cosa, i testi sono disponibili, il primo solo in rete, gli altri anche nel formato cartaceo.

Aggiungo solo un’ultima considerazione. Parlando del compito che spetta all’Occidente (“Non solo tenere a battesimo un mondo nuovo […] ma completarne la fisionomia”) Schiavone è drastico: “Innanzi a un simile impegno non c’è nostalgia del passato che tenga; non c’è rimpianto per come eravamo che possa reggere […]”. Va bene, magari come sterile rimpianto per come eravamo o per come stavano le cose non terrà; ma questo significa ancora una volta pensare che nella storia agisca un’astuzia della ragione, una necessità che a posteriori giustifica – o condona – le nostre scelte, e condanna tutte le potenzialità che quelle scelte hanno escluso, riducendole a spazzatura abbandonata ai margini della strada. Ora, è chiaro che indietro non si può tornare, ma si può almeno guardare, purché si guardi nella direzione giusta, e non ad un passato immaginario come quello costruito da Jeffers e da tutti i nostalgici dell’Eden. Magari per rendersi conto a quale bivio si era intrapresa la direzione sbagliata; o, perché no, per frugare in quella spazzatura e verificare che non sia stato buttato qualcosa che ancora può risultare utile e vitale. Ed è lecito anche provare rammarico per le scelte non fatte, pur quando c’è consapevolezza che magari non avrebbero poi cambiato granché le cose.

Quanto a me, confesso di essere un nostalgico militante. Come un tempo i maschi ebrei ringraziavano ogni mattina Dio di non averli fatti nascere donne (non so se lo facciano ancora), io ringrazio quotidianamente il cielo di avermi fatto nascere qui, in questo luogo e in questo tempo. E mi spiace vedere il primo trasformarsi e il secondo trascorrere, vorrei poter fermare l’una cosa e l’altra, e nel mio piccolo faccio tutto il possibile per almeno rallentarle. Non parteciperò ai funerali dell’Occidente e diserterò il battesimo del mondo nuovo. E non mi sento ancora affatto spazzatura.Tre manifesti 21

Indicazioni bibliografiche

Le citazioni che compaiono in questo testo sono tratte da:

KINGSNORTH Paul, HINE Dougald, Uncivilisation. The Dark Mountain Manifesto, Oxford 2009

JEFFERS, Robinson, La bipene e altre poesie, Guanda, 1969

JEFFERS, Robinson, Cawdor, Einaudi 1977

DUGIN, Aleksandr, Contro il Grande Reset. Manifesto del Grande Risveglio, AGA 2022

DUGIN, Aleksandr, Una civiltà planetaria, Il Mulino 2022

SCHIAVONE, Aldo, Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, Einaudi 2019

DE TOCQUEVILLE, Alexis, La democrazia in America, Rizzoli 1999

BERLIN, Isaiah, Il legno storto dell’umanità, Adelphi 1994

BERLIN, Isaiah, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli 1989


I colori di Gunnar Widforss

di Fabrizio Rinaldi, 5 dicembre 2018 – vedi l’Album I colori di Gunnar Widforss

I colori di Gunnar Widforss copertinaQuesto non è l’introduzione ad un catalogo di una mostra perché non c’è stata e probabilmente non ci sarà mai nessuna retrospettiva – almeno in Italia – su un artista da noi sconosciuto, che ha trascorso la vita ritraendo nei suoi quadri gli immensi paesaggi americani. Il suo non è un nome che attira l’attenzione dei critici, dei galleristi o di chi vuol far cassa propinando i soliti Caravaggio, Picasso e Van Gogh.

Qui gli unici a conoscere Gunnar Widforss (1879-1934) sono coloro che hanno letto il libro di Fredrik Sjöberg L’arte della fuga, nel quale l’autore cerca di ricostruire la vita dell’acquarellista svedese che tra fine Ottocento e inizio Novecento immortalò nei suoi dipinti soprattutto i parchi americani. Mentre in patria era ignorato, negli Stati Uniti era considerato l’acquarellista più bravo nel raffigurare i grandi spazi, tanto che una delle vette Gran Canyon è a lui intitolata. Sjöberg ricostruisce meticolosamente, attraverso le lettere alla madre e agli amici, la sua vicenda biografica, caratterizzata da una quasi maniacale rappresentazione della bellezza paesaggistica.

Widforss visse in perenne fuga, inseguito da una malinconia che non riusciva a scacciare, costretto a una solitudine non cercata, oppresso dall’impellente necessità di sostenersi economicamente e da guai sentimentali che per decenza rimandiamo alla lettura del libro.

Il suo pregio maggiore è la capacità di rendere evidente la profondità dei panorami: ogni cattedrale naturale, ogni spuntone di roccia, ogni anfratto della montagna raffigurati nei suoi acquarelli, è avvolto in una luce calda che ne incrementa la spazialità. La luce restituisce anche la sensazione di calore percepita dal pittore mentre dipingeva, oltre alla presumibile serenità interiore che si raggiunge nell’istante dell’atto creativo.

Gunnar Widforss ebbe però una grande sfortuna: era coevo degli Impressionisti e dei primi Astrattisti. In un periodo in cui in Europa esplodevano i colori di Van Gogh, Cézanne, Matisse, lui dipingeva le delicate foglie dei pioppi. Quando Picasso rappresentava la guerra in Guernica, lui acquerellava gli alberi e i ruscelli dello Yosemite.

I suoi dipinti non denunciano sconvolgimenti politici e sociali, ma raffigurano la bellezza, la calma e inesauribile pace che dona la vista di un spuntone di roccia su una valle. È quella stessa natura che abbiamo amato negli scritti di Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson e John Muir.

Sono tele fatte apposta per diventare perfette “cartoline” del pensiero “wilderness”, lo stesso che tanto ha influenzato l’immaginario collettivo, a partire dai fumetti e dal cinema western, per poi diventare la coscienza ambientale di molti. Quella sempre in difetto per le scelte scellerate che continuiamo a fare.

Come detto prima, questo non è un pezzo introduttivo di un catalogo, ma di un Album nel quale potete trovare una modesta collezione di immagini tratte da internet. L’obiettivo è quello di aprire uno spiraglio sulla bellezza che Widforss cercava, e stuzzicare magari i più temerari a inoltrarsi negli spazi infiniti da lui immortalati.

Se a qualcuno riuscisse di realizzare questo mio sogno, si ricordi di mandarci almeno una cartolina con un suo dipinto.

Collezione di licheni bottone

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Sulle tracce del pittore in fuga

di Fabrizio Rinaldi, 5 dicembre 2018 – vedi Album I colori di Gunnar Widforss

I colori di Gunnar Widforss copertinaQuesto non è l’introduzione ad un catalogo di una mostra perché non c’è stata e probabilmente non ci sarà mai nessuna retrospettiva – almeno in Italia – su un artista da noi sconosciuto, che ha trascorso la vita ritraendo nei suoi quadri gli immensi paesaggi americani. Il suo non è un nome che attira l’attenzione dei critici, dei galleristi o di chi vuol far cassa propinando i soliti Caravaggio, Picasso e Van Gogh.

Qui gli unici a conoscere Gunnar Widforss (1879-1934) sono coloro che hanno letto il libro di Fredrik Sjöberg L’arte della fuga, nel quale l’autore cerca di ricostruire la vita dell’acquarellista svedese che tra fine Ottocento e inizio Novecento immortalò nei suoi dipinti soprattutto i parchi americani. Mentre in patria era ignorato, negli Stati Uniti era considerato l’acquarellista più bravo nel raffigurare i grandi spazi, tanto che una delle vette Gran Canyon è a lui intitolata. Sjöberg ricostruisce meticolosamente, attraverso le lettere alla madre e agli amici, la sua vicenda biografica, caratterizzata da una quasi maniacale rappresentazione della bellezza paesaggistica.

Widforss visse in perenne fuga, inseguito da una malinconia che non riusciva a scacciare, costretto a una solitudine non cercata, oppresso dall’impellente necessità di sostenersi economicamente e da guai sentimentali che per decenza rimandiamo alla lettura del libro.

Il suo pregio maggiore è la capacità di rendere evidente la profondità dei panorami: ogni cattedrale naturale, ogni spuntone di roccia, ogni anfratto della montagna raffigurati nei suoi acquarelli, è avvolto in una luce calda che ne incrementa la spazialità. La luce restituisce anche la sensazione di calore percepita dal pittore mentre dipingeva, oltre alla presumibile serenità interiore che si raggiunge nell’istante dell’atto creativo.

Gunnar Widforss ebbe però una grande sfortuna: era coevo degli Impressionisti e dei primi Astrattisti. In un periodo in cui in Europa esplodevano i colori di Van Gogh, Cézanne, Matisse, lui dipingeva le delicate foglie dei pioppi. Quando Picasso rappresentava la guerra in Guernica, lui acquerellava gli alberi e i ruscelli dello Yosemite.

I suoi dipinti non denunciano sconvolgimenti politici e sociali, ma raffigurano la bellezza, la calma e inesauribile pace che dona la vista di un spuntone di roccia su una valle. È quella stessa natura che abbiamo amato negli scritti di Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson e John Muir.

Sono tele fatte apposta per diventare perfette “cartoline” del pensiero “wilderness”, lo stesso che tanto ha influenzato l’immaginario collettivo, a partire dai fumetti e dal cinema western, per poi diventare la coscienza ambientale di molti. Quella sempre in difetto per le scelte scellerate che continuiamo a fare.

Come detto prima, questo non è un pezzo introduttivo di un catalogo, ma di un Album nel quale potete trovare una modesta collezione di immagini tratte da internet. L’obiettivo è quello di aprire uno spiraglio sulla bellezza che Widforss cercava, e stuzzicare magari i più temerari a inoltrarsi negli spazi infiniti da lui immortalati.

Se a qualcuno riuscisse di realizzare questo mio sogno, si ricordi di mandarci almeno una cartolina con un suo dipinto.

Collezione di licheni bottone

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Vita e avventure di un mondo perduto

Vita e avventure di un mondo perdutoa cura di Paolo Repetto, 23 maggio 2018

Le origini di un impero tra storia e leggende

Sven Hedin e i misteri del lago errante

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

Cercando l’Australia

Alexander von Humboldt

L’ultimo lago

Il viaggio al Tibet

Il milanese che valicò le Ande

l mito americano della Natura

Humboldt e l’alba dell’ecologia

La poesia di Wystan Hugh Auden

Donne con la  bussola

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

Le origini di un impero tra storia e leggende

di Paolo Novaresio

Dal 1960 il Mali è una Repubblica, ma la memoria popolare è tuttora rivolta ai secoli splendidi in cui era un vasto e potente impero.

Le interminabili genealogie dei re, tramandate dai canti e racconti epici fino ai nostri giorni, non sono sterili elencazioni ma storia viva e presente in cui spesso si intrecciano elementi magici e leggendari dovuti alla scarsità di documentazione scritta. La tradizione africana, infatti, viene tramandata soprattutto oralmente e tutto questo non fa che aumentare il fascino di questo Paese, della sua gente frazionata in decine di etnie diverse.

Zoumana Traoré dice di avere sessant’anni, abita a Gao ed è di origine Songhai, popolo che fondò il regno del Mali. Ai bei tempi faceva il meccanico per l’Air Mali e si arrangiava a portare a spasso i turisti nella zona. Ora Gao è isolata, irraggiungibile e pericolosa: di aerei neppure l’ombra, di turisti non ne parliamo.

Zoumana è ovviamente disoccupato, senza troppe ansie per il futuro, sopravvive al presente. Mentre sorseggia con metodo una birra mi racconta della storia di Gao, o almeno la sua personale versione, tramandata attraverso una serie di eventi simbolici che parlano di battaglie, re, eroi e magia: «Quando in Mali c’erano i francesi circolava una barzelletta. Si studiava la storia di Francia, quindi di conseguenza i nostri antenati erano i Galli – nos ancêtres les Gaulois – così si leggeva sui libri. Per un Songhai una discendenza piuttosto strana, non trovi?».

La tendenza a considerare l’Africa un continente senza storia, un esotico relitto dell’Eden, è un vizio duro a morire, anche se di origini recenti. In realtà solo da un paio di secoli gli Europei vedono l’Africa come un continente selvaggio. Per i Romani e per gli uomini del Medioevo e del Rinascimento, l’Africa evocava immagini di regni sontuosi e ricchezze straordinarie. Era la culla della sapienza e della civiltà. A Gao le tracce di questo illustre passato sono ben visibili.

Da ciò che resta del famoso Hotel Atlantide, con una breve passeggiata (due chilometri, fatali senza un cappello) si arriva di fronte alla tomba degli Askia, la dinastia che portò Gao al rango di capitale del vastissimo Impero Songhai.

La tomba è un mausoleo in terra cruda, in puro stile sudanese. Pare che l’iniziatore di questo stile sia stato un architetto e poeta andaluso che raggiunse il fiume Niger dal Cairo, al seguito della corte di Kankan Musa. Il mansa (re) del Mali era di ritorno da uno dei suoi famosi pellegrinaggi alla Mecca. Era l’anno 1325.

Oggi nei manuali in uso alle scuole secondarie di Bamako non si parla più di Galli e cerimonie druidiche, ma di imperi sudanesi. La loro storia passa attraverso interminabili genealogie di re e sovrani mitici: dal nostro punto di vista possono apparire sterili elencazioni ma per gli africani, discendenze e parentele tramandate dai canti e dai racconti epici, sono storia viva e presente. Tant’è che nel marzo del 1957, il dottor Kwame Nkrumah nella qualità di primo Presidente si prese una “licenza storica” e dette all’antica Costa d’Oro il nome di Ghana, il cui impero e sfera d’influenza erano in realtà situati assai più a nord.

Le rovine della presunta capitale del regno, Koumbi Saleh, si trovano addirittura nel territorio dell’odierna Mauritania.

In compenso, per rimescolare ulteriormente le carte nel discutere le modalità dell’indipendenza per l’Africa occidentale francese, i rappresentanti della Costituente di Dakar scelsero per i territori lungo il corso del Niger il nome di Mali, inoltrandosi in un pellegrinaggio ideale alle più profonde radici della storia della regione.

Non a caso Timbuktu, Gao, Djenné e le grandi città mercato del delta interno, conservano nel semplice svolgersi della vita, nelle caratteristiche della pianta urbana, nel carattere degli abitanti, la luminosa eredità dell’antico Mali.

L’odierna Repubblica del Mali copre una vasta frazione dei bacini dei due grandi fiumi dell’Africa occidentale, il Senegal e soprattutto il Niger.

Quest’ultimo attraversa il Mali per 1800 chilometri, asse privilegiato di comunicazione e insediamento, con la grande ansa verso nord che attraversa le sabbie del Sahara.

Il paragone col Nilo è d’obbligo: come il “padre dei fiumi”, il Niger scorre nel deserto, si impaluda in un grande delta interno ed è agitato da rapide fin quasi alla foce.

Come il Nilo, il Niger è stato via di penetrazione commerciale e militare e testimone di grandi civiltà. Dai tempi remoti che videro sorgere il regno di Ghana fino all’epoca attuale, il traffico di genti e merci non ha mai smesso di solcare il fiume. Il Niger riassume in sé la continuità della storia del Mali, dagli splendori passati alle speranze di oggi.

Il Paese può essere sommariamente diviso in tre grandi regioni naturali che corrispondono, in concreto, a due zone climatiche: quella sahariano-saheliana e quella sudanese.

La regione che costeggia il deserto appariva alle carovane che venivano dal Nord come la riva dell’oceano, da cui il nome Sahel (in arabo, letteralmente “sponda”). Una distesa piatta, uniforme, sabbiosa, con precipitazioni torrenziali e irregolari, vegetazione limitata a ciuffi di arbusti spinosi e a qualche acacia. È la terra dei pastori nomadi.

Più a sud, dopo aver lasciato Timbuktu, il Niger si allarga in un immenso delta interno. Un fitto reticolo di canali, affluenti e stagni è quel che resta di un vasto lago, prosciugatosi alcune migliaia di anni fa. La vegetazione è più rigogliosa, la terra fertile: gli arabi chiamarono questa regione, dall’Atlantico al Nilo, Bilad el-Sudan, la Terra dei Neri.

Il Sudan, sufficientemente irrorato dalle piogge, è adatto all’agricoltura e l’abbondanza dei raccolti permise l’insediamento sedentario di popolazioni urbane numerose e attive.

Fu proprio nelle città del delta interno che si sviluppò una nuova e originale dimensione di civiltà, legata a doppio filo al grande commercio carovaniero attraverso il Sahara.

L’oggetto principale di questo traffico era l’oro, estratto in notevoli quantità nelle regioni di Bouré e Bambouk e scambiato con sale, tessuti e rame. Il monopolio del commercio dell’oro fu uno dei fondamenti dello sviluppo dei regni di Ghana, Mali e Songhai.

I documenti commerciali, fortunosamente conservati negli archivi del Cairo, ci danno prova di come le monarchie lungo il Niger fossero inserite nel gigantesco sistema commerciale che, facendo perno sull’Egitto, si estese dopo l’anno Mille dalla Spagna alla Cina.

A riprova di questa tesi, ecco cosa scrive un mercante egiziano dell’ epoca a un suo socio e corrispondente al Cairo.

Sono appena giunto da Almeria in Spagna. Il vostro collega in affari della marocchina Fez mi ha mandato qui un lingotto d’oro, certamente proveniente dal Sudan, per comprare seta spagnola per voi. Ma non credo sia una buona idea, e vi mando invece l’oro. Al tempo stesso un amico del vostro collega d’affari mi ha consegnato una certa quantità di ambra grigia che vi mando sempre per questo mezzo. Vuole che gli mandiate cinque fiaschi di muschio per lo stesso valore. Vendete per piacere l’ambra grigia e comprate il muschio perché devo spedirlo subito.

Questa piccola operazione commerciale amichevole riguardava ambra grigia dall’Africa tropicale, muschio dall’Asia e oro proveniente dai mercati di Djenné e Timbuktu.

I compartimenti in cui si svilupparono i regni sudanesi non erano poi così stagni come si tende a credere. Le mappe commerciali dell’epoca danno forma a un quadro di viaggi sicuri e regolari, un commercio continuativo che faceva largo uso del credito a lunga scadenza e la cui rete garantiva la costante distribuzione di merci su distanze incredibili per l’epoca.

Ma che tipo di civiltà esprimevano questi sistemi monarchici? Quale potere rappresentavano i mansa del Mali? Nonostante le frequenti guerre di conquista, l’ordine sociale e politico non era mantenuto con la forza delle armi. L’autorità del re era rituale, di diritto e non di fatto. La figura del mansa garantiva l’armonia della società con le tradizioni e gli antenati, incarnava il bene materiale e spirituale del proprio popolo. La letteratura araba del tempo formicola di aneddoti e descrizioni ma poco ci dice sulla natura di questi regni e sulla loro origine.

Le prime tracce di un’istituzione di governo, facente capo a una dinastia, possono ravvisarsi già nel regno di Ghana, dalla metà del primo millennio della nostra epoca.

In pratica, la nascita delle monarchie nell’Africa occidentale subsahariana segue una cronologia parallela a quella dell’Europa anglosassone e francese. La penetrazione commerciale e culturale dell’islam a sud del Sahara, contribuì ad accelerare e modellare la trasformazione della discendenza in dinastia, del consiglio degli anziani in governo.

Il controllo del traffico commerciale, il grande volume e valore delle merci che affluivano ai mercati, la crescente domanda di oro, esigevano apparati di gestione più complessi e articolati. Il commercio inoltre stimolò una produzione di beni voluttuari, o comunque superiori alla stretta necessità, e si formarono nuove caste di artigiani e mediatori.

Nasce a questo punto la necessità di un controllo centralizzato che garantisca la sicurezza, diriga le specializzazioni e protegga l’integrità della stirpe nel contatto con nuove civiltà.

Le origini del regno del Mali hanno a che fare più con la leggenda che con la storia. L’accentrarsi del potere nelle mani del clan Keita, dietro l’aneddotica e la magia, è l’esempio storico di questo processo. Nel 1076 il regno di Ghana, saccheggiato dagli Almoravidi, dissolveva la sua fragile identità in un mosaico di domini locali. Tra questi il Sosso, che sotto la guida di Sumanguru, riuscì a conquistare il predominio. Ma il piccolo regno Keita non tardò a reagire e la sua riscossa ebbe in Sundiata un mitico protagonista.

Dopo un lungo periodo di guerra, la battaglia finale tra Sundiata e Sumanguru ebbe luogo sulle rive del Niger, fra le terre dei Sosso e quelle dei Malinké. La vittoria di Sundiata, risultato dei suoi poteri magici, aprì ai successori le porte di un dominio vastissimo: nasceva l’Impero del Mali, la cui struttura doveva essere in qualche modo simile al modello feudale europeo, dove i rapporti di vassallaggio implicavano le relazioni tra i vari lignaggi.

Tra i grandi re del Mali la storia ricorda soprattutto mansa Kankan Musa, autore di un famoso pellegrinaggio alla Mecca. In quell’occasione la quantità di oro immessa sul mercato del Cairo dal re e dal suo seguito fu tale che il prezzo crollò verticalmente e per 12 anni non si ristabilì un indice corretto. Sotto Kankan Musa, il Mali raggiunse il massimo dello splendore. Dal Cairo e da Alessandria una nutrita schiera di poeti, architetti, letterati e medici venne a stabilirsi alle corti di Timbuktu e Djenné. Le grandi città universitarie lungo il Niger divennero poli di attrazione della cultura del tempo, una cultura originale e viva il cui rapporto con l’islam non fu mai di dipendenza, bensì un fecondo scambio di dottrine.

La ricchezza del mansa era favoleggiata come immensa. Il geografo arabo Ibn Battuta soggiornò lungamente alla corte di un successore di Kankan Musa ed ebbe a osservare con stizza che a tanta ricchezza non corrispondeva uguale munificenza.

Accompagnato nei suoi alloggiamenti, in luogo di oro e seta trovò “tre focacce, un pezzo di bue fritto in olio locale e una zucca di latte cagliato acido”. Per un re che governava una terra di “quattro mesi di viaggio in lunghezza e altrettanti in larghezza” era decisamente un po’ poco. Al deluso Ibn Battuta che sognava doni e appannaggi principeschi, sembrò più l’accoglienza tradizionale di un capo tribale che di un principe islamico. Non aveva torto, in effetti in Africa occidentale l’islam fu interpretato in forma del tutto particolare. Di fronte a una classe di notabili e mercanti che osservavano, pur superficialmente, i dettami dell’ortodossia, stava il mondo rurale, tenacemente chiuso nelle sue credenze animiste.

Il declino del Mali fu lento e irreversibile. Le incursioni di Tuareg, Mossi e Fulani si moltiplicarono. Nel 1435 i Tuareg saccheggiarono Timbuktu. A est il nascente impero Songhai conquistò Gao e vi pose la capitale. Il Mali si smembrò in una quantità di piccoli regni e l’egemonia che il regno di Mali aveva esercitato per oltre due secoli sul Sudan si trasferì naturalmente all’impero Songhai. Poi, nel 1594 un corpo di spedizione calò dal Nord e giunse a saccheggiare Gao. Un migliaio di mercenari marocchini e spagnoli, armati di cannoni e fucili, bastarono a sbaragliare le forze del Songhai.

Al posto di quelli che erano stati i grandi imperi dell’Africa occidentale rimase un gruppo di popoli frazionati e divisi, pronti a vendersi l’un l’altro. Il traffico degli schiavi verso le Americhe – nei 250 anni che seguirono – svuotò letteralmente il Sudan del potenziale umano necessario a costituire una società civile. Il clima di terrore e di insicurezza degradò profondamente le strutture sociali e all’autorità legittima si sostituì il potere. Le linee di sviluppo della storia africana furono tagliate alle radici. La schiavitù distrusse la cultura e la civiltà dell’Africa. La ricostruzione di una variante moderna delle grandi civiltà perdute è il grande enigma del futuro africano.

Sven Hedin e i misteri del lago errante

di Paolo Novaresio

 “Da un anno intero io non ho potuto ridere per colpa tua, perché tu mi hai mentito, io non ho avuto nessuna gioia da te, le mie lacrime sono scorse come un fiume. Dio non ha voluto che fossimo amici. Le tue pupille e le tue ciglia sono fra le più belle che esistano”. Sven Anders Hedin

La monotona melodia risuonava da più di un secolo sulle labbra degli abitanti del Lop Nor, il lago errante perduto nel cuore dell’Asia. Sven Hedin, o He-Dani come lo chiamavano gli indigeni, la trascrisse puntualmente nel suo giornale di viaggio. Era l’undici giugno del 1899 e la breve estate continentale concedeva notti tiepide e cieli limpidi.  Hedin era partito un anno prima da Stoccolma per la sua seconda grande spedizione in Asia centrale.

Nel primo viaggio l’esploratore svedese si era addentrato nelle sconosciute distese desertiche del Taklamakan, nel cuore del Turkestan orientale. Inesperto e quasi privo di mezzi, aveva rischiato di morire di sete nel deserto, com’era successo a gran parte dei suoi compagni.

Questa volta invece il suo bagaglio era proporzionato all’impresa: 1130 kg di attrezzature eccellenti, ripartite in ventitré casse e contenenti un letto smontabile, un battello in tela di fabbricazione inglese (pieghevole e così leggero da poter essere trasportato da un uomo solo), quattro macchine fotografiche e un’intera biblioteca. Le due spedizioni compiute da Sven Hedin alla fine dell’Ottocento attraversando i deserti del Taklamakan e di Gobi e l’altopiano del Tibet

Non mancavano gli occhiali da ghiaccio: Hedin ne aveva con sé ben cinquantotto paia. Le scorte di cibo sarebbero state sufficienti per due anni.

Il ricco corredo di strumenti di misurazione dimostrava che il salto di qualità dal tipo di esplorazione classica a quella moderna era ormai un fatto compiuto. Il nuovo esploratore partiva, infatti, con uno scopo ben preciso, volto alla ricerca scientifica: raccogliere e analizzare dati sui territori attraversati.

Il 19 febbraio 1901 Hedin festeggiava il suo trentaseiesimo compleanno in una zona inesplorata del deserto di Gobi. Il giorno prima una tremenda bufera di sabbia aveva cancellato ogni traccia e confuso l’orizzonte delle dune.

Gli uomini esausti vagavano alla ricerca di una sorgente, un punto imprecisato, sperduto chissà dove nel micidiale mare di sabbia.

Ancora un giorno, forse poche ore, e i cammelli, da dodici giorni senz’acqua, avrebbero cominciato a morire l’uno dopo l’altro. E gli uomini non avrebbero tardato a seguire la medesima sorte. Tuttavia quel giorno Hedin ebbe il più bel regalo di compleanno che a suo dire gli fosse mai capitato: improvvisamente uno dei suoi uomini scivolò per caso su un grande ammasso di ghiaccio.

Era la sorgente, gelata dalle temperature polari di fine inverno, che durante la notte raggiungevano i venti gradi sotto zero. Hedin distribuì il ghiaccio triturato ai cammelli e ai cavalli sfiniti: i loro occhi, disse, brillavano di contentezza. Placata la sete, gli uomini scavarono grandi buche che, riempite di brace ardente, vennero poi ricoperte di sabbia. Sdraiandosi sulla terra calda, era possibile strappare qualche ora di sonno al gelo della notte. Su quella antica via carovaniera si era probabilmente avventurato, quasi seicento anni prima, Marco Polo.

Ormai l’oasi di Altimisch Bulak era a poche decine di chilometri ma Hedin piegò verso sud, in direzione dell’antico bacino prosciugato del Lop Nor. Pochi mesi prima, vagando a tentoni in una tempesta di sabbia, uno dei membri della spedizione aveva scoperto per caso le rovine di un antico insediamento urbano. Hedin presumeva che il fortunoso ritrovamento fosse la chiave per svelare i segreti dell’antica città di Loulan, in passato fiorente centro carovaniero sulle sponde del gran lago.

Ben presto gli scavi diedero i primi risultati: monete cinesi, una lampada in rame, un frammento di legno scolpito a forma di pesce (ciò che testimoniava la passata esistenza dell’acqua). Ma non bastava, Hedin era testardo: “Queste rovine io voglio costringerle a parlare e non intendo partirmi di qui a mani vuote”, scrisse nel suo diario. Dalla sabbia emersero i resti di un tempio dedicato a Budda e, infine, la grande scoperta. In una casupola d’argilla, a sessanta centimetri di profondità, Hedin trovò 200 manoscritti e molti bastoncini coperti di caratteri cinesi. Quei pezzetti di carta consumata dal tempo contenevano la spiegazione del mistero del Lop Nor.

I sinologi russi e tedeschi che in seguito li decifrarono, confermarono che l’intuizione di di Hedin era esatta: la città di Loulan era davvero situata sulle sponde del lago. Prima della sua distruzione a causa di un’inondazione, nel IV secolo, la città era un importante centro commerciale dell’impero cinese, in cui confluivano le merci (soprattutto grano) che venivano distribuite per tutta la regione. Hedin si imbatté anche in una ruota, che faceva supporre l’esistenza di una rete carrozzabile. La scoperta era importante non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello geofisico, poiché dimostrava le migrazioni del lago errante, il Lop Nor. Hedin fece accurate livellazioni della regione, che era assolutamente piatta: misurato su una distanza di trentadue chilometri, il dislivello non era che 11 centimetri.

Proseguendo l’esplorazione Hedin si trovò ben presto in un vero e proprio labirinto di acque. Il paesaggio era mutato drasticamente, nell’arco di una sola settimana: un nuovo lago di circa 50.000 metri quadrati si era formato per infiltrazione, quasi sotto gli occhi dell’esterrefatto esploratore.

In certi punti l’acqua zampillava fino a un metro di altezza, mista a grosse bolle d’aria. Il lago si stava progressivamente spostando verso nord.

A sud la sponda si prolungava in depositi di fango, sabbia e piante in putrefazione, mentre a nord il forte vento scavava le superfici asciutte, preparando al lago un nuovo letto. Così la vegetazione, la vita animale e gli abitanti seguivano il Lop-Nor in queste sue peregrinazioni periodiche.

“In avvenire sarà possibile determinare la lunghezza del periodo di queste oscillazioni; per ora non sappiamo altro di certo che nell’anno 265, ultimo anno di regno dell’imperatore Yuan Tis, il Lop Nor si trovava nella parte settentrionale del deserto”. Con queste parole Hedin sapeva di aver trasformato una leggenda in una serie di dati scientifici, commensurabili e in certa misura prevedibili. Gli antichi segreti del Lop Nor erano finalmente stati svelati.

L’ultimo saluto del grande lago fu un vero e proprio uragano di sabbia, il temuto kara-buran. Per due giorni Hedin fu costretto a rimanere rinchiuso nella sua yurt, la grande tenda mongola adibita a quartier generale.

Alla tremula luce di una lampada cinese l’esploratore aggiornò il suo diario di viaggio con le nuove eccitanti scoperte. Poi cominciò a organizzare la parte più problematica del viaggio: raggiungere l’altopiano tibetano e penetrare nella misteriosa città santa di Lhasa, preclusa agli stranieri.

Per entrare a Lhasa, Hedin meditava di travestirsi da pellegrino mongolo, con l’aiuto di un autentico Lama incontrato nella città di Urga, che acconsentì ad accompagnare la carovana lungo il pericoloso itinerario. Hedin tentava intanto di imparare il mongolo.

La spedizione lasciò la regione del Lop nel maggio del 1901, in assoluto incognito. Ma Hedin, nonostante la voluminosa pelliccia gialla e le scarpe a punta rialzata, non riuscì a ingannare le sentinelle tibetane.

Fu fermato e rimandato indietro per ordine personale del Dalai Lama.

La marcia per sottrarsi all’autorità tibetana, verso ovest e il Ladak, fu lunga e piena di patimenti. L’esploratore scrisse nei suoi appunti: “Quando verso il tramonto il cielo comincia ad offuscarsi ad oriente, mi pare che la notte voglia stendere il suo velo sopra il paese del Dalai Lama e proteggere con le sue tenebre i misteri che racchiude…”

Nel maggio del 1902 la spedizione arrivò a Kashgar, con la primavera al massimo splendore. Poco più di un mese dopo Hedin rivedeva le coste svedesi. Le sue peregrinazioni erano durate tre anni e tre giorni.

I granelli di sabbia del Gobi, annotò, “ancor oggi cascano dal mio giornale di viaggio”.

Carlo Piaggia, vagabondo del Nilo

di Paolo Novaresio

Chi era Carlo Piaggia? Un esploratore, un cacciatore, un mercante? Certo, tutto questo e anche qualcosa in più. È difficile inquadrare la sua personalità nell’affollata platea degli esploratori del bacino del Nilo.

Sicuramente, come molti altri, Piaggia era spinto da una curiosità divorante per il nuovo, e agitato da un’irrequietezza di fondo che lo trascinava a fuggire dal quotidiano. L’Africa fu per lui la grande occasione di un’esistenza diversa. La semplice e sincera confessione di Joseph Thomson, il viaggiatore scozzese che attraversò le steppe dei Masai fino alla regione dei Grandi Laghi equatoriali, sembra attagliarsi perfettamente alla sua figura: “Sono destinato a essere nomade. Non sono un fondatore di imperi, né un missionario, e neanche un vero scienziato. Voglio solo tornare in Africa per continuare i miei vagabondaggi”.

Carlo Piaggia partì per l’Africa nel 1851, all’età di ventiquattro anni.

Proveniva da una famiglia di contadini di Lucca: era sprovvisto di cultura accademica e scientifica ma in compenso dimostrava un’incredibile versatilità negli affari pratici, che gli consentiva di imparare qualunque lavoro in poco tempo. Nell’ambiente vivace e cosmopolita di Alessandria d’Egitto, Piaggia si trovò perfettamente a suo agio: fece il pescatore di conchiglie nel mar Rosso, il legatore di libri, il cappellaio, il verniciatore, l’armaiolo e altri mestieri diversi.

L’itinerario seguito da Carlo Piaggia per raggiungere da Khartoum le immense regioni del Bahr al-Ghazal dove abitavano i temuti Azande, detti “niam-niam”.

Nel 1856 lo troviamo a Khartoum, in compagnia di un gruppo di mercanti bolognesi e francesi, intento alla caccia dei marabù (le cui piume erano allora esportate in Europa come articolo di lusso). Fu allora che Piaggia scoprì la sua indole di viaggiatore. Lasciò Khartoum e si mise a risalire il corso del Nilo, attraversando le grandi paludi che il fiume forma alla confluenza con il Sobat, e giungendo fino all’avamposto di Gondokoro, dove erano sorte le prime missioni cattoliche. Piaggia vagabondò per ben tre anni su e giù per il fiume, a caccia di elefanti, entrando in diretto contatto con la sordida realtà del traffico degli schiavi.

A ovest del Nilo si estendevano le immense regioni del Bahr al-Ghazal, il Fiume delle Gazzelle, soglia di accesso all’impenetrabile cuore del continente, allora completamente sconosciuto all’Europa (ma non ai mercanti di schiavi musulmani). Le notizie che giungevano ai villaggi lungo il Nilo parlavano di animali misteriosi e popolazioni di cannibali con la coda.

Dai tempi di Erodoto la conoscenza di quelle terre non era progredita di un solo passo. Piaggia tornò in Italia, ma non vi restò a lungo.

Il demone della scoperta lo aveva ormai catturato.

Qualche tempo dopo rieccolo a Khartoum, che allora funzionava come trampolino di lancio per le spedizioni dirette verso l’interno del continente.

Dopo lunghe trattative riuscì ad aggregarsi a una carovana di mercanti di avorio: in cambio della sua guida, una scorta armata lo avrebbe accompagnato fino ai primi villaggi dei temuti Azande, detti “niam-niam” e considerati cannibali (ne abbiamo parlato in Cannibali, leggende e verità).

Prima di partire, in un paio di settimane, aveva raccolto materiale e provviste. Ben poca roba, a quanto risulta: cinquanta chili di biscotti, un po’ di riso, zucchero, caffè, fiammiferi, candele, pochi metri di tela di cotone bianco, filo da cucire e “una piccola tenda da viaggio, una cassetta di ferri per la riparazione delle armi da fuoco, cento libbre di piombo da caccia, palle, un migliaio di capsule, una trentina di scatole di polvere da caccia, i ferri da falegname, un cannocchiale, un termometro e una bussoletta tascabile”.

Il bagaglio di un artigiano più che di un esploratore di terre ignote.

Le popolazioni locali ostacolarono duramente la marcia della colonna, che si salvò a stento da un incendio appiccato dagli indigeni alle erbe della savana. Dopo un mese la carovana arrivò ai limiti del territorio dei famigerati Niam-Niam.

Il comandante dei soldati fece firmare a Piaggia un documentò che lo scaricava di ogni responsabilità e tornò immediatamente indietro.

Piaggia rimase solo e ben presto fu avvicinato dal capo di un vicino villaggio, che lo accolse amichevolmente. Fu alloggiato in una capanna costruita apposta per lui e per le mogli che senz’altro, nella sua posizione, sarebbe stato suo diritto avere.

Piaggia restò fra i “niamniarri”, come li chiamava lui, per più di un anno e mezzo. All’inizio aveva una gran paura di essere mangiato dai suoi ospiti (vedeva ovunque inquietanti segni di antropofagia), poi si tranquillizzò e si tuffò con zelo nella nuova vita. Per ingannare il tempo andava a caccia di uccelli rari per le sue collezioni, discuteva con i fabbri del luogo sui metodi più pratici per lavorare il ferro e costruì con mezzi di fortuna un mulino per macinare le sementi. La novità destò grande entusiasmo nel villaggio, ma pochi giorni dopo il re ordinò di distruggere il macchinario, in quanto invenzione foriera di inquietanti novità, poiché “le donne non sanno più cosa fare, invece di restare nelle capanne vanno nei boschi… e  la donna quando non lavora va in cerca dell’uomo”.

Nel frattempo gli abiti e gli stivali di Piaggia erano andati a brandelli e l’esploratore dovette  adattarsi a vestire di pelli e a camminare con sandali di cuoio di bufalo da lui stesso confezionati. Intanto, giorno dopo giorno, Piaggia annotava sul suo taccuino tutto ciò che vedeva, disegnando come gli riusciva sagome di capanne, pipe, scudi e utensili. Forse le sue descrizioni dei Niam-Niam appaiono oggi ingenue e imprecise, prive di metodo scientifico, ma restano comunque una testimonianza importante per l’atteggiamento di rispetto e simpatia che ne guida lo stile.

Era la prima volta che un viaggiatore bianco si adattava per così lungo tempo, in totale isolamento dal mondo esterno, ad affrontare la vita quotidiana e i problemi di un popolo considerato primitivo. Gli appunti di Piaggia furono largamente sfruttati dall’esploratore baltico Schweinfurth, che si recò pochi anni dopo in quelle regioni. L’opera di Schweinfurth, intitolata “Nel cuore dell’Africa”, ebbe un grande e immediato successo editoriale.

Invece Carlo Piaggia, poco istruito e incapace di bella letteratura, non riuscì mai a far pubblicare i suoi voluminosi manoscritti.

Eppure Piaggia fu, più di altri, cronista attento e acuto: dei Niam-Niam annotò le tecniche dì estrazione del ferro e di fusione del minerale in forni di terra cruda, le usanze alimentari, le relazioni sociali e le pratiche religiose, descrivendo anche la fauna della zona e le caratteristiche del territorio (la definizione “foresta a galleria” è di sua invenzione). I suoi rapporti con gli africani furono sempre ottimi.

Il ritorno con la carovana dei mercanti fu un disastro: i soldati razziavano e uccidevano uomini, donne e bambini, lasciandosi dietro terra bruciata.

Infine, sulla via di Khartoum, la barca di Piaggia naufragò nel Nilo: alcuni uomini furono divorati dai coccodrilli e molte delle collezioni ornitologiche e parte degli appunti andarono irrimediabilmente perduti.

Dopo un breve soggiorno in Italia, Piaggia tornò per l’ultima volta in Africa, deciso a proseguire i suoi viaggi nell’interno. Poche cose colpiscono il viaggiatore africano come il baobab, che con la sua mole gigantesca e contorta si erge ìn mezzo alle distese di erba gialla che· si prolungano all’infinito verso l’orizzonte. Sotto uno di quegli alberi maestosi, chissà dove, giace ancor oggi Carlo Piaggia, morto di febbri sulla pista che dalle pianure del Sudan meridionale corre verso le montagne etiopiche e le gole del Nilo Azzurro.

Cercando l’Australia

di Paolo Novaresio

 «Vi è ragione di ritenere che un continente molto esteso possa trovarsi a sud della rotta seguita recentemente dal capitano Wallis…». Il messaggio, tradotto in linguaggio burocratico, era scritto su un plico sigillato, che fu consegnato in via riservata al capitano Cook. L’Australia. Tra i pochi grandi miti geografici scampati al razionalismo tagliente dell’età dei Lumi, la Terra Australis conservava un posto di prestigio.

James Cook, nato in Inghilterra nel 1728, animato da una prepotente vocazione per gli oceani inesplorati, partì per il primo dei suoi tre viaggi di scoperta nel 1768, finanziato dalla Royal Geographic Society.

A sua disposizione: cento tra marinai e soldati di equipaggio, un gruppo di astronomi per studiare il passaggio di Venere sul disco solare previsto a Tahiti, due botanici, pittori e cartografi per rilevare le eventuali nuove terre scoperte, destinate a popolare le cartine geografiche dell’epoca.

La nave si chiamava  “Endeavour”, cioè Tentativo, ed era una carboniera di 368 tonnellate di stazza, ristrutturata e perfettamente attrezzata per le attività di ricerca ed esplorazione. Il compito di Cook era racchiuso nelle sommarie indicazioni che il capitano aveva ricevuto dall’Ammiragliato: navigare verso sud, fino al 40° parallelo, poi puntare a ovest.

E tenere gli occhi aperti, perché laggiù, forse, si sarebbe trovata l’Australia.

La prima tappa di Cook fu Tahiti, allora tappa d’obbligo per i navigatori del Pacifico. Grossa isola dagli attracchi sicuri, benedetta dalla natura e sognata dall’Europa esotizzante, che amava il “buon selvaggio” e leggeva avidamente Rousseau.

Tahiti fu circumnavigata in barca e battuta palmo a palmo a piedi da Cook e dai suoi uomini, che con centinaia di schizzi e acquerelli ne disegnarono l’intero profilo, la costa e i porti naturali. Ogni aspetto della vita dei tahitiani fu accuratamente studiato, secondo i canoni puntigliosi dettati dagli scienziati illuministi e con tutto il rispetto che l’Europa del settecento poteva garantire a una cultura non europea.

Joseph Banks, il futuro presidente della Royal Geographic Society, che aveva voluto a tutti i costi partecipare all’impresa, annotò meticolose descrizioni del regime alimentare delle popolazioni locali, che mangiavano frutti dell’albero del pane, pesce, qualche maiale, banane, frutti selvatici e cucinavano la carne di cane in rudimentali forni di pietra: “Il cane del mare del Sud”, annotò impassibile Banks, “ha un gusto buono quasi quanto quello dell’agnello inglese; e a suo vantaggio si deve dire che vive quasi interamente di verdure; probabilmente i nostri cani non avrebbero un sapore così buono”. A Tahiti c’erano anche oche e tacchini, probabile eredità della spedizione inglese di un anno prima.

Mentre Banks si occupava della gastronomia locale, Cook spendeva le proprie energie nel tentativo di rendere meno traumatica e invadente possibile la sua presenza sull’isola. Tanto per cominciare, vietò immediatamente al suo equipaggio di barattare con gli indigeni oggetti di ferro.

La nave di Wallis, infatti, durante la precedente sosta a Tahiti, aveva rischiato di affondare perché in un mese i marinai avevano clandestinamente estratto tanti chiodi di ferro da compromettere lo scafo: dato che a Tahiti bastava un chiodo per ottenere qualunque cosa, comprese le ragazze dell’isola, la minaccia era più che reale.

Cook cercò anche di premunirsi contrò i furti, per i quali i tahitiani mostravano un’insistente inclinazione e un’abilità tale “da coprire di vergogna il miglior tagliaborse d’Europa”.

Nel frattempo il gruppo di scienziati a bordo non perdeva tempo: furono studiate le canoe, le lenze da pesca e le stoffe degli indigeni, ricavate da fibre vegetali con risultati giudicati da tutti sorprendenti.

Cook fece incetta di grandi scorte di viveri freschi, per variare la dieta dei marinai durante la navigazione.

Prima di lasciare l’Inghilterra, con singolare lungimiranza per l’epoca, alla carne salata e ai biscotti, il capitano aveva aggiunto crauti e minestra in tavolette, senza esitare a ricorrere a punizioni corporali per chi rifiutava le razioni.

In virtù di questa saggia politica alimentare, a differenza di quasi tutti gli equipaggi impegnati in lunghe traversate marine, gli uomini non si ammalarono di scorbuto. In compenso, metà di loro prese la sifilide mentre la nave era ferma a Tahiti.

Come il capitano ebbe cura di precisare, la malattia era stata portata sull’isola da spedizioni precedenti.  Il paradiso in Terra aveva subito la prima, fatale corruzione.

L’Endeavour lasciò Tahiti dopo qualche mese di esplorazioni e di osservazioni astronomiche, avventurandosi verso la costa ovest della Nuova Zelanda.

I paradisi polinesiani erano ormai un altro mondo: in Nuova Zelanda la spedizione fu accolta dalle canoe da guerra degli indigeni maori, da cui dovette difendersi facendo uso delle armi da fuoco.

I rilevamenti si fecero difficili e pericolosi, ma Cook riuscì a circumnavigare interamente la nuova terra, dimostrando che si trattava di due isole e non di una sola, come si credeva.

Il momento cruciale era giunto. Non restava che eseguire gli ordini segreti dell’Ammiragliato. Cook si inoltrò nell’oceano verso occidente.

Senza saperlo, stava per entrare in uno dei tratti di mare più pericolosi del mondo: il labirinto di secche e bassifondi della Grande Barriera corallina australiana. L’Endeavour si incagliò nelle rocce madreporiche, rischiando di affondare.

Il capitano la pilotò faticosamente fino alla sconosciuta costa orientale dell’Australia, poco più a sud di dove oggi si trova Sydney.

La costa est del nuovo continente fu rilevata con una precisione senza precedenti, collezionando una serie di osservazioni e dati che sono ancora oggi validi.

Riparata la nave e ripreso il mare, dopo due mesi di navigazione Cook riuscì a raggiungere il possedimento olandese di Batavia (Giava).

E infine, dopo più di tre anni di viaggio, a missione compiuta, l’Endeavour giunse in vista delle coste inglesi.

James Cook sarebbe salpato ancora due volte, per circumnavigare l’Antartide e poi per esplorare le coste dell’America Settentrionale fino allo stretto di Bering. Non furono i rischi e gli imprevisti della navigazione a sorprenderlo. Per uno strano gioco del destino, morì proprio per mano di quei “buoni selvaggi” che tanto amava e rispettava: fu ucciso alle isole Hawaii il 14 febbraio del 1779.

Alexander von Humboldt

di Paolo Novaresio

L‘uomo bianco faceva sempre domande, qualunque cosa vedesse. Raccoglieva testimonianze e scriveva, scriveva. Al ritorno avrebbe svelato all’Europa i segreti affascinanti della natura equatoriale del Nuovo Mondo. Quella notte, però, il 6 aprile 1800, vinse lo stupore. La luna illuminava la sommità di Tepu-Mereme, la “roccia dipinta”, rivestendola di un’aurea surreale. Chi mai aveva potuto tracciare quei segni sui massi di granito che emergono dal fitto della vegetazione soffocante dell’alto Orinoco? Figure di corpi celesti, serpenti e coccodrilli erano scolpiti su strapiombi irraggiungibili. Furono gli indios Tamanac a spiegare sorridendo allo straniero bianco che all’epoca delle Grandi Acque i loro padri arrivavano fino a quell’altezza in canoa. Lo straniero si chiamava Friedrich Heinrich Alexander, barone von Humboldt.

Nato a Berlino, età anni 28, altezza metri 1.70, capelli bruno-chiari, occhi grigi, grande naso, fronte aperta segnata da cicatrici di vaiolo… viaggia per acquisizione di sapienza”. Così recita e lo descrive il passaporto francese, ottenuto pochi anni prima a Parigi, capitale scientifica e intellettuale del tempo e sua patria d’adozione.

Oggi il mondo ha quasi dimenticato la grande opera di Humboldt, il progetto di sistemazione organica del sapere geografico, basata su una strategia generale dello studio della natura. Ma allora, al ritorno dal grande viaggio nel Nuovo Mondo, Humboldt era uno degli uomini più famosi e stimati d’Europa. Moltissimi i luoghi che portano tutt’oggi il suo nome: più di quelli dedicati a qualunque altro scienziato ed esploratore. Quattordici città negli Stati Uniti, una in Canada. Montagne in Australia, Antartide, Nuova Zelanda. La grande corrente fredda al largo delle coste peruviane. Il più esteso ghiacciaio della Groenlandia e uno dei mari sulla superficie della luna.

Neppure un monumento, invece, a Cumaná, la sonnolenta cittadina del Venezuela dove Humboldt sbarcò insieme al botanico Aimé Bonpland per intraprendere il più grande viaggio privato della storia. Eppure Cumaná, dove avvenne il primo incontro di Humboldt con la natura equatoriale lungamente sognata, fu forse il più amato dallo scienziato prussiano, che non scordò mai quel luogo: “Cumaná e la sua terra polverosa si riaffacciano ancor oggi nella mia mente, più sovente di tutti i meravigliosi scenari delle Cordigliere”.

Dopo sei anni di studio e di preparazione, e molti tentativi infruttuosi, il giovane scienziato poteva finalmente contemplare il cielo tropicale, ricco di meteore e stelle cadenti: per gli indios nient’altro che i riflessi delle pietre d’argento del leggendario lago Parima. Da Cumaná la spedizione si addentrò nei llanos, le desolate praterie che si stendono tra la costa e l’Orinoco.

Il caldo torrido, con temperature fino ai 50° (Humboldt riempì il cappello di foglie per avere un po’ di sollievo), l’orizzonte infinito e polveroso, confuso dai miraggi, misero a dura prova la resistenza dei viaggiatori. Dopo la stagione delle piogge, che trasformavano i llanos in un immenso acquitrino, erano rimaste grandi pozze fangose. Qui Humboldt ebbe modo di studiare una delle più stupefacenti creature del Nuovo Mondo, l’anguilla elettrica dell’Amazzoni, che può dare scosse fino a 650 volt, sufficienti a stordire e uccidere un uomo. Per catturarle vive senza pericolo gli indios fecero entrare a forza un branco di cavalli nell’acqua. Alcuni, terrorizzati e storditi dalle scosse elettriche, annegarono, ma cinque grosse anguille furono catturate vive. Humboldt le studiò accuratamente, sperimentando suo malgrado la loro potenza elettrogena.

Superati i llanos, la spedizione raggiunse il Rio Apure, uno dei primi affluenti dell’Orinoco. La guida di Humboldt, nel dedalo di corsi d’acqua della foresta amazzonia, fu un frate francescano spagnolo, abituato da anni alla vita nella giungla. Padre Bernardo Zea condusse i due scienziati a una delle poche spiagge dell’Orinoco dove deponevano le uova le grandi tartarughe note in loco come arrau. Dalle uova, mediante bollitura, gli indios ricavavano un olio limpido e di ottimo sapore. Humboldt calcolò che su quella sola spiaggia si radunavano a deporre le uova almeno 330.000 tartarughe.

Il viaggio procedeva verso l’interno, lungo il corso dell’Orinoco. La navigazione era resa penosa dal crudele tormento degli insetti, soprattutto sciami di zanzare, le cui punture provocavano ferite dolorose e infezioni. Poco più avanti si stendevano le pericolose rapide di Maypures e Atures, lunghe più di quaranta miglia. Un labirinto di acque spumeggianti fra i massi di granito. Per superare l’ostacolo fu approntata una canoa più piccola, sulla quale fu stipato tutto il materiale scientifico, i bagagli, gli erbari e le gabbie con le scimmie e gli uccelli. “Oltre le Grandi Cateratte inizia una terra sconosciuta”, scrisse Humboldt, “il paese delle favole e delle visioni fantastiche”. E aldilà delle montagne la tradizione poneva i miti dell’Eldorado e del lago di Parima. Dopo tre secoli dalla scoperta la conoscenza geografica della regione non era quasi per nulla progredita.

A un certo punto Humboldt lasciò l’Orinoco per un piccolo affluente che seguì fino a trovarsi a dieci miglia dal Rio Negro, il più grande tributario del Rio delle Amazzoni. La canoa e i bagagli furono trascinati a braccia attraverso la foresta fino al fiume. Le acque del Rio Negro erano limpide e fresche. In pochi giorni la spedizione raggiunse il Casiquiare, un canale naturale che collega i due grandi sistemi fluviali dell’Amazzonia, il bacino dell’Orinoco e quello dell’Amazzoni.

 Le due settimane di navigazione sul Casiquiare, il cui corso era praticamente inesplorato, furono le peggiori di tutto il viaggio. Il cielo era sempre coperto di nuvole, notte e giorno. La foresta, alta e impenetrabile, chiudeva il fiume in una morsa verde. I due scienziati erano costretti a dormire sulla piroga, già carica all’inverosimile. È difficile immaginare la difficoltà di procedere in quell’ambiente ostile trascinandosi dietro bagagli, attrezzature, il carico di campioni botanici e 14 uccelli e 11 mammiferi vivi,  con un equipaggio di nove persone stipato in uno spazio ristretto. La foresta era tanto umida da rendere impossibile accendere un fuoco. E non offriva cibo: Humboldt fu costretto a mangiare semi di cacao crudi e, una volta, un ignobile pasticcio di formiche. Una notte un giaguaro si portò via, senza il minimo rumore, il grosso mastino che faceva la guardia al centro del campo. Infine la biforcazione dell’Orinoco fu raggiunta.

Dalle carte geografiche spariva il lago Parima ed entrava, accuratamente rilevato, il Casiquiare. Il villaggio semiabbandonato di Esmeralda era l’unico luogo abitato della regione. Qui Humboldt vide preparare il curaro, il letale veleno estratto dalla corteccia della liana Strychnos. Un uomo colpito da una freccia avvelenata moriva in poco più di dieci minuti. Da Esmeralda la spedizione decise di tornare indietro fino a Cumaná.

Il viaggio però non era ancora terminato. Humboldt si recò di nuovo a Cuba, poi attraversò la Cordigliera andina dalla Colombia al Perù. Da Lima, passando per il Messico, fece ritorno in Europa nel 1804, dopo cinque anni di assenza.

 

L’ultimo lago

di Paolo Novaresio

Il conte Teleki von Szeck era un nobile asburgico di rango: bon vivant, piuttosto bene in carne (gli africani lo chiamavano Bwana Tumbo, il “Signor Pancia”), di carattere socievole e buon conversatore. Celibe fino alla fine dei suoi giorni, spese la propria vita tra occasioni mondane, impegni politici, battute di caccia e viaggi. Era immensamente ricco. Benché buon scrittore, come testimoniano le sue lettere al principe Rodolfo, non scrisse una sola riga sul viaggio che lo rese famoso, probabilmente per pura indolenza.

La molla che fece scattare il desiderio di un viaggio in Africa non fu certo spinta dalla brama di gloria: Teleki era restio ad assumersi impegni troppo gravosi e voleva semplicemente divertirsi, collezionando trofei di caccia. La regione del lago Tanganyka, sua prima meta, era già selvaggia a sufficienza per i suoi scopi.

Fu quasi a malincuore che cedette ai consigli del suo illustre amico, il principe Rodolfo d’Asburgo: trasformare una battuta di caccia in un viaggio di scoperta verso terre ancora sconosciute. Come compagno di viaggio e suo luogotenente il conte scelse Ludwig von Hönhel, uno sconosciuto ufficiale di marina.

Teleki era l’aristocratico e lo sponsor, di carattere brillante e determinato, ai limiti della testardaggine. Von Hönhel aveva origini modeste, era un appassionato lettore di libri di viaggio e sognava da sempre l’avventura africana: Teleki gli stava offrendo la più grande occasione della sua vita.

Nonostante le differenze di estrazione sociale e di carattere, i due divennero amici: in ogni caso il loro accordo fu sempre perfetto, poiché la gerarchia imponeva a von Hönhel il ruolo di subalterno. Il loro viaggio, concluso con la scoperta del grande lago battezzato Rodolfo (oggi Lago Turkana), segna il distacco tra la grande epoca dell’esplorazione africana e la modernità.

IL VIAGGIO

Nell’ottobre del 1886 von Honel giunse a Zanzibar per predisporre la logistica e assumere le famose guide locali Jumbe Kimemeta e Qualla Idris. Teleki partì da Pangani, sulla costa dell’odierna Tanzania. La spedizione, equipaggiata con circa trecento armi da fuoco, contava oltre 670 effettivi ed era così composta: 450 portatori, 200 Zanzibariti (con compiti più specializzati), 9 guide, 9 soldati e 7 asinai. Inoltre seguivano il corteo 25 asini, una mandria di 21 vacche e 60 tra pecore e capre.

Per trovare i fondi per l’impresa Teleki vendette una grossa proprietà terriera e un diamante di grande valore storico, già appartenuto ai suoi antenati.

Le spese complessive ammontarono a 130.000 Corone, equivalenti in valore a 40 chilogrammi d’oro (ovvero, alla quotazione attuale, 1.600.000 Euro).

IL MATERIALE

Oltre al materiale da campo, agli effetti personali e alle scorte di viveri, nel bagaglio della classica spedizione ottocentesca in Africa figuravano stoffe, fili metallici, perline di vetro a altri articoli usati come doni e merci di scambio durante il percorso. Teleki ne acquistò quantità inverosimili, tanto che questa voce costituiva oltre la metà del carico al seguito della spedizione.

Ecco una lista sommaria degli articoli destinati ad accattivarsi la simpatia degli indigeni:

600 pezze di cotone bianco merikani (circa 18 chilometri di stoffa)

250 pezze di cotonina indiana blu scuro (7 metri l’una per un totale di 1750 metri)

100 pezze di tessuto rosso vivo bendera assilia (28 metri l’una per un totale di 2800 metri) varie pezze di tessuto di prima e seconda qualità di manifattura araba

perline maasai (da 1/12 a 1/8 di pollice di diametro) di colore rosso, blu, bianco, 2285 kg.

perline Parigi del diametro di un pisello

perline bianche comuni

anelli di vetro (murtinarok) verde, blu, marrone chiaro, circa 1/2  pollice

perline rosso chiaro e blu turchese per la gente del Kilimanjaro

una quantità di grosse perline assortite (mboro)

perline marrone chiaro, blu, bianche (dette perline orientali, introdotte da poco nel commercio dalla casa Filonardi)

filo di ferro (1/5 di pollice), circa 3500 chili

filo d’ottone e rame robusto, 525 chili

406 chili di polvere da sparo (in piccole casse da 11 libbre l’una)

molte migliaia di capsule per fucili ad avancarica

stagno

piombo

filo di ferro fine

conchiglie cauri (Cyprae moneta)

coltelli

occhiali

libri illustrati

marionette

filo dorato

braccialetti e anelli

pugnali

sciabole da marina e cavalleria

vari altri articoli.

Qualche giorno dopo la partenza gli esploratori cercarono di stilare un inventario, assegnando ad ogni portatore il suo fardello, pari a circa 35 chilogrammi.

Dal diario di Ludwig von Hönhel:

“Allora iniziammo ad occuparci della revisione dell’equipaggiamento della spedizione, accatastato in un mucchio talmente consistente nel mezzo dell’accampamento da impedire l’accesso alle nostre tende.

Avevamo:

  • tende, tavoli, sedie, letti, valige piene di vestiti, strumenti, etc.: 65 ca richi
  • armi e munizioni: 35 carichi
  • articoli di uso quotidiano (sapone, tabacco, zucchero, tè, caffè, etc.): 44 carichi
  • equipaggiamento per guadare fiumi e paludi (cavi robusti): 2 carichi
  • medicine, bendaggi, filtri: 3 carichi
  • razzi ed esplosivi: 2 carichi
  • alcool: 1 carico
  • materiale per illuminazione: 3 carichi
  • seghe da legna, pale, asce: 4 carichi
  • utensili, ricambi, corde: 3 carichi
  • lubrificanti per fucili, etc.: 1 carico
  • riso: 5 carichi
  • cognac, vino, aceto: 4 carichi
  • imballaggi: 2 carichi
  • stoffe: 90 carichi
  • fili metallici: 80 carichi
  • cauri, catenelle di metallo, etc.: 5 carichi
  • moneta di rame(per la zona costiera): 3 carichi
  • battello smontabile in 6 parti di metallo, battello smontabile in 2 parti di tela: 22 carichi

Totale  470 carichi

Teleki e von Hönhel raggiunsero il lago Turkana il 5 marzo del 1888, un anno dopo la partenza da Zanzibar. Durante il percorso la spedizione perse oltre i due terzi dei componenti, fuggiti col proprio carico o uccisi in combattimento con tribù ostili. Teleki perse nel viaggio circa 30 chili del proprio peso.

Sulle carte geografiche dell’Africa scompare l’ultimo Ignoto.

Comincia la spartizione coloniale del continente.

 

Il viaggio al Tibet di Padre Cassiano Beligatti

di David P. Gelman

1738-1745. Portavano la parola e l’evangelo del Cristo in capo al mondo, patendo umiliazioni, difficoltà, soprusi. Non hanno avuto troppo successo visto che si sono trovati dinanzi la diffidenza e poi l’aperta ostilità dei religiosi di Lhasa.

Trecendo anni fa i monaci cappuccini giunsero in Tibet, impegnati nella paziente quanto indefessa opera di diffusione del cattolicesimo, senza tuttavia tentare di imporlo o di prevaricare.Tra loro padre Cassiano Beligatti.

Il suo Viaggio al Tibet, pubblicato da Edizioni Il Polifilo (www.ilpolifilo.it) ci appare oggi come  un autentico viaggio nel tempo, caratterizzato da un’insolita franchezza e modestia. Lo sguardo di padre Beligatti è privo di supponenza e pregiudizi: lo spirito di osservazione è quello del vero reporter.

Il suo giornale di viaggio coglie l’essenziale, portandoci alle soglie di un luogo in cui la spiritualità e la divinità ordinano e presiedono il mondo. Per questo il Viaggio al Tibet è un libro importante e ancora attuale.

Noi, profani e improvvisati viaggiatori, non possiamo che avvertire un’eco lontana, seppur consistente, di quel mondo. Anche noi ci siamo recati in quei luoghi, pur senza raggiungere Lhasa, la meta finale. Ci siamo andati assai più comodamente, atterrando sulla coda di un monsone, all’aeroporto di Katmandu. E non abbiamo animo di chiamare la nostra: avventura, se paragonata con quella di padre Beligatti. Trecento anni fa i monaci cappuccini, e oggi noi. Cos’è cambiato in quei luoghi? Tutto e niente.

L’uomo moderno ha il privilegio di entrare e uscire da quel mondo misterioso, che la leggenda narrava abitato da giganteschi serpenti. Un mondo in cui tutto parla di pace, armonia, tolleranza. L’atmosfera che immediatamente avvolge il viaggiatore è preludio a percorsi dello spirito che possono segnare l’esistenza. O più semplicemente rendersi indimenticabili.

In quei luoghi, per ciò che abbiamo visto e avvertito, curiosando fra templi, statue di pietra e divinità di ogni sorta, aleggia una spiritualità diffusa, percepibile, autentica e condivisa dalla gente. Il medioevo asiatico laggiù è ancora di casa.

Ma torniamo al Viaggio al Tibet e al suo autore. Chi era padre Beligatti? In verità della sua vita si hanno scarse notizie. Nacque e morì a Macerata (1708-1785)  e nel 1725 vestì l’abito religioso. Nel 1738 partì per la missione in Tibet e vi rimase due anni, quindi passò in Nepal e nel Bengala. Operoso e modesto, autore di fondamentali opere storiche ed etnografiche riguardanti gli usi, i costumi e le religioni dei territori che lo videro missionario, Beligatti scrisse anche un Alphabetum Tibetanum e due grammatiche: una della lingua indostana, l’altra dell’idioma sanscrito in caratteri malabarici. Diverse altre sue opere, in parte ancora inedite, si conservano nella Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata.

Dell’indimenticabile reportage di padre Beligatti, riportiamo, senza commentarli, alcuni brani.

A pagina 18

… Provvisti dell’occorrente i missionari partirono, e dopo un lungo e dificile viaggio arrivarono a Lhasa nel gennaio del 1741. Fu lor fatta buona accoglienza, specialmente dal re, e, dopo aver appresa la lingua del paese, si dettero a predicare, ma con frutti piuttosto scarsi. Ben presto poi i religiosi tibetani cominciarono a veder di malocchio il favore che i missionari godevano presso il re. Nacque fermento che andò man mano crescendo finché un bel giorno parecchie centinaia, di preti buddhisti, raccoltisi dai vari conventi di Lhasa e dei dintorni, invasero il palazzo reale, e rimproverarono al re il suo contegno. Questi, atterrito, temendo di fare la fine dei suoi tre predecessori, uccisi appunto per odio dei lama, dichiarò ipso facto i padri decaduti dalla sua grazia; impose loro di non predicare nel Tibet se non ai mercanti venuti di fuori…

A pagina 23

… I missionari… si posero in cammino alla spicciolata per raccogliersi poi tutti al porto di Lorient, che doveva essere il luogo d’imbarco… il viaggio attraverso la Francia. Compiuto sempre a piedi, fu assai molesto e malagevole; i frati patirono spesso la fame, e dovettero perlopiù adattarsi a dormire nelle stalle, perché ben di rado i conventi li ospitavano, ma con mille pretesti li mandavano altrove, ed essi erano sempre scherniti, insultati e fatti segno a mille scherzi grossolani…

A pagina 31

… Traversato il fiume Bagmati entrarono in Nepal, e valicata un’alta montagna trovarono il fiume Kakokù, che dovettero passare a guado 9 volte, e viaggiando in mezzo a foreste di pini e d’ippocastani, dopo essre passati per il castello di Kuà giunsero il 6 febbario a Bahagdaon, capitale del regno del medesimo nome, dove da qualche tempo i cappuccini avevano un ospizio. Furono bene accolti dal re e trattati con somma famigliarità, e il Beligatti s’intrattiene a parlare delle prove ricevute della benevolenza regale…

A pagina 33

… La città di Bhagdaon numera 12.000 famiglie. Le genti sono cortesi e affabili: la religione dominante è quella dei brahmani; …La città di Kathmandu conta 18.000 famiglie, e la città di Patan ne conta 24.000…  

A pagina 48

… Il satu non è altro che la farina dell’orzo mondo alquanto abbrustolito prima di macinarlo nelle macinette a mano. La carne è molto abbondante nel Tibet avendo quantità di montoni voltati, e macellando ancora lo yak, specie di bove selvatico; ma fuori dei benestanti non ne fanno grand’uso, per mancanza di legna per cuocerla, la qual mancanza sia stata la cagione dell’uso ch’anno gli tibetani di mangiare la carne cruda…

A pagina 73

… Il giorno del Santo Natale, avemmo la consolazione di dire una messa per ciascuno… che ci recò singolare consolazione. Questo stesso giorno il padre prefetto volle regalarci una pozione, che sogliono fare gli religiosi del Tibet nei tempi più freddi, qual pozione chiamano condè; è composta di decozione di tè, di birra, di zucchero, latte, e un poco di butirro insieme lungamente bollito; lo bevemmo più per compiacere il buon vecchio, che per inclinazione, ma sia lui che la più parte di noi, ne trovammo l’utile di scaricare gli nostri stomachi delle flemme ammassatevi nel viaggio. Dopo il mezzogiorno fummo rammaricati per un accidente che accorse. Gli mulattieri lasciarono alla campagna tutte le loro bestie,quali entrarono a pascolare in un prato riserbato, per lo che furono tutte confiscate…

A pagina 76

… Due giorni prima che noi arrivassimo al lago, la lamessa era partita per Lhasa. Gli tibetani hanno per questa lamessa la stessa venerazione che hanno per il Gran Lama, credendola informata da uno spirito di Cianciub…. Quando esce va sempre sotto baldacchino e è preceduta da due incensieri fermati sopra due muli ne quali gli religiosi brugiano continuamente profumi. Vive celibe facendo voto di castità; ciononostante circa 5 anni prima del nostro arrivo sortì da essa una lamessina, quale per quante diligenze che usarono, pure non poterono impedire che non si rendesse pubblica, lo che raffreddò un poco la venerazione…

Il milanese che valicò le Ande

Vita di Antonio Raimondi,  l’esploratore e cartografo ottocentesco divenuto eroe in Perù

di Marco Boscolo

 Un paese che si libera dal peso del colonizzatore straniero ha la necessità di scrivere la propria storia e di celebrare i costruttori del nuovo Stato. Servono a questo le liturgie pubbliche, i libri e i monumenti. Come le tombe di pietra e marmo che dall’inizio dell’Ottocento raccontano la storia della Repubblica peruviana nel cimitero intitolato al Presbítero Matías Maestro di Lima. Tra i 766 mausolei ce n’è uno che colpisce il visitatore italiano più attento. È quello dove riposa un milanese che ha lasciato l’Italia del Risorgimento per esplorare un “paradiso tropicale” ancora sostanzialmente ignoto e diventare il primo cartografo del nuovo Perù. Il suo nome è Antonio Raimondi e per capire perché oggi è celebrato come un eroe nazionale, con scuole intitolate a suo nome in ogni angolo della cordigliera peruviana, non c’è occasione migliore della mostra che il Museo delle Culture di Milano gli ha dedicato.

La storia di Antonio Raimondi comincia veramente a due passi dalla madunina. Nasce infatti il 19 settembre 1824 in Corsia del Duomo, lo slargo direttamente a nord del Duomo che oggi è parte integrante della sistemazione a piazza dell’area. In età avanzata scriverà di essere “nato con una precisa inclinazione ai viaggi e allo studio delle scienze naturali” e di sognare “dalla prima fanciullezza le splendide regioni della zona torrida”. Sostiene che all’età di tredici anni ha preferito impiegare i soldi ricevuti dalla madre per comprarsi la Storia naturale di Georges-Louis Leclerc de Buffon, punto di riferimento per i naturalisti d’Europa all’epoca. Legge avidamente i resoconti di viaggio di scienziati del Settecento, come Alexander von Humboldt e Louis Antoine de Bougainville, ma anche di esploratori, come James Cook e Cristoforo Colombo. “Nelle mie letture seguivo sulla carta gli itinerari percorsi da quegl’illustri viaggiatori e mi pareva di visitare con essi le numerose isole dell’Oceania le vaste selve dell’America tropicale, apparendomi allo sguardo come in uno specchio i più bei panorami, così pieni di vita, come offre soltanto la zona del nostro globo compresa fra i tropici”. A Pavia, mentre assiste ai corsi sui banchi dell’Università (senza laurearsi), o mentre si sofferma sulle collezioni dell’Orto Botanico di Brera, il suo pensiero è già fissamente altrove.

È la politica a trattenerlo dal prendere il mare verso l’America Latina. Siamo in pieno fervore risorgimentale, con un’Italia divisa, oppressa a nord dall’occupazione austriaca, bloccata dal potere clericale al centro e guidata paternalisticamente dai Borboni nel Meridione. Nel 1848, l’anno in cui, per usare l’immagine di Alexis de Tocqueville, il vulcano della rivoluzione erutta in tutt’Europa, Antonio Raimondi è sulle barricate della sua Milano durante le Cinque Giornate. Ha 24 anni e, come molti suoi coetanei, è percorso da ideali liberali: scacciare lo straniero è la giusta causa da combattere. Il fallimento della liberazione può forse farlo vacillare, ma non lo abbatte. L’anno successivo, infatti, è tra le fila garibaldine a combattere per la Repubblica Romana nata con il ritiro di papa Pio IX dalla città eterna. È solo quando anche quest’atto eroico si infrange contro le armi dell’esercito francese – giunto in aiuto alla Chiesa – che Antonio Raimondi si decide per la partenza. A bordo del brigantino L’Industria salpa da Genova alla volta del Perù: non farà più ritorno in patria.

È un’epoca caratterizzata dallo spirito enciclopedico della scienza: in Italia e in Europa si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

Raimondi arriva al porto del Callao, nei pressi di Lima, il 28 luglio del 1850. Ha con sé la Storia Naturale di Buffon – un po’ come Charles Darwin vent’anni prima era sbarcato alle Galapagos con la Teoria della Terra di James Hutton –, qualche strumento scientifico da campo e una volontà di ferro. A parte questo però, Raimondi, anche se di buona famiglia, deve trovarsi di che vivere. L’occasione si presenta quasi subito grazie a Cayetano Heredia. Il Perù è indipendente da poco meno di trent’anni e deve ricostruire tutte le istituzioni pubbliche necessarie allo sviluppo e alla gestione del nuovo Stato. Heredia, grazie alla sua fama di medico eccellente, è incaricato dal governo per dirigere il Colegio de la Indipendencia, la futura Facoltà di Medicina di San Fernando di Lima. Intuendo nel giovane italiano le doti del naturalista di razza, gli affida il compito di ordinare la collezione mineralogica: è l’inizio di un’amicizia e della carriera accademica di Raimondi, che presto comincia a insegnare Storia Naturale.

Con lo stipendio che gli garantisce di che vivere, Raimondi può cominciare realizzare il suo vero sogno: esplorare ogni angolo del Perù. La scelta del paese non è stata casuale, perché, come scrisse più tardi esagerando un pochino, “la sua proverbiale ricchezza, il suo vasto territorio, che sembra riunire in sé gli arenili della costa, gli aridi deserti dell’Africa, i vasti altipiani, le monotone steppe dell’Asia, le alte vette della cordigliera, le fredde regioni polari, gli intricati boschi di montagna e la lussureggiante vegetazione, mi spinsero a preferire il Perù come campo di esplorazione e studio”. Dal 1851, per quasi vent’anni, non perde occasione di allargare le sue conoscenze del territorio. Nel corso delle sue 19 campagne esplorative, Raimondi si comporta come il perfetto naturalista dell’epoca, abbracciando tutte le discipline scientifiche. Le sue raccolte parlano da sole: 3.000 minerali e rocce, 4.000 insetti, 400 esemplari di mammiferi e rettili, 1.265 uccelli, 2.000 fossili, 2.000 molluschi, 72 teschi umani, 300 reperti etnografici, 500 semi, 20.000 piante e 2.000 tra conchiglie, denti e uova fossili. Numeri che dicono dello spirito enciclopedico della scienza dell’epoca, quando in Italia e in Europa si costituiscono alcuni dei grandi musei di Storia naturale moderni e si gettano le basi di alcune delle più importanti collezioni etno-antropologiche.

I viaggi oltre la cordigliera delle Ande, nelle aree più remote dell’Amazzonia come negli aridi deserti o lungo la costa pacifica appagano la sete di conoscenza di Raimondi. Nel corso della sua vita raccoglie note in 195 taccuini, alcuni dei quali dedicati a temi specifici, tutti impreziositi dai suoi splendidi acquerelli. Vi annota tutto quello che gli strumenti e il suo occhio attento gli permettono di catturare. A tratti sembra un lavoro maniacale, come quello che farà qualche decennio dopo Alexandre Yersin, lo scopritore del bacillo della peste, che sceglie anche lui i tropici preferendoli all’instabilità politica della Francia. Così, per mano di un italiano con lo spirito d’avventura, il Perù indipendente comincia a fare la conoscenza di se stesso e delle sue ricchezze. L’idea di scienza che ha Raimondi, infatti, è enciclopedica alla maniera illuminista, sempre intesa come strumento per un futuro fatto di progresso e miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Nei suoi rilievi cartografici, quindi, non mancano mai riferimenti precisi alle risorse naturali: giacimenti di metalli preziosi sì, ma soprattutto di carbone, salnitro e guano, risorse indispensabili per lo sviluppo del paese. Grazie alla conoscenza del territorio che acquisisce viaggiando, Raimondi diventa una specie di consulente tuttologo per il governo. Ogni volta che c’è da progettare un ponte o una ferrovia viene consultato in qualità di esperto. La sua perizia anche negli aspetti che oggi diremmo ingegneristici è testimoniata dai disegni tecnici che ha realizzato, come quelli che riguardano un progetto di una fabbrica per la fusione dei metalli del 1875.

Dal 1862 i viaggi di Raimondi assumono un nuovo significato. Viene incaricato ufficialmente dal governo di realizzare un progetto grandioso: un’esplorazione sistematica per la realizzazione della prima carta geografica completa del Perù. Sarà composta di 38 fogli pubblicati tra il 1887 e il 1897 dall’editore parigino Erhard e, come sottolineato da una mostra sull’esplorazione peruviana tenuta a Lima nel 2015, è la “radice della cartografia nazionale” del Perù. Oltre all’importanza dello strumento in sé per lo sviluppo del paese, la grande mappa ha anche un’altra funzione nella storia peruviana: riallacciare i fili della storia con il passato pre-coloniale. Raimondi, infatti, non solo applica tutta la sua maniacale precisione nell’indicare emergenze fisiche, geologiche e quant’altro ci si aspetti da una carta di questo tipo, ma vi segnala anche i toponimi indigeni come origine dei nomi attuali delle principali città e dei villaggi. Per esempio, dà la stessa importanza a Lima e Cuzco, in quanto capitali del paese in due diversi momenti storici. Dagli appunti dei 195 taccuini di campo, inoltre, Raimondi comincia a preparare, con l’aiuto di una vera e propria redazione multidisciplinare, un’opera finanziata dal governo e intitolata semplicemente El Perù che avrebbe dovuto essere una grandiosa enciclopedia del paese indipendente.

La mappa di Raimondi tornò utile a Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

Un altro aspetto delle esplorazioni di Raimondi è quello legato all’antropologia e all’archeologia. Nell’incontrare le popolazioni indigene ne annota usi e costumi, raccoglie esempi di artigianato e di abbigliamento come parte integrante del grande affresco del Perù che sta cercando di dipingere. In questo ambito, pur rimanendo un uomo dell’Ottocento, convinto della superiorità della civilizzazione di stampo europeo, non ha mai sentimenti di esclusione per le diverse popolazioni indigene, ma le reputa parte integrante della complessità e della varietà del Perù suo contemporaneo. Quando visita Cuzco avviene un cortocircuito tra ciò che vede e quello che ricorda dell’Italia: “Alla fine sono arrivato nella Roma d’America, in questa grande città di memorie che ci chiama Cuzco, dove non si può fare un passo senza imbattersi in una testimonianza della sua antica civiltà”. Raimondi, forse spinto dalla sua profonda fede nel progresso, vede una continuità tra i fasti dell’antico impero Tahuantisuyo (Inca, in lingua quechua) e le potenzialità di sviluppo del Perù in cui vive.

Purtroppo il futuro dorato immaginato da Raimondi non si realizzerà. Il paese indipendente fatica a trovare un equilibrio interno e i rapporti esteri sono ruvidi. Già nel 1864, c’è una scaramuccia con la Spagna per il controllo delle isole Chincha, un enorme deposito di guano al largo della città di Pisco, a sud di Lima. Ma è la Guerra del Pacifico (1879 – 1883) a giocare un ruolo determinante. Nello scontro con il Cile, il Perù perde il dipartimento di Tarapacá, una regione esplorata ovviamente anche da Raimondi e ricca di giacimenti di salnitro e minerali. Con essa se ne va una grossa fetta delle risorse del paese e il Perù, sfiancato e sull’orlo della bancarotta, deve rivedere i piani per il proprio futuro, compresa la pubblicazione dell’opera di Raimondi, che si blocca la terzo tomo del 1880. L’esploratore milanese, intanto, comincia a sentire il peso degli anni e la responsabilità di provvedere alla propria famiglia (si è sposato solo nel 1869, al termine dei suoi viaggi, e ha avuto tre figli). Continua il suo lavoro di insegnante, finché una lunga malattia non se lo porta via il 26 ottobre 1890. Di tutta l’eredità scientifica che ha lasciato, probabilmente a Raimondi sarebbe piaciuto sapere che la sua grande carta geografica tornò utile all’archeologo americano Hiram Bingham, soprattutto il 24 luglio del 1911, il giorno della scoperta di un sito archeologico di straordinaria importanza: Machu Picchu.

 

l mito americano della Natura

Raccontata come un Eden, l’America prima di Colombo era molto diversa da come la immaginiamo.

di Matteo Cossu

Il mito della natura incontaminata, della ‘Great American wilderness’, è profondamente radicato nella cultura occidentale. Il continente americano pre-colombiano è spesso dipinto come un luogo selvaggio, scarsamente popolato: un mondo dove la presenza umana era appena percepibile. L’attrazione per questo mito pervade molta della letteratura statunitense del XIX secolo. Le descrizioni di natura incontaminata fanno da sfondo al mito eroico del pioniere. Basti pensare a un libro come Walden e alle altri odi alla natura di Thoreau. Thoreau cantava di una natura intonsa, selvaggia, sconfinata, e la immaginava ancora più primordiale nei secoli precedenti alla venuta degli occidentali.

L’idea della grande America selvatica non ha solo giocato un ruolo rilevante nella percezione culturale della natura, ma ha anche influenzato generazioni di studiosi e attivisti ambientali. Nel 1950, John Bakeles in The Eyes of Discovery, parlava della sua opera come di un libro ‘che presentava le visioni, i suoni e gli odori di un’America in uno stato inalterato. Quarant’anni esatti più tardi, Kirkpatrick Sale pubblicava Conquest of Paradise dove affermava che erano stati gli europei a cambiare l’ambiente, trasformando la natura sulla scia di Colombo e dei conquistadores. Similmente, un anno dopo, Shetler (in un libro pubblicato dallo Smithsonian) sosteneva che:

L’America pre-colombiana era ancora un Eden, un regno naturale integro. I nativi erano trasparenti rispetto all’ambiente, vivendo come elementi naturali dell’ecosfera. Il loro mondo, quello che Colombo chiamò il Nuovo Mondo, era di impercettibile disturbo umano.

Ma era davvero così? L’impatto delle popolazioni native sull’ambiente era stato così trascurabile? Oggi sappiamo che la popolazione sia nel nord che nel sud America raggiungeva cifre paragonabili e, per alcuni studiosi, persino superiori a quelle raggiunte in Europa.

Il dibattito demografico

Quando l’Ammiraglio John Smith esplorò le coste del Massachussets nel 1614, i suoi rapporti descrivevano una terra “così rigogliosa di giardini e campi di mais, diffusamente abitata da gente forte e ben proporzionata”. Ma appena sei anni dopo, quando i pellegrini del Mayflower sbarcarono sulle stesse coste, trovarono solo miseria e morte. Thomas Morton, un commerciante inglese, scrive della sua visita nel 1622: “gli Indiani morivano in massa dentro le loro case, i teschi e le ossa sparsi in diversi posti delle loro abitazioni erano uno spettacolo [degno di] una nuova Golgota”.

L’incongruenza delle fonti, generò ben presto un dibattito antropologico che continua al giorno d’oggi. Le stime demografiche pre-colombiane erano molto difficili da ottenere, e i primi studiosi essenzialmente tirarono ad indovinare. Nel 1910, l’antropologo James Mooney incrociò fonti di esploratori e primi coloni con studi sulla capacità agricola delle popolazioni indigene, e concluse che in tutto il Nord America, viveva appena un milione persone. Mooney era rispettatissimo all’epoca e per molti anni le sue conclusioni non vennero mai messe in discussione. Per questo ci volle un periodo di grande fermento culturale come la fine degli anni Sessanta per rivisitare questa stima. E infatti nel 1966, alla luce del suo lavoro a stretto contatto con molte comunità di nativi americani, l’etnografo-storico Henry Dobyns, pubblicò stime decisamente più alte: al tempo del primo contatto europeo, a nord del Rio Grande vi sarebbero state tra le dieci e le dodici milioni di persone. Dobyns ricevette durissime critiche, ma anziché ricredersi, circa 20 anni dopo ripubblicò ulteriori ricerche e aumentò il limite superiore fino a diciotto milioni.

Dobyns (assieme ad altri antropologi come Alfred Crosby), rivelò così l’esistenza di dinamiche ignote fino ad allora. Secondo le sue stime, negli anni direttamente successivi ai primi contatti europei, si consumò la più grande epidemia della storia, direttamente responsabile di una decimazione delle popolazioni pari a oltre il 90%. Ai tempi, negli anni tra i ‘60 e gli ‘80, non esistevano metodi scientifici che potessero confermare le ipotesi degli antropologi, ma qualche mese fa un gruppo di ricercatori dell’università di Adelaide, ha pubblicato un articolo su Science Advances, sul DNA di 92 mummie e scheletri pre-colombiani, tutte datate tra i 500 e gli 8600 anni fa. Lo studio ha dimostrato l’estinzione pressoché totale, nella popolazione odierna, delle linee genealogiche individuate nelle mummie. Uno scenario concordante con le teorie di Dobyns.

Danni involontari

La suscettibilità delle popolazioni native americane alle malattie europee era dovuta a diversi fattori. Uno dei più importanti era l’assenza di diffuse pratiche di allevamento. Per la maggior parte, le comunità native in America si sostenevano con l’agricoltura e con la caccia. D’altra parte invece, in Europa, l’allevamento aviario, di suini, bovini, e ovini era praticato da millenni, e aveva portato alla diffusione, e alla conseguente immunizzazione, da diverse malattie zoonotiche, malattie cioè che ‘saltavano’ di specie per aggredire l’uomo: praticamente tutte le grandi epidemie, dal vaiolo al morbillo hanno questa origine.

Nel maggio del 1539, Hernando de Soto sbarca nella baia di Tampa con nove navi, più di 600 uomini e 220 cavalli. Secondo le ricostruzioni di Charles Hudson, un antropologo che ha dedicato la sua carriera a ricostruire il percorso di de Soto, la spedizione incontrò in quello che è oggi l’Arkansas, “città ben popolate” e “insediamenti così ravvicinati da potersi scorgere tutti insieme, tutti difesi da colline artificiali, fossati e schiere di arcieri”. De Soto passò anche attraverso a estesi campi di mais, zucche e fagioli.

Lo spagnolo morì nel 1542, e nessun europeo visitò quei luoghi per oltre un secolo. Nel 1682, quando Réné-Robert Cavelier, Sieur de la Salle esplorò le stesse zone, trovò condizioni ben diverse. Dei cinquanta insediamenti visitati dallo spagnolo, ne descrisse solo dieci, forse ri-occupati da nuove tribú.

La missione di de  Soto non era certo pacifica. Nei quattro anni passati tra quello che oggi è il sud degli Stati Uniti e le aree intorno al Mississippi, la compagnia distrusse, uccise e derubò tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Ma il peggior danno causato dall’hidalgo avvenne a sua completa insaputa: de Soto si accompagnava a un gruppo che lo avrebbe dovuto aiutare contro ogni avversità: guide, mercenari, ingegneri, e… maiali. Recenti analisi di antico DNA mitocondriale hanno stabilito che i maiali domestici arrivarono in Europa al seguito dei primi agricoltori provenienti dal Vicino Oriente circa 7500 anni fa. Con gli animali, arrivarono anche le malattie: da solo, il maiale è responsabile di antrace, brucellosi, leptospirosi, teniasi, trichinosi e tubercolosi. Se si considera la loro vorticosa riproduzione e la possibilità di trasmettere malattie a tacchini selvatici e cervi (due specie centrali nell’alimentazione dei nativi), i maiali di de Soto erano, a tutti gli effetti, delle armi biologiche.

La natura indigena

La deforestazione e l’agricoltura intensiva sono due dei principali fattori dell’impatto antropogenico sull’ambiente. Prima del contatto colombiano, in America entrambe queste attività venivano compiute attraverso l’appiccamento regolare di fuochi controllati. In diverse misure, i nativi americani usavano il fuoco per creare terreni coltivabili, per mantenere ‘aperte’ le foreste, e per favorire la crescita di nuovi germogli attraendo quindi le specie da cacciare. Lo dimostra il fatto che diversi studiosi hanno trovato tracce di incendi controllati dalle zone sub-artiche fino al deserto di Sonora. Le caratteristiche e gli impatti di questi incendi dolosi variavano a seconda delle regioni e localmente dipendevano da fattori demografici e ambientali, ma in ogni caso avevano impatti non trascurabili addirittura su scale continentali.

In Nord America, gli incendi delle popolazioni native non solo plasmarono le foreste creando praterie, ma cambiarono attivamente la composizione degli ecosistemi forestali, creando condizioni favorevoli a specie utili alle comunità. Fragole, mirtilli, lamponi e altre bacche, ma anche varie specie di pino, e querce, sono quasi certamente un subclimax ecologico di origine antropogenica, create (e mantenute) attraverso il fuoco. Già nel 1958, il padre fondatore del concetto di “cultural landscape” Carl O. Sauer, da studi sulle precipitazioni medie e composizione dei suoli, concluse che la maggioranza dei biomi a bassa vegetazione del Nuovo Mondo erano di origine antropogenica.

La piccola era glaciale

Tra circa la metà del 1500 e per i 250 anni successivi, il mondo si ritrovò in un ciclo climatico di temperature significativamente più basse. Le conseguenze furono globali, e l’Europa non fu da meno. Si ghiacciò il Tamigi, il Corno d’Oro e parte del Bosforo. Interi villaggi alpini furono spazzati via dall’avanzata dei ghiacciai. Nel 2003, un paleo-climatologo e biologo marino, William Ruddiman, pubblicò un articolo in cui argomentava essenzialmente che l’impatto dell’uomo non è mai stato trascurabile, e che molte delle anomalie climatiche possono trovare spiegazione in eventi legati agli uomini. La piccola era glaciale non fa eccezione, e Ruddiman ipotizzava che fosse correlata al cambio d’uso della terra avvenuto dopo il contatto colombiano sia nel nord che nel sud America. In breve, il declino delle popolazioni americane portò a una riforestazione, da lì a una minore emissione di CO2 e quindi alla conseguente diminuzione dell’effetto serra e all’abbassamento delle temperature globali.

L’impatto umano sull’ambiente non è semplicemente un processo di degrado o cambiamento in risposta a un aumento di popolazione o di fattori industriali, agricoli o economici. Anche piccole popolazioni possono avere conseguenze drammatiche nel tempo. L’impatto umano è interrotto da periodi di inversione, riabilitazione ecologica e diversificazione di linee temporali, con l’insorgenza di nuove condizioni aumentano, diminuiscono o in certi casi addirittura si evolvono nuove specie. L’impatto può essere costruttivo, benigno o degenerativo, ma è bene notare che questi termini, e quindi la naturalità di un sistema, sono tutti concetti soggettivi.

Hernando de Soto si aggirò in Nord America per quattro anni e in nessun racconto del suo viaggio descrisse mai la specie che la nostra cultura associa maggiormente alle grandi praterie: il bisonte. Un secolo dopo, mentre attraversava gli stessi territori di de Soto, La Salle descrisse invece abbondanti mandrie di bisonti al pascolo nelle terre circostanti i fiumi. Considerando il repentino crollo della presenza umana e osservando il problema da un punto di vista ecologico, si può spiegare questa discordanza solo individuando nei nativi la specie chiave. In ogni ecosistema, le specie chiave esercitano una grande influenza stabilizzante su tutta una comunità ecologica, nonostante la loro relativamente piccola abbondanza numerica. Esercitando la caccia, è possibile quindi che i nativi americani limitassero le popolazioni di molte specie, favorendone altre. Questa dinamica era comune sia ai bisonti, che a diverse specie di cervi. Da studi di strati archeologici, si evince per esempio che il numero di cervi nell’America del nord aumentò drasticamente circa 500 anni fa in contemporanea con l’arrivo degli europei e il tracollo dei nativi. Il piccione migratore, una specie estinta che per anni fu usata come esempio della distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo, era praticamente una rarità prima del contatto colombiano. A man a mano che la frontiera dei coloni si spostava verso Ovest, essa veniva anticipata da un’ondata microbiologica e virale che, sterminando gli indigeni, causava un conseguente rimescolamento e riequilibrio degli ecosistemi, che andava a tutti gli effetti adattandosi a un impatto umano significativamente minore che in precedenza.

Longfellow inneggiava alla ‘forest primeval’ nel suo poema epico Evangeline: A Tale of Acadie. Se con quel termine intendeva boschi liberi da presenze umane, allora – come si è visto dalle ultime ipotesi di scienziati, antropologi che abbiamo riassunto in questo articolo – è possibile che lo fossero maggiormente nel 1800 che non nel 1500.

Humboldt e l’alba dell’ecologia

di Federico Nejrotti

Alexander von Humboldt, fratello minore del filosofo Wilhelm von Humboldt, nasce a Tegel nel 1769 da una ricca famiglia prussiana che gli assicura un’ottima educazione. Dopo la morte del padre rimane in balia di una madre iperprotettiva, che non manifesta particolare sensibilità per la passione per il viaggio di Alexander e gli permette di visitare solo i grandi centri culturali europei. Proprio per questo motivo, quando nel 1796 la madre muore, Alexander non perde un attimo di tempo e comincia a organizzare la sua prima spedizione: non senza intoppi, si imbarca per il Venezuela insieme al botanico Aimé Bonpland.

Viaggia per due anni, percorre il corso del fiume Orinoco, lotta ferocemente con delle anguille elettriche e nel novembre del 1800, ancora assieme a Bonpland, parte per Cuba ed esplora le Ande. Un giorno viene a sapere che la spedizione del capitano Nicolas Baudin, partita da Nantes e finita per dirigersi in Australia, sarebbe passata tra Guayaquil, in Ecuador, e Lima, in Perù. Senza esitazioni decide di aprirsi un varco nella foresta amazzonica per riuscire ad arrivare esattamente in tempo per imbarcarsi. Giunta a Quito, in Ecuador, nel gennaio del 1802, la compagnia viene a sapere che le notizie sulla spedizione di Baudin erano tutte sbagliate: il capitano si stava dirigendo verso Capo di Buona Speranza. Colto clamorosamente in fallo, Humboldt non si perde d’animo e decide di passare i mesi successivi a scalare tutti i vulcani della zona. Non contento, cinque mesi dopo si dirige cento miglia a sud di Quito e con tipico aplomb prussiano scala il Chimborazo, la cima più distante dal centro della Terra.

Sarebbe ingenuo cercare di sbrigare le tappe di Alexander von Humboldt in così poche righe: d’altronde dopo le Ande ha esplorato il Messico, gli Stati Uniti, si è fatto di nuovo un giro in Europa e infine ha toccato gli estremi orientali della Russia. Persino Andrea Wulf, con la sua straordinaria biografia The Invention of Nature, è riuscita appena a sfiorare la vastità delle terre calpestate da Humboldt nonostante avesse a disposizione trecentocinquanta pagine. Ma la cosa che più conta è come tutti quei viaggi abbiano permesso ad Humboldt di ottenere una visione totalizzante della natura, e di intuire una astrusa e misteriosa armonia globale che lega ogni singola manifestazione di vita sulla Terra. Proprio per questo non stupisce che sia stato Humboldt uno dei primi grandi personaggi a chiedersi se l’uomo, in pieno impeto pre-industriale, non stesse rischiando di interferire con il naturale corso di questa armonia.

Quando le foreste vengono distrutte

Le traversate amazzoniche di Humboldt non gli hanno permesso soltanto di raccogliere un inventario botanico invidiabile, ma soprattutto di acquisire una singolare consapevolezza di violenza, pervasività e ingordigia dell’imperialismo coloniale europeo. Così scrive in Personal Narrative:

Quando le foreste vengono distrutte, come succede ovunque in America a causa della fretta imprudente dei coltivatori europei, le sorgenti vengono interamente prosciugate, o diminuiscono drasticamente di numero. I letti dei fiumi, rimanendo asciutti per parte dell’anno, diventano torrenti ogni volta che la pioggia cade abbondante. Le praterie e i muschi scompaiono sotto i rami accatastati ai lati delle montagne, l’acqua che scende sotto forma di pioggia non trova impedimento al suo passaggio: e invece che aumentare progressivamente il livello dei fiumi attraverso filtrazioni costanti, scava violenta ai lati delle colline, portando con sé il terreno smosso e formando queste inondazioni improvvise, che devastano le pianure.

Nel 1804, concluso il suo tour del sud America, Humboldt decide, insieme ad Aimé Bonpland, di fare una tappa a Washington per conoscere Thomas Jefferson, presidente degli Stati Uniti e scienziato. Accolto calorosamente, trascorrerà con lui una settimana in cui il principale tema di dibattito sarà l’intersezione tra natura e politica: per Jefferson l’unico modo per ottenere felicità e indipendenza è attraverso un repubblicanesimo agrario, una totale concentrazione sui valori della terra, così profonda e sentita da convincere Jefferson che i veri membri del Congresso dovrebbero essere proprio i contadini, “veri rappresentanti degli interessi americani”. Le discussioni tra i due riguarderanno spesso temi legati all’America del colonialismo spagnolo e alle politiche estere degli Stati Uniti. A questo riguardo Humboldt non ha dubbi: oltre che per l’enorme stima nei confronti di Jefferson, è in nome di una scienza libera che decide di fornire al presidente tutte le informazioni raccolte durante i suoi viaggi: credeva infatti che la crescita della comunità scientifica internazionale dovesse trascendere gli interessi nazionali.

Durante la settimana a Washington, Humboldt approfondisce assieme a Jefferson le assurdità perpetrate dagli imperialismi coloniali. Gli racconta della “insaziabile avarizia” spagnola per oro e legname: il vero carburante dell’era coloniale, così ambito che, nel 1664, in Sylva, a Discourse of Forest Trees, John Evelyn scrive: “sarà meglio finire l’oro prima del legname”, con riferimento alle innumerevoli industrie messe in moto dalla sua lavorazione.

Di passaggio dal Lago Valencia, in Venezuela, Humboldt per esempio studia il progressivo prosciugamento del lago, attribuito dai locali a un misterioso “buco sotterraneo”. Analizzando le sabbie rinvenute nella zona e paragonando i ritmi di evaporazione a quelli europei, la conclusione di Humboldt è lapalissiana: la deforestazione della zona da parte degli europei ha privato il lago di un fattore preziosissimo per il proprio fragile ecosistema. Poco distante, nella valle di Aragua, troverà intere popolazioni ridotte alla fame perché obbligate a sostituire le coltivazioni per il sostentamento agricolo con quelle di indigofera tinctoria, una pianta da cui viene estratta una tinta blu particolarmente ambita dai commercianti europei. Queste coltivazioni, nota Humboldt, avevano rapidamente prosciugato la fertilità del terreno e reso inospitale l’intero territorio.

Che si trattasse di pratiche agricole o di interventi infrastrutturali – come le dighe piazzate nella rete fluviale senza cognizione di causa – Humboldt intuì per primo l’impatto dell’uomo sull’armonia della natura e cominciò a sospettare, e a scrivere, che l’incoscienza di quegli anni avrebbe potuto causare danni irreparabili per le generazioni future. Nel successivo lavoro di rielaborazione dei dati raccolti, Humboldt cominciò a unire i puntini per scoprire – o meglio, accorgersi – che le stesse pratiche sfruttate dai coloni spagnoli erano state replicate in Europa, e avevano allo stesso modo disturbato l’ecosistema. Si trattava dei primi studi sul cambiamento climatico antropogenico.

Naturgemälde: la natura è un tutt’uno vivente Qualche tempo prima di formulare questi pensieri, ancora immerso nella foresta amazzonica, Humboldt vive la sua epifania: sulla vetta del Chimborazo, infatti, vive un momento quasi estatico, in cui con un “singolo sguardo” riesce a comprendere la natura nella sua interezza, da un punto di vista fisico, ma anche spirituale. Tornato all’altezza del mare, Humboldt dipinge il Naturgemälde, una mappa del vulcano corredata di informazioni sulla distribuzione geografica delle piante, un “dipinto della natura come insieme” che corrisponde a una vera rivoluzione copernicana per la scienza naturale: gli ecosistemi non sono composti di compartimenti stagni, ma sono parte di un insieme vivente su scala globale. Gli equilibri sono fragili e strettamente interdipendenti. Dall’insetto più piccolo fino alla vetta più alta, ogni elemento contribuisce alla conservazione della natura, e ogni interferenza è un duro colpo a questo innato e costante sforzo.

Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale”.

È proprio nella visione unificata del Naturgemälde che Humboldt inizia a concepire il progetto delle isoterme, le linee metereologiche che uniscono i punti della terra e del mare che hanno la stessa temperatura, e che unite ai dati raccolti da Humboldt durante le sue spedizioni non fanno che confermare la sua teoria: la natura è un vero e proprio organismo vivente, non una risorsa inerte alle azioni dell’uomo. Queste riflessioni e scoperte non sono altro che l’inizio di un percorso molto più grande di Humboldt, quasi si trattasse di una presa di coscienza umana, più che individuale, e che nei secoli successivi finirà per influenzare tutto il mondo della scienza, e non solo. Nelle decadi seguenti John Muir, padre del movimento ambientalista americano, sarà mosso dalle stesse aspirazioni di Humboldt per la preservazione di una natura in quanto tutt’uno. Muir si batterà per la conservazione di intere foreste e contribuirà alla protezione delle sequoie americane inaugurando parchi e riserve naturali, come quelle dello Yosemite National Park.

Due secoli dopo, a cavallo del nuovo millennio, la missione di Humboldt è in seria difficoltà: il sistema Terra sta passando i suoi anni più caldi da quando abbiamo cominciato a registrare la sua temperatura e le calotte polari, proprio in questi giorni, stanno registrando ritmi di scioglimento inspiegabilmente anomali. Il 2016 è stato anche l’anno del superamento definitivo dei limiti di carbonio per l’atmosfera terrestre, che ha toccato le quattrocento parti per milione: una soglia sotto la quale, probabilmente, non scenderà mai più. Nel mondo i disastri ambientali si moltiplicano ogni anno, tra fenomeni di intensa siccità e violente inondazioni, e sta cominciando a prendere paurosamente piede la definizione di “rifugiato ambientale,” ovvero colui costretto a migrare dalle condizioni estreme imposte dal riscaldamento globale e dal cambiamento climatico.

Le istituzioni di tutto il mondo stanno lentamente prendendo parte a un processo di cambiamento che sarà ancora lungo e faticoso: il Trattato Climatico di Parigi, firmato da oltre centonovanta nazioni del mondo e ratificato da più di cento, mira a contenere l’innalzamento delle temperature globale a 1.5C° sopra i livelli pre-industriali. La brutta notizia è che non rispettare questi accordi potrebbe, questa volta definitivamente, significare conseguenze irreparabili per l’intera umanità, senza distinzione di razza, sesso, religione o classe sociale. Quella peggiore è che Donald Trump, il nuovo Presidente della prima economia del mondo sembra non credere a nulla di tutto questo.

  

La poesia di Wystan Hugh Auden

Un ricordo di quella che Brodskij definì “la più grande mente del ventesimo secolo”

di Flavio Santi

Quando si pensa alla più grande mente del ventesimo secolo, i primi nomi che si affacciano sono quelli di scienziati (Einstein, Heisenberg), statisti (Gandhi, Churcill), magari pittori (Picasso), musicisti (Stravinskij), architetti (Le Corbusier), financo filosofi (Simone Weil). Difficilmente si pensa a un poeta. Ma proprio in questi termini (“la più grande mente del ventesimo secolo”) parla di Wystan Hugh Auden il poeta russo Iosif Brodskij nel saggio “Per compiacere un’ombra”, tratto da Fuga da Bisanzio e opportunamente posto sulla soglia della recente edizione Adelphi delle Poesie scelte di Auden, nella versione di due maestri della traduzione, Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica.

“La più grande mente del ventesimo secolo”. Che un ingegno acuto come Brodskij – premio Nobel per la letteratura nel 1987, forse il più grande poeta russo della seconda metà del Novecento – si spinga a tanto avrà un significato, una spiegazione, un punto d’appoggio. Non sarà il semplice frutto di un commosso omaggio amicale. Chi conosce i saggi di Brodskij sa che il russo pratica un profondo scavo critico, mai arreso a slogan o a facili soluzioni. E dunque? Che un poeta sia la più grande mente del ventesimo secolo è una bella rivincita per chi crede nella poesia. Auden non è il semplice “cronista” che intravide Eugenio Montale (un’entrata a gamba tesa che complicò, tra l’altro, la fortuna del poeta in Italia), ma ben altro.

Nel testo originale l’aggettivo è greatest: la greatness è fatta di intuito e buon senso, visione e retroguardia, acribia e cialtroneria, fango e arcobaleno. La più “grande” mente non significa la più intelligente. Né la più geniale. Questa grandezza poi non deriva romanticamente dalla pura e semplice conduzione di vita di Auden. Che fece quel che doveva fare, senza strafare per altro: non visse molto, in fondo, appena sessantasei anni (1907-1973), fu inglese nell’accezione più classica e blasonata (fu oxoniense), e poi americano, ma anche austriaco (d’estate, a Kirchstetten, in un cottage seminascosto ai passanti, in fondo a una via ribattezzata “Audenstrasse”); vide la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale; viaggiò in Germania, Cina, Islanda, Italia; bevve molto whiskey e fumò molte sigarette.

La grandezza, naturalmente, risiede nelle poesie. Le poesie di Auden formano un mondo a sé, autonomo, dotato di gravità propria e proprio ossigeno. Come in ogni mondo, c’è tutto. Referti epocali:

Dall’Archeologia

è dato trarre almeno una morale:

cioè che tutti i nostri libri

di scuola mentono.

Di quella che chiamano Storia

non c’è da menar vanto,

fatta com’è di quanto

c’è in noi di criminale;

la bontà è senza tempo.

Preveggenze brucianti come in questo “Blues del profugo”:

Questa città avrà, mettiamo, dieci milioni di anime,

C’è chi vive in palazzi e chi in topaie,

Ma per noi non c’è posto, mia cara, no non c’è.

Avevamo una patria, e ci pareva bella,

Se guardi sull’atlante è sempre quella:

Adesso non ci andremo, cara, no, non andremo là.

Scalpellature epigrammatiche:

Ora che i porci son rifatti uomini

Ed è propizio il cielo e quieto il mare,

Tutti a casa possiamo ritornare.

Slanci fulminanti:

Vai, macchinista, accelera e vai

Dove splende il sole sulla Springfield Line.

Vola come un aereo e non frenare;

Non prima di New York, Stazione Centrale.

Campiture mozzafiato:

Oh la valle d’estate dove col mio John

Presso il fiume profondo camminavamo tanto

Mentre i fiori dal basso e gli uccelli lassù

Parlavan con debolezza di amore ricambiato.

Mi chinai sulla sua spalla: “Oh Johnny, giochiamo”;

Ma scuro in volto come il tuono se n’è andato.

L’Orazio anglosassone, si è detto. Del poeta latino Auden possiede la caratteristica, insieme banale e lussureggiante, di essere uomo e umanità, singolarità e sintesi, uno e folla. Wystan (Wystan era il nome di un principe medievale venerato come santo dalla Chiesa anglicana) Hugh Auden è ora una delle (tante) carrozze di un lungo, forse interminabile convoglio, ora la locomotrice di testa; ora l’apprendista, ora il mago. Tutto ciò risalta ancora meglio nella tensione di una partitura quasi sussurrata:

Splendi: che nessuno stanotte

Di soprassalto desto

Solo nel letto al buio pesto

Si senta augurare con furore

La morte al suo amore.

Amore e morte. Cosa c’è di più universale e, al tempo stesso, unico?

Anche qui la cognizione della morte

Le dà un amore struggente.

Fa breccia il fervore dell’amante:

Che hai in mente piccioncino, coniglietto;

Come le piume crescono i pensieri, impasse della vita;

Di far l’amore o di contare soldi,

O d’arraffare gioie, piani degni d’un ladro?

Così come il suo speculare, lo strazio:

Ah, ma di che tarlo di colpevolezza,

Di che dubbio maligno

Sono vittima?

Perché tu poi, sfrontato

Facesti ciò che mai avrei voluto

Confessando un altro amore;

E io sentendomi indesiderato

A testa bassa me ne andai?

Fino a coagularsi nella poesia forse più celebre (per via del film Quattro matrimoni e un funerale), “Funeral Blues”, che riportiamo per intero:

Fermate gli orologi, staccate il telefono,

Zittite il cane con un osso succulento,

Tacciano i pianoforti e tra tamburi afoni

Esca la bara, vengano i dolenti.

Gemano sorvolando gli aeroplani,

Scribàcchino il messaggio Lui È Morto,

Mettete crespo al collo dei piccioni

Guanti neri di cotone i vigili ora portino.

Lui era il mio Nord, Sud, Ovest, Est,

I giorni di lavoro e i dì di festa,

Meriggio e mezzanotte, voce e canto;

Credevo amore eterno ma s’è infranto.

Le stelle ormai inservibili, spegnete una a una,

Smantellate il sole e imballate la luna,

Spazzate il bosco e svuotate il mare;

Nulla di buono ormai c’è da sperare.

Poesia in cui, non a caso, tornano insieme amore e morte. Ora, la morte ha vari modi di camuffarsi per presentarsi a noi senza farci impazzire. Uno di questi è sub specie temporis, sotto forma di tempo (“Il Tempo che non puoi debellare”). Le poesie di Auden sono piene di tempo. Percepito, misurato, pensato, subìto, meteorologico, astrale, epocale. Come si è visto, “Funeral blues” comincia con gli orologi. “In memoria di W.B. Yeats” attacca con una gelata invernale:

È scomparso nel cuore dell’inverno:

Gelati i ruscelli, gli aeroporti quasi deserti,

La neve sfigurava i monumenti;

Sprofondava il mercurio in bocca al giorno moribondo.

Ecco, secondo tutti gli strumenti

Il giorno in cui morì era un giorno buio e freddo.

Altri travestimenti della morte sono più ameni (ma sempre toccati da un soffio rabbrividente):

Ormai cresciuti, ricordiamo sere come questa

A zonzo insieme nel frutteto senza vento

Dove il torrente corre sulla ghiaia, lontano dal ghiacciaio.

[…]

A qualcuno i rumori dell’alba

Daranno libertà; non questa pace che nessun uccello

Può contraddire: breve ma sufficiente per qualcosa

Di compiuto è già quest’ora, di amato o di subìto.

Contro la morte ci sono soluzioni praticabili? Per evitarla no di certo, come sappiamo tutti noi. Ma si può renderla tollerabile, quasi amichevole, se non amica. Come? Con il buon senso, il senso comune. Anche qua la scintilla scaturisce dal saggio di Brodskij, da un teatralissimo scambio di battute: “Il migliore scrittore russo è Cechov”. “Perché?”. “È l’unico […] che abbia un briciolo di senso comune”. È il senso comune – inesauribile risorsa – che fa pronunciare ad Auden parole come queste:

Facile è fare la domanda difficile;

Domandare all’incontro

Con una semplice occhiata d’intesa

Questi dove vanno

E come stanno questi:

Facile è fare la domanda difficile,

Semplice atto di volontà confusa.

Oppure riflessioni come questa, al limite dell’idiot savant:

Se noi, caro, sappiamo di non saperne più

Di loro sulla legge,

Se io non più di te

So quello che si deve e non si deve

Salvo che ognuno conviene

Con gioia o dispiacere

Che la legge è

E che tutti lo sanno.

O confezionare autoritratti, come qua dove Yeats visita la tomba di Yeats ed è come se stesse parlando davanti a uno specchio (basta sostituire l’Irlanda dell’originale con Inghilterra):

“Eri sciocco come noi: il tuo talento sopravvisse a tutto;

Alla congrega delle donne ricche; al fisico degrado;

A te stesso; la folle Irlanda t’inferse la poesia.

Ora l’Irlanda ha sempre il suo clima e la follia

Perché la poesia non fa accadere niente; sopravvive

Nella valle del suo dire ove il burocrate

Mai metterebbe becco; sbocca a sud

Dalle tenute dell’isolamento e dagli assidui crucci,

Scabre città in cui si crede e muore; sopravvive,

Un modo di accadere, una bocca.

Chiudiamo con le parole finali del saggio di Brodskij perché tutto è già stato detto lì, inno bifronte al sublime e al senso comune: “lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile.”

Donne con la  bussola

di Paola Rinaldi

Viaggio è maschile o maschilista? Seppure non siano poche le donne che hanno contribuito alla cartografia, alla geografia e all’esplorazione, le storie dei piedi rosa che hanno stretto i lacci e camminato per il mondo sono rimaste nell’ombra per secoli. Da Freya Stark a Louise Arner Boyd, da Léonie d’Aunet a Ida Pfeiffer, sono state centinaia le donne che hanno avuto il coraggio di rovesciare gli stereotipi ed esplorare luoghi lontani.

«La storia di Ulisse e Penelope descrive sotto forma di metafora quanto tramandato dalla notte dei tempi: l’uomo fatto per il movimento, l’avventura, e la donna per la stanzialità», spiega la professoressa Luisa Rossi, docente di Storia della geografia e delle esplorazioni presso l’università di Parma e autrice del libro L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe.

«Nomi femminili si incontrano nella storia della letteratura, della medicina, della pittura e di molte altre discipline culturali, mentre la geografia, sapere territoriale e strategico, è rimasta a lungo appannaggio di chi governava o faceva le guerre, e dunque degli uomini».

Nonostante tutto, le donne si sono fatte largo tra i pregiudizi. Geografe da tavolino o viaggiatrici?

Sarebbe stato più “logico” il primo ruolo, proprio perché sedentario, ma per rivestirlo occorrevano competenze di preparazione scientifica, come il latino, che le donne non possedevano. Un tempo, alle figlie venivano insegnati il ricamo e i mestieri legati alla vita domestica piuttosto che le discipline tecnico-scientifiche. Per questo motivo, l’unico modo a disposizione di una donna interessata a conoscere il mondo era partire. Nelle motivazioni del partire risiede la prima differenza tra il viaggio maschile e quello femminile: il primo era commissionato dai governi o dalle compagnie commerciali, il secondo era spontaneo e generalmente dettato da una sete di sapere personale.

La diversità si riflette anche nel bagaglio?

Certo. Basti pensare all’orientalista Giuseppe Tucci, grande viaggiatore e studioso italiano che – scopriamo dai suoi diari – era partito per il Tibet con una ricca attrezzatura, mentre nello stesso periodo Alexandra David-Néel raggiunge Lhasa con un fagottino.

Chi erano le esploratrici?

Erano donne come altre, forse con un pizzico di coraggio in più, con uno spiccato desiderio di conoscenza che le spingeva ad abbandonare tutto e scoprire il mondo. Alcune intraprendevano un viaggio religioso, perché era più semplice giustificarlo agli occhi della famiglia, per poi appassionarsi e diversificare le mete. Solitamente, appartenevano a un ceto medio-alto con una discreta istruzione, anche se non manca qualche operaia. Molte viaggiavano con il marito, ma sono tante anche quelle che hanno viaggiato da sole, in condizioni difficilissime.

Mary Montagu ha scritto: “Il mondo raccontato dagli uomini è vero solo a metà”. C’è differenza tra sguardo maschile e femminile?

Sicuramente i resoconti di viaggio sono molto diversi.

Quelli redatti dagli uomini sono più tecnici, quelli scritti dalle donne sono più particolaristici e maggiormente attenti alla dimensione sociale.

Mary Montagu era una viaggiatrice inglese, che nel primo Settecento ha raggiunto Costantinopoli insieme al marito ambasciatore. È la prima ad accorgersi che le donne turche praticavano l’inoculazione del vaiolo ai loro figli, pratica che lei descrive minuziosamente e porta in Inghilterra.

Nessun viaggiatore prima di lei lo aveva notato. Gli uomini hanno sicuramente scoperto il mondo, ma le donne hanno arricchito questa conoscenza con dettagli che prima non erano emersi.

Questo è stato apprezzato?

Sì, anche se forse le donne sono state più stimate come scrittrici che come geografe. Ancora oggi è più facile trovare una donna impegnata nei servizi sociali piuttosto che nell’urbanistica all’interno di un’amministrazione pubblica: la conoscenza e la gestione del territorio è ancora questione di potere, e pertanto in larga misura nelle mani degli uomini. Ma il cammino femminile, anche se lento, sicuramente continua.

 

Ida Pfeiffer, la viaggiatrice solitaria

di Paola Rinaldi

Se il viaggio avesse il volto di una donna, probabilmente l’ovale di Ida Pfeiffer sarebbe quello che gli somiglia di più.

Nata a Vienna nel 1797, sin da piccola, Ida divorava libri che parlavano di evasione, irrequietezza, cambiamento, viaggio come uscire “fuori” dal quotidiano. Quinta di sei fratelli, a soli 9 anni si ritrova ad affrontare il dolore per la morte prematura del padre e, a 22 anni, viene costretta dalla madre a unirsi in matrimonio per convenienza con un vedovo, molto più anziano di lei, dal quale ha due figli e dal quale si separa. Nel frattempo, in lei cresce il desiderio di conoscere il mondo: studia le lingue, le mappe geografiche, le piante, gli usi e i costumi dei popoli.

Intorno al 1842, ormai quarantacinquenne e madre di due figli diventati adulti, inizia a girare il mondo per soddisfare la sua curiosità e allontanarsi dalla limitata realtà femminile viennese. Siccome in quell’epoca l’unico pellegrinaggio consentito alle donne era quello in Terra Santa, Ida sceglie Gerusalemme, ma in circa nove mesi tocca anche Egitto e Malta. Da quel momento, il suo amore per i viaggi è siglato per sempre: la viaggiatrice solitaria percorre oltre 140 mila miglia marine e 20 mila miglia inglesi via terra.

Tra le regioni visitate c’è anche l’Oriente: Ida decide di andare controcorrente e visita di persona quella terra di sogni e spiritualità che aveva conosciuto solo attraverso la lettura. “In quella mischia ero davvero sola e confidavo solo in Dio e nelle mie forze. Nessuna anima gentile mi si avvicinò”, scrive nel suo diario di viaggio.

Da Smyrna il viaggio continua via mare per Rodi, Cipro e Beirut.

Donna coraggiosa e tenace, Ida intraprende cinque lunghi viaggi nella sua vita. In Egitto, visita le Piramidi di Giza e impara a cavalcare un dromedario; in Islanda preleva campioni di piante e rocce che, secondo alcuni racconti, ha successivamente venduto ad alcuni musei; in Brasile, visita la foresta pluviale per conoscere le condizioni di vita degli indigeni, usando i loro mezzi di trasporto. I suoi pellegrinaggi la portano dappertutto e le permettono di scrivere tredici diari, tradotti in sette lingue, ricavati dagli appunti che ogni notte scriveva a matita per raccontare la giornata appena trascorsa.

Muore a Vienna, poco tempo dopo essere rientrata dal suo ultimo viaggio in Madagascar.

Quello di Ida Pfeiffer ricorre più di ogni altro nome femminile nella documentazione ufficiale della geografia ottocentesca, persino in pubblicazioni sino ad allora “antifemministe” come quelle della Società geografica di Parigi e di Londra. In uno dei suoi due lungi giri intorno al mondo (uno intrapreso nel maggio 1846 per due anni e sette mesi, il secondo effettuato tra il marzo 1851 e il maggio 1855), riesce a entrare in un noto villaggio di cacciatori di teste del Borneo, raccontato in maniera dettagliata nei suoi resoconti.

Ida dimostra una grande maturità culturale, perché – se per chiunque sarebbe stato difficile giudicare con freddezza il rituale di quei popoli – lei ha la freddezza di asserire: “Ci meravigliamo tanto di questa pratica, ma quante teste sono appese nei saloni di Versailles?”. Come dire: “Quante guerre e quanti morti sono costati i nostri palazzi e i nostri agi?”.

Sulle ali della libertà

Taccuini di viaggio: Bolivia e Cile (2015)

di Stefano Gandolfi, Sudamerica, Bolivia e Cile, settembre 2015

Sulle ali della libertà copertinaHo pensato di titolare così la narrazione del viaggio in Bolivia e Cile, e so che si tratta di una scelta un po’ temeraria, perché esprime un enorme contrasto fra situazioni spirituali ed emotive personali e condizioni materiali che sono agli antipodi del concetto di libertà. Da una parte abbiamo meravigliose situazioni ambientali, paesaggistiche, panorami e spazi immensi riempiti di vuoto, di nulla, di aria, silenzio, vento, sabbia e montagne, distese di sale grandi come intere nostre regioni, lagune colorate talmente irreali da poter far pensare di essere su un altro pianeta, voli di fenicotteri ad alta quota sullo sfondo di montagne andine di 6000 metri di quota, tutte condizioni che danno immenso impulso ad un anelito di libertà spirituale e fisica; dall’altra parliamo di paesi abitati da popolazioni che nei secoli scorsi, e talune ancora adesso, non hanno mai potuto assaporare quella libertà che noi andiamo a cercare a casa loro; popoli che, come in Bolivia, detengono il record mondiale del numero di colpi di stato (più di 200…), popoli che in tempi recenti, come in Cile, hanno vissuto la tragedia della dittatura del generale Pinochet e che appena da poco tentano di risollevarsi dal passato.

Popoli poveri, laddove anche la povertà è un ostacolo alla libertà se è di tale misura da non permettere a una persona di sfamare sé e la propria famiglia e di fare progetti sulla propria vita. Eppure, paradossalmente, anche a causa di questo enorme contrasto, noi turisti e viaggiatori europei percepiamo ancora di più quella sensazione che da noi tante volte non riusciamo a vivere, pur avendone molte più possibilità di loro! Non assaporiamo più la libertà perché siamo stressati e oberati dal lavoro, siamo imprigionati in una ragnatela di impegni professionali, familiari, sociali, economici, e tutto ciò ci fa pensare di non poter godere e usufruire come vorremmo di quanto ci offre il nostro mondo, per giunta con tutti i problemi, peraltro anche seri, che stiamo vivendo in questo periodo storico.

Sulle ali della libertà (4)

Lungo le strade della Bolivia, fra Potosì e Uyuni: una famiglia ci osserva mentre la fotografiamo dalla jeep: curiosità, rispetto, sguardi gravati dal peso della povertà e della precarietà della vita, ma allo stesso tempo rivelano dignità, rassegnazione ed accettazione del loro destino.

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Bolivia, altopiano fra Sucre e Tarabuco, a circa 3000 metri di quota: Cristina è una donna quechua che vive da sola, con polli e maiali; intreccia braccialetti che vende ai rari turisti; nessuno sa la sua età perché non è mai stata registrata a un’anagrafe, forse ha più di 90 anni!

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Grandi spazi in alta quota: Salar de Atacama, Cile, a circa 3500 metri di altitudine

Anche gli spazi ci stano stretti: il nostro paese antropizzato, densamente popolato, anche quando magari andiamo in montagna o a contatto con la natura ci sembra spesso troppo poco conservato nella sua integrità naturale e privo di quella “wilderness” che appare sempre di più imprescindibile nella nostra esigenza di staccare dalla vita civilizzata. Ed ecco allora che i grandi spazi del Sudamerica appaiono di una magia senza uguali. Noi lo abbiamo vissuto in Patagonia, un grande contenitore pieno di nulla, solo di aria, vento e cielo; lo abbiamo sperimentato sui grandi altipiani tibetani, nelle incredibili dimensioni delle montagne himalayane, e quando siamo finalmente atterrati in Bolivia, e poi via terra passati in Cile nel deserto di Atacama, ci è sembrato di poter finalmente realizzare questo irrefrenabile impulso di perderci nell’immenso nulla di questi altipiani ad altissima quota. Ovviamente con tutto il rispetto e la sensibilità per le condizioni di vita della gente del luogo che, verrebbe di dire se non fosse il solito, abusato luogo comune, nonostante la durezza della sua condizione riesce sempre ad essere ospitale e cordiale, in Sudamerica come in qualunque altra parte del mondo.

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Grandi spazi ad alta quota: un fenicottero si specchia nelle lagune salate del Salar de Atacama, Cile

Abbiamo avuto anche la possibilità, stante la vicinanza al cielo degli altipiani boliviani, di inserire in un viaggio sostanzialmente turistico una bellissima salita in cima a un vulcano di 6000 metri; una salita escursionistica e non alpinistica, senza difficoltà al di fuori di quelle correlate all’alta quota e all’ipossia, ma comunque un’altra grande esperienza portata a casa col ricordo degli incredibili panorami delle Ande.

Abbiamo toccato con mano anche le differenze esistenti fra popoli vicini e confinanti, come al passaggio di frontiera fra le due nazioni, con la immediata evidenza di come la società cilena sia nettamente più vicina rispetto a quella boliviana al mondo europeo. In Bolivia è evidente la distanza siderale che ancora ci divide, ma non sempre in senso negativo per loro: per esempio, fra i tanti aneddoti che potremmo raccontare, si può ricordare volentieri la ampissima diffusione del free wi-fi in qualsiasi bar, ristorantino, bettola anche nei posti più remoti, cosa che da noi nemmeno ci sogniamo e nei rari casi sia disponibile quasi sempre lo è a pagamento.

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un confine tra Bolivia e Cile

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Wi-Fi a 4000 m. in mezzo al nulla

Più che cercare di raccontare a parole la bellezza dei posti visitati, sperando che le fotografie possano farlo meglio, mi piace appunto raccontare un po’ di aneddoti che possono dire tante cose in poche parole. Per esempio un altro fatto che ci ha lasciato stupiti è l’assoluta mancanza di informazione su molte cose che succedono nel mondo occidentale; per esempio, quando raccontavamo dell’ ISIS e di tutte le tragiche vicende correlate, nessuno riusciva a capire di cosa stavamo parlando … Certo, loro avrebbero potuto raccontare a noi tantissimi dettagli su Pinochet, Videla, Stroessner, e poi di Evo Morales, di Hugo Chavez, dei narcotrafficanti … e tutto ciò basta e avanza per capire che se noi abbiamo dei problemi, loro ne hanno altri, sicuramente anche peggiori!

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Bolivia, fra Sucre e Potosì: un pastore mostra orgoglioso i suoi gioielli

Parlando di libertà ci si accorge di quanto sia vicina la distanza fra paradiso e inferno. Quando siamo arrivati a Potosì, una città di 150.000 anime a oltre 4000 metri di altitudine, volevamo visitare le miniere di Cerro Rico, dove una volta si estraeva pregiatissimo argento esportato in tutto il mondo; ora l’argento è marginale, soppiantato dallo stagno e attualmente da zinco e piombo. Questa visita è stata una delle esperienze più impressionanti, una vera e propria discesa all’inferno, seppure a 4200 metri di altitudine, nelle viscere di una montagna dove si raggiungono i 46° gradi di temperatura nelle parti più profonde, si inalano gas tossici, agenti chimici nocivi, bisogna stare sempre attenti a non toccare le pareti incrostate di arsenico, a non scivolare nel fango che tappezza gli stretti camminamenti e non bisogna soffrire di claustrofobia, oltre a cercare di non andare in affanno per la sensazione psicologica ma anche reale di mancanza di ossigeno.

Sulle ali della libertà (11)

Bolivia, Potosi: la venditrice di foglie di coca, acquavite e dinamite nella sua minuscola bottega, punto di sosta obbligato prima dell’ingresso nella miniera di Cerro Rico

Non è una gita turistica, e lo si capisce fin da fuori, quando gli operai della cooperativa ti fanno vestire con le loro tute, sporche e lacere, con i loro stivali di gomma puzzolenti, ti fanno indossare i loro caschi metallici, pesantissimi e scomodi, ti mettono sulla schiena una batteria per alimentare le lampade frontali che sbilanciano ancora di più il casco; poi si attraversano le strade della città alta così abbigliati, si entra in un negozietto di 3 metri x 3 gestito da una vecchina di età indecifrabile, sicuramente con più anni che denti in bocca, con la schiena curva tanto quanto la strada ripidissima che porta alle miniere, e con assoluta naturalezza si comprano come di consuetudine dei regali da portare ai minatori che lavorano dentro. Vi chiedete cosa si regala ai minatori? semplice: 5-6 candelotti di dinamite, un pacco di nitrato di ammonio come detonante per la miscela esplosiva, una bottiglia di tossicissima acquavite da 70° fatta in casa e un pacco da 1 kg di foglie di coca; con tutta questa roba in mano si sale su una jeep, si raggiunge l’ingresso della miniera e ognuno di noi lascia il suo regalo al primo minatore che incontra. Sono tutti giovani, anche di 13-14 anni, non è una miniera per vecchi, anche perché muoiono quasi tutti a 30-40 anni per silicosi polmonare. All’ingresso, in una nicchia nella parete, ci si imbatte in una inquietante statua ad altezza naturale di un demone, che loro chiamano “zio”, al quale si rivolgono per invocare protezione e benevolenza. Per ingraziarselo gli si infilano una sigaretta accesa in bocca e spargono un po’ di alcol e di foglie di coca per terra; se la sigaretta si consuma tutta, anche per questo giorno sono stati fortunati e sopravvivono fino a domani. Poi, nelle viscere dell’inferno, si accendono una sigaretta e se la fumano mentre martellano la parete della montagna per infilarvi dentro un candelotto di dinamite e la sua miccia, con buona pace per la nostra legge 626 sulla sicurezza sul posto di lavoro. Incredibilmente siamo usciti incolumi a rivedere il sole e il cielo delle Ande, e abbiamo pensato che l’alcol e le foglie di coca per questa gente sono un dono inestimabile per sopravvivere fino al giorno successivo.

Sulle ali della libertà (12)

Bolivia, Potosì: nelle viscere delle miniere di Cerro Rico, a oltre 4200 metri di altitudine. Questo giovane minatore si chiama Cristian, all’epoca aveva 15 anni, è un vero eroe moderno, fiero e inconsapevole della breve durata della sua vita in quell’ inferno.

A colazione, la mattina dopo, abbondante infuso a base di foglie di coca, per combattere l’altitudine e i sensi di colpa al ricordo della miniera, e dopo una lunga traversata nel deserto un’altra città a 3700 metri di quota, Uyuni, che dà il nome al più famoso deserto salato del mondo, il salar de Uyuni. E prima di entrare nelle sue strade desolate, in un atmosfera da film di fantascienza apocalittico, genere post-atomico, ci siamo persi per due ore in un labirinto di locomotive, vecchi vagoni arrugginiti e abbandonati su binari che non portano più da nessuna parte se non a morire in mezzo al deserto: per chi ama il genere, e io lo amo moltissimo, si poteva immaginare di essere a fianco di Mel Gibson a combattere per la sopravvivenza nella saga di Mad Max; ma tutto questo era semplicemente il cimitero dei treni di Uyuni, ricordo di un tempo in cui si fabbricavano locomotive a vapore e vagoni che a un certo momento non servivano più, perché i continui terremoti delle Ande hanno completamente distrutto gli esili ponti e le infrastrutture che sorreggevano le strade ferrate, senza che ci fossero i soldi per ricostruirle. Con questo i boliviani persero l’ultima possibilità di avere (seppure con cospicui dazi doganali da versare ai cileni) un accesso ai porto di Antofagasta sull’oceano Pacifico, dopo che i cileni stessi lo avevano annesso con tutta la sua provincia, l’unica provincia affacciata sul mare e quindi di importanza vitale per l’economia boliviana. Fu una guerra durata cinque anni ma in realtà conclusasi in un unico giorno, il primo, il giorno di carnevale: e anche questo aneddoto, ammesso che sia vero, esprime tanto del carattere di questa gente, pacifica, un po’ indolente, rassegnata, ma anche capace di fare ironia su se stessa: perché la nostra guida di Sucre, per giustificare il fatto che non avevano opposto resistenza ai cileni il giorno dell’invasione, raccontava che dalla capitale, in risposta al disperato dispaccio proveniente dalla costa, avevano detto che per quel giorno non si poteva fare nulla perché era carnevale, la gente festeggiava e se mai se ne sarebbe riparlato il giorno dopo … quando tutto il danno però era già stato fatto: e addio sbocco al mare!

Sulle ali della libertà (13)

Uyuni, 3600m. Augusta su una rudimentale altalena nello scenario post-atomico del cimitero delle locomotive, in un deserto tormentato dal silenzio assordante del vento

Altri ricordi indelebili: il Salar de Uyuni. Una distesa di sale di 12.000 kmq, come metà del Piemonte, a 3650 metri di quota. 10 miliardi di tonnellate di sale di litio, boro, potassio e magnesio. Abbacinante, irreale, non si può credere di correre con il fuoristrada per ore sul sale, duro, solido, a zolle, ma te ne accorgi subito, cosa vuol dire sale puro a quella quota, quando ti togli gli occhiali da sole e rimani accecato all’istante; come se fossi sui ghiacciai himalayani, ma lo sguardo può solo variare fra il bianco del sale e l’azzurro del cielo, e non si è più sicuri di niente, fra distanze completamente falsate e un orizzonte che a ogni istante sembra allontanarsi, deformarsi e svanire nel nulla. E quando alla sera entri in albergo e hai una sensazione strana, e ti chiedi di cosa è fatto l’albergo, beh, la risposta è semplice: è fatto di sale, costruito quasi completamente con solidissimi blocchi di sale… poi ci sono gli infissi, le finestre, i tavoli, le poltrone, ma tutto appoggiato sul sale vivo. Un albergo unico al mondo.

Sulle ali della libertà (14)

Bolivia, Salar de Uyuni, 3650 metri: storditi dalla luce, immersi in un paesaggio surreale, fra realtà e miraggio

Sulle ali della libertà (15)

E quando il giorno dopo si viaggia di nuovo sulle piste sabbiose (percorse poche settimane prima dagli equipaggi della Dakar) per arrivare alle lagune colorate, e si vedono le montagne sulle sfondo, montagne di 5000 metri, e si vedono chiazze bianche alle loro pendici, non bisogna chiedersi che cos’è quel bianco, perché non è ghiaccio, ma ancora sale, affioramenti di sale originati dall’evaporazione di un vecchio, gigantesco e profondissimo lago preistorico.

Sulle ali della libertà (16)

Bolivia, dal Salar de Uyuni verso l’ Hotel Tayka del Deserto, 4523 metri, lungo le piste del rally Dakar. Una vigogna appare all’ improvviso: si ferma a guardarci o a meditare sulla direzione da prendere?

E poi parliamo della Laguna Colorada, un grande lago a 4200 metri, dove il rosso delle alghe e del plancton si riflette sul bianco del deposito di sodio, borace e gesso. E dove i fenicotteri di alta quota si sono adattati a vivere in un ambiente marziano, nel quale ogni logica depone contro la sopravvivenza, eppure si sopravvive e si vive ostinatamente e meravigliosamente; e poi la Laguna Verde a 4400 metri, dove i colori sono solo da fotografare perché derivano dallo zolfo, dall’ arsenico, e dal piombo, non un bel posto da farci un bagno, ammesso che uno ne abbia voglia, con venti a 70 km orari che congelano anche le dita che schiacciano il tasto dell’otturatore sulla reflex.

Sulle ali della libertà (17)

Bolivia, Laguna Colorada

Sulle ali della libertà (18)

Bolivia, Laguna Verde

In mezzo a tutto questo la salita a un vulcano isolato di 6020 metri, una delle tante vette altissime della Cordillera, in fondo a una valle dove vive il puma delle Ande, rarissimo; noi non lo abbiamo visto ma abbiamo camminato sulle sue orme, mentre lui sicuramente vedeva noi, appostato sulle alture rocciose di questa steppa desolata, in agguato per cacciare qualche preda, magari non un umano, troppo grosso e strano, sicuramente qualche lama o una tenera vigogna.

Sulle ali della libertà (19)

Bolivia: oltre il paesino di Quetena Chico, ultimo avamposto umano ad altissima quota, a 4700 metri sulla steppa arida e ventosa della piana alle pendici del vulcano Uturuncu (sullo sfondo, 6008 metri s.l.m.), salito il giorno precedente. Poco lontano da lì l’emozione dell’avvistamento delle orme del rarissimo puma delle Ande, che ben nascosto sulle alture circostanti ci guardava con curiosità

La salita al vulcano Uturuncu realizzata in una sola giornata, è quasi incredibile, ma sulle Ande è realizzabile ciò che in Himalaya sarebbe impensabile: abbiamo passato una gelida notte in due desolate camerette di una piccola pensione in uno sperduto avamposto della civiltà a 4250 metri, il paesino di Quetena Chico, che sembra uscito dalla sceneggiatura di uno spaghetti- western, con le strade deserte battute dal vento, pochi bambini che escono dalla scuola e giocano nel nulla in mezzo alla polvere della steppa, una numerosa popolazione di lama che spadroneggia nella piazza del paese occupando il suolo pubblico fra il municipio e la chiesetta, vecchi fuoristrada e pick-up decrepiti e arrugginiti; mancano solo i pistoleros che affidano le anime a Dio e la musica di Morricone, in compenso se fai tre passi cominci a boccheggiare come un enfisematoso per la quota e pensi che forse anche Clint Eastwood avrebbe potuto sbagliare la mira a causa della confusione mentale provocata dall’ ipossia (che Sergio Leone mi perdoni!).

Sulle ali della libertà (20)

Bolivia, Quetena Chico, 4500 metri. Comitato di accoglienza davanti al Municipio. Mezzogiorno di sputi?

Sveglia alle 6.30, colazione alle 7 e subito sulle jeep, su una strada che attraversa una vasta zona acquitrinosa e poi sale progressivamente su una sterrata sempre più ripida e rovinata (una volta serviva ai minatori delle miniere di zolfo della montagna, non certo ai turisti) Si comincia a camminare da 5300 metri fino ai 6020 della vetta, in mezzo ad affioramenti di lava consolidata e di zolfo: sotto la cima finalmente si calpesta un po’ di ghiaccio, si beve the per scaldarsi dal vento tesissimo, e infine non c’è più da salire, si può tirare il fiato e commuoversi con i grandi spazi aperti sulle Ande, le lagune, il bellissimo vulcano Licancabur di fronte, a sud-ovest, al confine col Cile; orizzonti che fanno quasi male tanto sono senza fine e senza misura. Poi una folle, vertiginosa corsa su terriccio e ghiaia e quindi su un ripidissimo versante sabbioso che taglia perpendicolarmente tutto il versante affrontato in diagonale, con molta più saggezza, in salita; sembra di essere sulle dune del deserto del Namib ma nulla ormai appare strano quassù; la jeep è laggiù in fondo, si corre ancora come dei matti per raggiungerla e alle 4 del pomeriggio si è di ritorno in tempo per mangiare pastasciutta al ragù nel paesino che sembra essere stato costruito il giorno prima dalla manodopera di Cinecittà per accoglierci e per essere smontato il giorno dopo, alla nostra partenza!

Sulle ali della libertà (21)

Cile, Atacama: la Valle della Luna

E poi il confine col Cile: si lasciano i Toyota Land Cruiser maestosi e infaticabili, si lasciano coperti di polvere e si sale su un elegante SUV della Nissan tirato a lucido, e si capisce subito che siamo in un altro mondo: l’autista ci guarda come se fossimo dei pezzenti provenienti dalla preistoria, certo siamo un po’ sporchi, sudati, impolverati e poco lavati (ma con quale acqua?!) e lui al confronto è un damerino e forse ha paura che gli sporchiamo i sedili e i tappetini! Si scende a rotta di collo perdendo 2000 metri di dislivello in mezzora, su una strada incredibilmente dritta senza neanche una curva per attenuare la pendenza e la velocità, e si entra a San Pedro de Atacama; si torna indietro nel tempo, sembra di essere in una comunità hippie degli anni ‘60, una discreta ma evidente atmosfera rilassata con sottofondo di spinelli, birre, musica reggae, divertimento, relax e suggestioni a cavallo fra la psichedelia di “Zabriskie point” e la west coast acida dei Greateful Dead. La vita per i giovani turisti nordamericani inizia pigramente a mezzogiorno, ma per chi non vuole perdersi le emozioni vere la sveglia è di notte, per andare a vedere i geyser del Tatyo a 4200 metri, avvolti da coperte di lana gettate sopra i piumini, con la folle tentazione di avvicinarsi ai getti di vapore per scaldarci un po’, chi crede che l’ inferno sia caldo non è mai passato da lassù… e poi ancora vertiginosamente giù nel deserto di Atacama, la Valle della Luna con dune di sabbia in continuo movimento modellate dal vento, e poi ancora le lagune salate con i fenicotteri che volano davanti alle montagne, irraggiungibili nel loro anelito per la libertà.

Sulle ali della libertà (22)

Cile, geyser del Tatyo, 4200m: un piccolo soffio di vapore bollente, ma subito gelido nell’ alba in alta quota

Sulle ali della libertà (23)

Cile, Atacama: la Valle della Luna

Sulle ali della libertà (24)

Un albergo più confortevole, una pizza spettacolare con musica popolare dal vivo, vecchi dischi dei Rolling Stone e di Bob Marley, un tenore di vita che si avvicina molto di più a quello dell’Europa (magari quella meno ricca), sicuramente fra i più elevati in tutto il Sudamerica. Ce ne accorgiamo anche e soprattutto a Santiago de Chile, metropoli moderna a poche decine di chilometri dalle montagne ove in tre quarti d’ora si può andare a sciare e a camminare e scalare.

Sulle ali della libertà (25)

Cile, Salar de Atacama, 2400 metri

Un paese dove c’è ancora equilibrio fra l’offerta lavorativa e una popolazione sufficientemente scarsa da non dover competere per le risorse economiche, almeno nella capitale, dove vive più di un terzo di tutta la popolazione cilena.

Anche qui però si percepisce la tensione dei ricordi ancora vivissimi del passato recente: arriviamo al pomeriggio del giorno dell’anniversario della morte di Salvador Allende e della presa del potere da parte del dittatore Pinochet; sono passati 42 anni ma la memoria è vivissima, ce ne accorgiamo quando chiediamo a un tassista di portarci in centro per una breve visita della città storica; per lui è un guadagno veloce, 4 turisti per 4-5 km di tragitto, ma si rifiuta di portarci, dice che è troppo pericoloso, perché in questo giorno a Santiago ci sono in piazza le due fazioni, i nostalgici di Allende e quelli di Pinochet, e tutti gli anni ci sono scontri anche violenti: mi spiace, ci ripete, ma non vi porto in centro, non è sicuro per voi, quasi ci chiede scusa ma è irremovibile; ci rassegniamo a un giro nel quartiere moderno, bellissimo, grattacieli arditi, dalle forme e dal design innovativi; c’è una luce bellissima al tramonto con il sole che incendia di rosso le Ande distanti poche decine di km ed che fanno da sfondo allo skyline dei grattacieli; tutto è tranquillo, quasi idilliaco, ma ci sono camionette della polizia e dell’esercito, in centro anche mezzi blindati in assetto da guerra; da queste parti non scherzano con la sicurezza, se ci sono tensioni e scontri si interviene subito con altrettanta violenza, anche perché nessuno si può permettere il lusso che il passato ritorni alla ribalta: tutto potrebbe precipitare in poche settimane e si scivolerebbe indietro di 40 anni. Noi vediamo la superficie della società cilena, poi c’è tutto il resto sommerso come un iceberg. Anche in albergo al rientro ci chiedono se abbiamo avuto problemi, e non per pura cortesia. Poi, alle tre di notte, in pulmino all’aeroporto, strade deserte, esercito e mezzi blindati ancora schierati, ci dicono che questa volta è filato tutto liscio, se ne riparlerà l’anno prossimo.

Sulle ali della libertà (26)

Santiago de Chile: modernità, discreto benessere ma ancora forti tensioni sociali ai piedi delle Ande

Si torna col pensiero di un continente che non sa cosa sia l’ISIS e il terrorismo fondamentalista, ma conosce perfettamente tutta la storia recente di dittature sanguinose, di destra e di sinistra, tutte le formazioni dei clan di narcotrafficanti, le débâcle finanziarie di interi stati come l’Argentina o il Venezuela; però rimane il ricordo di uno stormo di fenicotteri che volava sul Salar de Atacama indifferente a tutti i nostri problemi, e di una struggente musica popolare che faceva volare in alto il suono dei flauti andini e le canzoni dei giorni di festa, di danze, di matrimoni, battesimi, funerali e di tutto ciò che è possibile inventarsi per festeggiare qualcosa, bere, masticare foglie di coca e dimenticare un passato e un presente pesanti come macigni; ma i fenicotteri volavano più in alto di tutte le miserie umane sulle ali della libertà, e non ci degnavano di uno sguardo.

La tentazione dell’inutile

Un’introduzione alla storia dell’alpinismo

di Paolo Repetto,28 febbraio 2012

A Franco, capocordata da sempre
Ad Augusta, a Stefano e a Giorgio,
portatori sani del virus della montagna

Quella che segue non è una storia dell’alpinismo. È un abbozzo di storia del rapporto fisico e spirituale intrattenuto dall’uomo con le montagne, con particolare riferimento al XIX secolo. Come tale è ben lungi dal pretendere di essere esaustivo: anzi, l’intento era quello incuriosire, di offrire degli “assist” per approfondimenti che poi ciascuno porterà avanti come vuole. Spero di esserci almeno in parte riuscito, e soprattutto di non annoiare gli amici che vorrebbero raccoglierli.

La tentazione dell'inutile copertina

E vanno gli uomini
Ri-scoperta e riappropriazione
L’assalto alla montagna
Finalmente in vetta
La montagna romantica
La montagna dipinta
La montagna illustrata
La montagna colonizzata
Mondi e monti lontani
Penne e piccozze
La guerra nell’Alpe
La guerra con l’Alpe
La morte dell’impossibile
Scendere a valle
Salire. Bibliografia essenziale per una letteratura dell’alpinismo
STORIA DELL’ALPINISMO
STORIA E ANTROPOLOGIA DELLA MONTAGNA
MONOGRAFIE SULLE PRINCIPALI VETTE
FILOSOFIA ED ETICA DELL’ALPINISMO
LETTERATURA ED ESTETICA DELL’ALPINISMO
BIOGRAFIE DI ALPINISTI
CLASSICI DELLA LETTERATURA ALPINISTICA
LETTERATURA ALPINISTICA MODERNA
NARRATIVA

E vanno gli uomini …

Amo di folle amore i monti fieri e sublimi!
[…] Non producono niente, sono inutili:
son solo belli, e la bellezza è un nulla
Ma io li amo più dei campi grassi e fertili
Ma lontani dal cielo – dove Dio non si vede.
Th. Gautier

Non si può chiudere questo racconto di viaggi, scoperte ed esplorazioni senza accennare a un risvolto solo apparentemente marginale: la conquista delle vette alpine[1]. È una vicenda particolare, rappresentativa di una estremizzazione, individuale o collettiva, dello spirito errabondo e conquistatore dal quale abbiamo preso l’avvio: ma esemplifica e testimonia anche la subordinazione progressiva della curiosità originaria a logiche economiche, strategiche e politiche che ne snaturano l’“innocenza”.

Mi soffermo su questa vicenda – anche se altrettanto significative, sia pure con ricadute diverse, potrebbero essere considerate l’esplorazione degli abissi marini, la corsa ai poli e la gara per lo spazio – intanto perché è maggiormente legata al periodo trattato nella mia narrazione, e poi perché quelli montani sono rimasti gli unici spazi abbordabili da tutti, nei quali il confronto con la natura ha conservato molte caratteristiche invariate; nei quali cioè quello spirito della sfida, ma anche della scoperta e della conquista, dal quale siamo partiti, ha ancora modo in qualche misura di esprimersi.

Questo a dispetto del fatto che l’interesse per la montagna e per la sua esplorazione non sia un carattere biologicamente radicato, e nemmeno si possa dire sia stato “storicamente” acquisito molto presto[2]; è piuttosto un portato della modernità, anche se non mancano le testimonianze di ascensioni impegnative affrontate in età medioevale o prima ancora in quella classica[3]. Vale il solito discorso: si possono retro-datare all’infinito i sintomi o gli indizi di una rivoluzione negli atteggiamenti mentali, ma in tal modo si forza il significato di avvenimenti occasionali e si perde di vista la novità prodotta dalla trasformazione.

In effetti, nella prima lunga fase di nomadismo che ha portato la specie umana a popolare tutti i continenti, e che in sostanza si è protratta sino al basso medioevo, le catene montuose non sono mai state considerate come mete: erano piuttosto degli ostacoli. Non si cercava la vetta, ma il valico. Gli storici antichi, da Erodoto a Strabone, ci raccontano drammatiche traversate di passi impervi piuttosto che epiche scalate. Lo scopo di eserciti, carovane commerciali, popoli migranti, pellegrini o viaggiatori solitari non era salire le montagne, ma lasciarsele alle spalle, compiendo rituali propiziatori prima di affrontarle e ringraziando per lo scampato pericolo dopo averle superate. Tutti i popoli dell’antichità, in qualsiasi parte del globo, hanno da sempre consacrato le vette a dimora della divinità (l’Olimpo, il Sinai, il Fuji, il Kailash, ecc.), per motivi facilmente intuibili, che vanno dalla maestà del paesaggio al mistero dell’ignoto, dal timore nei confronti di ciò che appare immensamente grande al fascino di cime che si nascondono tra le nubi e sembrano attingere, nel senso proprio di toccare, ad un’altra dimensione: e comunque ne vietavano la frequentazione agli umani. L’ostilità degli elementi, il pericolo costante e la difficoltà di sopravvivere alle alte quote costituivano già di per sé un notevole deterrente[4]: fino a tutto il XVI secolo i resoconti atterriti dei viaggiatori che valicano i passi alpini, da Benvenuto Cellini a Montaigne, da Francesco di Sales a John Evelyn, ci parlano solo dello spavento indotto dalle valanghe e dai crepacci. Ma la deterrenza veniva rafforzata e in qualche modo resa accettabile dalla superstizione. In tal senso, anche quando nel passaggio occidentale dall’età classica al medioevo il rapporto con la montagna ha cambiato nettamente segno, e le vette e tutto l’ambiente montano si sono popolati di presenze demoniache e le interdizioni si sono moltiplicate, si è rimasti nell’ambito del sacro: le divinità erano in fondo le stesse, anche se rilette in negativo dal monoteismo cristiano.

La salita in vetta costituiva comunque una “profanazione”, un gesto presuntuoso e sacrilego, sia in Oriente o nell’Occidente classico, dove si esigeva una devota reverenza per la dimora della divinità, sia nell’Occidente cristiano, che scorgeva in ogni dirupo e anfratto un ricettacolo di demoni e di mostri. Questo sacro timore finiva per investire, rovesciandosi in disprezzo, anche coloro che le montagne le abitavano, con le rare eccezioni riservate agli asceti o agli eremiti. I montanari sono stati bollati in tutte le epoche e nelle diverse aree come rozzi e primitivi, in qualche caso come subumani[5]: e le leggende relative all’uomo selvatico, universalmente presenti dalle Alpi alle Ande all’Himalaya, documentano la diffusione e la persistenza della considerazione negativa. Proprio tra queste genti, tra l’altro, che pure con la montagna e le sue insidie e i suoi misteri avevano maggiore dimestichezza, le superstizioni erano particolarmente diffuse: lungo tutto l’arco alpino sono centinaia i toponimi che rimandano alla presenza di giganti, di streghe, di draghi o di enormi serpenti, quando non addirittura del Diavolo in persona, magari esiliato nelle “ghiacciaie” per liberare i valichi (come accade ad esempio nel caso di San Bernardo e del passo omonimo), e tutto il massiccio del Monte Bianco era conosciuto fino al Settecento dai valligiani come “Montagnes Maudites”.

Ciò non toglie che vadano immaginati tra questi anche i primi salitori delle vette, trascinati dai lunghi inseguimenti di caccia o dalla ricerca di cristalli, o magari da rituali pagani sopravvissuti sotto le specie del folklore e del gioco.

Oltre alle interdizioni religiose, nel medioevo hanno senz’altro contribuito ad una particolare disaffezione nei confronti della montagna anche i cambiamenti climatici: l’irrigidimento del clima verificatosi tra il IX e il XIV secolo ha esteso i ghiacciai e resa decisamente più dura la vita oltre una certa altitudine[6]. In quest’epoca quindi, più che mai, e in Europa a differenza di quanto accade nelle altre parti del mondo[7], alle montagne vengono associati il male, il mistero e l’orrore, e la frequentazione delle zone che si trovano al di sopra dei limiti naturali della caccia o del legnatico viene letta non solo come un atto di sfida inutile e fine a se stesso, ma anche come un segnale di inclinazioni malefiche.

Se l’età medioevale sostituisce il demoniaco al divino, la vera e propria “desacralizzazione”, ovvero la sottrazione della montagna alla sfera religiosa, positiva o negativa che sia, e l’instaurazione di un rapporto se non laico, perché quello con la montagna non è mai tale, almeno disincantato, sono invece molto più tardi: occorre attendere l’età moderna[8].

Il primo alpinista moderno, sia pure solo in ispirito, è tuttavia un uomo medioevale. È Francesco Petrarca. L’aretino non compie una grande impresa: il Mont Ventoux, sul quale sale nel 1336, è in realtà un panettone dalla cima spelacchiata; l’ascesa è solo una lunga camminata, disturbata in prossimità dalla vetta da uno sferzante mistral. Ma è lo spirito quello che conta. Petrarca sale per il piacere di salire, di arrivare in vetta e di guardarsi attorno da lassù: “oggi, spinto solo dal desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza […][9]. Non ha la presunzione di “vincere” la montagna, perché si rende conto benissimo che la scalata è alla portata di tutti. Semmai vuole vincere la propria pigrizia, quella disposizione melanconica e inibente che chiama “accidia”, e che si nutre, a proprio alibi, anche dei tabù. Un pastore che lo incontra alle prime pendici del monte gli racconta di essere salito da giovane in vetta, e cerca di dissuaderlo: “ma cosa ci vai a fare? In cima non c’è niente”. E invece il Petrarca sulla cima trova se stesso, trova un significato proprio nello sforzo che si è imposto per violare un tacito divieto interiore. Nella lettera-relazione a Dionigi da Borgo San Sepolcro si affretta poi a rinnegare questo impulso, a deprecare la vanità delle aspirazioni umane: cita il celebre passo di Agostino ([…] e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, […] e trascurano se stessi) e cerca una giustificazione nel desiderio di approssimarsi di qualche metro a Dio. Ma la realtà è un’altra. Petrarca sa di aver compiuto un gesto di ribellione, di autonomia: ne ha un po’ paura, ma è arrivato comunque in vetta, e soprattutto lo racconta, lasciandoci il primo resoconto alpinistico della storia, inaugurando un genere e, con largo anticipo, una tendenza.

Dopo Petrarca, gli episodi di ascensioni testimoniate, alcune anche di difficoltà tecniche non indifferenti, si infittiscono, già a partire dall’ultima parte del medioevo. Le motivazioni sono le più disparate: può trattarsi di una pratica mistica o penitenziale (la salita nel 1368 di Bonifacio Rotario, che porta sulla vetta del Rocciamelone un trittico di bronzo), di un espediente militare (la traversata invernale del Kimmler Tauern compiuta da Rodolfo IV d’Austria nel 1363), di una curiosità estetico-scientifica (l’ascesa di Leonardo da Vinci al monte Bo), o di un gesto politico (la volontà di affermare un possesso integrale, fisico, e non solo teorico, del territorio sul quale si ha giurisdizione: la scalata del Mont Anguille, nel Delfinato, ordinata da Carlo VIII ad Antoine de Ville, nel 1492). Ma lo spirito dell’esplorazione fine a se stessa, quello per intenderci anticipato da Petrarca, è più tardo: si affermerà solo col Romanticismo. Per intanto la dissacrazione passa invece per un’altra via, quella della “riscoperta” scientifica della terra.

Ri-scoperta e riappropriazione

Nel 1555 Conrad Gessner, un naturalista svizzero, intraprende come gesto esplicito di sfida l’ascensione al monte Pilatus, vicino a Lucerna: va a gettare pietre in un lago che si riteneva abitato da draghi e da spiriti maligni[10]. Gessner è indubbiamente mosso dallo spirito antisuperstizioso della Riforma, ma è anche uno che scrive: “asserisco che è nemico della natura colui che non reputa le alte montagne degne di studio”. E, soprattutto, che quando aggiunge: “Le regioni più alte delle più elevate vette sembrano essere al di sopra delle leggi che regolano il mondo sottostante, quasi appartenessero ad una sfera diversa[11]” intende dire che le leggi fisiche operano in maniera diversa: la neve che sfida i raggi del sole, l’aria che è più limpida e rarefatta, i colori, la temperatura, ecc… Si apre un campo nuovo all’indagine, e non c’è posto per i draghi. Un amico di Gessner, Benedikt Marti, nella sua Courte description du Stockhorn et du Niesen (1557), oltre a ribadire la bellezza del paesaggio, la religiosità del silenzio, la salubrità dell’aria e dello stile di vita, arriva a proclamare la superiorità “civica” dell’uomo di montagna. Concetti analoghi sono rintracciabili in un poema del francese Jacques Peletier, La Savoye, del 1572. La montagna è innanzitutto il luogo della libertà, nel quale lo spirito può distendersi e spaziare: “Luoghi isolati, altezze vertiginose / gelidi paesaggi e sentieri gibbosi / Là dove, quanto più lo sguardo si trova prigioniero / più trova spazio e trova libertà[12].

Lo stesso spirito anima pochi anni dopo (1574) il “De Alpibus commentarius” di Josias Simler, altro svizzero, professore di esegesi neotestamentaria a Zurigo, che fornisce una descrizione storico-geografica di tutta la catena alpina. Simler dedica molta attenzione anche alle tecniche e ai problemi degli spostamenti in montagna, dando l’avvio ad una ricognizione, e quindi ad una secolarizzazione sistematica, del territorio, sia pure nei limiti di una conoscenza che è agli esordi: paradossalmente, infatti, in tutta la sua opera non viene mai citato il monte Bianco. È caduto un tabù, e se anche nel Seicento l’attenzione per il mondo alpino rallenta, perché una nuova repentina glaciazione prodottasi verso la fine del XVI secolo[13] si somma alle condizioni generali di insicurezza politica create dalla guerra dei Trent’anni e rende meno facili e frequenti gli spostamenti, la strada è ormai aperta. Sotto l’azione combinata della Riforma e della Controriforma, che mirano a sradicare ogni residuo di paganesimo superstizioso, delle scienze naturali che cercano di dare spiegazione dei fenomeni di cui parlava Gessner, e in particolare della nascente geologia, che proprio dallo studio delle rocce trae gli elementi per dilatare la profondità temporale del mondo, viene rimossa la patina protettiva di sacralità e si avvia la domesticazione delle cime.

La geologia come autonoma scienza della terra, svincolata da idee precostituite e da principi primi costitutivi dell’universo e dotata di metodi d’indagine propri, basati sull’esperienza in campo aperto e di ricerca sul terreno, nasce da un viaggio, da una fascinazione e da uno scarto[14]. Il viaggiatore è Thomas Burnet, un ecclesiastico inglese che compie nel 1671 il suo Grand Tour continentale, rimane affascinato dalle Alpi ed elabora sulla scorta di quell’esperienza una singolare teoria orogenetica, che viene enunciata nella Telluris theoria sacra del 1681. Secondo Burnet la terra era in origine perfettamente liscia e pianeggiante, e gli attuali rilievi e cicatrici, monti e fiumi, baratri e precipizi sono il risultato di una immane inondazione provocata dalla rottura della crosta terrestre. La terra non è dunque che un rozzo ammasso di rovine, un mondo in pezzi: ma proprio questo sfacelo è testimonianza della potenza divina.

Al di là della scontata conclusione, la teoria di Burnet contiene degli elementi di rivoluzionaria novità, soprattutto se confrontata con i Principia di Newton, apparso sei anni dopo, e con i cartesiani Principia Philosophiae di quarant’anni prima. Rispetto a entrambi, che trattavano il “problema montagne” (in sostanza: come si concilia il loro disordine con un cosmo perfettamente regolato da leggi eterne e immutabili? perché ci sono, a dispetto di un ordine universale che non le prevede?) da un punto di vista teorico-matematico, come variabili da far rientrare nel quadro ordinato di una lettura meccanicistica del mondo, e lo liquidavano o riconducendo la singolarità, l’irregolarità e la diversità dei fenomeni ad astratti modelli teorici, o attribuendole sbrigativamente ad atti divini non necessitanti di spiegazione, il vescovo inglese introduce il fattore “disordine”. Le montagne scompigliano il quadro, e non possono essere considerate solo un elemento di disturbo nella teoria, ma ne costituiscono addirittura la chiave. La rottura d’equilibrio postulata da Burnet all’origine della loro formazione, pur fissando la terra al momento in cui si era svolto l’evento catastrofico, ha il merito rispetto alla concezione di Newton di immettere comunque un cambiamento: è in qualche modo, molto timidamente, una storicizzazione. Le montagne sono riscoperte “nel tempo” e quel tempo non è ciclico, non è costituito dal ripetersi di eventi simili, ma lineare, profondo, irreversibile. Ciò che da Bacone in poi valeva per la storia umana, vale ora anche per quella naturale.

Ma c’è dell’altro: una concezione simile non può essere finalistica. Il mondo è un ammasso di rovine, non un’armoniosa costruzione. La potenza divina non opera necessariamente “al servizio” del mondo, finalizzata alla sua stabilità e al suo ordine: anzi, al contrario nel tempo la terra attraversa successive metamorfosi e alterazioni, ma il prodotto finale di ogni fase sono appunto solo rovine. Per capire tutto questo (Burnet non lo dice, ma lo pensa) le montagne bisogna vederle, conoscerle da vicino. Bisogna provare quello strano, contradditorio sentimento insieme di entusiastica attrazione e di fantastico terrore che fa dimenticare ogni estetica delle simmetrie per spingerti verso quella delle rovine.

Il nuovo concetto di “tempo della natura”, inconsapevolmente introdotto da Burnet nel momento in cui lo sgancia da quello umano, è comunque già maturo al momento della comparsa della Theory. Una dozzina di anni prima il danese Nicola Stenone ha fatto scandalo proponendo nei Prodomi[15] una lettura dell’origine dei fossili che prende spunto proprio dallo studio delle montagne. Ciò che si rinviene negli strati calcarei messi a nudo dalle frane o dall’erosione non sono giochini artistici cui si è abbandonato Dio, ma testimonianze di forme di vita antichissime, molte delle quali definitivamente scomparse, depositatesi nell’arco di tempi lunghissimi nei fondali marini e sollevate poi dai movimenti tellurici. Stenone è immediatamente costretto dalla reazione della chiesa danese a ritrattare le sue idee, ma queste vengono riproposte quasi contemporaneamente dall’inglese Hooke, e con diverso successo. Anche se ufficialmente, almeno sino ai primi dell’ottocento, la datazione dell’antichità del mondo rimarrà quella stabilita nel 1650 dal vescovo Ussher (per l’esattezza, il mondo è stato creato 4004 anni prima della nascita di Cristo)[16], di fatto gli studiosi, soprattutto quelli che come Burnet hanno l’occasione di un approccio diretto con le formazioni montuose più giovani, cominciano a pensare in termini di tempi ben più profondi. Nel 1695 Woodward pubblica il Saggio sopra la storia naturale della terra[17], col quale intende confutare l’ipotesi “catastrofista” di Burnet: ma nel farlo finisce a sua volta per mettere implicitamente in discussione il computo basato sulla interpretazione letterale della Bibbia.

Queste intuizioni sfoceranno, alla fine del secolo successivo, in due teorie orogenetiche contrapposte, il nettunismo di Werner e il plutonismo di Hutton. In questo dibattito lo studio delle montagne farà la parte del leone e fornirà la chiave interpretativa di tutta la storia della terra[18]: per il momento però importa cogliere un altro nuovo portato dell’approccio di Burnet. Lo scienziato deve andare alla montagna, se vuole comprendere davvero il senso profondo. Deve quindi farsi esploratore, e l’esplorazione, oltreché geografica, si fa storica. Nasce una nuova figura, quella del naturalista-viaggiatore, che si applica ad una indagine non più solo orizzontale, di superficie, ma verticale, di profondità e di altitudine, e quindi storica. Lo stesso Woodward pubblica nel 1696 un manualetto contenente Brevi istruzioni per fare osservazioni in ogni parte del mondo[19], nel quale si spiega cosa osservare, come e con quali strumenti. Ci aveva già pensato più di un secolo prima Bacone, e lo faranno cinquant’anni dopo anche Linneo, con l’Instructio peregrinatoris[20], e in Italia Lazzaro Spallanzani. Nel 1849 verrà pubblicato in Inghilterra addirittura un volume collettaneo di istruzioni, affidato per le diverse discipline ai più eminenti protagonisti degli studi scientifici, da John Herschel per l’astronomia a Hooker per la botanica, a Richard Owen per la zoologia. Lo stesso Darwin redige la parte relativa alla geologia. In tutte queste opere uno spazio sempre più considerevole, mano a mano che i protocolli delle diverse scienze si definiscono, è riservato alla vulcanologia e all’orogenetica.

L’assalto alla montagna

Il vero e proprio assalto alle vette scatta nel Settecento, ed è preceduto nella prima parte del secolo da un totale ribaltamento nella percezione del paesaggio montano: da luoghi del maleficio e del proibito le montagne si avviano a diventare gli scenari ideali di un più genuino rapporto con la natura, e conseguentemente, tra gli uomini. I fattori che concorrono al mutamento radicale di prospettiva sono svariati e complessi, e hanno incidenza diversa rispetto alle diverse culture. Alcuni sono di ordine squisitamente pratico, legati ad esempio all’opera di rilevazione cartografica del territorio avviata dai sovrani, in particolare da Luigi XIV e dal suo ministro Colbert, a fini amministrativi, strategici e fiscali. A cavallo tra il Sei e il settecento l’area alpina sud-occidentale è aspramente contesa tra la Francia e il Ducato di Savoia, con gli Svizzeri partecipi e preoccupati spettatori: risale a questo periodo la costruzione dei più importanti sistemi di fortificazione dei valichi e delle cime (da Fenestrelle a Exilles). La conoscenza del territorio si rivela in tal senso determinante: nella battaglia dell’Assietta i francesi perdono 6.000 uomini perché non hanno idea della conformazione del terreno dello scontro. Pur non comportando di per sé alcun coinvolgimento emozionale, la ricognizione “strategica” delle montagne contribuisce fortemente a laicizzarne l’immagine e ad abbattere i residui tabù psicologici e fisici (ad esempio, quello della impossibilità di sopravvivenza per lunghi periodi alle alte quote).

C’è poi il crescente successo della Svizzera (soprattutto di Ginevra) nella considerazione da parte dell’opinione pubblica (prima inglese e poi francese e germanica), che con effetto alone si allarga successivamente a tutta la zona alpina. I monti che fanno corona ai laghi e alle piccole e virtuose comunità calviniste sembrano preservare queste ultime dagli influssi negativi del resto del continente, appaiono come un baluardo della purezza religiosa e della libertà politica. E conseguentemente, con il diffondersi della moda del Grand Tour, che sguinzaglia in giro per l’Europa e porta a contatto con le Alpi i giovani irrequieti rampolli delle classi dominanti inglesi, le montagne vere, il regno delle nevi eterne, sono visti con uno sguardo nuovo, curioso e disincantato.

I viaggiatori d’oltremanica colgono dell’ambiente montano l’aspetto pittoresco, attraverso una percezione sentimentale che è stata educata lungo il XVII secolo dalla disposizione “libertina” nei confronti del nuovo e del diverso: quella che fa scrivere ad Addison, che inaugura idealmente nel 1701 l’elenco dei nuovi pellegrini settecenteschi, che le Alpi “sono interrotte da così tanti salti e precipizi da riempire la mente di una gradita forma di orrore e costituire uno degli scenari più irregolari e disarmonici della terra[21]. Si fa strada il sottile e ambiguo piacere dell’orrido. Addison stesso fa riferimento peraltro alle impressioni di un “gradevole stupore della mente” riportate dai viaggiatori che lo avevano preceduto negli ultimi anni del ‘600, come il vescovo Burnet o il letterato John Dennis (“Ho la sensazione di essere transitato, in senso letterale, sull’orlo della distruzione. La percezione di ciò produsse in me […] un delizioso orrore, una terribile gioia, e godendone immensamente, al tempo stesso tremavo”). Ma è lui a fissare lo stereotipo che informerà per tutto il secolo le lettere e i resoconti di viaggio dei “touristes” britannici, a prescindere dalla direzione che daranno alle loro impressioni. Thomas Gray riconcilierà il paesaggio alpestre con la presenza divina, alla maniera di Burnet (“ci sono scenari che indurrebbero un ateo a credere senza bisogno di altri argomenti”), mentre a Lady Montague “l’aspetto prodigioso delle montagne coperte di nubi eterne, le nubi sospese sotto i piedi […]”, tutto ciò sembrerà “solenne e dilettevole”. Il tutto mitigato appena da un realistico appunto, molto femminile: “se avessi sofferto meno per il freddo”.

La contemplazione meravigliata non tarda però a lasciare il posto all’azione esplorativa. Quattro decenni dopo Addison una bizzarra pattuglia di giovani scavezzacollo britannici, guidati da un aristocratico cultore della boxe, William Windham, e da un ricco borghese giramondo, Richard Pococke, spediti sul continente dalle rispettive famiglie per tenerli lontani dai guai, invece di limitarsi ad ammirare le Alpi dalle sponde del Lemano sale a calpestare le “nevi eterne”. Sfidando lo scetticismo dei valligiani guadagnano la Mer de Glace, scendono sul ghiacciaio e a dispetto dello spirito da bravata che li anima aprono la strada all’esplorazione vera e propria. Già l’anno successivo infatti la loro spedizione è ripetuta da uno studioso ginevrino decisamente più serio, Pierre Martel, che sale con lo scopo preciso di studiare la struttura del ghiacciaio e di fornirne una descrizione scientifica. Martel incarna un’ulteriore motivazione, quella fornita dal crescente interesse per la glaciologia, sia in rapporto alle controversie scientifiche di cui faremo cenno sia in ragione di un fenomeno, quello dell’avanzata dei ghiacciai, che aveva assunto una tangibile e preoccupante rilevanza pratica, dopo che nel 1712 un intero villaggio era stato inghiottito, con i suoi abitanti, da un improvviso sommovimento ed altri erano stati frettolosamente abbandonati.

Queste due ascensioni, delle quali lo stesso Martel pubblica più tardi a Londra una relazione congiunta (1742)[22], sono significative del duplice percorso lungo il quale si svilupperà d’ora innanzi l’approccio con la montagna. Quello britannico, “umanistico” e curioso prima, sportivo e avventuroso poi; e quello continentale, o franco-svizzero, scientifico e filosofico. Windham e Pococke salgono armati di pistole, pugnali e bottiglie di buon vino, e una volta sul ghiacciaio si divertono a saltare i crepacci; Martel è accompagnato da un pittore e da un biologo, si porta dietro un barometro, col quale calcola l’altitudine e i dislivelli, compie osservazioni naturalistiche, esegue rilievi topografici e abbozza una classificazione geografica delle cime circostanti il mare di ghiaccio, oltre a darne una prima rappresentazione iconografica.

La “seriosità” dell’approccio continentale si riscontra anche nei suoi esiti letterari e filosofici. Le montagne esordiscono da protagoniste nella letteratura dell’Europa continentale (mentre in Inghilterra rimangono a margine, a fare da sfondo o confinate nel genere “letteratura di viaggio”) nel 1732 con il poema Die Alpen, di Albert von Haller; vengono poi consacrate da Rousseau nella Nouvelle Héloïse del 1761 e trovano un appassionato cantore e propagandista nel pittore, naturalista, storico ed etnografo Marc-Theodore Bourrit. Haller ripropone tutti gli stilemi descrittivi del paesaggio montano già fatti circolare dagli inglesi, compreso il fascino esercitato dal “terrificante”: ma ci aggiunge lo stereotipo del montanaro povero e virtuoso, in contrapposizione al cittadino corrotto (laddove Windham, dieci anni dopo, descrive gli abitanti di Chamonix come imbroglioni, ostili e poco amanti della fatica)[23]. E sarà questo stereotipo a caratterizzare, soprattutto nella versione di Rousseau (che in verità amava assai poco la montagna e i montanari, ma aveva letto Haller) l’immagine letteraria del secondo settecento. (“Sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, una non so che voluttà tranquilla che non ha niente di acre e di sensuale. Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza[24]). A monte (è il caso di dirlo) c’è l’illuminismo, con l’interesse nuovo per la diversità dei costumi, delle leggi, delle credenze, e con l’uso polemico della contrapposizione.

È comunque l’approccio scientifico ad informare i primi veri tentativi di ascensione. Gli studi geografici e naturalistici, soprattutto quelli dedicati all’inesplorata dimensione dei ghiacciai, si moltiplicano nella seconda metà del secolo, e vanno ad inserirsi nella fioritura di interesse per la ricerca geologica e orogenetica. Nell’ottica di una scientificità finalizzata agli aspetti pratici, l’Enciclopedie riserva alla natura dei ghiacciai e alle cause della loro formazione uno spazio prevalente all’interno della trattazione delle montagne[25]: e anche la Royal Society, autorevolissimo indicatore degli interessi e delle sensibilità prevalenti nella ricerca, ospita numerose comunicazioni relative alle Alpi, incentrate però in particolare sul problema della misurazioni delle altitudini. Nel complesso la montagna viene letta come depositaria della storia geologica, una storia molto profonda, che rimanda ad ere incredibilmente lontane: ed essendo nel frattempo comparse opere che mettono in discussione l’interpretazione biblica dei tempi e dei modi della formazione della terra, il supporto “documentario” offerto dalla morfologia alpina diventa determinante. Nel 1741 Anton Lazaro Moro pubblica a Venezia De’ crostacei e degli altri marini corpi che si truovano sui monti, che conosce larga diffusione anche fuori d’Italia e può essere considerato l’atto battesimale della moderna paleontologia[26].

Con le acquisite credenziali di luoghi per eccellenza deputati allo studio dell’antichità della terra le montagne conoscono, soprattutto nella seconda metà del Settecento, un nuovo tipo di frequentazione. Ogni scienziato che si rispetti, quale che sia il campo di interesse specifico, dalla fisica alla biologia, alla mineralogia, deve pagare un qualche tributo alle cime.

In questo periodo due studiosi si distinguono per la continuità e la sistematicità dell’interesse dedicato all’orografia, alla geologia e in definitiva a tutte le peculiarità naturalistiche dell’ambiente alpino: Horace Benèdict de Saussure nelle Alpi Occidentali e Déodat de Dolomieux in quelle Orientali. Il primo soprattutto diventa, assieme a Bourrit, ma con intenti più scientificamente fondati, il promotore di un vero e proprio assedio al Monte Bianco, e ispirerà direttamente (anche mettendo in palio un premio) l’assalto finale. Il secondo incarna nella sua più compiuta fenomenologia la nuova figura dello scienziato-viaggiatore: nel corso di un quarto di secolo percorrerà le Alpi palmo a palmo, in una serie di escursioni condotte spesso in solitaria, animate da una determinazione ferrea e sorrette da un fisico instancabile.

 

Finalmente in vetta

Nel 1786 arriva la capitolazione di quella che è diventata la montagna simbolo e l’ossessione di De Saussure. I primi due salitori, Jacques Balmat e Michel Paccard, dovrebbero puntare secondo il mandato di De Saussure alla misurazione della pressione barometrica in vetta e alla conseguente determinazione dell’altitudine, piuttosto che alla conquista. In realtà non sono mossi dagli stessi intenti. Paccard, medico e naturalista dilettante, ha già effettuato diverse ascensioni significative mirate a verifiche sperimentali, e ha dato prova in più occasioni di una rara onestà intellettuale e di una motivazione scientifica genuina. Balmat, cercatore di cristalli, ha in mente solo il primato e la ricompensa. È inevitabile che ne nasca una diatriba sulla paternità della conquista, relativa in particolar modo all’individuazione della via. La prima salita del Monte Bianco è quindi all’origine anche della prima polemica, e inaugura un costume di antagonismi che accompagnerà poi sempre l’alpinismo.

L’anno successivo alla prima, De Saussure ripete l’ascensione portandosi dietro uno stuolo di studiosi e una strumentazione adeguata. Ma se l’ufficialità scientifica è stavolta pienamente rispettata (“Nel momento in cui raggiunsi il punto più alto della neve che sovrasta quella vetta la calpestai più con collera che con un sentimento di piacere. Del resto, il mio scopo non era soltanto quello di raggiungere il punto più alto; dovevo soprattutto compiere le osservazioni e gli esperimenti che, soli, davano un senso a quel viaggio”)[27], la conquista della cima è diventata in realtà da subito una gara sportiva. De Saussure stesso, e come lui Bourrit, al di là dei trionfali proclami rilasciati in nome della scienza all’indomani della salita di Paccard e Balmat, nei quali non mancano di sottolineare i loro rispettivi ruoli di ispiratori e di organizzatori, sono in realtà alquanto dispiaciuti di non essere stati della partita (e questo spiega il credito ingiustamente dato alla versione dei fatti di Balmat, che in effetti, non essendo uno scienziato, dava loro meno ombra). Pochi anni dopo lo stesso Alexander von Humboldt, prototipo dello scienziato puro, mosso solo dalla volontà di toccare con mano, di sperimentare sulla propria pelle, non riesce a celare, dietro il suo aplomb razionalistico, l’orgoglio di essere salito sul Chimborazo ad una altitudine mai toccata prima da altri uomini (e che non sarà superata per oltre mezzo secolo).

Questo spostamento di obiettivo è d’altro canto naturale: eseguite una volta le misurazioni, al massimo replicate una seconda per la conferma, la salita a scopo scientifico ha esaurito la sua significatività. E infatti la terza ascensione al Bianco è compiuta da un gentiluomo inglese, che il barometro non ce l’ha, ma vuole semplicemente provare a farcela. Quelle successive non fanno che confermare il prevalere di nuovi moventi alle scalate: il fascino romantico dell’avventura e l’imperativo della moda. Nel 1808 sale in vetta la prima donna, Marie Paradis, una valligiana amica di Balmat, e trent’anni dopo la prima nobildonna, Henriette d’Angeville, una regina dei salotti parigini[28]. In mezzo ci sono decine di altre salite, e nel 1820 anche la prima tragedia, con tre alpinisti sepolti da una valanga; ciò che invece di dissuadere dai tentativi di ascensione sembra aumentarne il richiamo, aggiungendo il fascino ambiguo del rischio. Nascono naturalmente anche le polemiche nei confronti di una moda che a molti appare assolutamente insensata: nelle riviste dedicate ai viaggi, che verso la metà del secolo si contano già a decine, e sulla stampa quotidiana, si comincia a giocare sugli effetti sensazionalistici. Quando gli incidenti e le tragedie si infittiranno la stessa regina Vittoria chiederà a Gladstone di intervenire in qualche modo per scoraggiare i cittadini inglesi dal mettersi a repentaglio per un assurdo capriccio: solo per sentirsi rispondere che sono liberi di giocarsi la pelle come vogliono, e che tutto sommato le Alpi sono una buona palestra per gente destinata a costruire degli imperi. Resta comunque ferma la dominanza inglese: trentasette delle prime cinquanta ascensioni, tra il 1786 e il 1854, sono di viaggiatori britannici: e tra il Monte Bianco e il Cervino, ma in pratica lungo tutta la fascia alpina occidentale, per le guide e per i valligiani chiunque ami scalare le montagne è “un inglese”.

L’Ottocento vede però anche nascere una nuova generazione di scienziati-alpinisti, per lo più franco-svizzeri, esemplarmente rappresentati da Louis Agassiz. Accompagnato da una pattuglia di studiosi giovanissimi Agassiz dimora per diverse estati successive sul ghiacciaio svizzero di Unteraar, in un pittoresco rifugio ricavato sotto una sporgenza rocciosa e destinato a diventare famoso come Hotel des Neuchatelais, per compiere studi sulla composizione e stratificazione del ghiaccio e soprattutto sui suoi movimenti, e a tempo perso scala vette come la Jungfrau e il Wetterhorn. Per certi aspetti la sua motivazione è più simile a quella di Wyndham che a quella di De Saussure: la vetta è un corollario, la vittoria è proprio la sopravvivenza al di sopra della quota delle nevi eterne. Con uno spirito analogo si muove James D. Forbes, vero e proprio esploratore, fisicamente poco adatto alla pratica alpinistica vera e propria, ma determinato a percorrere alla maniera di Dolomieu la fascia alpina occidentale dal Delfinato e dalla Savoia al massiccio del Bianco e al gruppo del Rosa, identificando e percorrendo tutti i valichi possibili. Come Agassiz, presso il cui hotel soggiorna anche per un breve periodo ma del quale non condivide le teorie sull’origine glaciale delle vallate alpine, Forbes vive la fase eroica, genuina e spensierata della nuova passione per la montagna, ancora indenne dai guasti della moda e dall’esasperazione competitiva. La prima parte del secolo offre un florilegio aneddotico e una galleria di personaggi incredibili, per l’incosciente entusiasmo col quale affrontano una natura tutt’altro che facile e per la strabiliante fortuna che li assiste in imprese che, stanti le condizioni, le conoscenze e l’equipaggiamento dell’epoca appaiono oggi eccezionali.

Nel corso delle sue peregrinazioni sui ghiacciai della Brenva e del Miage[29], Forbes conosce e frequenta anche alcuni dei pionieri dell’alpinismo italiano. Si tratta di personaggi come l’alagnino Giovanni Gnifetti, primo a raggiungere la cima del Rosa che oggi porta il suo nome, e il valdostano Georges Carrel, salitore dell’Emilius (quest’ultimo è in contatto anche con molti altri alpinisti inglesi, da Tyndall a Tuckett, a Coolidge, e con lo stesso Agassiz). In comune essi hanno, oltre alla passione per la montagna, il fatto di essere dei sacerdoti.

Il ruolo dei curati di montagna, dei canonici, degli abati, nella scoperta e nella “domesticazione” delle montagne è fondamentale[30], sia sotto il profilo dell’azione alpinistica vera e propria, sia per il ruolo svolto nella promozione dell’immagine dell’ambiente alpino. Il parroco svizzero Elie Bertrand, in una serie di Saggi sull’utilità delle montagne[31] pubblicati quasi un decennio prima de La Nouvelle Heloïse, sostiene che “i monti sono la testimonianza dell’armonia del mondo”: è il ribaltamento della teoria di Burnet e delle spiegazioni dei catastrofisti, oltre che di quelle di Voltaire. Ma è soprattutto il segno di un atteggiamento positivo verso la montagna che caratterizza tutto il mondo ecclesiastico delle vallate alpestri. Questo atteggiamento ha diverse spiegazioni: in primo luogo è legato ad una più ampia azione della Chiesa, di matrice controriformistica, volta a liquidare le sacche di credenze popolari paganeggianti o le forme di religiosità deviata che resistono in particolare proprio nelle vallate alpine, in ragione del lungo isolamento in cui queste ultime hanno vissuto e del fatto che in esse hanno trovato rifugio durante il medioevo alcuni tra i più importanti movimenti ereticali, dai valdesi ai dolciniani. Le autorità ecclesiastiche sono determinate a riprendere (o a prendere per la prima volta) il controllo di queste aree, e agiscono col tramite di un clero locale ben diverso da quello del seicento, formato attraverso percorsi culturali più severi e legato alla propria parrocchia da vincoli di origine e da obblighi di ufficio più stretti.

Mentre altrove il processo di secolarizzazione avviato dai sovrani illuminati estromette gradualmente il clero dai ruoli civili, in queste zone, e persino nell’area orientale delle Alpi, quella di pertinenza asburgica, avviene il contrario. Il clero rurale svolge mansioni di registrazione anagrafica, di prima conciliazione, di tramite con le autorità e la burocrazia di valle, oltre a curare la memoria storica e a vigilare sulla pubblica moralità. Queste nuove figure di sacerdoti, dotate di una cultura superiore ed impegnate anche nell’alfabetizzazione dei fedeli, finiscono per essere quasi necessariamente sensibili al nuovo spirito illuministico-scientifico, per cui spesso coltivano interessi naturalistici a buon livello, e trovano in essi lo stimolo all’esplorazione di montagne e ghiacciai.

C’è infine una terza ragione, legata allo spirito campanilistico. I curati si fondono in un tutt’uno con le popolazioni dei villaggi loro affidati, e ne sposano, o a volte addirittura ne stimolano, rivalità, ambizioni, retaggi. In più di una situazione li troviamo ad organizzare ascensioni, o a condurle in proprio, per conquistare le vette circostanti prima degli abitanti (e dei curati) dei villaggi vicini. È un movente tutt’altro che trascurabile, che ad un certo punto, quando si afferma l’alpinismo turistico e sportivo, assumerà anche significati economici. Il futuro di un paese o di una valle, la sua appetibilità turistica e quindi il suo sviluppo, sono legati anche alla fama delle sue guide e ai diritti di prelazione sulle vette che queste si sono conquistati.

Oltre ai curati, un ruolo fondamentale lo svolgono naturalmente i monaci, i canonici e gli abati dei diversi ospizi posti al culmine dei valichi alpini. I più attivi, e i più famosi, non fosse altro che per l’aura particolare costruita attorno a loro dalla letteratura romantica, sono naturalmente quelli dell’Ospizio del San Bernardo, che quotidianamente vivono a contatto con un ambiente selvaggio e al cospetto di scenari suggestivi, e finiscono inevitabilmente per subirne il richiamo[32]; ma lo stesso vale per quasi tutti i religiosi che vivono negli avamposti sparsi ai piedi o nel cuore delle montagne, che sono naturalmente portati ad esplorarle e a conquistarsi dalle vette uno sguardo d’assieme.

Sul piano della pratica “alpinistica”, poi, gli esempi di religiosi impegnati nell’ascensione alle vette sono innumerevoli, e riguardano l’intero arco della catena. Nella zona del Bianco abbiamo già incontrato nel 1779 l’abate Murith sulla vetta del Velan (3734 m): nel vallese opera Jean-Maurice Clément, salitore nel 1788 della Dent du Midi (3260 m), possessore di un’enorme biblioteca specializzata nei resoconti di viaggio e di esplorazione ed amico personale di De Saussure (che a casa di Clement quasi ci lascia la pelle, per essere stato colpito in testa proprio da uno dei tomi dei suoi Voyages dans les Alpes); nel salisburghese e poi nella valle dell’Isonzo si esercita l’alpinismo preromantico di Valentin Stanig, facente parte del gruppo dei primi salitori del Grossglokner, ma autore anche di numerosissime prime ascensioni in proprio. Nei Grigioni troviamo a partire dal 1792 Placidus Spescha, un monaco benedettino che segna decine di prime ascensioni oltre i tremila metri, tra le quali lo Stocgron (3418 m), quasi sempre in solitaria perché non trova nessuno che voglia accompagnarlo; che viene deportato in Tirolo per ragioni politiche (simpatizza per la rivoluzione) e ne approfitta per scalare le montagne di quella zona, trascinandosi dietro altri preti; che a settanta e passa anni compie l’ennesimo tentativo (ci aveva già provato altre sei volte) di vincere il Tödi (3614 m), arriva sotto la vetta e spinge a salirla i due cacciatori che lo avevano accompagnato; che scrive infine una Guida per intraprendere viaggi tra i monti piena di ottimi consigli, anche perché legati ad una incredibile serie di esperienze, e di incidenti, dal fulmine alle slavine, vissuti sulla propria pelle.

Potrei citare altre decine di esempi. Ma quel che importa è sottolineare come questi sacerdoti da un lato rappresentino e guidino la reazione locale alla nascita dell’alpinismo, fungendo da mediatori tra i touristes e la popolazione locale, offrendo informazioni, procurando le guide, spesso accompagnando loro stessi gli stranieri. E come siano anche i primi a cogliere il risvolto economico che l’alpinismo può indurre, i benefici che possono derivare alla popolazione delle comunità alpine[33]. Dall’altro, come testimonino quel particolare interesse per le montagne che caratterizza la politica della Chiesa, espresso inizialmente nelle iniziative di singoli mossi da un misto di interesse scientifico, di competitività e di spirito religioso, e che in seguito si definisce più ufficialmente, per il potenziale educativo e morale, e quindi di controllo, che la frequentazione organizzata della montagna può offrire. Se ne riparlerà a proposito dell’associazionismo.

La montagna romantica

Il successo della corsa al Monte Bianco si riverbera comunque ben presto, in termini tanto di promozione “alpinistica” che di ingresso nell’immaginario collettivo, sull’intera catena alpina. Prima del 1860 sono state ormai scalate tutte le principali vette oltre i quattromila, eccezion fatta per il Cervino[34]. Il resto lo fanno la pittura e la letteratura romantica, che scoprono la morbosa attrazione del pericolo e della fatica: la montagna torna mistero, ma mistero da violare e da svelare.

Sono i romantici a fare della montagna un autentico topos letterario, sia nell’ambito di una più generalizzata sensibilità per tutti gli aspetti della natura, sia per le valenze fortemente simboliche che la montagna e l’ambiente montano possono rivestire[35]. Col Romanticismo giunge a compimento quella rivalutazione che era iniziata alla fine del Seicento con Burnet e con i catastrofisti, e che porta a rileggere “in positivo” ciò che prima era visto come negativo, il disordine e la complessità della natura selvaggia e irregolare. Questi aspetti non vengono negati o minimizzati: vengono anzi enfatizzati. “Lontano in alto, trafiggendo il cielo infinito / il Monte Bianco appare – calmo, innevato e nitido – / i monti suoi vassalli ammassano attorno / le loro forme non terrene, ghiaccio e roccia … in che congerie orrenda / sono ammassate le sue forme! Ruvide, nude e alte, / spettrali, deturpate e infrante” scrive Shelley[36]. Ma l’enfasi sulla “congerie orrenda”, su caratteristiche come la solitudine tetra, i siderali silenzi, la verticalità densa di minacce, e sui contrastanti sentimenti che esse inducono è congeniale a quell’estetica del sublime che travalica ogni canone e si nutre non di statiche armonie e di regolarità geometriche, ma del dinamismo scomposto e dell’irregolarità[37].

Per i romantici questo tipo di percezione è riservato a pochi, solo agli animi capaci di un più alto sentire, che proprio per questo vivono a disagio nella quotidianità meschina e ripetitiva e trovano invece conforto negli spazi misteriosi e solitari, depositari di arcani e incanti, o anche semplicemente adatti ad una liberazione e ad una ripartenza per un’esistenza nuova, autentica. Shelley infatti aggiunge: “Questo deserto ha una sua lingua misteriosa / che insegna un dubbio terribile, o una fede così dolce, / così solenne e serena, che solo grazie ad essa / l’uomo può essere riconciliato alla natura; superbo monte, la tua voce può abrogare / vaste leggi di frode e di dolore; non tutti la comprendono / ma i saggi e i grandi e i buoni / l’interpretano, o la fanno sentire, o la sentono profondamente”. L’ambiente inquietante, irregolare, misterioso, diventa simbolo della perfezione originaria, primordiale, non contaminata dall’opera di “valorizzazione” dell’uomo: oppure specchio dell’animo irrequieto, testimone e partecipe del conflitto spirituale che lo spinge a fuggire la vista degli umani[38]. “Alfine eccomi in pace! – Che pace? Stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba. Tutto è tronchi¸ aspri e lividi macigni¸ e qua e là molte croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati” fa dire Foscolo a Jacopo Ortis. “[…] La natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo regno tutti i viventi”: o almeno tutti coloro che non hanno l’animo predisposto a coglierne, nella solitudine e persino nella desolazione, la superiore grandezza.

Lo scenario montano, quello svizzero per la precisione, fa da sfondo all’opera più significativa di questo modo di sentire, il Frankenstein dell’altra Shelley, Mary. “Al tramonto scorgemmo catene immense e dirupate che ci dominavano da ogni parte, e udimmo il rumore del torrente che scorreva tra le rocce e si frangeva in mille cascate … mano a mano che ci portavamo più in alto la valle assumeva un aspetto meraviglioso”. Ma non è solo un fondale: per il protagonista è una sorta di grembo originario cui tornare: “Il peso che gravava sulla mia anima si alleggeriva mano a mano che mi addentravo nella gola dell’Arve. Le montagne e i vertiginosi strapiombi che mi circondavano da ogni parte, il rumore del torrente che infuriava tra le rocce e lo scroscio delle cascate intorno mi parlavano di una forza immensa come l’Onnipotente […] Persino i venti sussurravano con accenti sommessi e la natura materna mi invitava a non piangere più”. Per la sua creatura è un luogo d’elezione, il regno della desolazione dove trovano rifugio i reietti, i banditi dalla società. Entrambe le facce del “doppio” umano (tematica che sarà sviluppata poi da Stevenson e da Wilde), quella avida di conoscenza e quella oscura della trasgressione disumanizzante, sono chiaramente simboleggiate nell’ambivalenza dell’ambiente montano.

Non tutti, naturalmente, sono così entusiasti. Chateaubriand dice che “ai paesaggi di montagna si attribuisce un carattere sublime, che deriva probabilmente dalla grandezza delle cose. Ma … perché possiamo godere della loro bellezza, devono trovarsi nella giusta prospettiva; altrimenti tutto, forme, colori, proporzioni, svanisce. In mezzo alle montagne, poiché siamo vicini all’oggetto, e poiché il campo ottico è troppo ristretto, le dimensioni, necessariamente, si riducono […] La tanto decantata grandezza delle montagne è reale solo per la fatica che vi costa[39]. Da buon bretone preferisce evidentemente il mare: ma il suo stizzito disincanto, che si allarga anche agli abitanti, coglie nel segno quando mette in rapporto il piacere procurato dalla montagna con il suo costo in fatica e con la sensazione e l’orgoglio di esserselo pienamente guadagnato[40].

Nemmeno Hegel, prima di lui, si era fatto commuovere dalla “monotona rappresentazione” di “massi eternamente morti[41]. Forse pesano sul suo giudizio le aspettative create dai resoconti dei viaggiatori tedeschi che lo avevano preceduto: ma è anche vero che nell’economia del suo viaggio alle radici dello Spirito le montagne non rappresentano assolutamente nulla, non rivestono alcun significato simbolico o concettuale. Per Hegel la vita è essenzialmente attività, e l’attività ha da essere produttiva, e non c’è nulla di meno “produttivo” della scalata di un monte (ma anche della sua contemplazione).

Al tramonto della stagione romantica la montagna è comunque ancora protagonista in un delizioso racconto di Adalbert Stifter, Cristallo di Rocca (1845)[42]. Lo spunto è offerto da un’escursione compiuta dall’autore in compagnia di Friederich Simony, un geografo e geologo amante delle scalate e dei ghiacciai, un emulo di Agassiz. Simony gli parla di una meravigliosa grotta di ghiaccio che ha scoperto nelle sue peregrinazioni invernali sul ghiacciaio, e Stifter ne fa il luogo centrale di una vicenda piena di pathos e di incanto, nella quale la natura alpestre è rappresentata senza forzature o idealizzazioni, dura e pericolosa, ma non matrigna.

Qui la bellezza della montagna non è data dalla grandiosità, ma al contrario, da una quotidianità armoniosa e ripetitiva, che proprio per questo dà sicurezza. “Tutto l’anno, d’estate e d’inverno, s’affaccia sulla valle con le sue rocce sporgenti e le sue distese bianche”: se ne ha quindi una percezione ben diversa da quella del viaggiatore alpinista che la incontra all’improvviso e viene per violarla. Stifter descrive così la piccola comunità del villaggio: “tutti gli abitanti formano un mondo a sé. Si conoscono tutti per nome e sanno le storie di tutti dai tempi del nonno e del bisnonno, si affliggono tutti se uno muore, sanno come si chiama se uno nasce, parlano un linguaggio che differisce da quello del piano, hanno le loro liti, che appianano da sé, si aiutano tra loro e si riuniscono tutti quando avviene qualcosa di straordinario”. È, né più né meno, la comunità ideale cui facevano riferimento gli anarchici del Giura, che a quanto pare tanto utopisti non erano: non volevano cambiare il mondo, volevano semmai che non cambiasse.

In alcuni passaggi il racconto sembra ambientato in una boccetta di vetro natalizia, di quelle che capovolte creano l’effetto di caduta della neve: “possono comodamente guardare attraverso le finestre il paesaggio invernale, dove cadono lentamente i fiocchi di neve o un velo di nebbia fascia le montagne o scende all’orizzonte il freddo sole color sangue”. Ma altrove si ritorna alla prosa: “La montagna, oltre ad essere la meraviglia del paese, dà anche un utile reale agli abitanti, ché quando arriva una comitiva di alpinisti per darne la scalata partendo da quella valle, gli abitanti fanno da guida, ed essere stato una volta guida, aver sperimentato questo e quello, conoscere questo e quel punto, è un segno di distinzione che ognuno è fiero di mettere in mostra”.

Il romanticismo dei monti aspri, minacciosi e solitari ha fatto il suo tempo, e Stifter paradossalmente, mentre descrive un ambiente e un paesaggio che saranno quelli ripresi e diffusi per tutto il secolo a seguire da cartoline e calendari illustrati, ne decreta anche la fine, cominciando ad intravvedere le potenzialità turistiche ed economiche che alla montagna e ai suoi abitanti si schiudono (o volendo, che su di essi incombono).

All’evoluzione dell’immagine letteraria si accompagna quella della colonna sonora che viene associata all’ambiente alpestre. Luogo del silenzio per eccellenza, la montagna ha, per chi si rende disponibile ad ascoltarla, una sua voce, che non può essere trasmessa altrimenti che con la musica. Il romanticismo offre in questo senso la formula perfetta: assomma la disposizione ad interpretare ogni aspetto della natura secondo una superiore consonanza spirituale ad una acutissima sensibilità musicale.

Il primo approccio con la musica della montagna passa naturalmente attraverso il recupero di quegli strumenti, di quei suoni e di quelle melodie che caratterizzano la cultura delle popolazioni alpine, e che fino a tutto il settecento sono stati considerati troppo rozzi per poter essere associati alla grande musica, o vi sono entrati come curiosità e concessione bizzarra ad un gusto barbaro. Solo dopo Rousseau i canti di montagna, le composizioni tipiche (la ranz des vaches), gli strumenti musicali della tradizione vengono recuperati e integrati in un disegno molto più ampio di “riabilitazione” dell’ambiente naturale, antropologico e culturale montano. Nel 1805 vengono addirittura istituiti a Berna dei corsi di corno di montagna, che diventa anche il simbolo della confederazione elvetica.

Questi suoni, queste melodie sono dunque fatti propri e riproposti, in genere attraverso un’opportuna rielaborazione, ma spesso anche nella loro semplicità originaria, dalla musica “colta” romantica. Al di là dell’interesse per l’aspetto folklorico, che è connesso al recupero della cultura popolare, e quindi anche alla costruzione o ricostruzione di una identità nazionale, agisce nei romantici l’attenzione alla maestosità degli scenari e alle suggestioni sonore che dall’ambiente montano possono venire, tanto se inteso come territorio ostile, infido e pericoloso (il rumore della valanga) quanto nella sua accezione bucolica (la voce del ruscello affidata al pianoforte nei lieder di Die Schöne Mullerin, di Franz Schubert). L’approdo della montagna alla grande musica passa quindi per un doppio canale. Da un lato attraverso l’ambientazione: l’ambiente alpestre ritorna con regolarità, nelle forme musicali più diverse, dalla sinfonia alla sonata (la Pastorale di Beethoven, Die Berge di Schubert), al melodramma (il Guglielmo Tell di Rossini, il Manfred musicato da Schumann, l’Aroldo di Berlioz), al poema sinfonico (Una notte sul monte Calvo di Musorgskij, la Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss), alla romanza (Le chant du Berger di Meyerbeer); dall’altro, strettamente correlato al primo, attraverso l’utilizzo delle sonorità vocali e strumentali e delle tipicità melodiche. Haydn (e dopo lui moltissimi altri) introduce il corno di montagna, Mahler arriva a utilizzare i campanacci delle mucche nell’organico orchestrale.

La montagna ha inoltre spesso un ruolo fondamentale per l’ispirazione creativa: Richard Strauss e Mahler, per esempio, sono compositori che alla montagna non devono soltanto singole suggestioni, ma della sue atmosfere hanno bisogno per vivere e per pensare. Accade per i musicisti quel che vedremo accadere per i pittori: una volta viste le Alpi non riescono più a togliersele dal cuore. Quanto a farle entrare in quelli altrui, oltre ad ottenere un risultato “promozionale” la musica ha il valore di una consacrazione del ribaltamento di immagine: diventando metafora del sublime le montagne entrano a pieno diritto in quella dimensione spirituale alta e ristretta alla quale per sua natura la musica attinge.

La montagna dipinta

A partire dalla metà dell’‘800 (potremmo anche stabilire una data esatta, il 1853, che è per inciso proprio quella della pubblicazione di Cristallo di rocca), la montagna cessa di essere uno spazio di riferimento per eccentrici ed entra davvero nell’immaginario (e nel desiderio) collettivo. Il Monte Bianco comincia a godere di un’improvvisa popolarità anche tra le fasce sociali escluse dal Grand Tour, e tutto questo è dovuto all’intraprendenza di un giornalista, naturalmente inglese, Albert Smith, che consacra la propria esistenza al sogno di scalare la montagna e che una volta toccata la vetta se ne erge a profeta. Tornato in patria Smith affitta una sala e per nove anni, con duemila repliche, propone ai suoi concittadini uno spettacolo “panoramico” che ha per tema proprio la salita, con proiezioni di lanterna magica, camosci e cani vivi o imbalsamati, rifugi alpini di cartone e tutti gli ammennicoli che servono a creare un’atmosfera pseudo-alpina. Il successo è enorme, e gli emuli si moltiplicano. Solo due anni dopo arrivano in vetta le prime macchine fotografiche, e partono le prime mostre itineranti.

Qui occorre però aprire una parentesi e fare un passo indietro. Smith ha pubblicizzato il Monte Bianco presso il grande pubblico, ma non ne ha certo inventata l’iconografia. Allo stesso modo, la scoperta del paesaggio alpestre nella pittura non è prerogativa della sensibilità romantica. Anche in questo caso si possono trovare gli indizi di un mutamento nei modi della percezione già a partire dal medioevo, dallo stesso Giotto, anche se i paesaggi assumono una verosimile fisionomia alpina solo nel Rinascimento[43]. Ciò accade principalmente perché la fioritura italiana richiama dal Nord una quantità di artisti che per raggiungere la penisola, da qualunque paese provengano, devono valicare le Alpi. E si tratta di un’esperienza che lascia tracce profonde.

Lo constatiamo già con Albrecht Dürer, che mette sullo sfondo del suo autoritratto o di alcuni dipinti religiosi cime innevate e ghiacciai. Per Leonardo poi il paesaggio montano diventa un vero e proprio campo di ricerca, tanto da indurlo, come abbiamo già visto, a salire in vetta al monte Bo (che non si sa bene quale sia, perché con questo nome era indicato genericamente all’epoca tutto il massiccio del Rosa). Le sue montagne, quelle famosissime della Vergine delle Rocce ma soprattutto quelle che sono oggetto di studi specifici, realizzati con matite rosse, manifestano un’idea di intima potenza e contemporaneamente di equilibrio. Leonardo intuisce le forze che sommuovono dall’interno la terra, calcola quelle che la levigano dall’esterno e ne riproduce l’equilibrio, in una concezione armonica. Al contrario, la violenza delle forze naturali appare ancora incontrollabile nelle tele e nelle pale di Lucas Cranach e di Albrecht Altdorfer: l’atteggiamento protestante nei confronti di Dio si manifesta nel misto di stupefazione e di terrore di fronte alla potenza distruttiva che egli può scatenare. In compenso si avverte benissimo che quelle rappresentate sono montagne “culturali”, lette nella Bibbia piuttosto che conosciute.

In chi l’ha vissuta da vicino, in Brueghel il Vecchio ad esempio, la montagna diventa incantesimo (si veda Cacciatori sulla neve). Il passaggio delle Alpi lo ha impressionato al punto da indurlo, sulla via del ritorno, ad un soggiorno prolungato, per catturare in una corposa serie di studi e schizzi le immagini montane che riverserà nei fondali delle sue tele più suggestive.

Il gusto secentesco del paesaggio fa invece nuovamente sparire la montagna dietro le quinte: c’è piuttosto la ricerca di ambientazioni storiche ben definite, o ricreate e inventate, con una focalizzazione sui personaggi, sul primo piano. Soltanto i fiamminghi prestano attenzione allo sfondo: ma sono i panorami delle Fiandre o della Zelanda. Nel passaggio al Settecento lo sguardo degli artisti si apre nuovamente su prospettive spaziali più ampie, ma vengono predilette ambientazioni armoniche, equilibrate, idealizzate: il modello è quello dell’idillio campestre di Poussin. Le eccezioni, costituite da Salvator Rosa o da Vermeer, guardano più ad una natura marina di falesie e scogli che ad un ambiente montano. È tuttavia proprio il primo, che conosce in Inghilterra un grande successo postumo, a diffondere il gusto per paesaggi in cui rocce e rovine si confondono, quasi un corrispettivo visivo delle teorie catastrofiste di Burnet. Ne Il sogno di Giacobbe, ad esempio, le rocce hanno una funzione teatrale, scenografica, e non riflettono affatto il sentimento della natura: quello che viene evocato è piuttosto il senso di solitudine del protagonista.

In compenso, la scoperta dei ghiacciai avviene prima sulla tela che nei testi scientifici. Le immagini dei fronti dei ghiacciai corrispondono perfettamente a quell’ideale artistico di grandezza e semplicità che Winckelmann predicava invitando all’imitazione dei classici. A raffigurarli sono naturalmente pittori svizzeri come Felix Meyer o Ludwig Abuli, o il già citato Marc-Théodore Bourrit: ma a dare loro dignità di vero e proprio topos estetico è soprattutto Caspar Wolf. A dispetto di una concezione “spettrale” della montagna, e dei ghiacciai in particolare, Wolf tiene a bada il sentimentalismo e non scade nel gioco dell’orrore: i suoi paesaggi montani sono luminosi, aperti, immersi in una sorta di siderale silenzio. La sua pittura prelude a quella sorta di “riconsacrazione”, questa volta artistica, che delle montagne farà Caspar David Friedrich.

Il primo grande paesaggista alpino è comunque Jean-Antoine Link, che raffigura esclusivamente la catena del Bianco, da ogni possibile punto di vista. Link supera le rappresentazioni imprecise e fantasiose dei suoi predecessori, per fissare invece in innumerevoli acquarelli e tempere la realtà “geologica” delle montagne, i seracchi, le pareti, i nevai, le morene, i crepacci: lo fa con uno sguardo sobrio e libero da ogni costrizione canonica o stereotipo preromantico. La precisione e la definizione dei particolari sono frutto di lunghe e solitarie sedute di contemplazione e di trasposizione in schizzi della natura nella sua nudità. Linck non vuole esprimere alcuna particolare filosofia paesaggistica, alcuna simbologia; nelle sue rappresentazioni il senso è già intrinseco alla natura rappresentata. L’esatto opposto di quanto fa Friedrich.

Friedrich non è mai stato sulle Alpi, e lo si capisce subito: anche le sue vedute da Chamonix sul monte Bianco sono riprese da stampe dell’epoca. Eppure quell’idea “platonica” di montagna che cerca espressione (e tutto sommato la trova) nelle sue tele, e che non è mutuata da nessuna precedente modalità di rappresentazione, ma le riassume tutte, è entrata nell’immaginario collettivo a rappresentare non una forma, ma una essenza. Nella sua immaginazione le montagne coperte di ghiaccio bluastro si trasformano in una metafora del lontano, dell’inaccessibile: coglie leopardianamente della natura una certa frigidità, la tristezza e il vuoto, cose che nessun pittore che disegni dal vero coglierà mai. È il rapporto di attrazione-repulsione che abbiamo visto adombrato anche nella letteratura dell’epoca, in tutti i generi, che vanno dal romanzo gotico alla Shelley sino alle fiabe e alle leggende su misteriose (e malvagie) regine delle nevi.

William Turner invece le Alpi le ha attraversate, e come Brueghel ne ha tratto un’impressione indelebile. Nell’estate del 1802, a ventisette anni, quando già è considerato il miglior paesaggista inglese, lascia per la prima volta la Gran Bretagna per raggiungere il continente, e in particolare l’Italia. L’anno precedente ha scoperto i paesaggi montuosi della Scozia e del Galles, e le montagne lo hanno letteralmente affascinato. Ora, di fronte allo spettacolo grandioso e sempre diverso che giorno dopo giorno le Alpi gli offrono, non sa più da che parte guardare: riversa le sue emozioni in schizzi rapidissimi, in carboncini, in guazze e in acquerelli, che saranno poi in parte tradotti sulle tele, ma che meglio ancora trasmettono nella loro immediatezza il senso di gioia e di stupore che non lo abbandona per tutto il viaggio. Turner non può neppure immaginare quale successo avranno queste immagini; una volta tornato in patria dovrà dipingerne una miriade di copie per soddisfare le continue richieste dei clienti, e il suo sguardo entusiasta e nostalgico contribuirà in maniera determinante ad influenzare l’immaginario collettivo. E nemmeno immagina quanto la lezione cromatica e formale delle Alpi segnerà per sempre la sua tecnica.

Nessun pittore prima di lui, e nessuno dopo di lui, è in effetti riuscito a trasmettere in maniera così autentica ed immediata le sensazioni dettate dalla grandezza delle montagne, dalla loro anche brutale bellezza, dalla solitudine. Turner esplora nel dettaglio tutta la regione, e la sequenza dei suoi scorci diventa una sorta di diario fotografico di viaggio. Ma ciascuna immagine ha forza propria; ci parla ora della calma serena dei laghi di Thun, Brienz e Ginevra, ora dell’asprezza del Monte Bianco, della tortuosità delle gole, dei valichi innevati, dei massi erratici e dei pascoli. Il risultato complessivo è quello di una sommessa ma stupefacente epopea della natura alpestre. Le Alpi rimarranno per lui un ricordo così forte che trentaquattro anni dopo, ormai anziano, vorrà tornare nei luoghi che tanto lo avevano impressionato, con l’obiettivo di portare a compimento l’esplorazione dell’area del Monte Bianco e della Valle d’Aosta.

L’esecutore testamentario di Turner (non solo ideale, perché riceve questo mandato, per quanto concerne l’immensa collezione di schizzi e abbozzi e acquerelli ricavati dai viaggi sulle Alpi, direttamente dall’artista) è John Ruskin. Ruskin ha maturato proprio sulle tele di Turner un vero culto estetico per il paesaggio e per il mondo alpestre, prima ancora di incontrarli in Italia. Nel 1833, a 14 anni, soggiorna per la prima volta a Chamonix, e da questo momento le Alpi diventano per lui un appuntamento fisso e l’oggetto primo della sua celebrazione della bellezza. Non ha né il fisico né il carattere dell’alpinista, e non salirà mai oltre i tremila metri: ma non manca di percorrere in lungo e in largo tutta la catena occidentale, attraversando valichi e ghiacciai e interessandosi, oltre che alla natura, agli abitanti, alle tipologie abitative, alle tradizioni e ai mestieri artigianali. Guarda alle montagne come un artista e a chi le abita come un antropologo, ma anche come un riformatore politico, sociale e morale che elegge a modello proprio i ritmi e i modi della vita alpigiana. L’unica cosa che non lo interessa, e che anzi lo esaspera, sono le imprese degli scalatori: “Considerate le Alpi stesse, che così appassionatamente i vostri poeti hanno amato, come alberi da cuccagna, sui quali vi ritenete in dovere di salire per poi discenderne lanciando urla di gioia. Quando non potete neppure più urlare […] riempite il silenzio delle valli con il vostro fracasso e tornate a casa, rossi per l’orgoglio, e così felici da singhiozzare convulsamente per la vanità soddisfatta”.

Le pagine migliori dedicate da Ruskin all’estetica delle montagne si trovano nel quarto libro dei Modern Painters (1856) e nel Sesame and Lilies (1865). Ecco un frammento della descrizione del Cervino, che a ragione egli considerava il capolavoro delle Alpi: “Il luogo è così immutabile, così silenzioso, così al di là non solo della presenza dell’uomo ma anche di quella dei suoi pensieri, così sprovvisto di ogni vita di albero o di erba, e così incommensurabile nella sua raggiante solitudine di una morte maestosa, che sembra un mondo dal quale si sia ritirata ogni presenza umana e anche spirituale, e dove gli ultimi arcangeli, innalzando quei monti a monumenti funerari, si siano sdraiati nella luce del sole per un eterno riposo, ognuno avvolto in un drappo bianco […] Le pareti del Cervino […] non sono avanzi di guglie frastagliate che cedono, lastra per lastra, strato per strato, ad un’usura continua. Sono al contrario un monumento inalterabile, apparentemente scolpito da lunghissimo tempo, e di cui tuttavia le immense muraglie conservano la forma del primitivo aspetto. Si innalzano come un tempio egizio dal delicato frontone, dalle tinte sfumate, su cui da epoche remote si levano e tramontano i soli che proiettano sempre, da est a ovest, la stessa linea d’ombra […]”.

È l’occhio di un architetto, di un esteta e di uno storico dell’arte quello che si esercita sulla natura alpina. Soprattutto è l’occhio di chi le montagne le ha amate prima ancora di conoscerle davvero, attraverso le suggestioni letterarie o iconografiche; come tale non può fare a meno di leggerle col filtro costante della citazione, di caricarle del rimando ad altro. Ma questo, come abbiamo già visto, è appunto il destino della montagna, in ogni epoca: ciascuno vi trova esattamente ciò che vi porta[44].

Anche in quelle più remote. Il nuovo sguardo col quale si coglie la montagna non rimane infatti confinato alle Alpi. L’orizzonte cui volgerlo si dilata immediatamente. Agli inizi dell’Ottocento due intrepidi viaggiatori, Alexander von Humboldt e Aimée Bompland, rientrano in Europa reduci da un viaggio “alle regioni equinoziali” (vale a dire nell’America Latina) durato cinque anni. Hanno risalito fiumi, attraversato deserti, convissuto con giaguari, mosquitos e caimani, ma soprattutto hanno percorso in lungo e in largo la parte settentrionale della catena andina. Hanno anche stabilito un record di altitudine, scalando il Chimboranzo sino a 5.900 metri e arrestandosi solo a poche centinaia di metri dalla vetta. Tornano portando con sé decine e decine di “vedute” panoramiche, che andranno a formare l’Atlas pictoresque annesso agli studi compiuti da von Humboldt su ogni aspetto naturalistico, antropologico, geografico e politico delle aree visitate.

Humboldt ha idee particolari sull’uso della veduta. Il paesaggio deve trasformarsi per lui da idea estetica in concezione scientifica: in un indistinto nel quale gli oggetti convivono come avvolti in una leggera nebbia, che fa da collante per suggerire una organica armonia. E sono soprattutto le montagne, a partire dal Pico de Teide, a Tenerife, 3.700 metri scalati quasi di corsa, fino al Chimborazo e agli innumerevoli vulcani saliti sulle Ande e in Messico, a fornirgli il materiale più interessante per lo studio, ad esempio, della distribuzione della vegetazione alle diverse altitudini, o per quello delle stratificazioni rocciose. L’Atlas Pictorésque è redatto con queste finalità, ma acquisisce una sua autonomia estetica e diventa un classico dell’iconografia montana; assieme alla relazione di viaggio costituirà per i viaggiatori della prima metà del secolo una sorta di Bibbia. Non ce n’è uno (Darwin per primo) che non lo citi tra i suoi libri ispiratori.

L’esempio di Humboldt è contagioso. Tutta una schiera di studiosi e di pittori formatisi sui suoi testi si riversa in America latina. Sono in gran parte tedeschi, da Johann Moriz Rugendas a Carl Gustav Carus: ma sono anche statunitensi, primo tra tutti Frederic Edwin Church, che dai suoi viaggi sulle Ande trae tele di enormi dimensioni, come Nel cuore delle Ande e Monti dell’Ecuador, e le espone poi al grande pubblico in mostre-evento che riscuotono un grande successo (Smith ha fatto scuola molto rapidamente). Attraverso Humboldt, ma anche nella prospettiva di un buon ritorno economico, gli americani imparano a guardare con occhi nuovi la natura e il paesaggio che li circonda.

Anche la parte settentrionale del continente ha infatti le sue montagne, per molti versi più spettacolari delle Ande. Non hanno ancora conosciuto la popolarità delle Alpi perché per tutta la prima metà dell’800 continuano a costituire una barriera, e sono battute da personaggi ben diversi dagli aristocratici perdigiorno inglesi. A renderle famose e ad ammantarle di mito ci pensa però dopo la metà del secolo un gruppo di artisti che accompagna e a volte precede lo spostamento ad occidente della frontiera: i pittori della Hudson River School.

Il più prolifico e quotato è Albert Bierstadt, originario della Prussia ma trasferitosi presto in America, e di lì poi tornato a studiare pittura in Germania per qualche anno. Bierstadt è quindi cresciuto tanto alla scuola di Friedrick quanto a quella dei pittori dello Hudson: nei confronti di questi ultimi ha il vantaggio di una tecnica molto più raffinata, oltre che di uno sguardo “storicamente” educato. Il resto ce lo mette lui: si accoda ad una spedizione militare che attraversa il continente, poi gira per conto proprio a fotografare e a realizzare schizzi delle meraviglie naturali che incontra. Racconta gli spazi immensi della Sierra Nevada e della Yosemite Valley[45], dove tutto, dagli alberi alle pareti a picco è malato di gigantismo: e lo fa con uso sapiente, anche se un tantino esagerato, della luce. Il risultato è davvero spettacolare, e talmente emozionante che in seguito al successo riscosso dalle vedute della Yosemite tutta l’area sarà dichiarata parco nazionale[46]. Quella che riversa nelle sue numerosissime tele (più di quattrocento) è l’idea di una natura immane ma benevola, nell’ambito della quale le montagne non costituiscono un ostacolo ma una corona, una barriera protettiva posta a guardia di piccoli angoli di paradiso terrestre: ma ciò che a noi più importa, è che Bierstadt già a partire dal 1860 queste vedute le fa girare, le porta in tour per tutti gli States e poi in Europa, raggruppandole a costituire un fantastico diorama che incontra un notevole successo. Dopo l’operazione di Smith rispetto al Monte Bianco, questa è la consacrazione definitiva dell’uso spettacolare, e per ricaduta turistico, della veduta montana. Prelude immediatamente all’uso promozionale e pubblicitario.

 

La montagna illustrata

Infatti. Una volta violate le altitudini proibite, calpestate le cime vergini, dissacrata la montagna liberandola dei suoi sortilegi e dei suoi demoni e recuperandola ad una consuetudine non più timorosa e penitenziale, la si va ora a riempire di significati economici, culturali ed anche politici nuovi. L’ingresso della veduta montana nelle alte sfere dell’arte ha un suo corrispettivo a livello “popolare”, tra la metà del XVIII e quella del XIX secolo, nella proliferazione di immagini-souvenir, inizialmente piccole stampe ad acquaforte e bulino, destinate ai “signori escursionisti” che vogliono portarsi a casa un ricordo di quanto hanno visto, ma più ancora una sorta di certificazione del viaggio che hanno compiuto (quello che un tempo era il sigillo del pellegrino. Per i più arditi ci sono dei veri e propri “certificati di ascensione”, almeno relativi al Monte Bianco). Queste vedute, che privilegiano gli aspetti canonici del paesaggio alpino (le cascate, gli orridi, le cime, i panorami, gli alpeggi) si standardizzano velocemente e sono le immediate precorritrici della cartolina e della foto-ricordo. In fondo, gli acquarelli di Turner ne erano soltanto una versione di livello artistico superiore.

Quando la colonizzazione turistica e commerciale delle montagne si consolida, dopo la metà dell’800, le immagini passano ad assolvere anche ad un altro ruolo, quello della pubblicizzazione dei prodotti immediatamente legati al turismo di montagna (gli alberghi) o alle tradizioni alimentari (liquori, formaggi, ma anche profumi ed essenze). E ciò consente un’istruttiva lettura di come il nuovo mito positivo della montagna si intersechi con i sistemi di valori socio-culturali che scandiscono le tappe successive dell’avanzata del moderno.

In una prima fase l’immagine pubblicitaria punta essenzialmente a trasmettere un messaggio bucolico, caratterizzato da alcuni elementi fissi (vette e ghiacciai sullo sfondo, castelli arroccati o deliziosi masi in campo medio, pastorelli o animali, o il prodotto pubblicizzato, in primo piano) e comunque dall’assoluto protagonismo della natura. I nomi stessi dei prodotti suggeriscono la provenienza da luoghi di per sé garanti di purezza e genuinità, spacciano l’appartenenza ad una tradizione connaturata e strizzano l’occhio ad una idea di vita sana e morigerata, di virilità e salute degli abitanti che ne sono gli originari consumatori e produttori. Non solo: quel che viene venduto, proprio per la relazione con un ambiente comunque difficile, isolato rispetto alle normali vie di traffico, in qualche modo esotico, è anche un concetto di rarità. Quindi l’immagine risulta completamente ribaltata rispetto agli inizi del settecento: ciò che viene dalle montagne è genuino, è bello, è raro ed è quindi prezioso.

Con la nascita delle prime catene alberghiere e l’estensione delle reti ferroviarie parte verso la fine del secolo il reclutamento dei turisti. Il veicolo è in questo caso soprattutto il manifesto pubblicitario, che ha tra le caratteristiche peculiari quella di portare in primo piano proprio il luogo da pubblicizzarsi: la montagna non fa più da sfondo, ma diventa essa stessa protagonista dell’immagine. Si passa dalla pubblicizzazione dei derivati del mondo alpestre a quella dell’Alpe stessa: e ciò paradossalmente induce una ulteriore standardizzazione. Per esercitare un immediato richiamo l’immagine deve accordarsi il più possibile con lo stereotipo iconico della montagna ormai invalso: quello della piramide di roccia e ghiaccio. È Friedrich, piuttosto che Turner, a fornire il modello ideale: quello reale è offerto dal Cervino.

Quest’ultima immagine mitica della montagna è però giocata dalla pubblicità anche su un altro versante. Se all’assalto della montagna c’è l’uomo, e se è lui, nella veste eroica dell’alpinista e dell’esploratore, il protagonista, l’associazione simbolica si fa più sottile e si sovrappone alla rappresentazione naturalistica. Ad essere pubblicizzati non sono più luoghi o sapori, ma valori: anzi, uno specifico valore, quello della virilità. La moderna frequentazione della montagna è stata connotata da subito in senso molto “maschio”, ma questa virilità viene accentuata proprio nel periodo che stiamo considerando, di pari passo con la focalizzazione dell’interesse da parte del mondo alpinistico sulle difficoltà, sulle performances sportive, sulle tecniche, e con l’abbandono di ogni motivazione o pretesto naturalistico, scientifico o antropologico. Le immagini commerciali di liquori, ad esempio, o di energetici come il cioccolato, puntano sul doppio nesso virilità uguale ardimento e ardimento uguale rischio; il nesso ulteriore è quello col prodotto, che aiuta a superare il pericolo, o consente di celebrarlo degnamente una volta scampato.

In questa direzione l’immagine della montagna che viene proposta non è più quella idilliaca di un grembo accogliente, ma quella maschia di una palestra di ardimento, superba e bellissima, ma nemica. In fondo non è che la traduzione per il grande pubblico della filosofia di Lammer, di Rey, di Welzembach e di tutti i protagonisti dell’“alpinismo eroico” che andremo a conoscere, banalizzata quanto si vuole, ma efficace nel creare l’assuefazione ad un linguaggio icastico e nell’educare a valori perentori. E questa è la direzione che verrà percorsa, come vedremo, da un altro tipo di propaganda, quella politica, e soprattutto da quei sistemi totalitari che la propaganda impareranno ad utilizzare in maniera massiccia. La retorica del sacrificio, del coraggio e della conquista trovano nella montagna un repertorio sterminato: il gesto eroicamente virile dell’impresa sportiva è anche funzionale ad un addestramento militare.

Una parziale mediazione tra le due immagini pubblicitarie della montagna, quella eroico-sportiva e quella idillico-pastorale, che corrispondono poi all’immaginario diffuso e contribuiscono a loro volta a corroborarlo, verrà imposta a partire dagli anni trenta dalla comparsa del turismo sciistico. Lo sci è una pratica sportiva, e la sua immagine necessita di rimandi all’azione, alla velocità: ma, a differenza dell’alpinismo, non può far leva su una forte connotazione virile. Anzi. Lo sci di massa, quello turisticamente più significativo, promette le facili emozioni della discesa, non la dura conquista della salita: è aperto a tutti, non seleziona élites fisicamente e spiritualmente “superiori”: e deve quindi diversificare il messaggio, pubblicizzare la sua universalità inserendo nell’immagine presenze femminili e alludendo ad una possibile fruizione familiare. Anche gli sfondi debbono suggerire una libertà condizionata, quella di cui si gode sulle piste, e comunque una natura addomesticata, pendii rasati anziché dirupi o pareti. Da questa mediazione nasce una nozione completamente diversa dell’andare in montagna, agli antipodi di quella coltivata, ad esempio, in quegli anni da Julius Evola[47]. “L’alta montagna è luogo propizio al manifestarsi dell’impersonalità attiva, in quanto ci abitua ad un’azione che fa a meno degli spettatori, e di un eroismo che rifugge dalla retorica e dal gesto”.

Nell’iconografia della stampa periodica prevale invece decisamente la versione “tragico-spettacolare” dell’immagine della montagna. In tutta l’Europa sono diffuse già a partire dalla metà dell’Ottocento riviste “specializzate” come la Revue des Deux Mondes o il Giornale illustrato dei viaggi, o semplicemente popolari come Le Petit Journal e Le Petit Parisien in Francia, o La Tribuna illustrata e più tardi La Domenica del Corriere in Italia, che giocano sugli effetti di richiamo emozionale delle immagini di copertina: e la montagna, soprattutto i drammi che vi si consumano, si presta benissimo sotto questo profilo a suscitare forti sensazioni e ad alimentare altrettanto forti polemiche. I periodici illustrati dell’epoca ci vanno a nozze, proponendo tutte le possibili varianti della tragedia, corde spezzate, valanghe, assideramenti, ecc…, senza trascurare i pericoli legati alla fauna selvatica, assalti di lupi, aquile che rapiscono bambini, orsi, persino stambecchi impazziti. Riesce difficile oggi, a palati assuefatti a vivere in diretta gli eventi più drammatici e spettacolari, valutare il peso enorme che questa iconografia ha nella creazione di una sensibilità “borghese” o popolare per la montagna, quella che dopo la metà dell’ottocento rimpiazza l’aristocratico understatement dei touristes inglesi. Anche se qualche volta, molto più raramente, vengono celebrate le imprese alpinistiche, con bandiere nazionali sempre in bella vista, e durante i conflitti vengono raccontate le audaci imprese degli alpini, dei Chasseurs des Alpes o dei Kaiserjager, la reiterazione dell’immagine drammatica contribuisce a creare una distanza tra quel mondo di pazzi e di incoscienti che vanno a rischiare la pelle e il mondo normale; anziché avvicinare le masse alla fruizione alpinistica della montagna, le allontana. E nello stesso tempo, quando agisce in positivo, quando cioè crea interesse e curiosità, lo fa soprattutto negli animi più irrequieti, e prepara la strada ad una concezione “eroica” che tornerà a rappresentarsi la montagna come nemica.

Esemplare è la vicenda del Cervino. La tragedia della cordata di Whymper viene enfatizzata tanto dalla stampa inglese, che come abbiamo visto si fa portavoce della preoccupazioni per l’insana passione dei giovani britannici, sia da quella continentale, per motivi meno nobili: gli italiani per sottolineare che la vera vittoria è quella di chi è salito e ridisceso indenne, i francesi, gli svizzeri e i germanofoni per stigmatizzare come le richieste dei clienti britannici siano sempre più esasperate e la loro incoscienza di fronte al pericolo metta a repentaglio le vite delle povere guide. Gustave Doré dipinge un paio d’anni dopo la Sciagura sul Cervino, un dittico nel quale al momento della gloria e della superbia fa drammaticamente da contraltare quello della tragedia, rappresentata quasi come una punizione inflitta dalla potenza della montagna ai piccoli esseri umani che l’hanno profanata. È una sorta di prototipo al quale faranno riferimento tutti gli illustratori successivi, che tradurranno in un linguaggio iconico semplice e stereotipato la percezione romantica del mistero e del rischio. Lo faranno come portavoce di un perbenismo borghese che rifiuta l’idea del pericolo corso gratuitamente, ma nell’accondiscendere alla fame di spettacolarità dei lettori contribuiranno a costruire attorno alla montagna e ai suoi sfidanti un’aura in cui si mescolano pazzia, coraggio e sprezzo del pericolo, e della quale in fondo l’ambiente alpinistico si compiace. Tanto che ad un certo punto, da Lammer in poi, la farà volutamente propria.

 

La montagna colonizzata

Nel corso dell’800 le Alpi diventano il “terreno di gioco dell’Europa”, secondo la definizione di Leslie Stephen[48]: in realtà sono per tutta la prima metà del secolo, e quasi sino alla fine della seconda, il terreno di gioco dei rampolli dell’aristocrazia e della borghesia d’oltremanica a caccia delle emozioni offerte dal nuovo “turismo di montagna”. Ma a partire dagli anni sessanta comincia a cambiare il significato che al gioco viene dato: il “turismo di montagna” lascia il posto all’alpinismo. Nello stesso anno in cui Whymper vince il Cervino una cordata britannica scala il versante italiano della Brenva, e poco dopo è la volta della parete est del Rosa. Non si cercano più le cime, ma le vie più ardite alle cime; non ci si accontenta più di salire le normali al semplice scopo di raggiungere la vetta e gustare il panorama, ma ci si rivolge ai versanti ed alle pareti vergini, e ciò, assieme ad una professionalizzazione di sempre maggior livello delle guide, e successivamente anche alla rinuncia alle guide stesse, sancisce il passaggio dall’esplorazione allo sport. Il livello delle difficoltà affrontate sale dal terzo al quarto grado superiore, e l’attenzione si sposta sulle grandi pareti glaciali nelle Alpi Occidentali e su quelle di roccia delle Dolomiti. L’approccio sportivo ha ragione anche di quelle cime che per la loro difficoltà non erano state salite nel periodo precedente (il Dru, il Grépon, la Torre Winkler, ecc…).

I nomi associati a questi prime sono quasi tutti inglesi: ma Whymper, Mummery e gli altri britannici che una dopo l’altra cancellano l’inviolabilità delle vette alpine non si muovono in un’ottica “nazionale”. Sono battitori liberi, fieri senza dubbio di essere inglesi, convinti che solo gli inglesi possano riuscire in certe imprese: ma rappresentano se stessi. Anche in questo senso però le cose stanno cambiando, e lo si vede proprio in occasione dell’assalto all’ultima grande vetta. Nella gara per il Cervino, infatti, vinta da Whymper sulla guida valdostana Jean-Antoine Carrel per poche ore, la competizione si è spostata dal piano individuale a quello nazionale. I due nuovi stati formatisi tra il ‘60 e il ‘70, l’Italia e la Germania, devono inventarsi un’identità e sono determinati a riconsacrare in senso nazionalistico il “patrio suolo”, calpestandone in prima esclusiva ogni zolla. Mentre dietro Whymper non c’è nessuno, e al suo fianco ci sono spesso dei dilettanti incoscienti (anche se tra le vittime della caduta durante la discesa dal Cervino figurano una guida particolarmente esperta e uno degli alpinisti più forti dell’epoca, il reverendo Hudson), dietro Carrel c’è un futuro ministro delle finanze, che oltre a praticare l’alpinismo in proprio (è tra i primi salitori del Monviso) vede nel tricolore issato sulle poche vette ancora inviolate una via alla costruzione di un’identità italiana “forte”. Sarà proprio Quintino Sella a volere la fondazione del Club Alpino italiano, e a conferirgli i crismi di una istituzione che rappresenta un intero popolo e soprattutto una nuova “nazione”.

La vittoria di Whymper è per gli italiani un vero schiaffo: avevano preparato con ogni cura il tentativo alla montagna-simbolo dell’alpinismo, arrivando anche a soffiare all’inglese la migliore guida in circolazione. Ora debbono accontentarsi di “andare a issare lassù la nostra bandiera – come scrive Felice Giordano a Quintino Sella – altrimenti saremo non solo battuti, ma anche beffati”. L’abate Amé Gorret, uno dei partecipanti al tentativo dal versante italiano che viene ripetuto a tre soli giorni dalla prima scalata, dice: “Andavamo volontari per riscattare l’onore del nostro paese, era una spedizione di vendetta nazionale”.

Questo atteggiamento esasperato finisce per stravolgere tutte le regole che fino ad ora avevano governato la “competizione” alpina. La necessità di far risultato ad ogni costo diventa tale che qualche anno dopo, nel 1882, il Dente del Gigante verrà conquistato da una cordata italiana (tra l’altro, tutti membri della famiglia Sella) dopo che un gruppo di guide ha attrezzato per giorni il percorso: tanto che alpinisti come Mummery, che avevano tentato invano in precedenza la salita, parlano chiaramente di “un imbroglio”, e stigmatizzano il ricorso tipicamente italiano alle furberie.

Al di là della vicenda Cervino, che il clima sia cambiato lo dimostra proprio il passaggio a metà secolo dalla fase totalmente dilettantistica dell’alpinismo a quella organizzata. È questo infatti il periodo in cui nascono i vari club alpini nazionali: il primo è naturalmente quello inglese (1857), seguito nel volgere di poco più di un decennio da quelli svizzero, italiano, austriaco e tedesco. Ma mentre nel caso degli inglesi, che per le Alpi possono nutrire solo un interesse sportivo, lo spirito rimane quello ludico, di un consesso di aristocratici e dandy disponibile ad accogliere chiunque se lo sia meritato (e ne abbia i mezzi, perché la quota di iscrizione è piuttosto salata), indipendentemente dalla nazionalità, per gli altri entrano in ballo i motivi legati alla recente unificazione (per italiani e tedeschi), ad una sorta di diritto di prelazione (svizzeri) o addirittura all’urgenza di un riscatto di fronte a gravi rovesci internazionali (francesi e austriaci). Gli eccentrici dilettanti inglesi lasciano quindi gradualmente il posto ad una nuova generazione alpinistica, soprattutto germanica e italiana, tecnicamente e spiritualmente agguerrita, che dalla lotta con l’Alpe di Guido Rey passerà rapidamente alla lotta per l’Alpe. Le Alpi diventano lo scenario di una gara i cui protagonisti, a dispetto delle forti personalità individuali, devono portarsi in vetta il ruolo e le responsabilità di simboli nazionali, nei quali interi popoli si identificano; ma soprattutto di una competizione che ad un certo punto non avrà più come obiettivo una presa di possesso ideale, ma una rivendicazione fisica e politica.

La propaganda dei club alpini rivela da subito il nuovo “intento civile”. A quasi vent’anni dalla fondazione del club alpino italiano Quintino Sella scrive: “La nostra gioventù dell’Alta Italia mi pare da qualche anno più robusta, più ardita, più virile: all’ozio della città, nella state, sostituisce ormai l’aria pura dei monti, le ascensioni difficili, ove ci s’impara a indurare nelle fatiche ed a sentirci solidali”. La “politica alpina” mira a creare una classe dirigente dinamica e coraggiosa, dei lavoratori robusti, dei cittadini e dei soldati animati da amor di patria e cameratismo: e in tal senso sarà rivolta, a partire da fine secolo e limitatamente alle aree del primo sviluppo industriale, anche alle classi inferiori e al proletariato, con l’ulteriore intento di combattere l’alcoolismo diffuso e di promuovere abitudini di vita più compatibili con le esigenze del nuovo modo di produzione.

Anche il Club francese, che nasce immediatamente dopo la disfatta del 1870, manifesta nella sua carta d’intenti il proposito esplicito di “strappare i giovani all’ozio snervante delle città, condurli in montagna ed educarli mediante sane emozioni al culto della bellezza e della libertà, all’amore del sacro, della terra natale e delle sue meraviglie”. In questo senso tra le iniziative più caldeggiate c’è proprio quella della organizzazione di “carovane scolastiche”, gite o soggiorni in montagna che portino gli studenti a contatto diretto con la natura, con la fatica, con il senso del dovere e della disciplina. Il successo di queste iniziative sarà però scarso, e in Francia l’alpinismo organizzato rimarrà a lungo una pratica per pochi iniziati, reclutati, come in Inghilterra, attraverso una selezione in funzione delle ascensioni effettuate, sia pure su una base sociale più larga. Alla vigilia del primo conflitto mondiale il numero degli iscritti al sodalizio non supererà i settemila, contro gli oltre centomila dell’omologo tedesco.

Il risultato è che, nato in un contesto politico difficile e da uno scatto d’orgoglio patriottico, il club alpino francese si avvia a vivacchiare per mezzo secolo come un’istituzione di seconda serie, riflettendo in ciò lo scarso interesse che i francesi mostrano per il turismo alpinistico delle loro valli, almeno sino all’avvento dello sci. Il ritratto dell’alpinista che i francesi hanno presente è piuttosto quello disegnato da Alfonse Daudet in Tartarino sulle Alpi[49] che non quello dell’eroe conquistatore: “Sdirenato, la testa vuota come una zucca, le gambe ciondoloni, cadeva da tutte le parti, e le guide dovevano prenderselo una da un lato una dall’altro, e sostenerlo portandolo a braccia fino alla fine del muraglione di ghiaccio”. Dove in realtà il sarcasmo è rivolto, oltre e più che alla spacconeria dei connazionali, a quei gentlemen inglesi che inanellano cime una dietro l’altra per il solo gusto di spuntarne i nomi dalla loro lista: “Il pensiero di essere ammirato su quella vetta da tutti gli alpinisti di laggiù, le misses, il riso e le susine illustri coi loro occhialini occhialoni e cannocchiali puntati su di lui, richiamarono d’un colpo Tartarino alla coscienza e alla grandezza della propria missione. Saltò in piedi, e strappata dalle mani della guida la bandiera di Tarascona, la fece sventolare una due tre quattro cinque volte; ficcò quindi la piccozza dentro la neve, ci si mise a sedere sopra colla bandiera spiegata nel pugno e la faccia superba e calma: marmorea. Era sul tetto del mondo”.

Lo stesso Daudet ci aiuta però a comprendere l’atteggiamento “rilassato” dei francesi nei confronti della montagna: “Se mai avete trascorso una notte sotto le stelle sapete che, quando si dorme, un misterioso mondo si desta dalla solitudine e dal silenzio. Tutti gli spiriti della montagna vagano liberamente, e vi sono nell’aria fruscii, impercettibili rumori, quasi si udissero i rami crescere, l’erba spuntare. Di giorno sono gli esseri a vivere, di notte vivono le cose. Quando non si è abituati, si ha paura”. Tradotto in musica, questo è Debussy: è una concezione armonica, leggera, malinconica della vita, quella di un popolo che dopo Luigi XIV e Napoleone non ha più da dimostrare nulla, e soprattutto non ha più voglia di farlo. Confrontiamolo con questo brano di Lammer: “Che bel ritmo già in questa suddivisione di salita, riposo in vetta e discesa, la quale ultima può essere altrettanto ricca di tensione e di esperienza quanto la salita! L’epica serena si dilata nella drammatica tempestosa, indi la dolce e solenne lirica della cima, poi ancora lotta drammatica che si attenua in un finale epico-lirico […] Non si tratta di un’armonia a buon mercato: i pinnacoli più bizzarri, gli abissi più terrificanti, l’ululato della tempesta più violenta, le valanghe annientatrici si compongono in un’unità perfetta col più dolce raggio di sole, col velo più tenero di nebbia […]” Questo è Wagner: una visione conflittuale, eroica e tragica; quella di chi invece sente di dover dimostrare molto, a se stesso e al mondo.

I francesi hanno quindi nella seconda metà dell’800 una concezione “debussiana” della montagna, e sostanzialmente l’hanno mantenuta tale sino ad oggi. Ciò non toglie che la frase pronunciata da Pierre Gaspard al compimento della conquista della Meije (1877), unica impresa di rilievo a firma d’oltralpe in tutto l’ottocento: “Non saranno delle guide straniere ad arrivare per prime!”, sia la stessa che avrebbe voluto poter incidere Carrel sulle rocce sommitali del Cervino.

Nell’area germanica, al contrario, in entrambi gli atti di fondazione dei due diversi club (quello di Vienna e quello di Monaco, che di lì a poco saranno riunificati in un organismo unico, il DÖAV (Deutscher und Österreicher Alpenverein), si insiste su una presa di distanza dalle motivazioni politiche: il movimento alpinistico più forte è in effetti inizialmente quello austriaco, ispirato ad una concezione dell’alpinismo molto intellettualistica e ristretto ad una frequentazione altoborghese, che non trova grossi stimoli nazionalistici nella difesa dello status quo praticata dall’impero asburgico. Ma anche la “scuola di Monaco”, che ha una connotazione decisamente più “sportiva” e tende a facilitare e a propagandare l’avvicinamento alla montagna (impegnandosi ad esempio nella costruzione di rifugi), propugna un cameratismo che nasca sulla parete, e non negli uffici dell’anagrafe.

In realtà poi le implicazioni politiche sbucano fuori da ogni parte, prima tra tutte la rivendicazione dell’appartenenza storica delle Alpi orientali all’area germanica, opposta al nascente irredentismo italiano. Dopo la fusione tra i due sodalizi il club alpino diventa per forza di cose veicolo di un pangermanesimo declinato inizialmente solo nell’accezione “culturale”, ma destinato a tradursi in breve tempo in una istanza politica. In Austria inoltre è da subito forte la componente ideologica razzista, che riflette il sentimento della superiorità tedesca diffuso nell’impero delle undici etnie, e che si manifesta naturalmente nell’antisemitismo. Nello statuto del club vengono introdotti già ai primi del novecento, in largo anticipo rispetto alle leggi razziali naziste, dei “paragrafi ariani” che impediscono l’iscrizione agli ebrei. Il tentativo di creare una sezione staccata ebraica, che raccoglie migliaia di adesioni, viene liquidato con l’espulsione di tutti i “non ariani” dal club.

Il club alpino tedesco diventa in sostanza, a dispetto dell’apoliticità professata, la prima palestra delle ideologie razziali che vanno maturando nella Germania wagneriana ma più ancora nella Vienna di Karl Lueger, e che si sostanziano attraverso una lettura assolutamente forzata e impropria della filosofia di Nietzche. La montagna offre il pretesto per un arroccamento in “sfere non inquinate dall’impurità del moderno[50], dalla piatta uniformità della massa”; salire è approssimarsi al regno della divinità, marcare le distanze soprattutto nei confronti di coloro che sono ritenuti i subdoli portatori della disgregazione dei valori: “Mentre la nostra civiltà priva di cultura disintegra e isola ogni cosa, nella grande natura alpina che respira in Dio ogni singolo essere si fonde in un cosmo[51].

Mentre i diversi club alpini conducono per conto dei contrapposti nazionalismi una sorta di guerra a bassa intensità, il loro monopolio, se non sulle vette almeno sul terreno montano, subisce la concorrenza di altre organizzazioni, religiose e laiche, socialiste o conservatrici. In palio c’è il controllo di un numero sempre più significativo di persone, soprattutto di giovanissimi, che attraverso la scolarizzazione, il servizio militare, il recupero di tempo libero consentito dalle nuove professioni, la velocizzazione e la maggior facilità negli spostamenti, possono essere opportunamente guidate a scoprire il fascino della montagna, sottraendo l’alpinismo alla sia pur recente tradizione aristocratica ed elitaria. La soddisfazione espressa da Sella ricalca quasi parola per parola i propositi enunciati dall’Abbé Gorret, quello che abbiamo incontrato nella seconda salita al Cervino, che sostiene che l’andare per monti deve “sottrarre i giovani ai piaceri, ai divertimenti e alle gozzoviglie snervanti delle città”. Nascono, come abbiamo già visto, a margine del crescente movimento socialista e in opposizione all’alpinismo istituzionalizzato del club, associazioni sportive ed escursionistiche operaie: ma quelle che conoscono un maggiore successo e avranno per il futuro un peso importantissimo sono le associazioni giovanili.

Il movimento associazionistico giovanile più rilevante e più precoce è quello tedesco. Nel risorto Reich è lo stato stesso a creare direttamente o a ispirare attraverso la scuola e l’esercito la nascita di associazioni che cementino il cameratismo, inculchino e pratichino l’amor di patria e trasmettano una mentalità e un’educazione di tipo militare. Ma si sviluppa anche, già nei primissimi anni del novecento, una forma di associazionismo spontaneo, la Jugendbewegung, che recluta i suoi associati tra gli studenti delle superiori e che almeno nella fase iniziale riesce a mantenere una reale autonomia, scegliendosi i capi tra i giovani stessi. Una delle attività preminenti dell’associazione è quella escursionistica, da praticarsi appena possibile nella zona alpina e intesa come forma di autoeducazione alla natura, ma soprattutto come fuga dalle città e dalle famiglie. La spontaneità di questi sodalizi ha vita breve: la prima guerra mondiale chiama la gioventù a ben altre esperienze, e consente alle istituzioni di assumerne il controllo; dopo l’avvento del regime nazista finiranno fagocitate nel programma di addestramento e indottrinamento della gioventù hitleriana, o saranno soppresse.

La risposta inglese alla Jugendbewegung è lo scoutismo. A differenza di quella tedesca l’associazione creata da Baden-Powell non lascia nulla allo spontaneismo, ha anzi un ordinamento gerarchico e paramilitare. Inoltre non contempla, per ovvie ragioni, attività negli scenari alpini. Ma combinando l’educazione al contatto con la natura e allo spirito avventuroso con lo spirito di gruppo prepara, oltre che i dominatori coloniali, i futuri partecipanti alle grandi spedizioni himalayane. Il corpo degli scout, costituito a partire dal 1907, dopo soli due anni dopo accoglie anche le ragazze. L’apertura al mondo femminile è una caratteristica che sul continente rimarrà riservata alle associazioni di ispirazione confessionale o a quelle socialiste, mentre l’associazionismo laico rimane più maschilista.

In Italia la politica del CAI, almeno per quanto concerne la frequentazione sportiva della montagna, è pur sempre quella dell’associazione elitaria, anche se non manca la promozione dell’escursionismo popolare. Un’altra istituzione detiene nella penisola il controllo del mondo giovanile, ed è la Chiesa. La Chiesa, come abbiamo già sottolineato raccontando dei moltissimi abati e preti che partecipano alla prima fase dell’esplorazione delle vallate e dei ghiacciai alpini, manifesta un precoce interesse per il fenomeno di disincantamento e rivalorizzazione secolare delle montagne, paradossalmente riempiendone di croci e madonnine le cime. Questo interesse rimane vivo e induce diversi religiosi alla pratica alpinistica anche nella fase successiva, nella seconda metà dell’Ottocento e nel nuovo secolo: è sufficiente ricordare, tra moltissimi altri, oltre all’Abbé Gorret, l’Abbé Henry, alpinista formidabile[52], il prete-geologo-alpinista Antonio Stoppani e lo stesso don Eugenio Ratti, il futuro Pio IX, che compie diverse nuove ascensioni e che cercherà anche in tutti i modi di farsi accogliere nella spedizione polare del duca d’Aosta. Negli anni venti del novecento una delle figure più limpide del cattolicesimo laico e dell’antifascismo militante, Piergiorgio Frassati, sarà un alpinista appassionato. Questa frequentazione, come quella dei primordi dell’alpinismo, non rimane legata ad una passione individuale ma si sostanzia di una specifica finalizzazione educativa.

In questo senso la chiesa parte da una posizione di vantaggio: dispone di tutta una serie di punti d’appoggio, monasteri, abbazie, conventi, eremi, ospizi, oratori e canoniche sparsi alle pendici o spesso nella parte più alta delle vallate alpine, che supportano l’educazione e il convogliamento ad una pratica escursionistico-alpinistica molto allargata, ospitando gruppi parrocchiali provenienti anche dalle città della pianura. La maggior parte dei giovani che si accostano alla montagna sino a tutta la metà del ‘900, anche nel periodo fascista, lo fa attraverso questo tramite.

La concezione di base di tutte queste forme associazionistiche è la stessa che si era andata affermando già dal Settecento, a partire da Haller e da Rousseau: quella di una montagna risanatrice, spiritualmente e fisicamente, che educa al culto della bellezza, dell’ardimento, della lealtà e dell’amicizia. Cambiano invece le finalità rispetto alle quali viene declinata. La cultura cattolica dà naturalmente un’interpretazione molto più soft del rapporto con la montagna: mentre l’alpinismo classico si carica di valenze nazionaliste e si nutre di ideologie superomistiche, l’alpinismo cattolico si caratterizza come un alpinismo spirituale, pacifico; non propugna la lotta contro la montagna, ma la lotta che l’alpinista ingaggia quasi con il suo corpo, con il peso delle sue debolezze che lo tira verso il basso. A fronte della ricerca del rischio assoluto e dello sprezzo del pericolo, esaltati dalla scuola austro-tedesca, o del gioco temerario e un po’ incosciente dell’interpretazione anglosassone, l’alpinismo cattolico si caratterizza come un alpinismo della prudenza: “L’alpinismo vero non è già cosa da scavezzacolli, ma al contrario tutto e solo questione di prudenza, e di un po’ di coraggio, di forza e di costanza, di sentimento della natura e delle sue più riposte bellezze” scrive il futuro papa Pio XI.

Anche l’alpinismo inglese, che mantiene un profilo distaccato e superiore fino a che si tratta di Alpi, non tarda ad assumere una connotazione e una valenza “politica” quando il “gioco” si trasferisce dall’Europa all’Asia. Ai confini dell’impero coloniale l’assalto alle montagne entra a far parte tacitamente della strategia britannica di difesa “attiva”, basata sulla costante dilatazione delle zone di rispetto attorno alle aree direttamente governate. L’Himalaya diventa quindi “affare inglese”, e i suoi esploratori sono tutti quanti, più o meno consapevolmente, agenti di quello che viene appunto definito il “grande gioco”.

La diversione rispetto alle Alpi è peraltro già iniziata sin dagli anni ‘60, con l’avvio della esplorazione sistematica delle montagne del Caucaso[53]. Anche in questo caso, trattandosi di un’area di confine dell’impero russo, che sino alla prima guerra mondiale è appunto il rivale del dominio britannico nel “grande gioco” sullo scacchiere asiatico, l’interesse alpinistico si porta appresso dell’altro. Lo stesso vale per i primi approcci alle montagne africane, ai Monti della luna (la catena del Ruwenzori) raggiunti da J. H. Speke già negli anni cinquanta e visitati poi da Stanley alla fine degli ottanta. Dietro la ricerca delle sorgenti del Nilo c’è la corsa a “segnare” la maggior parte possibile del territorio, e la conquista delle vette lascia un segno particolarmente visibile, marca un diritto di prelazione su tutto ciò che di lassù lo sguardo può abbracciare. Al di là di questo, comunque, è lo spirito stesso dell’alpinismo a mutare: se Mummery era ancora un solitario e romantico vagabondo delle cime, Mallory, Irvine e tutti gli altri dopo di loro si muoveranno nel contesto di grandi spedizioni volute, organizzate e finanziate direttamente dai governi o da istituzioni culturali che a questi ultimi fanno capo.

 

Mondi e monti lontani

Fino alla prima metà del Settecento della regione himalayana si sapeva poco o nulla: l’area era resa praticamente inaccessibile, oltre che dalla conformazione del territorio, da impedimenti religiosi e politici, ed era rimasta quindi sempre esclusa dagli itinerari commerciali del medioevo. Le prime notizie attendibili si hanno a partire dagli inizi del settecento, quando la catena viene attraversata dal padre gesuita Ippolito Desideri, probabilmente il primo italiano ed europeo a mettere piede nel Tibet in tempi moderni, e comunque senz’altro il primo a lasciarne traccia. Il padre è inviato dalla Compagnia al di là dell’Himalaya per verificare le antiche notizie relative all’esistenza di una comunità cristiana in quelle zone. Naturalmente non trova alcun riscontro di una precedente evangelizzazione, ma da buon gesuita impara il tibetano, visita e studia a fondo le regioni del Kashmir e del Tibet e ne produce una descrizione che per i tempi è molto precisa.

Per una conoscenza più approfondita occorre però attendere la metà dell’800[54], quando il Servizio Geologico dell’India avvia un imponente lavoro di rilevazione a fini strategici di tutta la zona confinaria settentrionale della colonia indiana (con una decisa tendenza a sconfinare), che porterà a una determinazione abbastanza esatta dei lineamenti geografici della regione. È in questa occasione che viene data per la prima volta notizia dell’Everest (1856), mentre viene compiuta nel Karakorum la rilevazione del K2 ed ha luogo (nel 1861) la prima vera e propria spedizione sul ghiacciaio del Baltoro.

A precedere o a completare il lavoro del servizio geologico ci sono naturalmente le iniziative di esploratori e avventurieri, private o commissionate dal governo coloniale. Tra i primi i fratelli tedeschi Hermann, Adolf e Robert Schlagintweit, discepoli di Humboldt, che dopo essersi fatti le ossa nelle Alpi scalando il Monte Rosa ricevono dalla Compagnia delle Indie l’incarico di una prospezione generale dei sistemi montuosi che chiudono a nord il Deccan. Durante l’esplorazione dell’Himalaya, nel 1854, Adolf e Robert raggiungono sul monte Kamet la ragguardevole quota di 6770 metri. Adolf prosegue poi da solo e viene ucciso nel Turkestan, mentre gli altri due fratelli fanno ritorno in patria e scrivono una relazione dei loro viaggi che suscita nel mondo germanico una curiosità, non solo sportiva.

Le esplorazioni a carattere dichiaratamente alpinistico hanno inizio più tardi, verso la fine del secolo. Con la conquista nel 1882 della prima vetta nel Karakorum, il Pioneer Peak (6890 m) da parte di William Conway, ha inizio una vera e propria gara a battere i record di altitudine. L’anno successivo la spedizione Graham al Nanda Devi ha ancora un carattere misto scientifico-alpinistico, ma non manca di corteggiare una delle vette più alte e delle montagne più belle della catena himalayana. Ormai si punta decisamente agli ottomila. Nel 1895 è lo stesso Mummery a guidare una spedizione al Nanga Parbat; raggiunge e supera quota settemila, ma muore poi con due sherpa nel tentativo di passare sull’altro versante. Con questa tragedia il Nanga Parbat inaugura la sua sinistra fama: prima di essere conquistato, nel 1953, ha già fatto trentun vittime. Al volgere del secolo è ancora un alpinista inglese, Douglas Freshfield, ad effettuare il primo periplo documentato del Kangchenjunga: con lui c’è, come fotografo ufficiale, l’italiano Vittorio Sella.

Un’altra montagna tanto appetita quanto maledetta è il K2. È stata raccontata nella sua bellezza solo alla fine degli anni ottanta, dal colonnello Younghusband, il primo a forzare il passo Mustang nella sua marcia su Lhasa, e conosce già un tentativo di ascensione nel 1902, da parte di Aleister Crowley e di Oscar Eckenstein; la spedizione arriva ad una quota di circa seimilaseicento metri, ma è costretta a ritirarsi per il maltempo[55]. Nel 1909 una spedizione italiana guidata dal duca degli Abruzzi, ed accompagnata dall’immancabile Vittorio Sella, scopre una via di salita lungo lo sperone est della montagna, ancora oggi noto come “Sperone degli Abruzzi”. Ripiega poi sul Chogolisa, senza raggiungere la vetta ma arrivando a settemilacinquecento metri, primato di altitudine dell’epoca. Il Karakorum diventa la catena degli italiani, presenti ancora negli anni immediatamente successivi con spedizioni esplorative dirette da Mario Piacenza e da Filippo de Filippi.

Non c’è però solo l’Himalaya. La fine del secolo vede una corsa affannosa a porre il sigillo su tutte le vette di un qualche rilievo sparse per il mondo. Nell’America settentrionale la prima ascesa del Mc Kinley viene effettuata (spedizione Hudson Stuck) nel 1913[56], mentre nel 1897 una spedizione del Duca degli Abruzzi ha salito con condizioni climatiche proibitive il Monte Saint Elias (la prima ripetizione si avrà solo cinquant’anni dopo).

In quella meridionale la vetta dell’Aconcagua, dopo essere stata tentata già nel 1883 da una spedizione tedesca (del geologo ed esploratore Paul Gussfeld, che arriva a 6.500 m), è raggiunta per la prima volta dalla guida svizzera Matthias Zurbriggen, membro di una spedizione britannica (Briton Edward Fitzgerald).

In Africa il primo europeo ad esplorare a fondo il massiccio del Ruwenzori è Henry Morton Stanley, nel 1889, ma la cima è raggiunta solo nel 1906 dall’ennesima spedizione del Duca degli Abruzzi. Il picco Uburu del Chilimangiaro è salito invece già nel 1889 dai tedeschi Meyer e Purtscheller, subito dopo la creazione della colonia del Tanganika. La prima ascensione al monte Kenia è del 1899.

Il plateau sommitale dello Kinabalu, il monte più alto del sud-est asiatico, era stato raggiunto fin dal 1851 da un funzionario della amministrazione coloniale inglese, ma la vetta è toccata solo nel 1888.

Allo scoppio della prima guerra mondiale rimangono inviolate in pratica solo le vette himalayane superiori ai settemilacinquecento metri. Il limite non è nemmeno più psicologico, ma puramente fisico.

La guerra interrompe solo momentaneamente la corsa. Nel frattempo l’Himalaya ha inaugurato un modello di alpinismo che si è portato appresso motivazioni nuove: ma né l’uno né le altre, fino a secolo inoltrato, vengono accettati nell’ambiente alpinistico ortodosso. Quando nel 1920 si comincia a parlare di una spedizione “pesante” all’Everest, con una organizzazione quasi militare, nell’Alpine Club si grida allo scandalo. Si avverte che una cosa del genere chiuderà per sempre l’epoca dell’alpinismo classico, al quale, essendone stata quasi unica protagonista, l’associazione inglese è profondamente legata. In effetti è così, anche se i segni del cambiamento erano già avvertibili in quanto stava accadendo sulle Dolomiti.

Tentativi come quello di Mummery e quello di Crowley sono in fondo ancora la trasposizione dello spirito alpino in un ambiente diverso; ma quello del Duca degli Abruzzi appartiene già ad una dimensione e a uno spirito totalmente nuovi. Il teatro himalayano non presenta soltanto problemi tecnici, ma anche e soprattutto problemi logistici: le distanze, le altitudini, i tempi sono dilatati su una scala enorme, le possibilità di rifornimento sono remote, occorre soggiornare a lungo in quota, tanto per l’avvicinamento che per l’acclimatazione. C’è inoltre il problema della mancanza di ossigeno, e dei suoi devastanti effetti fisici e psicologici, e ci sono condizioni climatiche estreme, da sopportarsi per periodi lunghissimi. Si impone la necessità di una organizzazione per trattare con le autorità locali, per coordinare le linee di rifornimento, per organizzare i campi in quota e spingere sherpa e portatori sempre più in alto.

L’utilizzo di questi ultimi è qualcosa che cozza completamente con il contemporaneo rifiuto dell’uso delle guide sulle Alpi. E l’interazione con le popolazioni locali, insieme alla violazione di tabù, alla dissacrazione dei luoghi, porta ad un rivoluzionamento dei costumi e delle economie, alla rottura di equilibri, alla disgregazione culturale di mondi rimasti a lungo immobili, che proprio per le particolari condizioni ambientali sono spesso molto fragili e delicati. Infine, in queste imprese la prestazione del singolo individuo o della singola possibile cordata non hanno più senso: è la squadra a vincere, nel caso, è la disponibilità di attrezzature e materiali sempre migliori. È il trionfo dell’organizzazione e della tecnica. Hanno ragione di scandalizzarsi, gli aristocratici e conservatori membri dell’Alpine club: in effetti si tratta di qualcosa di completamente diverso da ciò che essi cercano e vedono nell’alpinismo.

Cambia anche l’immagine della montagna. L’Himalaya non viene conosciuto dagli occidentali con la preventiva mediazione della pittura, come le Ande e le Montagne Rocciose, ma direttamente attraverso la fotografia. E la fotografia, soprattutto quella in bianco e nero, la lastra al nitrato d’argento, rispetto all’immagine dipinta crea un’atmosfera decisamente più fredda. Nella pittura c’è rumore, nella fotografia c’è silenzio. Il dipinto parla, la fotografia mostra. Alle altitudini himalayane poi, anche quando la fotografia è in movimento, nelle prime immagini cinematografiche, si respira un’atmosfera diversa, in senso sia letterale che metaforico. I movimenti sono più lenti, ogni cosa appare ovattata: Mallory e Irvine che partono dall’ultimo campo, prima di sparire sull’Everest, sembrano muoversi sulla luna. Gli spazi, le dimensioni, sono enormi; al confronto quelli alpini, che tanto entusiasmavano nell’Ottocento, sono fazzoletti. E c’è la distanza: le Alpi in fondo per gli occidentali sono lì, alla portata di tutti. Come vedremo è sufficiente possedere una bicicletta per raggiungerle: le montagne asiatiche rimangono invece, almeno sino alla seconda metà del Novecento, un sogno proibito per quasi tutti. Sono tanto remote da poter ospitare mondi perduti, la favolosa Shangri-la o le dimore sotterranee dei mitici arii: ma appartengono alla dimensione del sogno, appunto, sono altro dalla quotidianità possibile dell’escursione o della scalata nel calcare o nel ghiacciaio.

Appena chiusa la parentesi bellica, in un periodo nel quale le altre potenze, vincitrici e vinte, si leccano le ferite, gli inglesi tornano dunque all’attacco. Dalla loro base indiana indirizzano verso l’Everest tre successive spedizioni, nel 1921, nel 1922 e nel 1924. Ma i tempi non sono maturi. Non è ancora previsto il ricorso all’ossigeno. Nel corso di un tentativo alla vetta lungo la parete Nord George Mallory ed Andrew Irvine, i due alpinisti più forti, scompaiono dopo aver superata la quota di ottomila e cinquecento metri. Il mistero della loro fine, e più ancora il dubbio su un loro possibile arrivo in vetta, alimenterà la letteratura alpinistica per tutto il secolo successivo. Ci sono anche polemiche, inevitabilmente: ma ormai, dopo il carnaio della guerra, le tragedie della montagna hanno un impatto ridimensionato. Si polemizza semmai sull’organizzazione, sulla logistica, sul mancato risultato: e le figure degli alpinisti diventano oggetto di una mitizzazione mediatica che gioca volentieri con le scomparse premature. In più, non ci si può tirare indietro proprio quando gli altri incombono. Alla fine degli anni venti tornano infatti nel Karakorum gli italiani, sia pure con missioni geografico-esplorative, quella di Aimone di Savoia Aosta nel 1929 e quella di Giotto Dainelli nel 1930. Nel 1934 una spedizione internazionale diretta dal geologo Dyrenfurth tocca le prime vette oltre i 7200 m, conquistando il Sia Kangri (7422 m). Ma, soprattutto, si muove la macchina da guerra alpinistica tedesca, in parallelo con quanto accade nel frattempo sulle Alpi.

Si comincia nel 1929 dal Kangchenjunga, che viene preso d’assalto per tre anni consecutivi, con il solo risultato di diverse vittime e di ritirate dovute a maltempo, malesseri o defezioni. Si cambia poi obiettivo: dal 1932 è la volta del Nanga Parbat. La prima spedizione non sale molto, ma torna casa integra. Due anni dopo, invece, nel 1934, il tentativo si conclude in tragedia, con la morte per assideramento di tre alpinisti, tra i quali Willo Welzembach, e di sei sherpa. I tedeschi ci riprovano nel 1937, con un enorme spiegamento di mezzi, che comprende anche l’uso dell’aviazione, ma l’esito è ancora una volta tragico: una valanga uccide sette alpinisti e nove sherpa. Si ripete nel 1938, e stavolta il nemico è il maltempo. Infine nel 1939 un’ennesima spedizione guidata da Heinrich Harrer, reduce dalla salita della nord dell’Eiger, è bloccata dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Harrer stesso finisce in un campo di prigionia in India, dal quale evaderà per rifugiarsi in Tibet.

Alla fine degli anni trenta entrano in scena anche le spedizioni statunitensi. L’obiettivo è il K2. Nel 1938 raggiungono la quota di 7800 m, l’anno successivo toccano gli 8200 m, ma registrano anche la prima di una serie di vittime che faranno di questa montagna la più pericolosa del mondo. Poi è nuovamente guerra vera.

Sullo spostamento di interesse verso le montagne asiatiche, e in particolare verso la catena himalayana, non influiscono solo la ricerca di vette e terreni nuovi d’alpinismo (come potrebbe essere per il caso di Mummery) o la voglia di cimentarsi con altezze quasi doppie rispetto a quelle delle Alpi, o ancora gli interessi politici inglesi: agisce anche un clima spirituale e ideologico particolare, che caratterizza gli ultimi anni del ottocento e la prima parte del secolo successivo. Del nazionalismo abbiamo già parlato, e ci si tornerà ancora per quelli che saranno i suoi funesti sviluppi. Allo stesso modo si è fatto cenno a componenti ideologiche come il razzismo, anch’esse gravide di esiti drammatici. Ma accanto, e spesso a monte di queste, c’è una temperie più vaga e indeterminata, diffusa senza distinzioni nei diversi strati o ambienti sociali, quasi un presentimento del declino che incombe sull’Occidente. Nell’ambito artistico-letterario questa atmosfera prende il nome di Decadentismo, e il termine può essere esteso ad ogni aspetto del sociale: implica una pressante ricerca di senso, legata allo smarrimento di fronte ai primi cedimenti della certezza scientifica e ai primi conflitti sociali moderni. Comporta soprattutto un ostentato rifiuto della razionalità, e la ricerca di spiegazioni e di emozioni nelle pieghe oscure dell’occultismo, nella teosofia, nelle “corrispondenze” segrete e magiche. Tutto questo viene a combinarsi perfettamente con la necessità di costruirsi un’epica da parte dei popoli recentemente unificati, di giustificare la loro lunga assenza dal palcoscenico della storia, di riscattare o inventare una tradizione. Trova il terreno più fertile, naturalmente, in Germania: ma l’alone copre tutta l’Europa.

Nella seconda metà dell’800 si diffondono in tutto l’Occidente società esoteriche che fanno riferimento, nella simbologia e nella pratica, alla montagna. Una rete intricatissima di rimandi fa discendere dagli studi di indoeuropeistica coltivati da Schlegel, da Shopenhauer e da Max Muller l’elaborazione di una mitologia “ariana” e l’anelito a ricostruire l’unità perduta delle genti “arie”, la cui culla è identificata nelle montagne inaccessibili che stanno al centro dell’Asia[57]. Questo indurrà, a partire dai primi del novecento, molti europei (uno di questi è senza dubbio Crowley) a guardare alla zona himalaiana con un interesse che va ben oltre quello alpinistico. Soprattutto in Germania miti come quello del popolo della “terra cava” verranno fatti propri prima da società iniziatiche e poi addirittura dal regime nazista. Le spedizioni himalayane degli anni Trenta sono dettate principalmente dalla ossessiva volontà di Hitler di trovare una “fonte perenne di sangue ariano”, che contrasti la crescente ibridazione del popolo tedesco. È addirittura fondata la Deutsches Ahnenerbe (Eredità tedesca degli antenati), una società di studi che organizza in cinque anni più di cento spedizioni scientifiche, non solo in Asia, per effettuare ricerche storiche e archeologiche e studiare i costumi di gruppi etnici eredi presunti di antiche culture[58]. L’ultima di queste spedizioni è proprio quella che vede coinvolto Harrer.

Penne e piccozze

Dobbiamo ora fare nuovamente un passo indietro. Se agli inizi dell’800 si afferma una vera e propria “pittura di montagna”, che fiorisce nell’area del romanticismo nordeuropeo (inglese, tedesco e scandinavo) e viene rinverdita verso fine secolo dalle opere dei divisionisti italiani (Segantini in primis), a cavallo del secolo successivo nasce anche una “letteratura di montagna”. Anche se rimane confinata nel genere diaristico, adattato alla nuova formula del “récit d’ascension”, questa letteratura esercita un influsso notevole soprattutto sulle giovanissime generazioni, ed è destinata ad avere un impatto che prescinde dal reale valore artistico. Consente tra l’altro di leggere attraverso le diverse concezioni dell’alpinismo, e più in generale del rapporto con la montagna, ciò che va maturando nelle contrapposte culture europee. In questo senso due opere sono particolarmente significative, per il successo che hanno conosciuto, e quindi per l’influenza che hanno esercitato, e per la differente impostazione del rapporto.

La prima è Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso (1895), di Albert Frederick Mummery, destinata ad essere il filtro di lettura dell’alpinismo per le giovani generazioni anglosassoni[59]. È un libro che più anglosassone non si può, pieno di humor e di autoironia, ma al tempo stesso capace di trasmettere una concezione “dilettantistica” nel senso più alto e più letterale del termine, quello di un puro piacere estetico e spirituale e di un rapporto insieme confidenziale, leale e riverente con l’ambiente. Mummery non ingaggia epiche battaglie, non ci pensa nemmeno a sfidare o ad attaccare la montagna: la studia e cerca “dolcemente” di salirla, anche quando, come nel caso del Grépon, di dolce la montagna non ha proprio nulla (ma Mummery la ripaga con la sua ironia, sintetizzandone così le successive immagini: una montagna inaccessibile; la più difficile scalata delle Alpi; una facile ascensione per signore!). Vuole divertirsi, rimanendo in armonia con un ambiente che gli piace, provando gusto nell’arrampicata e lasciando a valle ogni condizionamento o finalità ideologici. E ha della montagna una visione cosmopolita, che lo porterà infatti a cercare altre emozioni nel Caucaso prima e in Himalaya dopo (e a lasciarci la pelle). Non scala le montagne perché “deve”, per un imperativo categorico, ma perché sono lì, come avrebbe detto il suo discepolo Mallory: sono belle, promettono emozioni e allora tanto vale provarci. L’alpinismo come puro gioco, ma non per questo eticamente meno solido (o forse proprio per questo; la bellezza del gioco sta proprio e solo nel vincere rispettando le regole).

Mummery sarà anche uno dei primi a scalare senza guide, ma fino a quando lo fa col suo fidato e inseparabile Alexander Burgener non ha alcun ritegno ad attribuirgli la maggior parte del merito, anche se di fatto è in genere lui a guidare la cordata. Il tenore del racconto di Mummery, e verosimilmente il suo modo di vivere le situazioni, è questo: “La mia posizione stava diventando molto seria. È cosa nota (attestata da tutte le autorità ecclesiastiche delle valli di Susa, Zermatt e Anzasca) che chiunque ha scorto uno Spirito muore certamente entro le ventiquattro ore! Dissi a Burgener che, stando così le cose, non c’era alcun vantaggio a fare ritorno; infatti o si trattava veramente di Spiriti, ed allora fatalmente saremmo morti, o non si trattava di Spiriti, e allora potevamo benissimo proseguire il nostro cammino. Le guide accettarono il dilemma, ma espressero l’opinione che, anche nel caso peggiore, scalare una montagna con la prospettiva di essere buttati giù da uno Spirito malevolo non era precisamente un’allegria[60].

Quello di Mummery è forse il momento più equilibrato e limpido della “conquista” delle montagne. La sua moderazione è senz’altro anche voluta; può tranquillamente minimizzare le imprese, ben sapendo che chi legge avrà poi modo di verificare direttamente la realtà e il livello delle difficoltà affrontate. Ma senza dubbio esprime e riassume al meglio lo spirito col quale per oltre un secolo i suoi connazionali, da Windham in poi, avevano percorso in lungo e in largo le valli alpine. “Sebbene forse l’alpinismo non sia più pericoloso di altri sport, suscita sicuramente un senso più vivo del pericolo, in verità del tutto sproporzionato rispetto al rischio reale”. Il suo understatement verrà attaccato violentemente dagli alpinisti di nuovo stampo sfornati dai club alpini tedeschi, quasi rappresentasse una forma di irrisione sprezzante per quelle vette e per quelle sfide mortali che stanno invece diventando per loro lo strumento di dimostrazione di una superiorità razziale. Con Mummery, che pure sotto molti aspetti è un innovatore e un precursore, possiamo davvero dire che si chiude l’alpinismo classico di conquista, quello la cui finalità era ancora raggiungere la vetta per la via più logica.

Ben diversa è infatti la concezione della montagna che troviamo in Fontana di giovinezza (1922)[61] di Guido Lammer, comparso un quarto di secolo dopo il libro di Mummery e intriso di forti tensioni ideali, di gusto estetizzante, di esaltazione virile. Intanto, prima ancora che come resoconto di imprese alpine il libro si propone come un saggio spirituale e filosofico. La montagna offre lo sfondo ideale a chi vuole confrontarsi col rischio, con la morte, con la solitudine, ma soprattutto con se stesso, con le proprie paure e con il proprio anelito al trascendente. “Per me il risultato supremo è il modo dell’attività sportiva, l’essere senza guida, il giocare la vita”. E rispetto a questo assunto la montagna è lo sfondo, appunto, un pretesto, un fichtiano non io cui contrapporsi per spremere da sé il meglio, per costruire la propria vita come un’opera d’arte. “Quasi ogni ascensione è un’opera d’arte vissuta, è come una materia già artisticamente formata: questo vale specialmente per le ascensioni grandiose, turgide di pericoli e d’avventura e soprattutto per i viaggi d’esplorazione”. Lammer non racconta la montagna: la interpreta. La montagna è il luogo non contaminato dall’azione uniformante dell’uomo e lontana dalle meschinità del mondo, lo scenario perfetto per compiere gesta eroiche, la palestra per la costruzione di una personalità superiore, che emerga dalla mediocrità della massa. “Non conosco altra attività umana la quale, come il cimento con le difficoltà della montagna, prosciughi spesso sino agli estremi residui e tenda variamente in mille nuove complicazioni tutte le energie del corpo e molte dell’intelletto e dell’anima. Difficilmente in altre circostanze i nostri sentimenti vengono così sconvolti, la nostra volontà così duramente forgiata come in questo duello col monte”. Tanto più è tale, quindi, quanto più è difficile, pericolosa, repulsiva. Non esiste una bellezza della montagna, quanto piuttosto la bellezza “artistica” del gesto compiuto in montagna. Questa tentazione di pensarsi come diversi rispetto ai comuni mortali, nel senso almeno di dotati di un coraggio, di uno sprezzo del pericolo, di una forza, di una resistenza superiore, ma anche di una sensibilità, di una purezza testimoniata dalla gratuità del gesto, dello sforzo e del rischio affrontato, appartiene in realtà a tutti coloro che praticano l’alpinismo, ma è di norma tenuta nascosta; qui viene invece proclamata come il senso ultimo dell’alpinismo. “Per una lunga vita, giovane e adulto, io ho venerato solo l’individualità, ho lavorato a scalpellare la mia personalità”.

Si van ben oltre la concezione sportiva, qui si parla di sfida esistenziale: «Ogni qual volta attraverso lo sforzo e il terrore riuscii a conquistarmi una prima ascensione oppure una nuova via, vidi splendere davanti a miei occhi queste parole di fiamma: “ora io sono diventato più forte dell’onnipotenza divina”». È evidente che Nietzsche ispira ogni singola parola del libro, e si potrebbe leggere Fontana di giovinezza come una sorta di compendio divulgativo del credo nietzschiano, in una interpretazione distorta, esasperata ed esaltata. La montagna è essenzialmente “nemica”, nella concezione di Lammer: e non nemica fredda e inerte, ma personificata: «nel centro dell’azione compaiono “eroi” veramente drammatici, uomini che lottano, soffrono, gioiscono […] ed avversari realmente drammatici, esseri demoniaci come nelle fiabe: la strega dei crepacci in agguato, il lanciatore di blocchi gigantesco, la fata malvagia delle valanghe, il mostro delle tormente, il mago della vertigine che stordisce i sensi, l’aquila delle folgori di Giove, i neri corvi delle nebbie di Wodan».

C’è anche una terza via, quella che trova forse la migliore espressione nell’austriaco Julius Kugy. Non a caso Kugy arriva alla montagna animato non dalla volontà di lotta ma dallo spirito scientifico, dall’amore per la botanica, né più né meno di quanto De Saussure o Dolomieu lo fossero da quello per la geologia: anche fisicamente non incarna l’immagine ascetica ed atletica propagandata da Lammer (è un omone massiccio e tozzo). Il titolo del suo ultimo libro, “Dal tempo passato[62], riassume perfettamente la sua nostalgia per un’epoca, e non solo per una montagna, che appare nel ricordo ricca di certezze e densa di sentimenti genuini. La montagna non viene da Kugy né sfidata né dominata: è percorsa e vissuta con delicatezza e serenità, goduta e ringraziata per le gioie che offre, affrontata con il rispetto che merita, sempre in compagnia delle guide. La conquista della cima non è mai un’ossessione, non diventa un imperativo morale, anche perché Kugy ha altre passioni, la musica e la botanica in primis, che equilibrano ed armonizzano il suo sentimento.

Eppure quest’uomo ha salito, partendo dalle Alpi Giulie, nel corso di una serie innumerevole di campagne, tutte le vette più importanti della catena alpina. Il suo alpinismo, a dire il vero, non sembra tanto appartenere ad un altro tempo, quanto essere fuori dal tempo: è romantico, ma è anche positivo, è disincantato e talvolta distaccato, come quello inglese, ma è anche caldo, eticamente ispirato, portatore di valori come quello italiano o tedesco; solo molto più equilibrato. In opposizione a Lammer, che ringraziava l’alpinismo di avergli fatto “sorseggiare il più dolce dei godimenti che la vita possa offrire: aver bagnato le labbra alla coppa della morte”, egli scrive: “I monti non devono essere i nostri nemici. La base dell’alpinismo deve essere sempre il puro amore della natura e dei monti, un’intima penetrazione nella loro vita, nella loro essenza, nella loro anima. Certe arrampicate disperate che oggi si usano sono contrarie al mio modo di sentire. Io amo l’equilibrio, la salute, in una parola il bene della vita[63]. Kugy rifiuta il concetto stesso di “sport alpino”, la ricerca delle difficoltà fini a se stesse, la conquista della vetta come affermazione personale e superomistica, per valorizzare invece la bellezza del camminare, del contemplare, del muoversi con lentezza sulla roccia e sul ghiaccio, per godere davvero di tutto ciò che un’ascensione può offrire. Per questo, al contrario di Lammer, che tra le due guerre risulta con Fontana di giovinezza l’autore più letto in Germania dopo Dio e Hitler, e dello stesso Mummery, che ai primi del Novecento è un autore di culto per gli alpinisti di tutto il mondo, anglosassone e non, Kugy rimane un autore “per pochi”: così come di pochissimi è rimasto il suo modo di rapportarsi alla montagna.

 

La guerra nell’Alpe

L’atmosfera che si respira in montagna ai primi del Novecento è dunque ben diversa da quella di un secolo prima. La rincorsa tedesca al recupero militare e industriale nei confronti dell’Inghilterra ha i suoi risvolti anche nell’alpinismo. La “corsa agli armamenti” si traduce nell’ingresso della tecnica nella pratica alpinistica. Il chiodo, il moschettone, la corda doppia, i ramponi, l’abbigliamento specialistico rivoluzionano le modalità dell’approccio e aprono ad una ulteriore ricerca delle difficoltà. A questo si aggiunge l’allenamento specifico e sistematico praticato soprattutto a partire dalla “scuola di Monaco”. L’età dell’oro dell’alpinismo classico di stampo inglese, che rifuggiva da ogni mezzo artificiale, si chiude per lasciare il posto all’età del ferro e della tecnica. Non senza polemiche, naturalmente: sulla liceità dell’uso del chiodo c’è un dibattito aspro, che vede da un lato i “puritani” come Paul Preuss, capace di scalare in libera assoluta il Campanile Basso, dall’altro chi è disposto a compromessi in nome della sicurezza o del “divertimento”. Naturalmente sarà quest’ultima posizione a trionfare, e da un timido uso delle corde e dei chiodi si passerà ben presto all’elaborazione di una vera e propria tecnica di arrampicata artificiale. Ma le polemiche sono anche legate alle sempre più accentuate rivalità nazionalistiche, che arriveranno all’esplosione con la prima guerra mondiale.

Ci sono due figure di alpinisti, entrambi marcatamente “italiani” che riassumono molto bene la coesistenza tra le diverse concezioni, le loro differenze e insieme il filo che le lega. E tanto più si prestano in quanto spesso e volentieri si ritrovano a scalare assieme.

L’alpinismo conservatore, rigorosamente praticato con le guide, concepito come pratica elitaria, è rappresentato da Guido Rey. Rey non può essere collocato tra i grandi alpinisti: o almeno, non è tra quelli che aprono vie e prospettive nuove. Arrampica con le guide (anche se quello di confessare la propria assoluta dipendenza dalle stesse appare un po’ un vezzo, perché in realtà compie alcune ascensioni non facili in solitaria) e mantiene un suo distaccato aplomb nei confronti della novità e della “trasgressione”, anche quando non disdegna il ricorso alle tecniche di arrampicata più recenti. È un pronipote dei Sella, “ricco e romantico”, come viene definito in una recente enciclopedia dell’alpinismo, che conosce prima e dopo il conflitto mondiale una grandissima fama, anche internazionale, tale da procurargli la qualifica di socio onorario dell’Alpine Club e la Legion d’Onore francese. La sua celebrità è legata senz’altro più ai suoi “récits d’ascension” che alle imprese in parete: opere come Alpinismo acrobatico (1914) sono per tutta una generazione alpinistica italiana l’equivalente di quel che rappresenta Fontana di Giovinezza per i tedeschi. Eppure, a rileggerle oggi, grondano retorica e lirismo declamatorio da ogni pagina, e non basta la giustificazione di un amore immenso per la montagna a riscattarle letterariamente.

Rey ha una concezione ottocentesca, aristocratica, dell’alpinismo. La montagna diventa nella sua rappresentazione un avversario mitico e proteiforme da sottomettere e l’alpinista un san Giorgio votato alla lotta e al sacrificio: la frase conclusiva della dedica di Alpinismo acrobatico: “Io credetti e credo nella lotta con l’Alpi utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede” (che tra l’altro è stata il motto del CAI fino alla fine del secolo scorso) riassume perfettamente i valori che Rey si porta appresso nello zaino e che, praticati necessariamente al livello più alto nel confronto con la montagna, segnano lo spartiacque tra l’eroe semidivino e l’uomo comune: “Montanvert è il vestibolo di uno dei templi più grandi e più venerati dell’Alpi: il punto di contatto, la frontiera tra una piccola oligarchia di alpinisti e una grande repubblica di non alpinisti […] lì si incontrano quelli che scendono dalle pericolose cime con quelli che salgono dalla valle senza alcun desiderio di arrivare più in alto”.

Ad incarnare il nuovo atteggiamento, ribelle, polemico e dissacratorio nei confronti di ogni tabù, nessuno invece meglio di Tita Piaz, una delle più famose, forse la più famosa in assoluto, tra le guide italiane delle Alpi orientali. Intanto Tita è una guida molto particolare: sceglie lui i clienti, invece di essere scelto, fa solo le ascensioni che gli piacciono e chiarisce da subito che il protagonista sarà lui[64]. Poi non esita di fronte a nulla, per arrivare a quello che gli preme. Dopo aver realizzato una traversata volante tra la torre di Misurina e la Guglia De Amicis, quest’ultima mai violata, aggrappato come una scimmia ad una corda sospesa, così commenta: “Non ho mai preteso di negare per lo meno la comicità di un tale sistema di scalare le montagne; non ho mai chiesto che esso venisse preso sul serio, ho riconosciuto il più ampio diritto di critica a tutti: ma per l’amor del cielo, non lapidatemi se una volta ho dimostrato praticamente come Darwin non avesse avuto torto a spendere la sua vita per costruire l’albero genealogico della specie umana, cominciando dai gorilla”. Col che si fa una risata di tutte le polemiche, ma dice anche che ormai il fine giustifica qualsiasi mezzo[65].

Piaz testimonia però anche l’uscita della rivalità italo-tedesca dai limiti di una competizione sportiva: un po’ perché da buon valligiano di Fassa sente fortissima la contrapposizione di confine tra le due culture (e tra i due nazionalismi); un po’ perché è proprio la sua indole a ribellarsi al “perbenismo” e alla mistica che la concezione germanica dell’alpinismo va propugnando. Sempre a proposito della guglia De Amicis scrive: “I filistei mi gridarono addosso il loro piccino livore di omuncoli. I puritani dell’alpinismo videro nella pazzesca scalata un pericoloso pervertimento sportivo. I rocciatori seri fecero dell’ironia, dichiarando l’impresa funambolismo da palestra, indegna di un rocciatore come Piaz, ma i più ameni furono i nostri pangermanisti purosangue, i maschi vestali dell’intero progresso umano, che vi scorsero un’inequivocabile manifestazione di irredentismo, e proposero alla Sezione Centrale dell’Alpenverein delle sanzioni esemplari contro un simile ribaldo […]”.

La “guerra” sul fronte alpino (e alpinistico) comincia quindi ben prima del 1915, non conosce interruzione durante le operazioni militari vere e proprie e prosegue poi, è il caso di dire “con altri mezzi” e a dispetto di tutte le alleanze e simpatie politiche, nel ventennio che intercorre tra i due conflitti. In un primo momento, e limitatamente alle Alpi Orientali, l’iniziativa rimane nelle mani degli alpinisti di lingua tedesca, che come abbiamo visto privilegiano l’arrampicata tecnica, su roccia, veloce e verticale, rispetto alle lunghe ascensioni su ghiacciaio. Sino alla guerra personaggi come Preuss e Dülfer saranno in questo settore i dominatori assoluti, rinunciando, secondo i dettami della “scuola di Monaco”, a servirsi delle guide dolomitiche, superando il quinto grado e realizzando imprese che rapportate all’epoca appaiono incredibili, il primo senza alcun ausilio artificiale, il secondo facendone un uso “eticamente” tollerabile. Ad essi rispondono sul fronte italiano Piaz e Angelo Dibona, che al di là della qualifica conservano ben poco della figura della guida, e sono invece ormai alpinisti professionisti. Per questo breve periodo il vecchio e il nuovo convivono ancora, come accade per molti altri aspetti della società e della cultura.

La guerra rallenta naturalmente l’attività alpinistica, ma non rappresenta solo una parentesi di sospensione: crea infatti le condizioni per un diverso rapporto delle masse con l’ambiente montano. Dispiegandosi il fronte italo-austriaco essenzialmente nell’area alpina orientale[66], centinaia di migliaia di uomini che non avevano mai visto prima una montagna vera da vicino vengono a contatto loro malgrado con le Alpi e scoprono luoghi di una bellezza incomparabile. L’esperienza e l’occasione non sono di quelle che invoglino, ma qualcosa del fascino delle Alpi si trasmette: maledette o rimpiante, entrano comunque di prepotenza nell’immaginario popolare. Inoltre, la rilevanza strategica di valli e montagne fino a quel momento quasi irraggiungibili produce una moltiplicazione dei collegamenti, la costruzione di strade carrozzabili, ponti, gallerie che renderanno successivamente queste zone accessibili allo sport e al turismo. Allo stesso modo, la necessità di facilitare l’accesso delle truppe a posizioni dominanti porta ad attrezzare numerosissime vie ferrate, aprendo ad un tipo di fruizione che dieci anni prima sarebbe sembrata disonorevole e scandalosa.

Nell’immaginario patriottico entrano certamente, sotto l’impulso della propaganda bellica, le truppe di montagna, che per preparazione, addestramento e spirito di corpo costituiscono l’élite delle forze armate dell’uno e dell’altro schieramento. Nel corso delle ripetute offensive vengono compiute da ambe le parti imprese alpinistiche notevoli, che al pari di quelle aviatorie si prestano in modo eccellente all’uso propagandistico: i protagonisti sono individui eccezionali che operano in contesti speciali, lontani dal carnaio degli assalti frontali e dal fango e dalla rassegnata disperazione delle trincee. L’eroe più celebrato nell’epopea austriaca del dopoguerra, assieme al Barone Rosso, è Sepp Innerchofler, un alpinista di prim’ordine che viene ucciso al termine di una scalata quasi impossibile compiuta per sorprendere alle spalle gli italiani. E al quale, peraltro, i nemici stessi che lo hanno abbattuto, i nostri alpini, tributano l’onore delle armi andando a recuperarne il corpo, e rischiando a loro volta la pelle, per poterlo seppellire sul monte Paterno, teatro della sua performance. È un residuo di cavalleria che fa della “guerra bianca” una guerra speciale, reso possibile dal fatto che a fronteggiarsi sono uomini che molto spesso si conoscono, se non di persona almeno di fama, e si stimano, perché amano in fondo le stesse cose. L’ambiente in cui operano si presta poi all’azione individuale o di piccoli gruppi, e impone lunghe pause tra un’azione e l’altra, o soste invernali di mesi e mesi. In esso si muovono alpinisti del calibro di Andreoletti, Giuseppe Gaspard, Gunther Langes e Antonio Berti, e le azioni militari diventano spesso delle vere e proprie performances di arrampicata[67]. Questi personaggi, queste imprese, lasciano una traccia indelebile nell’ambiente alpinistico del dopoguerra, soprattutto in quello germanico, fornendo dei modelli di riferimento nei quali il valore sportivo e la determinazione individuale si coniugano opportunamente con il senso della disciplina e con quello dell’appartenenza nazionale[68].

Le elevate quote altimetriche toccate dalla linea del fronte comportano di combattere in condizioni fisiche, ambientali e meteorologiche estreme, alle quali in precedenza era ritenuto impossibile sopravvivere. In inverno i combattimenti cessano quasi del tutto e la lotta contro il maltempo e gli assideramenti è assai più importante della lotta stessa contro il nemico. I combattenti incappano anche, per colmo di sfortuna, in due inverni tra i più freddi e nevosi del secolo, e sono impegnati a difendersi dalla neve, a guardarsi dalle valanghe e a mantenere i collegamenti con il fondovalle per non lasciar venir meno i rifornimenti di cibo e di legna. Si organizzano con la costruzione di baracche, di ricoveri, di caverne nella roccia e di teleferiche per i rifornimenti, o addirittura, come fanno gli austriaci, costruendo sotto il ghiacciaio della Marmolada chilometri di gallerie e ricoveri per uomini, viveri e munizioni, nei quali la temperatura si mantiene attorno allo zero anche quando all’esterno ci sono venti gradi di meno.

Le esigenze militari inducono inoltre a lasciar cadere ogni pregiudiziale antitecnicistica e ad adottare una mentalità performativa: in guerra ciò che importa è il risultato, e a tal fine viene fortemente incrementata la ricerca di soluzioni tecniche. Sotto il profilo militare, questo significa che alla natura non viene risparmiato proprio nulla, e le montagne sono sfregiate in ogni modo, bucherellate da gallerie e camminamenti, tagliate da trincee, incatenate da reti di teleferiche, devastate da bombardamenti e scoppi di mine che in alcuni casi cambiano per sempre il volto del paesaggio. Applicato all’alpinismo si traduce da un lato in innovazioni o miglioramenti nell’equipaggiamento, attraverso lo studio dei materiali (corde, chiodi, ramponi, piccozze, abbigliamento, sistemi di assicurazione, alimentazione), dall’altro in nuovi sistemi di rilevazione e nell’aggiornamento della cartografia.

Ma non è tutto: l’esperienza bellica produce conseguenze anche sul piano psicologico. Per chi ha vissuto per anni esposto ad un livello di rischio altissimo e continuativo la percezione delle soglie cambia drasticamente: quello che era ritenuto insensato ed inaccettabile fino a dieci anni prima viene ora affrontato senza remore, anzi, con una sorta di euforia.

Infine, tramonta completamente un costume, quello del ricorso alle guide. Il conflitto segna infatti la fine della loro epoca d’oro: la crisi economica del dopoguerra dirada quella clientela facoltosa e insieme capace e motivata che aveva animato sin dagli esordi l’alpinismo, e lo aveva anzi reso possibile. Per l’economia alpina legata al turismo di ascensione è un bruttissimo periodo, che verrà superato solo nella seconda metà degli anni trenta, quando farà la sua comparsa un nuovo modello di fruizione della montagna, quello dello sci e del turismo di massa.

 

La guerra con l’Alpe

Ciò che accade dopo il primo conflitto mondiale ha qualcosa al tempo stesso di epico, di tragico e di sconcertante. Si parla di “alpinismo eroico”, ma si pensa ad una forma di esaltazione talvolta prossima all’invasamento. Il modello vittoriano dell’alpinismo colto e aristocratico, per il quale “andare in montagna è uno sport, come la pesca e la caccia, come il cricket o il canottaggio” (Leslie Stephen), è definitivamente accantonato a favore della sfida all’impossibile e della ricerca della “bella morte” lanciate dalla scuola di Monaco. Gli inventori del rapporto sportivo con la montagna, gli inglesi, si ritraggono da una competizione che stravolge ogni precedente assunto etico. Continuano a frequentare le Alpi come terreno di allenamento, anche ad alto livello: ma il loro interesse e le loro ambizioni si sono già spostati altrove. Per motivazioni analoghe, rafforzate dalle resistenze “corporative” opposte dalle guide locali, appaiono defilati anche i francesi e gli svizzeri, che non accettano di buon grado il trasferimento del modello dolomitico nei santuari storici dell’alpinismo, le guglie e le pareti nord del gruppo del Bianco e dell’Oberland.

Sul “terreno di gioco” rimangono dunque i germanofoni e gli italiani. L’attività da parte degli alpinisti austriaci e tedeschi diventa frenetica, quasi a cercare una sorta di rivincita rispetto alla perdita di una vasta area alpina e a riaffermare, soprattutto a se stessi e a dispetto di una sconfitta ritenuta sleale (la pugnalata alle spalle), il convincimento di una superiorità razziale, nazionale e culturale. Sono loro, cresciuti alla scuola del “mordi e fuggi”, dell’arrampicata pura, tecnica, veloce e marcatamente competitiva, a interpretare un nuovo tipo di rapporto con la montagna e a dettarne le regole.

L’esasperazione nazionalistica contagia anche l’alpinismo italiano, che non avrebbe in realtà nulla da riscattare, ma si impegna in una competizione a tratti persino rabbiosa con quello germanico. Sotto il profilo sportivo i risultati di questa rivalità sono indubbiamente eccezionali, con un numero impressionante di vie nuove di estrema difficoltà collezionate da un gruppo di fuoriclasse dell’arrampicata[69]: ma sul piano della cultura alpinistica il discorso cambia. Il Club Alpino Italiano è uno dei primissimi sodalizi ad essere fagocitati nell’orbita della politica del regime fascista. Pur senza arrivare ai deliri mistico-eroici dell’omologo tedesco, l’alpinismo ufficiale italiano fa proprie le istanze nazionalistiche del regime, la vena di rivalsa legata alla “vittoria mutilata”, la chiamata della gioventù all’ardimento e al sacrificio: e nemmeno si astiene dalle notazioni razziste. C’è persino un’elaborazione autoctona delle teorie razziali e superomistiche, quella incarnata da Julius Evola, che affonda le radici in un esoterismo più raffinato rispetto a quello tedesco, ed attinge pertanto anche nei confronti dell’alpinismo ad esiti meno devastanti: ma è un modello che tanto per scelta quanto per necessità rimane confinato a pochi “iniziati”[70].

Per quanto concerne il DÖAV, abbiamo già visto come non solo i suoi indirizzi siano in linea con le finalità del regime nazista, ma addirittura le abbiano anticipate e in qualche modo anche create. In un articolo comparso agli inizi degli anni venti sul suo organo ufficiale si legge: “L’alpinismo fu una scuola dura e seria in preparazione della guerra. La piccozza e lo scarpone sul campo di battaglia furono altrettanto importanti del fucile e della baionetta”. È una sintesi perfetta di quello che il nazismo chiederà.

L’avvento dei regimi totalitari favorisce e stimola dunque, dall’una e dall’altra parte, l’uso strumentale dell’alpinismo a sostegno delle ideologie razziali e imperialistiche sulle quali gli stessi si fondano. Ma c’è un terzo fattore che entra in gioco nella costruzione del modello della nuova società totalitaria, e che coinvolge di sponda l’ambiente alpinistico: è la crescente “sensibilità ambientale”, destata degli sconquassi ormai evidenti della rivoluzione industriale, che nasce nei paesi anglosassoni ma in Germania ha una sua particolare declinazione. Non è un caso che sia un tedesco, e che sia proprio Ernst Haeckel, considerato uno dei teorici fondatori del razzismo germanico[71], ad introdurre il termine “ecologia”[72].

Nel sostrato ideologico comune ai due fascismi (con tutte le distinzioni e le differenze qualitative e quantitative del caso), al mito del sangue (Blut) si sposa infatti quello del suolo (Boden), inteso quest’ultimo sia come imperativo del ripristino dei “sacri confini” della patria (e qui i due regimi vengono a confliggere, perché esistono aree territoriali per le quali le rivendicazioni si sovrappongono) sia come impegno alla valorizzazione del territorio e incentivo al radicamento dei suoi abitanti. Nel caso italiano il fascismo persegue una “valorizzazione” più prosaica, finalizzata a recuperare alla produttività vaste zone incolte o sottoutilizzate (la politica delle bonifiche, il mito dell’autarchia); in quello tedesco c’è un’accezione più “arcadica”, legata appunto alla diffusione di una mentalità proto-ecologista, ad un vincolo più tradizionalmente radicato con la terra d’origine, che comporta un’attenzione particolare all’ambiente.

È significativa in questo senso la presenza ai vertici del Reich di un ministro dell’agricoltura come Walther Darré, che nel testo “La nuova nobiltà di sangue e suolo” del 1930 (Neuadel aus Blut und Boden), teorizza un rinnovamento spirituale e razziale tramite una riconversione all’economia agraria, il distacco dall’industria e il ritorno ad un rapporto più diretto con la natura[73]. In pratica Darré vagheggia il ripristino delle condizioni economiche e ambientali precedenti la rivoluzione industriale, che è esattamente il contrario di quanto vorrebbe Mussolini. La sua posizione alla fine risulta sconfitta, perché anche il Terzo Reich punta decisamente a riconquistare la supremazia industriale: ma per intanto la politica “ruralista” di Darré si concretizza nella destinazione di una notevole fetta del territorio tedesco ad area naturalistica protetta (viene rimboschita, ad esempio, e in buona parte completamente reinventata la Selva Nera, attraversata da una miriade di percorsi escursionistici) e in una speciale attenzione verso le zone per eccellenza incontaminate, quelle montane. Ne consegue naturalmente che su queste zone vada rivendicato un diritto: e il diritto si acquisisce non solo conquistando le vette, ma vincendone ogni resistenza, ogni spigolo e ogni parete.

Mentre l’attenzione per l’alpinismo in Germania è motivata dalla combinazione di tutti questi fattori (educazione alla virilità, componente razziale, preparazione militare, superomismo e diritto al dominio, sensibilità ambientale), e quindi rispecchia un sentire in qualche modo diffuso, in Italia, per la natura comunque elitaria dell’associazionismo alpinistico e per la situazione di ritardo economico, gli elementi di base per una sensibilizzazione popolare nei confronti della montagna (e della natura in genere) mancano totalmente[74]. Al di là di qualche isolata iniziativa per allargare alla massa la pratica alpinistica[75], la politica del regime si risolve principalmente nell’uso cerimoniale delle vittorie (le medaglie d’oro) e in quello propagandistico dei personaggi. L’attenzione mediatica riservata agli alpinisti è tra le due guerre pari a quella per i ciclisti, per i calciatori e per i giganti del ring.

Il fatto è che sulla percezione della montagna continua a pesare in Italia una radicata ambiguità. In un paese che vanta quasi ottomila chilometri di coste, e nel quale la distanza dalla spiaggia più vicina è raramente superiore ai duecento chilometri, è naturale che il divertimento e la vacanza si identifichino col mare. L’Italia è però anche un paese innervato da oltre duemila e cinquecento chilometri di massicci e di catene montuose, che occupano il 35% del territorio: eppure l’associazione della montagna con l’idea del divertimento è solo recente, ed è legata quasi esclusivamente agli sport invernali. La montagna non sciistica, estiva, quella che consente a tutti di praticare di un minimo di alpinismo, rappresenta nella prima parte del Novecento un tipo di vacanza ancora elitario, riservato a ceti benestanti e colti. E fino alla metà del secolo l’immagine della montagna rimane addirittura associata a necessità di salute (diffusione di sanatori o di stabilimenti di cure termali) e quella dei suoi abitanti a carenze psichiche o a deformità congenite.

L’alpinismo eroico italiano degli anni trenta è quindi in buona misura un’operazione d’immagine. A differenza di quanto accade in Germania, dove la strumentalizzazione è forse ancor più marcata, ma gioca su una forma di partecipazione diffusa, di consonanza già acquisita, l’icona dello scalatore indomito e temerario, incurante del rischio, votato alla vittoria o alla morte, non rispecchia il sentire e tantomeno l’essere degli italiani. Più che indurre all’emulazione, funge come altre immagini sportive da motivo di consolatorio orgoglio: anche un popolo di piagnoni trova sempre un Bartali o un Carnera che lo riscatta. La “lotta con l’Alpe”, che già era bandita da Guido Rey in una versione molto meno esasperata rispetto a quella teutonica, viene poi interpretata con sfumature diverse dai più forti alpinisti italiani degli anni trenta, o almeno dai più famosi: Comici, Boccalatte e Gervasutti.

Emilio Comici non è un “vitalista” faustiano dello stampo di Lammer, anche se molte frasi del suo “Alpinismo eroico” parrebbero scritte dal tedesco: “È bello, immensamente bello arrampicare tutto libero, su una parete che strapiomba, vedere fra mezzo alle tue gambe il vuoto, e sentirsi di poterlo dominare con le tue solo forze. Io quando arrampico da solo guardo sempre in giù per inebriarmi del vuoto, e canto dalla gioia. Se non ho fiato per cantare, perché il passaggio difficile me lo stronca, allora il canto continua muto nel mio interno[76]. È piuttosto un esteta. Ama la plasticità del gesto, e nelle foto che lo ritraggono in azione si coglie una ricerca plateale di teatralità: “Io intendo l’alpinismo soprattutto come arte… come, per esempio, la danza o, se vuoi, l’arte del violino… Perché se sei padrone assoluto della tecnica dell’arrampicare, puoi facilmente dare espressione ai tuoi sentimenti, proprio come nella musica e nella danza”. La sua vis teatrale, frutto paradossale di introversione e sensibilità, lo rende perfettamente idoneo a incarnare il supereroe da stampa popolare nel quale l’uomo della strada vorrebbe identificarsi, capace di imprese e di uno stile di vita sempre al limite (almeno per i parametri del tempo), che nella versione italiana non esclude anche un contorno di soldi e bella vita. Comici è forse il primo alpinista italiano a monetizzare i suoi successi e l’immagine di “uomo ragno” che gli è stata costruita addosso, collezionando conferenze e sponsorizzazioni: il che lo fa entrare in una dimensione totalmente nuova, quella dell’alpinismo professionistico.

Gabriele Boccalatte parrebbe dei tre quello maggiormente ancorato al modello ottocentesco, mentre in realtà l’assoluta libertà dagli schemi e la naturale leggerezza del gesto ne fanno un precursore degli arrampicatori contemporanei[77]. Non è un asceta dell’alpinismo, e nemmeno un superuomo; ha una vita completa, è un concertista di buon livello e arrampica molto spesso con la sua compagna, Ninì Pietrasanta. Non gli interessano le prime o le ripetizioni difficili per sé, vuole solo che si tratti di salite belle. Il suo è un estetismo interiore, tanto quanto quello di Comici è esteriore[78].

Gervasutti rappresenta invece la potenza, la forza della volontà. “Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio[79]. Arriva dalle Dolomiti e porta nelle Alpi occidentali una tecnica che fa invecchiare immediatamente tutti i vecchi parametri di difficoltà. Ha una personalità difficile, tormentata, irrequieta: al termine di una delle sue imprese più eclatanti scrive: “[…] ci stendiamo al sole. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai”. Gervasutti è quello che in maniera più convinta accetta e vive la sfida con i tedeschi, a partire da quella persa sulla Nord delle Grandes Jorasses. Diventa l’alfiere dell’alpinismo italiano anche fuori dai “sacri confini”, andando ad arrampicare e ad aprire nuove vie nelle Alpi francesi e a salire vette inviolate sulle Ande. Lo fa coniugando le proprie motivazioni interiori con quelle politiche e propagandistiche del regime fascista: “Noi viviamo di sensazioni, intese nel senso più nobile della parola. Ognuno ha le proprie, altrimenti la vita sarebbe inutile e vuota. Ma per vivere compiutamente bisogna pure arrischiare qualcosa. Il Duce ha insegnato così”.

Nell’uso propagandistico di queste figure il regime non incontra granché resistenza. In qualche caso approfitta del disinteresse degli alpinisti per la politica, in qualche altro del loro sincero consenso. Non tutti però si lasciano strumentalizzare. Vedremo che c’è chi non nasconde il proprio dissenso, come Riccardo Cassin, chi rifiuta di essere coinvolto nella fiera celebrativa, come Ettore Castiglioni, e chi semplicemente va per la propria strada, come Giovan Battista Vinatzer, rinunciando ad ogni notorietà e conquistandosi, forse proprio per questo, la stima e la simpatia di tutti coloro che arrampicano con lui. Tutto sommato, trattandosi di un ambiente particolare, caratterizzato da un livello culturale molto alto e da un sentire sensibilissimo alla libertà e all’indipendenza personale, la reazione all’allineamento agli scopi del regime potrebbe sembrare sin troppo tiepida: ma non credo si possa parlare, al di là della fascistizzazione del sodalizio ufficiale, di una reale acquiescenza. Per il momento gli alpinisti il loro spazio di libertà se lo ritagliano individualmente sulle montagne: quando verrà il momento, sempre sulle montagne, sapranno anche difenderlo.

La strumentalizzazione politica dell’alpinismo non ne fa in Italia una pratica diffusa a livello popolare, come è da sempre in Austria o è divenuta dai primi del Novecento in Germania, mentre crea senza dubbio uno zoccolo di scalatori di ottimo livello e impone, sotto la pressione del confronto e nell’urgenza di sbandierare risultati, una mentalità alpinistica per certi aspetti sin troppo prosaica e disinvolta. La base dei praticanti si allarga, in termini sia numerici che di coinvolgimento sociale o territoriale, ma la distanza tra un’eccellenza ormai semiprofessionistica e la truppa dei dilettanti risulta ancor più marcata. L’alpinismo italiano non ne esce insomma con una identità forte: ma questo non fa che rispecchiare la natura di un popolo da sempre individualista e anarcoide.

Il bagaglio tecnico maturato da tedeschi e italiani nella zona dolomitica viene dunque trasferito alla fine degli anni ‘20 sulle grandi montagne occidentali e all’arrampicata su ghiaccio. L’antesignano di questo trasferimento è Willo Welzenbach, senza dubbio il più forte alpinista tedesco tra le due guerre, che dopo essersi fatto le ossa sulle vie di misto delle Alpi orientali si volge all’Oberland Bernese e dà inizio ad una straordinaria campagna di superamento delle pareti nord. Al di là delle sue straordinarie capacità alpinistiche, Welzenbach è emblematico del nuovo spirito tedesco, proprio perché tra tutti i protagonisti di questa breve ed intensa stagione appare il più equilibrato, il meno emozionalmente squinternato. Eppure quest’uomo, che ha un regolare lavoro e quattro settimane di ferie l’anno, in quindici anni di attività sale 949 cime e compie 43 nuove ascensioni, queste ultime tutte di eccezionale livello. Significa aver dedicato alla montagna tutti i fine settimana e tutti i giorni di ferie, estate e inverno, con la pioggia o col bel tempo, averne fatto il significato unico dell’esistenza. Significa anche aver minuziosamente programmata la propria attività, aver redatto piani stagionali delle salite, quote di risultati da ottenere, calcoli di dislivelli e di difficoltà. A questo proposito, Welzenbach è anche il primo a proporre una scala delle difficoltà (quella appunto che contempla una progressione sino al sesto grado). Un approccio alla montagna a questo punto lucidamente pianificato, ma al di sotto del quale c’è una concezione non meno forsennata di quella di Lammer. Involontariamente, Welzenbach suggerisce un po’ l’idea di quella che sarà la follia lucidamente perseguita dalla Germania hitleriana (che peraltro si manifesta anche direttamente in campo alpinistico, con le spedizioni al Nanga Parbat).

La progressione in artificiale e l’uso di nuovi materiali (soprattutto i chiodi da ghiaccio) consentono a lui e ai suoi numerosissimi emuli di superare limiti risalenti all’epoca di Mummery e di restringere velocemente il campo a quelli che vengono definiti gli ultimi grandi problemi delle Alpi: le pareti Nord del Cervino, delle Grandes Jorasses e dell’Eiger. Con gli anni Trenta ha inizio pertanto una gara esaltante e dissennata, che rischia di trasformare la passione alpinistica in una folle corsa al suicidio, ma che produce anche performances davvero degne del Walhalla.

Prima a cadere è la Nord del Cervino, che viene salita nel 1931 dai fratelli austriaci Franz e Toni Schmid. Nella loro storia c’è tutto l’alpinismo anni Trenta, tutta la sua distanza dal vecchio “gioco” un po’ snobistico dei viaggiatori inglesi. I due fratelli arrivano da una discreta pratica dolomitica, ma non hanno alle spalle un curriculum particolarmente significativo. Caricano sulle loro biciclette tutta l’attrezzatura, peraltro piuttosto datata, partono da Monaco di Baviera, arrivano dopo tre giorni a Zermatt (sotto la pioggia), salgono per la Nord con un solo bivacco (ancora con condizioni atmosferiche avverse), ridiscendono fradici sino al bivacco (dove dormono per due giorni mentre fuori infuria la tempesta), riguadagnano Zermatt, inforcano nuovamente le biciclette e tre giorni dopo (pedalando sotto la pioggia) sono nuovamente a Monaco. È difficile stabilire se siano stati più bravi o fortunati, dal momento che la via percorsa si sviluppa sotto un’incessante gragnuola di pietre, e che ad un certo punto si sono cacciati in una situazione di non ritorno, dalla quale cui l’unica via d’uscita è la vetta: ma indubbiamente il piglio, la determinazione, la rapidità, il coraggio anche incosciente col quale la salita è effettuata si prestano a creare un modello, tanto nuovo quanto pericoloso. E in effetti, malgrado non siano neppure i primi, la risonanza dell’impresa è enorme, e gli imitatori fioriscono a frotte.

Il prossimo fronte sul quale questi ultimi possono cimentarsi è la Nord delle Grandes Jorasses: a partire dal 1931 la parete è oggetto di innumerevoli attacchi, da parte di cordate francesi, austriache ed italiane. L’assalto è tutt’altro che incruento. Nel 1934 quattro cordate, una italiana con Gervasutti e Chabod, una francese ed una tedesca si trovano contemporaneamente in parete, impegnate a scavalcarsi reciprocamente per toccare per prime la cima. Quando il tempo volge al peggio tre abbandonano, mentre quella tedesca persiste nel tentativo, “fortemente decisa – come scrive Renato Chabod –, a imprimere sulla sconfitta parete la croce uncinata”. Uno degli alpinisti, Rudolf Haringer, viene tramortito da un fulmine e precipita; l’altro, Rudolf Peeters, rimane in parete sei giorni e viene salvato in extremis, ma ci riprova l’anno successivo, e stavolta arriva in vetta con Martin Meier. Il loro successo non viene riconosciuto da tutti, perché la via seguita non conduce direttamente alla cima principale. Ci pensano tre anni dopo gli italiani Cassin, Tizzoni ed Esposito a tracciare l’itinerario diretto lungo lo sperone Walker.

Rimane la terribile parete Nord dell’Eiger, che per gli alpinisti austriaci e tedeschi diventa una vera ossessione, alimentata dalla propaganda del regime nazista, e che esige uno spropositato tributo di sangue. In tre anni ci sono sette morti appesi in parete, e il comitato centrale del club alpino svizzero arriva ad annunciare che le guide non saranno tenute a soccorrere eventuali alpinisti in difficoltà. Nel 1936, dopo che altri tre tentativi si sono conclusi in tragedia, è la volta di due giovanissimi alpinisti bavaresi, Andreas Hinterstoisser e Toni Kurz, che hanno a lungo preparato l’impresa e ci provano durante una licenza. Trovano in parete un’altra coppia, due scalatori austriaci, e decidono di salire di conserva, mentre in tutta la Germania la radio di Goebbels propone in diretta quello che dovrà essere il trionfo dei “ragazzi del Reich”. Si mette male subito, il tempo e la montagna si mostrano inclementi, ma gli scalatori non ripiegano. L’epilogo è tragico per tutti e quattro, con l’ultimo che rimane appeso per giorni, in agonia, a pochi metri dai soccorritori che non riescono a raggiungerlo. Solo due anni dopo la parete è scalata da una cordata mista tedesca ed austriaca, della quale fa parte Heinrich Harrer.

Alla fine degli anni trenta i più importanti ed evidenti “problemi delle Alpi” sono di fatto risolti. L’alpinismo classico è già tramontato da un pezzo: la guerra verrà a porre fine anche a quello “eroico”. I “problemi”, per un bel pezzo, saranno altri.

Mentre l’alpinismo classico è iconograficamente narrato da immagini statiche, pittoriche o fotografiche che siano, in armonia tutto sommato con la plasticità dell’ambiente, a partire dal primo dopoguerra l’immaginario collettivo della montagna è dettato, prima ancora che dai libri di Lammer, sempre più dal cinema. I primi documenti cinematografici relativi a scalate arrivano già assieme al nuovo secolo. Dai brevissimi spezzoni girati nel 1901 sul versante svizzero del Cervino si passa in dieci anni a veri e propri documentari, realizzati portando sin sulla vetta della montagna una ingombrantissima attrezzatura del peso di oltre trenta chili[80]. Nel frattempo Vittorio Sella racconta con la cinepresa la spedizione del Duca degli Abruzzi al K2 (1909). Si tratta inizialmente di documenti destinati ad una utenza molto ristretta: nelle produzioni mirate al consumo popolare il materiale girato negli ambienti montani si riduce a poco più che cartoline turistiche, nelle quali le montagne fungono solo da pretesto e da sfondo: ma per intanto, il solo ingresso del cinema nel regno dei ghiacciai e della roccia calcarea ne cambia la percezione.

Una divulgazione più ampia di immagini cinematografiche alpine è indotta durante il conflitto dalla propaganda bellica: la documentazione cinematografica militare privilegia il realismo di sentieri, salite, cordate, ecc., e forma una nuova generazione di fotografi e cineasti che imparano a lavorare in alta quota. Non a caso, dopo la guerra ci sarà soprattutto in area tedesca una notevole fioritura della filmografia di montagna.

A partire dagli anni Venti, infatti, registi come Arnold Fanck, con Il monte del destino del 1924, e La montagna sacra del 1926, e soprattutto Luis Trenker (che esordisce come attore nei film di Fanck e interpreterà anche tutti quelli realizzati come regista), a partire da Montagne in fiamme, del 1931 fino a Il grande ribelle, del 1933 – che tra parentesi piace molto a Goebbels e allo stesso Hitler – e poi a La grande conquista del 1938 e a Il ribelle della montagna del 1939, sviluppano accanto ai temi mielosi del “repertorio” montano quello della mistica dell’eroismo alpino, che si incontra con quella dell’eroismo militare. Le immagini di alpinisti indomiti, che affrontano la furia degli elementi e il rischio estremo per far trionfare su terrificanti pareti di ghiaccio e di roccia la propria volontà di conquista, sono perfettamente congeniali all’ideologia e alla propaganda naziste. Ma si va anche oltre. In un film di Trenker rievocativo della conquista del Cervino, La sfida, si avalla la versione secondo la quale Whymper avrebbe tagliato la corda che reggeva i suoi quattro compagni. In un colpo solo si scredita tutto l’alpinismo britannico dell’età dell’oro.

Il cinema è giustamente considerato da Goebbels l’arma propagandistica più efficace, e questo induce il regime a patrocinare direttamente i bergfilm e a mettere a disposizione risorse finanziarie, pubblicitarie e umane straordinarie. Trenker e Leni Riefensthal, ottima alpinista e protagonista fissa dei film di montagna, prima di diventare lei stessa regista, sono forse gli attori più popolari del cinema tedesco tra le due guerre. Dal punto di vista spettacolare si tratta di opere di sicuro effetto, con immagini girate direttamente in parete e con l’utilizzo di mezzi tecnici d’avanguardia per l’epoca. Ma i costi non sono soltanto finanziari, perché durante la lavorazione la percentuale degli incidenti, spesso mortali, è altissima.

Nella promozione della versione eroica della montagna non troviamo, a differenza che nella prima metà dell’Ottocento, la pittura. Le ragioni sono evidenti: l’immaginario visivo è ormai determinato da altre fonti, quelle che abbiamo sopra descritte, l’illustrazione, la stampa, i calendari, ma soprattutto, verso la fine del secolo, la fotografia. Ciò non toglie che nella seconda metà dell’800, e fino almeno alla prima guerra mondiale, ci sia una vera e propria esplosione di pittura di montagna, eguagliata per quantità forse solo dalle marine. La veduta montana, l’ambientazione alpestre rispondono ai gusti estetici della società borghese, oltre ad offrire anche ai pittori amatoriali un’infinità di soggetti di facile effetto. Si diffonde quindi quella produzione di maniera che riempirà i salotti buoni delle famiglie benestanti, allo stesso modo in cui le stampe o le illustrazioni dei calendari riempiranno le case delle classi meno abbienti. Anche il manierismo riesce comunque ad esprimere autori ed opere di notevole livello, sia quando interpreta col filtro di Ruskin la sacralità estetica della montagna (la produzione anglosassone, e soprattutto Elija Walton) sia quando accetta la sfida del realismo fotografico esaltando le luci e i colori, come nel caso della paesaggistica elvetica e del vedutismo di Alexandre Calame.

Al di là di questo, però, si opera una trasformazione nella pittura di montagna, ed è l’alpinismo stesso ad indurla. Una volta violate e conquistate, o rese facilmente accessibili dai nuovi mezzi di trasporto, le vette non sono più le stesse, non trasmettono gli stessi sentimenti. Non c’è più spazio per il titanismo romantico, che in fondo si crogiola nella sconfitta, mentre adesso sono le vette a cadere. Viene meno anche il gusto dell’esotico e del pittoresco, perché le montagne sono ormai uno spettacolo alla portata di tutti. Per quanto concerne il realismo documentario c’è la concorrenza della fotografia, che anche nei limiti imposti dal bianco e nero fornisce una documentazione incomparabilmente più ampia e più puntuale nel dettaglio. Viene intrapresa quindi la via di una ricerca cromatica o di forme che prescinde da finalità di rappresentazione informativa o emozionale, e al limite anche dal soggetto stesso rappresentato. Lo si vede soprattutto in Arnold Böcklin. Le montagne tornano a caricarsi di simbologie, come in Friedrich, ma in questo caso sono simbologie oscure e inquietanti.

Più solare è invece, al di qua delle Alpi, Giovanni Segantini, che utilizzando i colori puri del divisionismo restituisce l’atmosfera dell’alta montagna, le tonalità nitide e chiare di cieli e nevai. Sotto una superficie distesa e composta la sua pittura è però densa di malinconia: nel famoso trittico “Nascere, vivere, morire” la primavera, l’estate e l’inverno della vita sono rappresentati attraverso i mutamenti stagionali dello scenario e delle semplici e primitive occupazioni dei contadini, ma la cornice montana rimane silenziosa spettatrice sullo sfondo, estranea al tempo che scorre in primo piano: un simbolismo giocato proprio sul racconto fatalisticamente oggettivo della quotidianità.

Il passaggio finale si ha con Ferdinand Hodler: anche a lui preme raccontare il destino degli uomini, ma lo fa o stagliandoli contro una luce naturale quasi magica, o addirittura progressivamente escludendoli dall’immagine e cogliendo l’insieme della montagna in un’unica linea, attraverso la caratteristica ricorrente del ripetersi di forma e colore, secondo un suo personale “principio del parallelismo”: il che ci riporta alle origini, a Giotto, e chiude il cerchio[81].

Dopo, infatti, c’è l’astrattismo, che con le montagne non ha più nulla a che vedere. O meglio: non ha a che vedere con quello di cui abbiamo parlato sinora, mentre potrebbe rappresentare benissimo ciò che oggi è diventata la montagna, e lo sguardo col quale la si coglie.

Il processo che aveva avuto inizio centosessant’anni fa all’Egyptian Hall di Londra, dove Albert Smith esponeva il suo diorama dell’Ascensione al monte Bianco, è arrivato a compimento oggi con la possibilità di attraversare tutto il massiccio del Bianco senza fare un passo. La funivia più alta del mondo consente di arrivare con un’ora di viaggio dall’aeroporto di Caselle alla stazione di partenza, e di essere un’ora dopo ad oltre quattromila metri, su una terrazza panoramica con vista sulla vetta. La montagna che ci viene incontro mentre stiamo seduti nella cabina è non solo addomesticata, ma piena di cicatrici, segnata da impianti di risalita, ristoranti, rifugi, alberghi, parcheggi di fondovalle, bivacchi d’appoggio, strade di servizio. La sua fisionomia è stravolta, i suoi scenari si stanno velocemente standardizzando, come tutto il resto del nostro mondo e delle nostre vite. Si può scendere sulla vetta del Cervino da un elicottero, anziché salirci lungo la Cresta del Leone. L’idea di montagna sulla quale si fondava l’alpinismo, che al netto di tutte le intenzioni delle quali la si caricava aveva un fondamento quanto mai concreto, solido e immutabile, è diventata un’astrazione. Certo, esistono anche luoghi quasi incontaminati, ma proprio per questo sono meta sempre più frequente di chi ancora si illude di sfuggire all’omologazione, e nel farlo se la porta appresso e ne diventa lo strumento. Si ripete su scala di massa quel che è avvenuto nell’ottocento per piccole élites. L’alpinismo non è certo il maggior responsabile di questo scempio: ne è anzi inorridito, e per quanto possibile cerca di frenarlo. Ma è altrettanto vero che ne è stato, per oltre un secolo, l’avanguardia.

Questo, e tutto il resto, ciò che accade dopo l’Eiger attorno e sopra le montagne, non rientra più nostro racconto. La mia introduzione alla storia dell’alpinismo potrebbe tranquillamente chiudersi qui, con il confronto tra due scuole di pensiero (e soprattutto d’azione) che a lungo si fronteggiano e cedono poi entrambe il passo al nuovo. Il nuovo sono le sponsorizzazioni, la performance fine a se stessa, gli ottomila con l’ossigeno prima, senza ossigeno dopo, le concatenazioni a raffica di vie, le salite di corsa al Cervino e le discese con gli sci dall’Everest, fino all’arrampicata libera sulle facciate dei palazzi. Non è di questo che volevo parlare.

Aggiungerò quindi, per dovere di completezza, una breve appendice sul ruolo della montagna nella seconda guerra mondiale e sugli ultimi sessant’anni di alpinismo, ma sarà pura cronaca. In effetti, soprattutto quest’ultima parte non mi interessa molto. La mia concezione dell’alpinismo è rimasta ferma a un secolo fa, a quella di Mummery; il mio modello umano di alpinista è Kugy: l’alpinismo è anche una pratica sportiva, ma è soprattutto un piacere, e per essere tale non deve cercare il pericolo eccessivo, deve calcolare le difficoltà, e utilizzare più che la forza l’intelligenza e la forza di volontà. Se praticato in questo modo, non ha bisogno di cercare motivazioni e di darsi un’etica: le porta già con sé.

 

La morte dell’impossibile

Per un paio d’anni, verso la fine del secondo conflitto mondiale, “salire in montagna” assume un significato ben diverso da quello sportivo o turistico. La montagna, e le Alpi soprattutto, diventa la zona operativa delle formazioni partigiane, un rifugio per renitenti e sbandati, una via verso la salvezza per ebrei e oppositori del regime che cercano scampo in Svizzera.

A differenza che nel primo conflitto le Alpi sono solo per un brevissimo periodo scenario di una guerra regolare, e questo a dispetto della intensa preparazione che a partire dal 1935 il regime fascista da un lato e il governo francese dall’altro avevano avviato. La lezione della grande guerra, nella quale le formazioni alpine altamente specializzate avevano svolto un ruolo cruciale, ha indotto infatti gli stati maggiori a ripensare le strategie difensive. Tutta la zona di confine è stata attrezzata sui due versanti con opere di fortificazione e sono state rese accessibili anche le postazioni più impervie. Sul piano dell’addestramento specifico delle truppe, nel 1935 è stata aperta la scuola militare di alpinismo di Aosta, mentre in Francia già funzionava dal 1932, a Chamonix, l’École de Haute Montagne (EHM).

La militarizzazione anche simbolica e propagandistica della montagna segue a ruota. Nel giugno del 1935 gli allievi della scuola militare di Aosta prestano il giuramento di fedeltà alla patria sulla vetta del Monte Bianco, e due anni dopo si svolge sempre sul Bianco una imponente esercitazione dimostrativa. I francesi replicano nel 1938, con una manovra di massa di tutte le loro truppe d’alta montagna e un “grand rassemblement” sulla cima del Bianco.

Tutta questa preparazione alla resa dei conti si rivela inutile. La guerra alpina dura due settimane, nel giugno del 1940, e vede gli italiani impegnare per il tentativo di occupazione della Savoia una forza tre volte superiore rispetto a quella francese, ma ottenere alla fine una penetrazione di pochissimi chilometri, a prezzo di un alto numero di caduti. I problemi più grossi sono dati dalla temperatura e dal maltempo, che mettono a nudo la scarsa preparazione e l’inadeguato equipaggiamento dei soldati italiani.

La montagna torna invece protagonista, questa volta non per due settimane ma per due anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre. In realtà sul versante francese delle Alpi Marittime e del massiccio del Bianco il maquis aveva già cominciato ad organizzarsi nella primavera del 1943. Nell’autunno anche quello italiano comincia a popolarsi dei primi gruppi armati, e dopo una iniziale diffidenza i due movimenti finiscono per cooperare. Sono soprattutto i partigiani italiani, dopo i rastrellamenti della primavera e dell’estate del ‘44, a trovare rifugio in terra di Francia, in una zona che a dispetto di massicce e cruente azioni di “bonifica” da parte tedesca rimane sostanzialmente terra di nessuno. La conoscenza del territorio e l’abitudine alla pratica alpinistica di molti capi si rivela fondamentale per la sopravvivenza delle formazioni partigiane. Quelle che riescono a sfuggire ai rastrellamenti sono guidate da personaggi come Nuto Revelli, che ha una formazione militare alpina, o Livio Bianco, che ha trascorsi di alpinismo di buon livello.

Il massiccio del Bianco, e più in generale l’Alta Savoia, sono anche teatro di alcuni episodi di guerra ad altissima quota. Una vera e propria battaglia si svolge attorno al Rifugio Torino, e in un’altra occasione le truppe tedesche sono costrette ad abbandonare Chamonix. Ma la norma degli scontri è quella della guerra per bande, e l’azione dei resistenti ha essenzialmente lo scopo di disturbare le linee di comunicazione tedesche e di rappresentare, anche simbolicamente, una presenza minacciosa nelle retrovie, oltre che di dare di assistenza ai profughi e ai renitenti. Quest’ultimo ruolo viene svolto con efficacia da alcuni dei nomi più prestigiosi dell’alpinismo italiano degli anni trenta. Ettore Castiglioni facendo base in una baita in Valpelline, sopra Aosta, guida verso la Svizzera attraverso le montagne centinaia di profughi, oppositori del regime, tra i quali la futura “regina di Maggio” e Luigi Einaudi, ed ebrei[82]. Lo stesso fanno Riccardo Cassin e Vittorio Ratti[83] nelle Alpi Centrali, e ad essi si uniscono Gino Soldà e l’ormai anziano Tita Piaz. Leopoldo Gasparotto[84] diventa il comandante delle formazioni di Giustizia e Libertà per la Lombardia, viene catturato e torturato dai tedeschi, finisce nel campo di Fossoli, dove organizza fughe di detenuti e dove alla fine viene ucciso. Attilio Tissi opera nel Bellunese, dove ha l’incarico di distribuire ai partigiani le armi lanciate dagli alleati: anche lui viene catturato e torturato per un mese, ma alla fine riesce a scamparla[85]. L’elenco potrebbe allungarsi parecchio, ma credo che questi nomi bastino a far intendere non solo quale parte attiva abbiano svolto gli alpinisti nell’unico episodio non infamante della nostra storia recente, ma soprattutto come la lotta per libertà sia in fondo congenita in chi ama questo mondo.

Come ogni dopoguerra anche l’ultimo è caratterizzato da importanti novità tecniche: si comincia bene, con l’utilizzo delle nuove suole in gomma Vibram, che in effetti rivoluzionano l’approccio ad ogni tipo di percorso, limando mezzi gradi nella scala delle difficoltà e aprendo le vie meno difficili ad una frequentazione molto più allargata, per arrivare poi invece all’introduzione dei chiodi a pressione, e in qualche caso addirittura all’uso del compressore, che consentono di violare in artificiale ciò che la natura da sempre aveva vietato. Il resto lo fanno i nuovi materiali plastici, le corde in sintetico, sempre più leggere, i tessuti impermeabili e termici.

Queste novità hanno una ricaduta importante sull’alpinismo di punta, favorendo prima gli exploit oltre gli ottomila e consentendo da ultimo il ritorno a perfomances di altissimo livello con equipaggiamento leggero; ma rivoluzionano anche quello di massa, consentendo a un numero crescente di appassionati di affrontare in sicurezza livelli di difficoltà superiori.

L’avvicinamento alla montagna passa anche, letteralmente, per le possibilità di accesso. In questo senso lo sviluppo delle reti ferroviarie e stradali di comunicazione (e per quanto concerne l’alpinismo extraeuropeo quello delle linee aeree) consente a chiunque di frequentare, anche per periodi brevissimi, rifugi e vette. L’aumento del tempo libero, con l’introduzione della settimana corta e delle ferie pagate, fa il resto.

Una serie di vicende tragiche risveglia l’attenzione dei vecchi e dei nuovi media, che alla maniera di quelli ottocenteschi cercano soprattutto la polemica. D’altro canto proprio l’aumentata frequentazione e l’eccesso di confidenza creato dalla fiducia nelle attrezzature moltiplica la possibilità di incidenti. Ma ormai l’idea di un tributo annuale di vite da versarsi alla montagna, così come alle autostrade, è universalmente accettata: per gli eroi della verticale, poi, essendo nel frattempo diventato l’alpinismo uno sport professionistico, sembra quasi che la morte in parete sia inserita a contratto. Fa molto più notizia la sopravvivenza di alpinisti estremi come Cassin o Bonatti che la scomparsa della gran parte dei loro colleghi.

Sul piano di quella che è ancora negli anni cinquanta pura competizione nazionale il dominio tedesco per cause di forza maggiore si allenta (anche se la vecchia scuola austriaca esprime ancora alcune individualità di caratura altissima), e salgono alla ribalta soprattutto gli alpinisti francesi. La scuola francese era rimasta nell’ombra negli anni trenta, ma aveva allevato una generazione di rocciatori fortissimi, con una grande propensione alla verticalità e alle imprese invernali, ma soprattutto al lavoro in cordata. Ora si risveglia dal letargo: uomini come Rebuffat, Lachenal, Terray, Desmaison, Couzy, Livanos portano l’alpinismo francese ai vertici su ogni terreno, d’estate e d’inverno, in Europa e fuori. A favorirli sono appunto le caratteristiche di gruppo, la capacità di conciliare e valorizzare al massimo, ai fini della complementarità, le differenze di attitudine e le diverse propensioni.

Anche la scuola italiana continua ad esprimere personalità eccezionali, del livello di un Bonatti o di un Mauri, capaci di exploit indifferentemente sul calcare o sul ghiaccio, in Alpe o in Himalaya: ma è sempre caratterizzata dalle polemiche e dalle rivalità interne, che guastano persino risultati importanti come quello del K2.

Nelle spedizioni extraeuropee tornano infine in gioco gli inglesi, i quali tuttavia, una volta conseguito sulla vetta più alta quel successo che la morte di Mallory aveva reso obbligato, mantengono un certo distacco e tornano al vecchio terreno di gioco alpino. Nei limiti consentiti dall’evolvere della tecnica e dell’attrezzatura cercano di conservare intatto lo spirito di Mummery o di Geoffrey Winthrop Young.

Potremmo definire quella iniziata nel primo dopoguerra la fase coloniale o imperialistica dell’alpinismo: la corsa a piantare la bandiera per primi su qualsiasi altura significativa in ogni parte del globo, a stabilire o a sancire una sorta di primato occidentale sul mondo e di superiorità etnica o nazionale all’interno dell’occidente. Questa corsa conosce un’accelerazione esasperata che legittima l’utilizzo di qualsiasi tecnica artificiale, e termina solo negli anni cinquanta, quando in rapida successione vengono conquistate tutte le vette superiori agli ottomila metri, Si comincia con l’Annapurna, nel 1950, salito appunto dai francesi Herzog e Lachenal; si prosegue nel 1953 con il più alto, l’Everest, scalato da Hillary e Tenzing, e con il più crudele, il Nanga Parbat, quello cui i tedeschi avevano pagato negli anni trenta un tributo di ventotto vittime, che viene vinto con un’incredibile ultima tratta di diciotto ore in solitaria dal formidabile austriaco Hermann Buhl. Nel 1954 cadono quello considerato più difficile, il K2, salito da Compagnoni e Lacedelli, e il Cho Oyu vinto dagli austriaci Tichy e Jochler, insieme allo sherpa Pasang Dawa Lama.

Il Kanchenjunga, terza vetta più alta, viene salito nel 1955 dagli inglesi George Band e Joe Brown, che hanno alle spalle trecentodieci portatori e trenta sherpa d’alta quota. Nello stesso anno i francesi Lionel Terray e Jean Couzy, seguiti da altri sei compagni un giorno dopo, salgono il Makalu. La cima del Lhotse è raggiunta da Ernst Reiss e Fritz Luchsinger, alpinisti di punta della forte spedizione svizzera diretta da Albert Eggler, nel maggio 1956. Nello stesso anno c’è il primo exploit di una spedizione non europea: dopo due tentativi falliti i giapponesi raggiungono la vetta del Manaslu con Toshio Imanishi e lo sherpa Gyaltsen Norbu. A seguire, in rapida successione: nel 1956 gli austriaci Moravec, Larch e Willenpart salgono la vetta del Gasherbrum II; nel 1957 altri austriaci, tra cui Kurt Diemberger ed Hermann Buhl, sono sulla vetta del Booad Peak, con una spedizione molto leggera, senza portatori nel tratto finale; nel 1958 arrivano anche gli americani, primi sul Gasherbrum I; nel 1960 ancora sei alpinisti austriaci, tra i quali Diemberger, sul Dhaulagiri, questa volta con abbondanza di mezzi, compreso un piccolo aereo per i rifornimenti in alta quota (che peraltro si schianta). Rimane solo il Shisha Pangma, che i cinesi hanno riservato per sé e che scalano nel 1964, in piena rivoluzione culturale, portando in vetta dieci alpinisti, e impiegandone centoventicinque.

Malgrado siano ancora occupati nella ricostruzione postbellica, i governi europei si buttano nella corsa organizzando vere e proprie spedizioni di stampo militare, che impegnano centinaia di portatori, richiedono un grande sforzo logistico, prevedono l’uso sistematico dell’ossigeno, la preparazione delle vie con corde fisse e una serie di campi avanzati da piazzarsi progressivamente. Sfruttano in fondo le esperienze organizzative maturate durante il conflitto, si avvalgono di uomini rotti ormai ad ogni disagio e a vivere le situazioni più rischiose, utilizzano i materiali testati per sei anni sotto il fuoco. Ne nascono indubbiamente delle grandi imprese, anche sotto il profilo umano, ma la parentela con l’alpinismo classico è piuttosto laterale. L’impressione è che in questa corsa ci sia l’affanno a conquistarsi un pezzo di gloria e a liberarsi finalmente di un problema, e che dell’elemento ludico, del piacere di cui parlavano Kugy e Rey, ma anche Comici, e della passione pur ambigua di Lammer non sia rimasta nemmeno l’ombra.

La “decolonizzazione” parte negli anni sessanta. Ormai non rimane più nulla da conquistare: l’alpinismo può conservare un significato solo se scopre o si inventa una nuova dimensione etica. Questa dimensione viene individuata nel “rispetto” per la montagna, nella sua riconsacrazione attraverso un approccio più naturale, meno invasivo. È quello che viene definito, da uno storico dell’alpinismo, un “Nuovo Mattino”. Contribuisce a indurre questo ripensamento l’entrata in scena degli americani, non in virtù di una loro particolare sensibilità ecologica (anche se Thoreau, Emerson e Muir sono indubbiamente su questa direzione dei precursori) ma perché non hanno alle spalle alcuna tradizione alpinistica, e non si preoccupano quindi né di rispettarla né di dissacrarla. Sono portatori di un individualismo anarchico, in una connotazione però assai diversa da quella degli italiani: la loro irriverenza non è mai astiosa o polemica; semplicemente, se ne infischiano. E assieme a loro arriva sulle montagne anche l’eco dello spirito del sessantotto, delle lotte di liberazione, del terzomondismo, da ultimo della new age. È il compimento di un ciclo, e il ciclo è lo stesso che abbiamo già visto svolgersi nel racconto delle esplorazioni e della colonizzazione.

Il modello dominante torna dunque ad essere dopo gli anni cinquanta quello dell’alpinismo anglosassone, ma in due versioni diverse. Gli inglesi, che hanno riscoperto le Alpi con personaggi come Chris Bonington e Dough Scott, praticano un’etica molto severa quanto a protezioni, e quindi accettano una componente di rischio elevatissima. Non è cosa da tutti, perché include anche tutte le altre componenti tradizionali dell’alpinismo: freddo, fatica e paura. E infatti, rimane circoscritta ad una élite di puristi.

Gli americani portano invece, con Gary Hemmings e con la sua brigata di hippies cresciuta nella Yosemite Valley, una ventata innovativa, alle cui spalle c’è una trasformazione radicale di mentalità. Intanto rifiutano l’arrampicata artificiale come mezzo sleale, in nome di performance condotte in perfetta armonia con la natura, cosa che può attuarsi solo attraverso l’arrampicata libera. Di conseguenza bandiscono il chiodo ad espansione e riducono anche all’essenziale l’uso dei chiodi tradizionali, a favore delle moderne protezioni veloci (stopper, eccentrici, poi friends, etc.). La parete deve essere lasciata come la si è trovata. Infine rivalutano l’arrampicata a bassa quota, innalzandola da pratica complementare di allenamento ad attività fine a se stessa. Sono tuttavia americani, e si portano appresso, anche quando cercano la wilderness, un connaturato tecnicismo (micronut, cliff, etc), che aggira “quantitativamente” il nodo dell’artificiale, nel senso che è molto meno invasivo, ma “qualitativamente” non sposta granché il discorso. E questo aspetto in Europa viene colto, e malignamente rinfacciato dai puristi. Tutto sommato comunque il modello yosemitico, meno spartano, animato più dalla voglia di divertimento immediato che dall’etica del sacrificio, si sposa meglio col nuovo spirito dei tempi e incontra un successo ben maggiore di quello inglese. Col risultato, però, di creare in molti casi dei puri fenomeni di moda, o di inaugurare pratiche che con l’alpinismo hanno in comune solo la verticalità.

Quando questo modello viene invece adottato (ma per taluni aspetti si potrebbe anche dire anticipato) con senso critico e indipendenza nelle scelte, come modo di pensiero ed abito etico piuttosto che come canone tecnico e stilistico, i risultati sono eccezionali (sto pensando a Messner, alla determinazione e alla velocità delle sue realizzazioni alpine e himalayane). I gradi della scala Welzenbach saltano come birilli, a dispetto di resistenze e polemiche. Non è tanto il progresso tecnologico, a questo punto, a fare la differenza, quanto quello atletico e soprattutto quello psicofisico. L’allenamento in arrampicata, e anche quello alla scalata su ghiaccio, una volta coniugato ad una buona acclimatazione mentale e fisica alle quote più alte rende percorribili in velocità vie che erano considerate vent’anni prima di difficoltà estrema ed erano rimaste prerogativa di pochi eletti, spostando sempre più lontano la linea d’orizzonte dell’impossibile. Proprio questo balzo in avanti, però, che si traduce prima in ripetizioni invernali o in solitaria di itinerari proibitivi, poi nella corsa agli ottomila senza ossigeno e infine nelle concatenazioni e combinazioni più peregrine e massacranti (due o tre ottomila in successione, con trasbordo in elicottero, salite classiche e discese con gli sci o col parapendio, maratone ai limiti della troposfera, ecc.) distrugge il confine tra l’alpinismo e lo spettacolo circense o l’esibizione ginnica.

Anche la nuova etica dell’alpinismo, d’altra parte, vive davvero solo lo spazio di un mattino. Le istanze sincere di cambiamento si riducono rapidamente ad atteggiamenti vuoti e modaioli, e hanno una ricaduta commerciale piuttosto che comportamentale. L’esplosione dell’arrampicata sportiva in falesia induce al contrario il ritorno al chiodo ad espansione e all’attrezzatura sistematica del percorso, in nome di una visione puramente estetica e sportiva che necessita di arrampicare con protezioni sicure. Questo crea l’abitudine mentale a considerare “palestra” ogni parete, e tale abitudine non tarda ad essere trasferita in montagna, soprattutto nelle Alpi occidentali (nelle Dolomiti incontra molta più resistenza).

Ci troviamo pertanto di fronte oggi a quello che potrebbe essere definito l’ennesimo “ultimo problema delle Alpi”, e che rischia stavolta di esserlo sul serio. La parola d’ordine che circola ormai in maniera sempre più insistente e inquietante è “risanamento”: che significa mettere in sicurezza, riattrezzandole a spit, le grandi vie classiche, per consentire un “consumo” rapido e sicuro delle pareti e garantire il divertimento a tutti. È un progetto assurdo, che parrebbe aver nulla a che vedere con l’alpinismo, ma che nasce comunque da un’esasperazione e da uno stravolgimento della performance che serpeggiano nell’ambiente alpinistico. Il virus è diffuso in alto, ma qualche linea di febbre l’abbiano un po’ tutti. Non sarebbe male, ogni tanto, magari al momento in cui scendiamo dall’auto o lasciamo il rifugio per affrontare una salita, fermarci a riflettere su come siamo bardati e sullo spirito con quale ci stiamo muovendo. Qualora ci scoprissimo disposti a prenotare o a pagare il biglietto per salire in giornata il Petit Dru, sarebbe ora di tornare a casa.

 

Scendere a valle

Non sono un alpinista, neppure mediocre, se per poter essere considerato tale occorre vantare un ricco palmares di quattromila. Sarò salito si e no cinque o sei volte oltre quella quota. In compenso amo la montagna, e se vedo una cima voglio arrivarci, se incrocio una roccia che tira in verticale mi piace salirla, ho esperienza di corde e di rifugi, e più ancora di letteratura alpinistica: ma tutto si ferma lì. Le mie credenziali per tirare le somme della vicenda che ho raccontato sono davvero scarse, se si esclude il coraggio di averci provato. Ma forse, al contrario, è davvero questa la miglior condizione per farlo: uno sguardo “laico” su un’attività che troppo spesso, da ludica che dovrebbe essere, è diventata e continua ad essere vissuta come religiosa.

Non c’è dubbio che dal punto di vista naturalistico, che è quello della specie, l’alpinismo rappresenti uno spreco insensato: di tempo, di energie, di uomini e di mezzi. Non è nemmeno uno strumento di selezione positiva, anzi: paradossalmente ad essere scartati dalla selezione sono in questo caso quasi sempre i più arditi e i più forti. Meno che mai è un’attività che arreca un qualche beneficio collettivo: quando va bene non metti a repentaglio la vita di altri, compagni, soccorritori, ecc. e ti porti a casa una scaglia di roccia come souvenir. A voler essere generosi si può pensare che si scarichino su pareti e ghiacciai energie e tensioni che a valle potrebbero essere perniciose: e questo forse, sempre dal punto di vista della specie, un qualche vantaggio lo porta. C’è comunque da chiedersi se quella che ho sommariamente descritta non sia la storia di una insana passione, indotta da un progressivo aumento del benessere e della sicurezza di vita. Quando la percentuale di precarietà e di rischio nella vita quotidiana scende sotto una certa soglia i più sensibili, quindi i più irrequieti, ne patiscono l’assenza, e sono indotti a ricrearne in qualche modo le condizioni. Gli alpinisti sarebbero quelli che lo fanno nella maniera socialmente meno dannosa, perché in fondo mettono in gioco e a rischio solo se stessi.

In realtà non penso che si tratti solo di questo. Ci deve essere molto di più per spingere qualcuno non tanto a rischiare (questo lo fanno anche gli idioti che si gettano in piscina dalla finestra, o che si sdraiano sui binari: e comunque, quanto al rischio, c’è in ogni attività, dal guidare un’auto o una bicicletta al buttarsi in mare) quanto a faticare, a patire il freddo, a esporsi al congelamento, ecc.

Su questo tema si sono già sbizzarriti milioni di appassionati, ciascuno portando la sua brava motivazione, e devo dire che quelle che ho letto mi sono sembrate tutte altrettanto convincenti. Ma si trattava comunque di motivazioni individuali. Ciò che a me interessa, e che in queste pagine ho cercato di indagare, è invece il secondo livello, quello nel quale le singole motivazioni si sommano e danno origine ad un fenomeno sociale e culturale. L’assunto era questo: l’alpinismo non scaturisce da una naturale spinta biologica. Questa spinta non esiste in natura perché non risponde ad alcuna strategia di sopravvivenza o riproduttiva. Nessuno stambecco ha mai sentito il bisogno di salire in vetta al Gran Paradiso, pur vivendo appena mille metri più in basso. Il desiderio di scalare una montagna appartiene solo all’uomo: può essere giustificato, a seconda delle epoche, in maniere diverse, con motivazioni politiche, religiose, scientifiche, nazionalistiche, superomistiche, sportive, economiche o legate al successo: ma è comunque frutto di una elaborazione culturale. In due sensi: nel primo perché l’assenza di fini concreti in un’azione che richiede sacrificio, impegno, dispendio energetico, e al limite anche assunzione di rischio, è misura della distanza di questa azione dai dettami dell’istinto. Nel secondo perché penso che l’affermazione vada presa anche alla lettera; non è un caso se la gran parte degli alpinisti ha un livello di cultura superiore, e se un tempo la cosa poteva dipendere dalla diversa disponibilità di tempo e di denaro nelle differenti classi sociali, oggi questo discrimine non esiste più.

L’alpinismo è dunque una forma di cultura, per un verso soggetta al variare dei climi culturali, storicizzata, per l’altro legata ad un modo d’essere “naturalizzato” degli umani, effetto reversivo dell’evoluzione. I modi della variazione li abbiamo visti: provo ora ad enucleare sinteticamente quelle che proprio nello scrivere queste pagine mi sono parse essere le matrici costanti, indipendenti dai tempi.

  1. a) L’irrequietezza. Non ci piove. È un bisogno connaturato (questo sì) all’uomo quello di andare un po’ più in là. È un problema di spazio, già a livello primitivo. Come ogni animale l’uomo ha bisogno di spazio per sopravvivere: ma a differenza di ogni altro animale, e in ragione del suo eccezionale successo evolutivo, ne ha necessità poi anche per vivere. In un pianeta che si avvia a diventare sovraffollato gli spazi orizzontali sono praticamente ormai tutti occupati. Rimangono solo, almeno in parte, quelli verticali. Siamo animali sociali, ma non gregari: almeno, alcuni di noi non lo sono. Hanno bisogno del contatto, ma ne hanno altrettanto di uscire dal gruppo. Lammer centrava il problema quando diceva che la solitudine era la condizione e la molla dell’alpinismo. Solo, avrebbe dovuto usare gli articoli indeterminativi.
  2. b) Il confronto con se stessi, la necessità di conoscersi. Siamo talmente condizionati dal ruolo, dall’ambiente, dalla famiglia, dal lavoro, che non sappiamo quasi nulla di noi stessi. A volte ce ne accorgiamo, e desideriamo metterci alla prova. Soprattutto, vorremmo capire quali sono i nostri limiti. L’alpinismo ti offre condizioni estreme, nelle quali non ti puoi raccontare palle. Vai o non vai. E non è detto che il responso debba essere sempre positivo. Solo, è importante che sia chiaro: questo fa per me, questo no; fin qui ci arrivo, più in là no. Può darsi che ci siano altri modi altrettanto efficaci per conoscersi: ma la situazione nella quale ti mette l’alpinismo è senz’altro la più semplice e la più pulita. Non consente trucchi.
  3. c) Il rapporto con la natura. La nostra cultura ha steso sulla terra una seconda pelle. Tutto ciò che facciamo è condizionato dall’artificio, o è addirittura virtuale. L’alpinismo (quello vero, naturalmente) non si concede alcun artificio (e non classifico come tali le misure di sicurezza; diverso è il discorso dell’attrezzatura dei percorsi). Ti immerge in una situazione nella quale il manico lo tiene la natura. Il rapporto si ribalta: ti devi affidare ad essa (clima, tenuta del terreno su cui arrampichi), sei nelle sue mani. È un ritorno nel suo grembo.
  4. d) Ma alla fine, non sarà la competitività la vera molla dell’alpinismo? Se la cultura è sublimazione degli istinti, lo sport è la sublimazione per eccellenza dell’aggressività e della competizione. Massimo Mila, che ha scritto sulla montagna pagine bellissime, dice che è inutile girarci attorno: arrivare per primo su una vetta che non è mai stata toccata da altri, o salire una via che non è mai stata percorsa, è il sogno di ogni alpinista. Il confronto non è solo con se stessi, ma anche con gli altri. In effetti, le vicende che abbiamo incontrato in queste pagine parlano di uomini che hanno cavalcato cime vergini o tracciato itinerari inediti: sono loro che hanno fatto la storia dell’alpinismo. Io la trovo tuttavia una componente non necessaria, e forse neppure sufficiente. Può darsi che segni la differenza tra fare dell’alpinismo o andare in montagna: ma se così fosse, l’alpinismo sarebbe davvero solo uno sport. Penso che ci sia già soddisfazione completa nell’arrivare in vetta, indipendentemente dal fatto che qualcun altro vi sia stato prima (meglio, naturalmente, se non vi ha piantato una croce o costruito un cippo).

E qui, finalmente, mi fermo. Fossi davvero su una vetta, ora proverei quel sentimento che più di ogni altro penso appartenga agli alpinisti. Io lo definirei “struggimento”, i Romantici parlavano di “sehnsucht”: l’angoscia sottile che prende quando si arriva a vedere il mondo da un punto che lo fa apparire fantastico, e si sa di non poter rimanere lì per sempre, o tornarci ogni volta che si vorrà. È la percezione della nostra finitezza spaziale e temporale rispetto all’infinità e all’eternità di quanto ci circonda: un sentimento che ci turba, ma ci fa anche ringraziare la natura per averci, sia pure per un attimo, fatti sentire partecipi di tanta meraviglia.

Quando ricordo però che Gervasutti parla di “amarezza per il sogno diventato realtà”, e non accenna affatto al guardarsi attorno, il dubbio ritorna: forse davvero non sono un alpinista, forse sono solo un sognatore, e ho raccontato fino ad ora un mio sogno. E allora me ne scuso con chi mi ha letto, ma io il sogno me lo tengo.

 

Salire. Bibliografia essenziale per una letteratura dell’alpinismo

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Garobbio, A. – Rusconi, G. – L’alpinismo – Sansoni, Firenze
Heckmair, Anderl – I tre ultimi problemi delle Alpi – CDA 2001
Herzog, M. – Le grandi avventure dell’Himalaya – De Agostini, 1983
Herzog, Maurice – Annapurna, I primi ottomila – Corbaccio 1994
Holzel, T., Solkeld, A. – Il mistero della conquista dell’Everest– S&K.1999
Keay, J. – Quando uomini e montagne si incontrarono – Neri Pozza 2005
Kurz, Marcel – Alpinismo invernale – Vivalda, Torino 1994
Joutard, Philippe – L’invenzione del Monte Bianco – Einaudi 1993
Lopez Marugan, A. – Corde ribelli – CDA, 2001
MacFarlane, R. – Come le montagne conquistarono gli uomini – Mondadori 2005
Masciandri, F. – Storia dell’alpinismo europeo – Com. Naz. Sc. Alp. 1989
Motti, Gian Piero – Storia dell’alpinismo – Vivalda, Torino 1997
Monzino, Guido – Spedizioni d’alpinismo in Africa – Mondadori
Monzino, Guido – Spedizioni d’alpinismo in Groenlandia – Mondadori
Monzino, Guido – Italia in Patagonia – Martello 1958
Pesci, Eugenio – La scoperta dei ghiacciai – CDA/Vivalda 2004
Shipton, E. – Quel mondo inesplorato – CDA/Vivalda 2002
Sposito, Livio – Il mondo dall’alto – Sperling & K. 2000
Spreafico, G. – Enigma Cerro Torre – CDA &Vivalda 2006
Tenderini, Mirella – Le nevi dell’Equatore – CDA 2001
Zannini, Andrea – Tonache e piccozze – CDA/Vivalda 2004

STORIA E ANTROPOLOGIA DELLA MONTAGNA

AA VV – La Montagna. Grande Enciclopedia Illustrata – De Agostini, Novara 1987
AA VV – L’uomo e le Alpi – Vivalda, Torino 1993
AA VV – Rapporto sullo stato delle Alpi – CDA, Torino 1998
Bocca, M. – Centini, M.– Le vie della fede attraverso le Alpi –Pr/Verl, 1994
Camanni, Enrico – Storia delle Alpi – Bibl. dell’Immagine, MI 20017
Dainelli, G. – Le alpi. L’ambiente naturale. L’ambiente umano – Utet, 1963
Guichonnet, Paul – Storia e civiltà delle Alpi – Jaka BooK 1984
Mari, A. – Kindl, U. – La montagna e le sue leggende – Mond. 1988
Maraini, Fosco – Segreto Tibet – Bari 1951
Neale, Jonathan – Le tigri delle nevi – CDA & Vivalda 2004
Ries, Julien – Montagna sacra – Jaka Book, 2010
Tenderini, Silvia –Locande, ospizi, alberghi sulle Alpi – CDA/Viv 2002
Tenderini, S. – La montagna per tutti – CDA/Vivalda 2004
Tenderini, S. – Ospitalità sui passi alpini – CDA/Vivalda 2005

MONOGRAFIE SULLE PRINCIPALI VETTE

AA VV – K2 – Museomontagna, Torino 1994
AA VV – Free K2 – Pescara 1991
Ardito, Stefano – Le regine d’Africa – Vivalda, 2003
Bernardi, Alfonso – Il Gran Cervino – Zanichelli, Bologna
Bernardi, A. – Il Monte Bianco. Un secolo di alpinismo – Zanich, 1966
Bernardi, Alfonso – La grande Civetta – Zanichelli, Bologna 1969
De Agostini, Alberto M. – Ande patagoniche – Vivalda, Torino 1999
Fantin, Mario – Cervino 1865-1965 – Tamari, Bologna 1965
Fava, Cesarino – Patagonia. Terra dei sogni infranti – CDA 1999
Ghiglione, Pietro – Monte Bianco – De Agostini, Novara 1978
Gillman, Peter – Everest – Vallardi 1994
Gogna, Alessandro – Grandes Jorasses, sperone Walker – Tamari, 1994
Gugliermina, F. – Il Monte Bianco esplorato – Tamari, 1991
Mazzotti, Giuseppe – Grandi imprese sul Cervino – L’Eroica, MI 1934
Messner, R. – Annapurna. Cinquant’anni di un ottomila – Vivalda 2000
Miotti, Giuseppe – Bernina, questo sconosciuto – Vivalda 1998
Rey, Guido – Il Monte Cervino – Viglongo, Torino 1962
Unswort, Walt. – Everest – Mursia 1991

FILOSOFIA ED ETICA DELL’ALPINISMO

Ardito, Fabrizio – Di pietra e acqua – Vivalda 2000
Berhault, P. – Giani, B. – Il gesto e la pietra – Ivrea 1986
Bernbaum, G. – Le montagne sacre del mondo – Leonardo, Milano 1991
Biancardi, Armando – La voce delle altezze – Cappelli, Bologna
Bianchi, Marco – Montagne con la vetta – Vivalda 1999
Bonatti, Walter – Un modo di essere – Dall’Oglio, Milano 1989
Camanni E – Nuovo mattino. Il singolare sessantotto degli alpinisti– Vivalda 1998
Camanni, Enrico – Sogni scelti per alpinisti classici – Vivalda 1995
Del Zotto, Giancarlo – Alpinismo moderno – Il Castello
Diemberger, Kurt – Gli spiriti dell’aria – Vivalda 1999
Diemberger, Kurt – Cime e segreti – Zanichelli, Bologna 1982
Edlinger, P. – Ferrand, A. – Lemoine, M. – Arrampicare – Zanichelli, 1985
Edlinger, P. – Kosicki, G. – Rock Games – Zanichelli
Evola, Julius – Meditazioni delle vette – Ed, del Tridente, La Spezia 1974
Ferrari, Marco A. – Attraverso il decennio dei cambiamenti – Vivalda, 1994
Forno, Oreste – Il paradiso può aspettare – Mountain Promotion 2001
Forno, Oreste – Sherpa, conquistatori senza gloria – Dall’Oglio 1990
Forno, Oreste – Compagni di cordata – Mountain Promotion 1998
Gherzi, Andrea – La musica delle montagne – CDA 2000
Giglio, Pietro – La montagna dei preti alpinisti – Vivalda, Torino 2000
Gobetti, Andrea – Una frontiera da immaginare – Dall’Oglio, 1976
Gogna, Alessandro – Cento nuovi mattini – Zanichelli 1981
Gogna, Alessandro – La parete – Zanichelli, Bologna 1981
Gogna, Alessandro – Rock story – Il Melograno, Genova 1983
Gogna, Alessandro – Un alpinismo di ricerca – Dall’Oglio, Milano 1975
Kugy, Julius – La montagna che strega – Vivalda, 1998
Livanos, George – Al di là della verticale – Tamari, Bologna 1964
Mazzotti, Giuseppe – Alpinismo e non alpinismo – Treviso 1946
Messner, Reinhold – L’avventura alpinismo – Athesia, 2005
Messner, Reinhold – La montagna è il mio mondo – Corbaccio 2009
Mestre, M. – Le Alpi contese. Alpinismo e nazionalismi – CDA/Viv 2003
Mila, Massimo – Scritti di montagna –Einaudi, Torino 1997
Miotti, Giuseppe – Il ritorno del classico – Vivalda, 2002
Motti, Gian Piero – I falliti – Vivalda, Torino 2000
Prada, Sandro – Alpinismo romantico – Tamari, Bologna, 1974
Rebuffat, Gaston – Gli orizzonti conquistati – Zanichelli, 1988
Reinhard, Karl – Montagna vissuta. Tempo per respirare – Vivalda 2001
Rey, Guido – La fine dell’alpinismo – ed. Montes, Torino 1939
Simpson, Joe – Ombre sul ghiacciaio – CDA, Torino 2004
Stenico, M. – Alpinismo Perché – ed. Ghedina 1981
Zolla, Elèmire – Lo stupore dell’infanzia – Adelphi, Milano 1991

LETTERATURA ED ESTETICA DELL’ALPINISMO

AA VV – Le seduzioni della montagna – Electa 1998
AA VV – Le cattedrali della terra – Electa 2000
AA VV – Le montagne della satira – Museomontagna, Torino 1994
AA VV – Le montagne della pubblicità – Museomontagna, Torino,1989
AA VV – Ritratto di alpinista –Museomontagna, Torino 1992
AA VV – John Ruskin e le Alpi – Museomontagna, Torino 1990
AA VV – Il Monte Bianco nelle immagini e nelle relazioni dell’800 – Torino 1986
AA VV – Alpi gotiche – Museomontagna, Torino 1998
AA VV – Alpi Giapponesi – Museomontagna, Torino 1998
AA VV. – Simbolico e concreto – Museomontagna, Torino 1999
AA VV – Ecuador. Le Alpi dipinte – Museomontagna, Torino 1998
Audisio, A. – Rinaldi, R – Montagne e letteratura – Museomontagna, 1983
Audisio, A. – Rinaldi, R – Letteratura dell’alpinismo – Museomont, 1985
Camanni Enrico – La letteratura dell’alpinismo – Zanichelli, 1975
Christoffel, U– La montagne dans la peinture – CL. ALP. SUISSE, 1963
Dumas, Alexandre – In viaggio sulle Alpi – Vivalda 1998
Festi, R. – Manzati, E. – Le Dolomiti nei manifesti – Ivrea 1990
Garimoldi, G., Jalla, D. – Alpi di sogno – Silvana, Milano 2006
Gherzi, Andrea – La musica delle montagne – CDA/Vivalda 2003
Giardina, Andrea – Le parole della montagna – Baldini & Castoldi 2003
Mazzotti, Giuseppe – La montagna presa in giro – L’Eroica, Varese 1936
Mazzotti, G. – La montagna nel manifesto pubblicitario – Canova, 1959
Pesci, Eugenio – La montagna del cosmo – CDA, Torino 2001
Schama, Simon – Paesaggio e memoria – Mondadori, Milano 1997

BIOGRAFIE DI ALPINISTI

AA VV – Guido Rey. Dall’alpinismo alla letteratura – Museomont, 1986
AA VV – Ai limiti del mondo. Alberto De Agostini– Museomont., 1992
AA VV – Sant’Elia 1897. Il Duca degli Abruzzi – Museomont, 1997
AAVV – L’ultima scalata – Newton Compton 2010
AAVV – Sul tetto del mondo – Newton Compton 2009
Bonington, Chris – Ho scelto di arrampicare – Vivalda, Torino
Borgognoni, A. – Titta Rosa, G. – Scalatori – Hoepli, Milano 1985
Camanni, E. – Ribola, D. – Spirito, P. – La stagione degli eroi – Vivalda. 1994
Camanni, E. – Cieli di pietra. La vera storia di Amé Gorret – Torino 1997
Camanni, E. – Il desiderio di infinito. Vita di Giusto Gervasutti – Laterza, 2017
Casara, Severino – Preuss, l’alpinista leggendario – Milano 1970
Casara, Severino – L’arte di arrampicare di Emilio Comici – Hoepli, 1957
Cassarà, Emanuele – Un alpinismo irripetibile – Dall’Oglio, Milano
Cassin, Riccardo – Capocordata. La mia vita di alpinista – Vivalda 2001
Cassin, Riccardo – Cinquant’anni di alpinismo – Dall’Oglio, Milano 1977
De Amicis, Ugo – Piccoli uomini e grandi montagne – Treves, 1924
Ferrari, Marco A. – Il vuoto dietro le spalle – Vivalda 2000
Ferrari, Marco. A. – La storia di Ettore Castiglioni – TEA 2008
Gervasutti, Giusto – Il fortissimo – Il Melograno, Milano 1985
Hiebeler, Toni – Tra cielo e inferno – Tamari, Bologna
Kugy, Julius – Dalla vita di un alpinista – L’Eroica, Milano 1932
Livanos, George – Cassin. C’era una volta il sesto grado – Dall’Oglio, 1984
Maestri, Cesare – Arrampicare è il mio mestiere – Garzanti, Milano 1961
Mazzarelli, Paola – G. W. Young, l’ultimo alpinista vittoriano – Vivalda
Mazzarelli, Paola – Il setacciatore delle Alpi – Vivalda
Messner, R.- Hofler, H. – Hermann Buhl in alto senza compromessi– Vivalda 1998
Messner, Reihnold – La libertà di andare dove voglio – Garzanti, 1992
Miotti, Giuseppe – Sulle tracce di Piero Ghiglione – Vivalda
Rebuffat, Gaston – La montagna è il mio mondo – Vivalda, Torino, 1997
Roberts, Eric – Willo Welzenbach – Vivalda 1992
Tenderini, M – Gary Hemming, Una storia degli anni sessanta– Vivalda, 1994
Trenker Luis – Eroi della montagna – Dall’Oglio, 1982

CLASSICI DELLA LETTERATURA ALPINISTICA

Boccalatte, G. – Piccole e grandi ore alpine – L’Arciere/Vivalda, 1992
Bonatti, Walter – I giorni grandi – Zanichelli, Bologna 1971
Bonatti, Walter – Montagne di una vita – Baldini e Castoldi, 1995
Bonatti, Walter – Le mie montagne – Rizzoli, Milano, 1983
Bonatti, Walter – Il caso K2 – Baldini e Castoldi, 1996
Bonington, C. – Ho scelto di arrampicare – Vivalda 1997
Buhl, Hermann – È buio sul ghiacciaio – Il Melograno, Milano 1984
Buzzati, Dino – Le montagne di vetro – Vivalda
Buzzati, Dino – Sulle Dolomiti – 2005
Cassin, Riccardo – Mc Kinley – CDA, Torino
Cassin, Riccardo – In Grigna! – Domus 2005
Castiglioni, Ettore – Il giorno delle Mesules – Vivalda 1993
Chabod, R. – La cima di Entrelor – Zanichelli 1969
Comici, Emilio – Alpinismo eroico – Vivalda, 1996
D’Angeville, Henriette – La mia scalata al Monte Bianco 1838 – Vivalda 2000
De Amicis, Edmondo – Nel regno del Cervino – Vivalda, Torino 1998
De Amicis, Ugo – Alpe mistica – Milano 1926
Desmaison, Renèe – La montagna a mani nude – Dall’Oglio, 1972
Desmaison, R – 342 ore sulle Grandes Jorasses – Dall’Oglio, 1973
Diemberger, Kurt – K2. Il nodo infinito – Dall’Oglio, Milano 1988
Diemberger, Kurt – Tra zero e ottomila – CDA, Torino 1995
Dingle, G. – Hillary, P. – La traversata dell’Himalaya – De Agostini 1985
Dumler, Helmut – Le tre cime di Lavaredo – Tamari, Bologna 1972
Frison-Roche, Roger – Primo di cordata – Vivalda, Torino 1994
Gervasutti, Giusto – Scalate nelle Alpi – SEI, Torino 1966
Gervasutti, G. – Scalate nelle Alpi – CDA/Vivalda 2005
Gervasutti, G. – Il Fortissimo – Il Melograno, MI 1985
Harrer, Heinrich – Parete Nord – Mondadori 1999
Hillary, Edmund – Arrischiare per vincere – Dall’Oglio, Milano
Klucker, Christian – Memorie di una guida alpina – Tararà, Verb. 1999
Kugy, Julius – Dal tempo passato – Libreria Adamo, Gorizia 1982
Javelle, Emilio – Ricordi di un alpinista – Canova, Treviso 1947
Lammer, Eugen Guido – Fontana di giovinezza – Vivalda, Torino 1999
Maestri, Cesare – …E se la vita continua – Baldini e Castoldi 1996
Maestri, Cesare – Duemila metri della nostra vita – Garzanti 1972
Maraini, Fosco – Gasherbrum IV – Vivalda, Torino 1996
Marchi, Rolly – Le mani dure – Vivalda 1997
Mauri, Carlo – Quando il rischio è vita – La Sorgente 1975
Muyr, John – La mia prima estate sulla Sierra – Vivalda, 1997
Mummery, A. F. – Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso – Torino 1965
Piaz, Titta – Mezzo secolo d’alpinismo – Il Melograno, Milano 1986
Rebuffat, Gaston – Tra la terra e il cielo – Bietti, Milano 1965
Rebuffat, Gaston – Stelle e tempeste – Zanichelli, Bologna 1981
Rey, Guido – Alpinismo acrobatico – CDA, Torino 2001
Samivel – Amatore d’abissi – Zanichelli, Bologna 1984
Stephen, Leslie – Il terreno di gioco dell’Europa – Vivalda 1999
Terray, Lionel – I conquistatori dell’inutile – Dall’Oglio, Milano 1977
Tilman, H.W. – Uomini e montagne – CDA, 2001
Tyndall, J – Un gentleman in cima al Weisshorn – Domus 2005
Zurbriggen, Mattia – Dalle Alpi alle Ande – Vivalda, 2001
Wymper, E. – Scalate nelle Alpi La conquista del Cervino –Viglongo, 1963

LETTERATURA ALPINISTICA MODERNA

Ardito, Stefano – Le grandi scalate – Newton Comp. 2014
Ardito, Stefano – Dodici quattromila e mezzo – Vivalda, Torino
Ardito, Stefano – Il primo orso non si scorda mai – Vivalda, Torino
Ardito, Stefano – Ramponi all’ascolana – Vivalda
Bizzarro, Paolo – Vietato volare – CDA Vivalda 2005
Boardman, P. – Montagne sacre – Dall’Oglio, Milano 1983
Boardman, P. – La montagna di luce – Dall’Oglio, Milano 1978
Boivin, Jean Marc – L’uomo dei ghiacci – Dall’Oglio, Milano 1985
Bonicelli, Piero – Pukajirka ‘81 – CEDIS, Bergamo 1983
Bonington, Chris – Annapurna parete sud – Dall’Oglio, Milano 1973
Bonington, Chris – Everest parete sud-ovest – Dall’Oglio, Milano 1975
Brevini, Franco – Rocce – Mondadori 2004
Brevini, Franco – Ghiaccio – Mondadori 2002
Bukreev, A. – Weston, G.– Everest 1996 – CDA & Vivalda 2004
Calcagno, Gianni – Stile Alpino – Vivalda, Torino 2000
Camanni, Enrico – La guerra di Joseph – Vivalda, Torino 1998
Cassin, R. – Nangeroni, G. – Lhotse ‘75 – Zanichelli, Bologna 1977
Cesen, Tomo – Solo – Dall’Oglio, Milano 1991
Cognetti, Paolo – Otto montagne – Einaudi, Milano 1916
Drury, Bob – Una stagione da eroi – Corbaccio, 2001
Ferrari, Marco A. – In viaggio sulle Alpi – Einaudi Milano 2009
Ferrari, Marco A. – Alpi segrete –Laterza 2012
Ferrari, Marco A. – La via del lupo – Laterza 2014
Ferrari, Marco A. – Il sentiero degli eroi – Rizzoli 2016
Giovannini, Franco – Tibet e dintorni – CDA 1999
Gogna, Alessandro – Mezzogiorno di pietra – Zanichelli
Harrer, Heinrich – Sette anni in Tibet – Mondadori 1998
Haston, D. – Verso l’alto – Dall’Oglio, Milano 1978
Hiebeler, Toni – Eiger, parete Nord – Tamari, 1972
Kammerlander, Hans – Malato di montagna – Corbaccio 2000
Kammerlander, Hans – Discesa al successo – Publilux 1991
Krakauer, Jon – Aria sottile – Corbaccio 1998
Jackson M. – Stark E. – Tende tra le nuvole – TEA 2005
Lauwaert, Anna – La via del drago – CDA, Torino 2003
Lightner, Sam – Altitudini sconosciute – Il Saggiatore, 2001
Mazzotti, G. – La grande parete – Nuovi Sentieri, Belluno
Messner, Reinhold – Corsa alla vetta – De Agostini 1986
Messner, Reinhold – Tutte le mie cime – Zanichelli 1995
Messner, Reinhold – Il settimo grado – De Agostini 1992
Messner, Reinhold – Nanga Parbat in solitario – De Agostini, 1979
Messner, Reinhold – Orizzonti di Ghiaccio – De Agostini, Novara 1983
Messner, Reinhold – Due e un ottomila – Dall’Oglio 1977
Messner, Reinh. –Sopravvissuto: i miei 14 ottomila –De Agostini, 1987
Messner, Reinhold – Ritorno ai monti – Athesia, Bolzano 1971
Messner, Reinhold – Il limite della vita – Zanichelli 1989
Moro, Simone – Cometa sull’Annapurna – Corbaccio 2003
Norgai, Tiensin – Lo sherpa – Corbaccio 2006
Perlotto, Franco – Giungla verticale – Vivalda, Torino 1998
Pieropan, Gianni – Due soldi di alpinismo – Tamari, Bologna 1970
Pietrasanta, Ninì – Pellegrina delle Alpi – CAI, MI 2011
Reinhart, Karl – Yosemite – Dall’Oglio, Milano 1986
Ryan, Tom. – Con te in cima al mondo – Sperling&K. 2011
Simpson, Joe – La morte sospesa – Vivalda, Torino 1994
Simpson, J. – Queste storie di fantasmi. Storie vere di un sopravvissuto – Torino 1994
Thurman, R. – Wise, T. – La montagna sacra – Neri Pozza 2000
Unterkircher, Silke – L’ultimo abbraccio della montagna – BUR 2012
Wingall, Sidney – La spia sul tetto del mondo – Pratiche, Milano 2001
Zannini, Gianfranco – Arrampicate di confine – Vivalda, Torino, 1998

NARRATIVA

Bertolotto, G. – Il camoscio bianco –ArabaFenice 2010
Buzzati, Dino – Barnabò delle montagne – Mondadori, Milano 1981
Cagna, A. – Alpinisti ciabattoni – Baldini e Castoldi, Milano 2000
Daudet, Alphonse – Tartarino sulle Alpi – Rizzoli 2002
Daumal, René – Il monte Analogo – Adelphi 1968
Frison–Roche, Roger – Primo di cordata – Garzanti 1960
Haushofer, Marlene – La parete – E/O, Roma 1989
Stifter, Adalbert – Cristallo di rocca – Adelphi 1984

NOTE

[1] Questo saggio è nato come capitolo finale dello studio “In capo al mondo e ritorno”, dedicato ai viaggi di scoperta, alle esplorazioni e alla colonizzazione europea del mondo nell’età moderna. Non ho ritenuto di modificarne l’incipit per l’edizione separata.

[2] È significativo il fatto che l’unico nome latino rimasto per un monte delle Alpi sia quello del Mons Vesulus, il Monviso. Seneca definisce coloro che ammirano le Alpi intelletti incostanti e insensibili. Strabone dice però che anche i Romani, nella loro politica di sottomissione delle popolazioni alpine, cercavano “la gloria delle cime”.

[3] La prima scalata “certificata”, in questo caso da Tito Livio, sembra essere quella di Filippo di Macedonia al monte Emo, in Tessaglia, nel 181 a.C.

[4] Livio e Silio Italico parlano del terrore deli uomini di Annibale, Claudiano di quelli di Stilicone durante le campagne di quest’ultimo nelle Alpi Centrali.

[5] Con qualche eccezione. Strabone, ad esempio, vedeva nella rozzezza dei montanari, se mitigata e combinata con l’intelligenza degli abitanti delle pianure, una virtù.

[6] Le piccole glaciazioni si ripeteranno nel XVII e nel XVIII secolo, spingendo a valle gli insediamenti e facendo scomparire interi villaggi e vaste zone di pascolo. Una leggenda alpina racconta che le zone dei ghiacciai fossero un tempo fertili, abitate e coltivate, e che siano state ricoperte dai ghiacci per punizione divina.

[7] I soggetti prevalenti nella pittura cinese del periodo Sung (corrispondente alla parte centrale del nostro Medioevo) sono i corsi d’acqua e le montagne, perché queste due entità incarnano non solo i due poli della natura, ma anche quelli della sensibilità umana: e sono poli entrambi positivi. Secondo un detto di Confucio “l’uomo di cuore si incanta davanti alla montagna: l’uomo di spirito gode dell’acqua”.

[8] Le Alpi continuano tuttavia ad essere interessate anche durante il Medioevo da un traffico costante. Per l’intero periodo rimangono aperti quasi tutti i passi già frequentati in epoca romana, dal Col di Tenda al Monginevro, al Grande e al Piccolo San Bernardo, al Moncenisio, allo Spluga e al Brennero. A percorrerli sono eserciti che scendono in Italia, papi con il loro seguito che si recano a concili, pellegrini che si muovono a volte in processioni di massa, mercanti che viaggiano con carovane di muli. I disagi che costoro incontrano sono dati dalla scarsa o nulla manutenzione dei percorsi, mentre i pericoli, oltre che dai fenomeni naturali, valanghe, tempe-ste di neve, fulmini, precipizi, arrivano dal diffuso banditismo o dagli animali (soprattutto dai lupi). Ad attenuare questa pericolosità c’è il diffondersi dei castelli, costruiti in genere all’imbocco delle valli, di ospizi, al culmine dei passi, e di abbazie, eremi e monasteri, nelle zone più alte e recondite delle vallate.

[9] Epistulae Familiares, VI, 1

[10] E non è l’unico. Nel suo Itinera per Helvetiae alpinas regiones, pubblicato nel 1723, il naturalista Jacob Scheuchzer fa un censimento di tutti i draghi svizzeri, dandone per scontata l’esistenza e annoverandone diverse decine, classificati per dimensioni e caratteristiche.

[11] C. Gessner, Libellus de lacte et operibus lactariis.Cum epistola ad Jacobum Avenium de montium  admiratione, Zurigo 1541

[12] Peletier sottolinea anche la differente disposizione che abitanti e viaggiatori hanno nei confronti dei luoghi: “I savoiardi che l’onesto avvenire / ammonisce quietamente alle fatiche / restando in pace guardano gli stranieri / andare e venire, ciechi ai pericoli / Sono a casa loro, e per restarvi faticano / guardando quelli che, per faticare, restano”. Una rappresentazione icastica di quello che sarà il rapporto tra gli alpigiani e gli alpinisti nel XIX e nel XX secolo.

[13] Il precedente periodo di riscaldamento climatico, tra la metà del XV e la fine del XVI secolo, aveva molto favorito la frequentazione delle Alpi, e di conseguenza il mutamento della loro percezione. Il traffico di viaggiatori era aumentato, imponendo anche il ripristino e la manutenzione di numerose vie di valico, ed erano state riscoperte, ad esempio, località termali già note ai Romani.

[14] In effetti, il vero fondatore della geologia moderna è considerato James Hutton, che pubblica la sua Theory of the Earth nel 1785, ad un secolo dal libro di Burnet. Hutton è fra i primi a comprendere il ruolo fondamentale degli agenti esogeni nel modellamento della superficie terrestre e intuisce il ruolo determinante del fattore tempo in geologia, facendo risalire l’antichità della Terra a molti milioni di anni.

[15] Nicola Stenone, De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus Firenze, 1669. Stenone interpreta correttamente la natura dei fossili come resti di animali vissuti precedentemente, e sulla base dei suoi criteri interpretativi riesce a fornirne anche una scala crono-logica. L’adozione sistematica del principio stratigrafico secondo il quale gli strati geologici sovrapposti rappresentano una successione nel tempo lo porta a conclusioni in grado di rivoluzionare le idee sulla formazione e l’evoluzione della Terra.

[16] Iames Ussher, Annales Veteris Testamenti, a prima mundi origine deducti, 1650

[17] John Woodward, Essai toward a Natural History of the Eart, 1695

[18] I plutonisti, seguaci delle teorie di James Hutton, pensavano che le rocce (basalti e graniti) fossero di origine magmatica, formate cioè da depositi di lava, creati e mescolati da una attività vulcanica e tellurica continuativa. In ciò essi si opponevano ai cosiddetti nettunisti, legati alle teorie di Abraham Gottlob Werner, che ritenevano che le rocce si fossero formate per sedimentazione in un grande oceano che dopo il diluvio aveva ricoperto la terra. Hutton sosteneva che la fuoriuscita del calore terrestre attraverso periodiche eruzioni vulcaniche avesse determinato un innalzamento del suolo; che i successivi processi erosivi avessero ridotto l’altezza dei rilievi e trasportato i detriti in mare; e che per il calore interno della Terra, i sedimenti marini si sarebbero fusi nuovamente e sarebbero stati spinti nuovamente verso l’alto, iniziando in tal modo un nuovo ciclo.

[19] John Woodword, Brief Instructions for making Observations in all Parts of the World, 1696

[20] Carl Nilsson Linneo, Fundamenta botanica et Instructio peregrinatoris, 1736

[21] Joseph  Addison, Remarks on several parts of Italy, 1702

[22] Oggi tradotta in: Eugenio Pesci, La scoperta dei ghiacciai, Torino 2001

[23]Distanti dal vacuo affanno degli affari /e dal fumo delle città, essi vivono in pace / tempra le forze fisiche la loro vita attiva, / ignorano la noia che fa crescere la pancia. / Li desta e ne quieta gli animi il lavoro / che salute e piacere rendono più lieve. / Nelle loro vene scorre sangue sano, non viziato / da veleni ereditari, né viziato dall’ansia …

[24] J.J. Rousseau, Nouvelle Héloïse, 1761, parte I, lett. XIII

[25] Nella voce “Géographie”, vol. VII

[26] La vera natura dei fossili era già stata intuita addirittura nel VI secolo a.C. dai filosofi naturalisti greci (in particolare da Senofane). Successivamente Eratostene aveva dedotto dalla presenza di fossili marini in luoghi lontani dal mare che le linee costiere dovevano essersi spostate col tempo. Nel Medioevo tuttavia era invalsa la teoria che fossero prodotti da una vis plastica intrinseca alla Terra, quasi degli “scherzi della natura”, o al limite che si trattasse dei resti di animali uccisi dal Diluvio universale. L’antica teoria che si trattasse di resti fossilizzati di animali e piante era stata ripresa in Italia da Leonardo da Vinci alla fine del ‘400 e nel XVI secolo da Girolamo Fracastoro.

[27] Honoré Benedict De Saussure, Voyages sur les Alpes, Neuchâtel 1796

[28]Quel cielo così straordinario, quel caos di montagne immani, quelle nubi traforate e sormontate da picchi grigiastri, la neve eterna, il silenzio solenne di quel deserto, l’assenza di qualunque rumore, di qualunque essere vivente, di vegetazione […] tutto si unisce per creare l’illusione di un mondo nuovo, di essere trasportati alle ere primigenie. Per un attimo ho creduto di assistere allo spettacolo della creazione che sorge dal grembo del caos”. (Henriette. d’Angeville, Mon excursion au Mont Blanc, 1838)

[29] Narrati in Travels through the Alps of Savoy, 1843

[30] Cfr. Andrea Zannini, Tonache e piccozze, CDA-Vivalda 2004

[31] Elie Bertrand, Essais sur les usages des montagnes, 1754

[32] Da tener presente anche che a partire dal 1817 sul colle e sulle vette più prossime vengono installate apparecchiature di misurazione meteorologica, i cui dati vengono rilevati e pubblicati dai religiosi dell’ospizio.

[33] Gnifetti nelle Nozioni topografiche del Monte Rosa inserisce una descrizione della Val Sesia che ha tutte le caratteristiche di un depliant pubblicitario. Carrel sulla “Feuille d’annonce d’Aoste”, primo giornale valdostano, scrive: “Viaggiatori che cercate nuovi divertimenti, lasciate la monotonia delle pianure e visitate le alte Alpi”.

[34]   Tra le principali il Grossblochner nel 1800, la Punta Giordani del Rosa e il Breithorn nel 1801, l’Ortles nel 1804, la Jungfrau nel 1811, il Bernina nel 1829. Ultime a cadere sono il Pelmo nel 1857, il Monviso nel 1861 e le Grandes Jorasses nel 1863.

[35] Con la mediazione, però, di personaggi che assommano nella loro vita e nella loro opera tanto l’illuminismo scientifico che il romanticismo: primo tra tutti Goethe. “Monti enormi mi circondavano, abissi mi stavano davanti, torrenti vorticosi rovinavano a valle; sotto di me scrosciavano i fiumi, il bosco e la montagna echeggiavano, ed io vedevo, operanti insieme e creatrici, nelle profondità della terra, tutte le imperscrutabili energie, ed ecco, di sopra alla terra e di sotto al cielo, il brulicar delle generazioni di diversissimi esseri”. (I dolori del giovane Werther)

[36] Percy.B. Shelly, Il Monte Bianco, 1816

[37] La montagna ben rappresenta ciò che Kant identificava nei due volti del sublime, quello matematico che nasce dalla contemplazione della natura immobile, atemporale, dove l’uomo, non la natura, è parte attiva attraverso la propria ragione e morale, e quello derivato dalla forza della natura, ove l’uomo è drammaticamente succube, concezione quest’ultima che ha ispirato intere generazioni di artisti e poeti romantici. La dimensione spirituale, per Kant, nasce attraverso la contemplazione dello spettacolo naturale dove la mente prende coscienza del proprio limite razionale e riconosce la possibilità di una dimensione sovrasensibile.

[38] Ma già Petrarca scriveva: “Per alti monti e selve aspre trovo / qualche riposo: ogni abitato loco / è nemico mortal de gli occhi miei.” (Canzoniere, Di pensier in pensier, di monte in monte)

[39] René de Chateaubriand, Viaggio sul Monte Bianco, 1806

[40] L’atteggiamento di Chateaubriand riflette un più generalizzato atteggiamento francese, se non di indifferenza, di disincanto o di fredda compostezza nei confronti del fascino della montagna. Lo ritroviamo in Stendhal, in George Sand, in Sainte-Beuve, in Victor Hugo.

[41] G.W.F. Hegel, Diario di viaggio sulle Alpi Bernesi, 1797

[42] Inserito nel 1853 nella raccolta di racconti Bunte Steine (Pietre colorate).

[43] Nell’iconografia medioevale la centralità è riservata evidentemente alla figura umana, anche perché si tratta in genere di santi. Lo sfondo montano, che troviamo appunto da Giotto al Beato Angelico a Benozzo Gozzoli, è sommariamente schematizzato in semplici e confuse geometrie. La prima rappresentazione realistica delle Alpi la troviamo in una pala d’altare di Conrad Witz, La pesca miracolosa (del 1444). Nel Rinascimento sono soprattutto i pittori veneti, da Giorgione a Cima da Conegliano, a inserire nel panorama le cime del Cadore o delle Dolomiti, sia pure interpretandole o reinventandole molto liberamente.

[44] Tra le altre cose che Ruskin si porta appresso c’è una certa conoscenza dell’arte cinese. Anche se nell’800 non sono più di moda, le “cineserie” diffuse dal gusto rococò hanno lasciato una traccia nell’arredo delle dimore aristocratiche o altoborghesi e nella fantasia dei giovani che le abitano. “Uomini di cuore”, i romantici sono colpiti, ma anche un po’ inquietati, da rappresentazioni che quasi escludono la presenza umana e che tolgono peso alla montagna, facendola galleggiare costantemente sopra una coltre di nebbie. Gli stessi acquarelli di Turner sembrano debitori di questa leggerezza.

Allo stesso modo, sembra debitrice delle Centoun vedute del monte Fuji, di Hokusai, la rappresentazione ossessiva nelle tele di Cèzanne della montagna di Saint Victoire, unica presenza montana di rilievo nella pittura impressionista, a dispetto della teorizzazione del plein air. La montagna simbolo del Giappone, che ha da sempre mantenuto la sua importanza sacrale, tanto da aver dato vita ad una vera e propria religione delle montagne (lo Shu gen do) ricorre in pratica nell’opera di tutti gli artisti giapponesi, è imprescindibile.

[45]In questo momento sono qui, in quello che io chiamo il giardino dell’Eden. Il luogo più splendido in cui io sia mai stato”.

[46] Quello che Bierstadt fa per Yosemite, testimoniarne al grosso pubblico l’esistenza e la bellezza, e quindi nei limiti del possibile preservare quest’ultima, Thomas Moran, suo contemporaneo e concorrente, lo farà in seguito per Yellowstone.

[47] Julius Evola, Meditazioni delle vette, 1972

[48] Leslie Stephen, The Playground of Europe, 1871

[49] Alphonse Daudet, Tartarin sur les Alpes, 1885

[50]L’alpinismo, così poliedrico, è un elisir magico per salvarci, per ovviare allo storpiamento dovuto alla divisione moderna del lavoro”. (Eugen Guido Lammer, Fontana di giovinezza, 1922)

[51] ibidem

[52] E autore di L’alpinismo e il clero valdostano (1905)

[53] La cima est dell’Elbrus (5.621 m), era già stata scalata per la prima volta nel 1829 da una spedizione russa. I primi alpinisti occidentali a raggiungerla sono gli inglesi A.W. Moore, Charles Comyns Tucker e Douglas Freshfield, nel 1868.

La vetta ovest, la più alta (5642 m),viene scalata per la prima volta nel 1874, da una cordata di quattro inglesi con guida russa.

[54] L’esplorazione dell’Himalaya e del Karakorum ebbe inizio, nel XIX secolo, ad opera di singoli viaggiatori, Tra questi, nella prima metà del secolo possono essere ricordati Thomas Manning (1811-12), i fratelli Alexander, James e Patrick (1812-23), William Moorcroft e George Trebeck (1812-29), J. Baillie Fraser (1814-15), G.Thomas Vigne (1835-38), A. Cunningham (1847) e Richard Strachey (1848).

[55] La vita di Aleister Crowley sarebbe incredibile anche se raccontata in un romanzo. Mago, teosofo, consumatore di droghe in quantità industriali, truffatore, affiliato a società segrete e cacciato per malversazioni, è stato per un certo periodo, una decina d’anni, anche un formidabile arrampicatore. Nel corso della spedizione al K2, quando a 6400 un alpinista viene colpito da edema polmonare Crowley è l’unico a intuire la gravità della situazione e a imporre al resto del-la squadra di ritirarsi e portare il malato a valle. Nel 1905 partecipa ad un’altra spedizione, al Kanchenjunga, che si conclude con la morte di quattro membri, travolti da una valanga. In questa occasione il suo comportamento è opposto, non si muove in soccorso dei colleghi, giustificandosi poi col fatto che sono stati loro a provocare l’incidente, e la sua carriera alpinistica è stroncata con infamia.

[56] In precedenza, nel 1903, Frederick Cook aveva sostenuto di aver scalato per primo il monte, ma si scoprì in seguito che l’affermazione era falsa.

[57] Attraverso la mediazione delle teorie razziali di De Gobineau si arriva al pensiero “ariosofico” di Guido Von List e di Lanz von Liebenfels. Nel 1871 il romanziere britannico Ed¬ward Bul-wer-Lytton, nel suo The Coming Race, descrive una razza superiore (“Vril-ya”) che vive sotto la superficie terrestre e progetta di con¬quistare il mondo con la sua energia psicocinetica (“Vril”). Il francese Louis Jacolliot traduce la fantasia di Lytton in termini pseudo-scientifici nel suo Les Traditions Indo-Européeenes (1876), legando il “Vril” ai popoli della mitica Thule. Un tocco ulteriore viene apportato trent’anni dopo dal nazionalista indiano Tilak, che in The Arctic Home of the Vedas attribuisce ad una migrazione degli abitanti di Thule verso sud la nascita del popolo ariano. L’idea di una razza iperborea superiore finisce per innestarsi in Germania sulla linea del superomismo nietzchiano, creando un cocktail esplosivo di fantasia e pseudoscienza. Molti tedeschi si convincono di essere i discendenti degli Iperborei Ariani, e soprattutto di esse-re destinati a diventare i padroni del mondo. Tra questi il generale Basil Hausofer, futuro sponsor di Hitler, che fonda la sovietà Vril, dedita alla meditazione e alla ricerca delle origini ariane. Da questa scaturisce la Società Thule, fondata con intenti culturali ma presto, nelle mani del barone von Sebottendorf, anti-semita e anti-comunista sfegatato, divenuta organizzazione politica. Da essa ha origine nel 1919 il “Partito dei Lavoratori Tedeschi”, che l’anno successivo avrà alla sua testa Hitler.

[58] Un forte stimolo alle ricerche dell’Ahnenerbe è dato dalle teorie dell’esploratore svedese Sven Hedin, che tra il 1893 e il 1908 compie numerosi viaggi in Tibet, rimanendo affascinato dalla cultura buddista e riscontrando in essa affinità con l’originario spirito germanico.

[59] Prima di quello di Mummery, il libro di alpinismo più famoso fu senza dubbio quello di Edward Whymper, Scalate nelle Alpi (1871), che ebbe una diffusione popolare enorme, aiutata anche dalle numerose conferenze che l’autore tenne nei college e nelle sale pubbliche di tutta l’Inghilterra.

[60] Albert F. Mummery, My climbs in the Alps and Caucasus, 1895

[61] G. Lammer, Jungborn: Bergfahrten und Höhengedanken eines einsamen Pfadsuchers,1922

[62] Julius Kugy, Aus vergangener Zeit, 1943

[63] Julius Kugy, Aus dem Leben eines Bergsteigers (Dalla vita di un alpinista), 1925

[64] Guido Rey lo descrive così: “Piaz non è una guida come le altre: sarei per dire che non è una guida. È l’esponente di una formula nuova di alpinismo, il maestro di tutta questa scuola di arrampicate brevi ma intense che si svolgono sul confine tra il difficile e l’impossibile” (Alpinismo acrobatico).

[65] Così la racconta Guido Rey: “Gli dà ombra una guglia intatta, umanamente inaccessibile? Piaz riesce su una vetta vicina: di lassù, a tradimento, lancia per aria una corda che avvince al collo la superba e, afferrata la corda con piedi e mani, strascinandosi sospeso sulla profonda valle, giunge sulla guglia e le dà un nome. Egli ha compiuto in quel girono una delle più belle follie dell’alpinismo!” (Alpinismo acrobatico)

[66] Il fronte attraversa i gruppi montuosi più elevati delle Alpi orientali, dall’Ortles Cevedale all’Adamello e alla Presanella: scende di quota in val d’Adige,tocca il Pasubio e la zona di Asiago, risale lungo la catena dei Lagorai, distendendosi poi dalla Marmolada sino alle Alpi Carniche.

[67] Come la conquista del passo della Sentinella o gli assalti al monte Cristallo e a Cima Trafoi nel gruppo dell’Ortles, o la presa del Corno di Cavento nell’Adamello, o la conquista, da parte di una pattuglia d’alpini, della Marmolada d’Ombretta (3153 m).

[68]L’impegno alpinistico e sciistico dei militari in montagna si attesta all’interno di quegli esercizi fisici collettivi che si caratterizzano come forme di una esemplare liturgia nazionale. In tal modo appartenenze nazionali e consapevolezze patriottiche si imprimono sul corpo fisico di quegli ufficiali e di quei soldati che superano difficili passaggi su roccia per eseguire ricognizioni e per individuare posizioni tatticamente rilevanti da conquistare e da presidiare. […]

Lo sport si configura come un elemento che contribuisce a definire e a qualificare l’identità delle élites e delle masse tra il tardo Ottocento e il primo Novecento, passando attraverso la fa-se cruciale dal 1914 al 1918. Questo intreccio di ideologia, cultura e corporeità risalta in modo esplicito negli anni del conflitto aperto ma si riflette – almeno nel caso italiano – negli anni del dopoguerra e del fascismo sia sul piano delle percezioni dell’alpinismo che su quello delle sue acquisizioni tecniche ed operative”. (Alessandro Pastore, Alpinismo e storia d’Italia dall’Unità alla Resistenza, 2001)

[69] Alcune di queste salite (Vinatzer in Marmolada, Carlesso alla Trieste, Andrich alla Punta Civetta, Comici alla Grande, Cassin ancora alla Trieste) rappresentarono dal punto di vista dell’arrampicata libera il livello massimo raggiunto, almeno in Dolomiti, fino agli anni ‘70.

[70] Julius Evola, Meditazioni delle vette. La via interiore alla montagna, 1972

[71] La sua formula secondo la quale “l’ontogenesi segue la filogenesi” fornisce un pretesto scientifico alla teoria sulla superiorità della razza ariana. Infatti le etnie prive di determinati caratteri sarebbero su questa base ad uno stadio evolutivo inferiore. A suo parere le differenze sulle “razze” non sono solo legate a caratteristiche fisiche, ma anche alle potenziali capacità intellettive e «la differenza fra la ragione di un Goethe, di un Kant, di un Lamarck o di un Darwin, e quella del selvaggio più basso… è molto maggiore della differenza di grado esistente fra la ragione di quest’ultimo e quella dei mammiferi “più razionali”, le scimmie antropoidi».

[72] Haeckel utilizza il termine “ecologia” nel 1866, definendola come studio dell’economia della natura e delle relazioni degli animali con l’ambiente organico e inorganico.

[73] Dal 1931 Darré dirige l’“Ufficio per la razza e le colonie”, nell’ambito delle SS.

[74] Negli anni venti, comunque, anche in Italia qualcosa comincia a muoversi, grazie soprattutto all’estensione della pratica sciistica amatoriale. Una sensibilità ambientale e una nuova attenzione alla montagna trovano riscontro nel 1923 nella creazione del primo grande parco italiano, il Parco nazionale d’Abruzzo.

[75] Già a metà degli anni venti nasce ad esempio una speciale sezione del Club Alpino, l’ESCAI, dedicata all’escursionismo scolastico.

[76]La prima cosa che si deve curare nell’arrampicamento, è lo stile” (in Alpinismo eroico, p. 138).

[77] Anche nel metodo di allenamento sulle palestre di roccia delle valli piemontesi, Boccalatte è un anticipatore.

[78] Gabriele Boccalatte, Piccole e grandi ore alpine, 1939. Lo stile del suo unico libro è come il suo alpinismo: pulito, onesto, concreto.

[79] Giusto Gervasutti, Scalate nelle Alpi, 1945

[80] Cervino. (Ascensione sulla via normale), 1911, realizzato da Mario Pazienza, che gira anche nello stesso anno Ascensione al Dente del Gigante. Nel 1913 viene girato da una troupe inglese un altro “Cervino”, che verrà programmato anche nelle sale pubbliche.

[81] Hodler afferma: “La mia particolarità consiste nel combinare monumentalità e leggerezza”. Nelle sue tele sono rappresentate continuamente le cime dell’Eiger, del Mönch e della Jungfrau, irradiate da una luce che è energia luminosa allo stato puro.

[82] Castiglioni muore nel marzo del 1944, a soli trentacinque anni di età, sulle Alpi svizzere. Dopo una prima detenzione in Svizzera con successiva espulsione, viene catturato nuovamente oltre il confine e rischia l’internamento in un campo di prigionia. Riesce a fuggire nella notte, senza pantaloni e senza scarponi, con i ramponi legati ai piedi scalzi. Verrà ritrovato tre mesi dopo, appena oltre il confine, morto congelato.

[83] Vittorio Ratti viene ucciso in uno degli ultimissimi scontri, il 26 aprile 1945.

[84] Gasparotto aveva partecipato nel 1929 ad una delle prime spedizioni italiane nel Caucaso. L’anno precedente insieme a Castiglioni aveva sfiorato la grande impresa, compiendo un serio tentativo alla parete nord delle Grandes Jorasses, Altrettanto pionieristica la spedizione sulle coste orientali della Groenlandia, nel 1934.

[85] Tissi, come Livio Bianco, morirà in montagna, durante una scalata, pochi anni dopo la fine della guerra.