Sulle ali della libertà

Taccuini di viaggio: Bolivia e Cile (2015)

di Stefano Gandolfi, Sudamerica, Bolivia e Cile, settembre 2015

Sulle ali della libertà copertinaHo pensato di titolare così la narrazione del viaggio in Bolivia e Cile, e so che si tratta di una scelta un po’ temeraria, perché esprime un enorme contrasto fra situazioni spirituali ed emotive personali e condizioni materiali che sono agli antipodi del concetto di libertà. Da una parte abbiamo meravigliose situazioni ambientali, paesaggistiche, panorami e spazi immensi riempiti di vuoto, di nulla, di aria, silenzio, vento, sabbia e montagne, distese di sale grandi come intere nostre regioni, lagune colorate talmente irreali da poter far pensare di essere su un altro pianeta, voli di fenicotteri ad alta quota sullo sfondo di montagne andine di 6000 metri di quota, tutte condizioni che danno immenso impulso ad un anelito di libertà spirituale e fisica; dall’altra parliamo di paesi abitati da popolazioni che nei secoli scorsi, e talune ancora adesso, non hanno mai potuto assaporare quella libertà che noi andiamo a cercare a casa loro; popoli che, come in Bolivia, detengono il record mondiale del numero di colpi di stato (più di 200…), popoli che in tempi recenti, come in Cile, hanno vissuto la tragedia della dittatura del generale Pinochet e che appena da poco tentano di risollevarsi dal passato.

Popoli poveri, laddove anche la povertà è un ostacolo alla libertà se è di tale misura da non permettere a una persona di sfamare sé e la propria famiglia e di fare progetti sulla propria vita. Eppure, paradossalmente, anche a causa di questo enorme contrasto, noi turisti e viaggiatori europei percepiamo ancora di più quella sensazione che da noi tante volte non riusciamo a vivere, pur avendone molte più possibilità di loro! Non assaporiamo più la libertà perché siamo stressati e oberati dal lavoro, siamo imprigionati in una ragnatela di impegni professionali, familiari, sociali, economici, e tutto ciò ci fa pensare di non poter godere e usufruire come vorremmo di quanto ci offre il nostro mondo, per giunta con tutti i problemi, peraltro anche seri, che stiamo vivendo in questo periodo storico.

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Lungo le strade della Bolivia, fra Potosì e Uyuni: una famiglia ci osserva mentre la fotografiamo dalla jeep: curiosità, rispetto, sguardi gravati dal peso della povertà e della precarietà della vita, ma allo stesso tempo rivelano dignità, rassegnazione ed accettazione del loro destino.

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Bolivia, altopiano fra Sucre e Tarabuco, a circa 3000 metri di quota: Cristina è una donna quechua che vive da sola, con polli e maiali; intreccia braccialetti che vende ai rari turisti; nessuno sa la sua età perché non è mai stata registrata a un’anagrafe, forse ha più di 90 anni!

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Grandi spazi in alta quota: Salar de Atacama, Cile, a circa 3500 metri di altitudine

Anche gli spazi ci stano stretti: il nostro paese antropizzato, densamente popolato, anche quando magari andiamo in montagna o a contatto con la natura ci sembra spesso troppo poco conservato nella sua integrità naturale e privo di quella “wilderness” che appare sempre di più imprescindibile nella nostra esigenza di staccare dalla vita civilizzata. Ed ecco allora che i grandi spazi del Sudamerica appaiono di una magia senza uguali. Noi lo abbiamo vissuto in Patagonia, un grande contenitore pieno di nulla, solo di aria, vento e cielo; lo abbiamo sperimentato sui grandi altipiani tibetani, nelle incredibili dimensioni delle montagne himalayane, e quando siamo finalmente atterrati in Bolivia, e poi via terra passati in Cile nel deserto di Atacama, ci è sembrato di poter finalmente realizzare questo irrefrenabile impulso di perderci nell’immenso nulla di questi altipiani ad altissima quota. Ovviamente con tutto il rispetto e la sensibilità per le condizioni di vita della gente del luogo che, verrebbe di dire se non fosse il solito, abusato luogo comune, nonostante la durezza della sua condizione riesce sempre ad essere ospitale e cordiale, in Sudamerica come in qualunque altra parte del mondo.

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Grandi spazi ad alta quota: un fenicottero si specchia nelle lagune salate del Salar de Atacama, Cile

Abbiamo avuto anche la possibilità, stante la vicinanza al cielo degli altipiani boliviani, di inserire in un viaggio sostanzialmente turistico una bellissima salita in cima a un vulcano di 6000 metri; una salita escursionistica e non alpinistica, senza difficoltà al di fuori di quelle correlate all’alta quota e all’ipossia, ma comunque un’altra grande esperienza portata a casa col ricordo degli incredibili panorami delle Ande.

Abbiamo toccato con mano anche le differenze esistenti fra popoli vicini e confinanti, come al passaggio di frontiera fra le due nazioni, con la immediata evidenza di come la società cilena sia nettamente più vicina rispetto a quella boliviana al mondo europeo. In Bolivia è evidente la distanza siderale che ancora ci divide, ma non sempre in senso negativo per loro: per esempio, fra i tanti aneddoti che potremmo raccontare, si può ricordare volentieri la ampissima diffusione del free wi-fi in qualsiasi bar, ristorantino, bettola anche nei posti più remoti, cosa che da noi nemmeno ci sogniamo e nei rari casi sia disponibile quasi sempre lo è a pagamento.

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un confine tra Bolivia e Cile

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Wi-Fi a 4000 m. in mezzo al nulla

Più che cercare di raccontare a parole la bellezza dei posti visitati, sperando che le fotografie possano farlo meglio, mi piace appunto raccontare un po’ di aneddoti che possono dire tante cose in poche parole. Per esempio un altro fatto che ci ha lasciato stupiti è l’assoluta mancanza di informazione su molte cose che succedono nel mondo occidentale; per esempio, quando raccontavamo dell’ ISIS e di tutte le tragiche vicende correlate, nessuno riusciva a capire di cosa stavamo parlando … Certo, loro avrebbero potuto raccontare a noi tantissimi dettagli su Pinochet, Videla, Stroessner, e poi di Evo Morales, di Hugo Chavez, dei narcotrafficanti … e tutto ciò basta e avanza per capire che se noi abbiamo dei problemi, loro ne hanno altri, sicuramente anche peggiori!

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Bolivia, fra Sucre e Potosì: un pastore mostra orgoglioso i suoi gioielli

Parlando di libertà ci si accorge di quanto sia vicina la distanza fra paradiso e inferno. Quando siamo arrivati a Potosì, una città di 150.000 anime a oltre 4000 metri di altitudine, volevamo visitare le miniere di Cerro Rico, dove una volta si estraeva pregiatissimo argento esportato in tutto il mondo; ora l’argento è marginale, soppiantato dallo stagno e attualmente da zinco e piombo. Questa visita è stata una delle esperienze più impressionanti, una vera e propria discesa all’inferno, seppure a 4200 metri di altitudine, nelle viscere di una montagna dove si raggiungono i 46° gradi di temperatura nelle parti più profonde, si inalano gas tossici, agenti chimici nocivi, bisogna stare sempre attenti a non toccare le pareti incrostate di arsenico, a non scivolare nel fango che tappezza gli stretti camminamenti e non bisogna soffrire di claustrofobia, oltre a cercare di non andare in affanno per la sensazione psicologica ma anche reale di mancanza di ossigeno.

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Bolivia, Potosi: la venditrice di foglie di coca, acquavite e dinamite nella sua minuscola bottega, punto di sosta obbligato prima dell’ingresso nella miniera di Cerro Rico

Non è una gita turistica, e lo si capisce fin da fuori, quando gli operai della cooperativa ti fanno vestire con le loro tute, sporche e lacere, con i loro stivali di gomma puzzolenti, ti fanno indossare i loro caschi metallici, pesantissimi e scomodi, ti mettono sulla schiena una batteria per alimentare le lampade frontali che sbilanciano ancora di più il casco; poi si attraversano le strade della città alta così abbigliati, si entra in un negozietto di 3 metri x 3 gestito da una vecchina di età indecifrabile, sicuramente con più anni che denti in bocca, con la schiena curva tanto quanto la strada ripidissima che porta alle miniere, e con assoluta naturalezza si comprano come di consuetudine dei regali da portare ai minatori che lavorano dentro. Vi chiedete cosa si regala ai minatori? semplice: 5-6 candelotti di dinamite, un pacco di nitrato di ammonio come detonante per la miscela esplosiva, una bottiglia di tossicissima acquavite da 70° fatta in casa e un pacco da 1 kg di foglie di coca; con tutta questa roba in mano si sale su una jeep, si raggiunge l’ingresso della miniera e ognuno di noi lascia il suo regalo al primo minatore che incontra. Sono tutti giovani, anche di 13-14 anni, non è una miniera per vecchi, anche perché muoiono quasi tutti a 30-40 anni per silicosi polmonare. All’ingresso, in una nicchia nella parete, ci si imbatte in una inquietante statua ad altezza naturale di un demone, che loro chiamano “zio”, al quale si rivolgono per invocare protezione e benevolenza. Per ingraziarselo gli si infilano una sigaretta accesa in bocca e spargono un po’ di alcol e di foglie di coca per terra; se la sigaretta si consuma tutta, anche per questo giorno sono stati fortunati e sopravvivono fino a domani. Poi, nelle viscere dell’inferno, si accendono una sigaretta e se la fumano mentre martellano la parete della montagna per infilarvi dentro un candelotto di dinamite e la sua miccia, con buona pace per la nostra legge 626 sulla sicurezza sul posto di lavoro. Incredibilmente siamo usciti incolumi a rivedere il sole e il cielo delle Ande, e abbiamo pensato che l’alcol e le foglie di coca per questa gente sono un dono inestimabile per sopravvivere fino al giorno successivo.

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Bolivia, Potosì: nelle viscere delle miniere di Cerro Rico, a oltre 4200 metri di altitudine. Questo giovane minatore si chiama Cristian, all’epoca aveva 15 anni, è un vero eroe moderno, fiero e inconsapevole della breve durata della sua vita in quell’ inferno.

A colazione, la mattina dopo, abbondante infuso a base di foglie di coca, per combattere l’altitudine e i sensi di colpa al ricordo della miniera, e dopo una lunga traversata nel deserto un’altra città a 3700 metri di quota, Uyuni, che dà il nome al più famoso deserto salato del mondo, il salar de Uyuni. E prima di entrare nelle sue strade desolate, in un atmosfera da film di fantascienza apocalittico, genere post-atomico, ci siamo persi per due ore in un labirinto di locomotive, vecchi vagoni arrugginiti e abbandonati su binari che non portano più da nessuna parte se non a morire in mezzo al deserto: per chi ama il genere, e io lo amo moltissimo, si poteva immaginare di essere a fianco di Mel Gibson a combattere per la sopravvivenza nella saga di Mad Max; ma tutto questo era semplicemente il cimitero dei treni di Uyuni, ricordo di un tempo in cui si fabbricavano locomotive a vapore e vagoni che a un certo momento non servivano più, perché i continui terremoti delle Ande hanno completamente distrutto gli esili ponti e le infrastrutture che sorreggevano le strade ferrate, senza che ci fossero i soldi per ricostruirle. Con questo i boliviani persero l’ultima possibilità di avere (seppure con cospicui dazi doganali da versare ai cileni) un accesso ai porto di Antofagasta sull’oceano Pacifico, dopo che i cileni stessi lo avevano annesso con tutta la sua provincia, l’unica provincia affacciata sul mare e quindi di importanza vitale per l’economia boliviana. Fu una guerra durata cinque anni ma in realtà conclusasi in un unico giorno, il primo, il giorno di carnevale: e anche questo aneddoto, ammesso che sia vero, esprime tanto del carattere di questa gente, pacifica, un po’ indolente, rassegnata, ma anche capace di fare ironia su se stessa: perché la nostra guida di Sucre, per giustificare il fatto che non avevano opposto resistenza ai cileni il giorno dell’invasione, raccontava che dalla capitale, in risposta al disperato dispaccio proveniente dalla costa, avevano detto che per quel giorno non si poteva fare nulla perché era carnevale, la gente festeggiava e se mai se ne sarebbe riparlato il giorno dopo … quando tutto il danno però era già stato fatto: e addio sbocco al mare!

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Uyuni, 3600m. Augusta su una rudimentale altalena nello scenario post-atomico del cimitero delle locomotive, in un deserto tormentato dal silenzio assordante del vento

Altri ricordi indelebili: il Salar de Uyuni. Una distesa di sale di 12.000 kmq, come metà del Piemonte, a 3650 metri di quota. 10 miliardi di tonnellate di sale di litio, boro, potassio e magnesio. Abbacinante, irreale, non si può credere di correre con il fuoristrada per ore sul sale, duro, solido, a zolle, ma te ne accorgi subito, cosa vuol dire sale puro a quella quota, quando ti togli gli occhiali da sole e rimani accecato all’istante; come se fossi sui ghiacciai himalayani, ma lo sguardo può solo variare fra il bianco del sale e l’azzurro del cielo, e non si è più sicuri di niente, fra distanze completamente falsate e un orizzonte che a ogni istante sembra allontanarsi, deformarsi e svanire nel nulla. E quando alla sera entri in albergo e hai una sensazione strana, e ti chiedi di cosa è fatto l’albergo, beh, la risposta è semplice: è fatto di sale, costruito quasi completamente con solidissimi blocchi di sale… poi ci sono gli infissi, le finestre, i tavoli, le poltrone, ma tutto appoggiato sul sale vivo. Un albergo unico al mondo.

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Bolivia, Salar de Uyuni, 3650 metri: storditi dalla luce, immersi in un paesaggio surreale, fra realtà e miraggio

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E quando il giorno dopo si viaggia di nuovo sulle piste sabbiose (percorse poche settimane prima dagli equipaggi della Dakar) per arrivare alle lagune colorate, e si vedono le montagne sulle sfondo, montagne di 5000 metri, e si vedono chiazze bianche alle loro pendici, non bisogna chiedersi che cos’è quel bianco, perché non è ghiaccio, ma ancora sale, affioramenti di sale originati dall’evaporazione di un vecchio, gigantesco e profondissimo lago preistorico.

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Bolivia, dal Salar de Uyuni verso l’ Hotel Tayka del Deserto, 4523 metri, lungo le piste del rally Dakar. Una vigogna appare all’ improvviso: si ferma a guardarci o a meditare sulla direzione da prendere?

E poi parliamo della Laguna Colorada, un grande lago a 4200 metri, dove il rosso delle alghe e del plancton si riflette sul bianco del deposito di sodio, borace e gesso. E dove i fenicotteri di alta quota si sono adattati a vivere in un ambiente marziano, nel quale ogni logica depone contro la sopravvivenza, eppure si sopravvive e si vive ostinatamente e meravigliosamente; e poi la Laguna Verde a 4400 metri, dove i colori sono solo da fotografare perché derivano dallo zolfo, dall’ arsenico, e dal piombo, non un bel posto da farci un bagno, ammesso che uno ne abbia voglia, con venti a 70 km orari che congelano anche le dita che schiacciano il tasto dell’otturatore sulla reflex.

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Bolivia, Laguna Colorada

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Bolivia, Laguna Verde

In mezzo a tutto questo la salita a un vulcano isolato di 6020 metri, una delle tante vette altissime della Cordillera, in fondo a una valle dove vive il puma delle Ande, rarissimo; noi non lo abbiamo visto ma abbiamo camminato sulle sue orme, mentre lui sicuramente vedeva noi, appostato sulle alture rocciose di questa steppa desolata, in agguato per cacciare qualche preda, magari non un umano, troppo grosso e strano, sicuramente qualche lama o una tenera vigogna.

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Bolivia: oltre il paesino di Quetena Chico, ultimo avamposto umano ad altissima quota, a 4700 metri sulla steppa arida e ventosa della piana alle pendici del vulcano Uturuncu (sullo sfondo, 6008 metri s.l.m.), salito il giorno precedente. Poco lontano da lì l’emozione dell’avvistamento delle orme del rarissimo puma delle Ande, che ben nascosto sulle alture circostanti ci guardava con curiosità

La salita al vulcano Uturuncu realizzata in una sola giornata, è quasi incredibile, ma sulle Ande è realizzabile ciò che in Himalaya sarebbe impensabile: abbiamo passato una gelida notte in due desolate camerette di una piccola pensione in uno sperduto avamposto della civiltà a 4250 metri, il paesino di Quetena Chico, che sembra uscito dalla sceneggiatura di uno spaghetti- western, con le strade deserte battute dal vento, pochi bambini che escono dalla scuola e giocano nel nulla in mezzo alla polvere della steppa, una numerosa popolazione di lama che spadroneggia nella piazza del paese occupando il suolo pubblico fra il municipio e la chiesetta, vecchi fuoristrada e pick-up decrepiti e arrugginiti; mancano solo i pistoleros che affidano le anime a Dio e la musica di Morricone, in compenso se fai tre passi cominci a boccheggiare come un enfisematoso per la quota e pensi che forse anche Clint Eastwood avrebbe potuto sbagliare la mira a causa della confusione mentale provocata dall’ ipossia (che Sergio Leone mi perdoni!).

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Bolivia, Quetena Chico, 4500 metri. Comitato di accoglienza davanti al Municipio. Mezzogiorno di sputi?

Sveglia alle 6.30, colazione alle 7 e subito sulle jeep, su una strada che attraversa una vasta zona acquitrinosa e poi sale progressivamente su una sterrata sempre più ripida e rovinata (una volta serviva ai minatori delle miniere di zolfo della montagna, non certo ai turisti) Si comincia a camminare da 5300 metri fino ai 6020 della vetta, in mezzo ad affioramenti di lava consolidata e di zolfo: sotto la cima finalmente si calpesta un po’ di ghiaccio, si beve the per scaldarsi dal vento tesissimo, e infine non c’è più da salire, si può tirare il fiato e commuoversi con i grandi spazi aperti sulle Ande, le lagune, il bellissimo vulcano Licancabur di fronte, a sud-ovest, al confine col Cile; orizzonti che fanno quasi male tanto sono senza fine e senza misura. Poi una folle, vertiginosa corsa su terriccio e ghiaia e quindi su un ripidissimo versante sabbioso che taglia perpendicolarmente tutto il versante affrontato in diagonale, con molta più saggezza, in salita; sembra di essere sulle dune del deserto del Namib ma nulla ormai appare strano quassù; la jeep è laggiù in fondo, si corre ancora come dei matti per raggiungerla e alle 4 del pomeriggio si è di ritorno in tempo per mangiare pastasciutta al ragù nel paesino che sembra essere stato costruito il giorno prima dalla manodopera di Cinecittà per accoglierci e per essere smontato il giorno dopo, alla nostra partenza!

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Cile, Atacama: la Valle della Luna

E poi il confine col Cile: si lasciano i Toyota Land Cruiser maestosi e infaticabili, si lasciano coperti di polvere e si sale su un elegante SUV della Nissan tirato a lucido, e si capisce subito che siamo in un altro mondo: l’autista ci guarda come se fossimo dei pezzenti provenienti dalla preistoria, certo siamo un po’ sporchi, sudati, impolverati e poco lavati (ma con quale acqua?!) e lui al confronto è un damerino e forse ha paura che gli sporchiamo i sedili e i tappetini! Si scende a rotta di collo perdendo 2000 metri di dislivello in mezzora, su una strada incredibilmente dritta senza neanche una curva per attenuare la pendenza e la velocità, e si entra a San Pedro de Atacama; si torna indietro nel tempo, sembra di essere in una comunità hippie degli anni ‘60, una discreta ma evidente atmosfera rilassata con sottofondo di spinelli, birre, musica reggae, divertimento, relax e suggestioni a cavallo fra la psichedelia di “Zabriskie point” e la west coast acida dei Greateful Dead. La vita per i giovani turisti nordamericani inizia pigramente a mezzogiorno, ma per chi non vuole perdersi le emozioni vere la sveglia è di notte, per andare a vedere i geyser del Tatyo a 4200 metri, avvolti da coperte di lana gettate sopra i piumini, con la folle tentazione di avvicinarsi ai getti di vapore per scaldarci un po’, chi crede che l’ inferno sia caldo non è mai passato da lassù… e poi ancora vertiginosamente giù nel deserto di Atacama, la Valle della Luna con dune di sabbia in continuo movimento modellate dal vento, e poi ancora le lagune salate con i fenicotteri che volano davanti alle montagne, irraggiungibili nel loro anelito per la libertà.

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Cile, geyser del Tatyo, 4200m: un piccolo soffio di vapore bollente, ma subito gelido nell’ alba in alta quota

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Cile, Atacama: la Valle della Luna

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Un albergo più confortevole, una pizza spettacolare con musica popolare dal vivo, vecchi dischi dei Rolling Stone e di Bob Marley, un tenore di vita che si avvicina molto di più a quello dell’Europa (magari quella meno ricca), sicuramente fra i più elevati in tutto il Sudamerica. Ce ne accorgiamo anche e soprattutto a Santiago de Chile, metropoli moderna a poche decine di chilometri dalle montagne ove in tre quarti d’ora si può andare a sciare e a camminare e scalare.

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Cile, Salar de Atacama, 2400 metri

Un paese dove c’è ancora equilibrio fra l’offerta lavorativa e una popolazione sufficientemente scarsa da non dover competere per le risorse economiche, almeno nella capitale, dove vive più di un terzo di tutta la popolazione cilena.

Anche qui però si percepisce la tensione dei ricordi ancora vivissimi del passato recente: arriviamo al pomeriggio del giorno dell’anniversario della morte di Salvador Allende e della presa del potere da parte del dittatore Pinochet; sono passati 42 anni ma la memoria è vivissima, ce ne accorgiamo quando chiediamo a un tassista di portarci in centro per una breve visita della città storica; per lui è un guadagno veloce, 4 turisti per 4-5 km di tragitto, ma si rifiuta di portarci, dice che è troppo pericoloso, perché in questo giorno a Santiago ci sono in piazza le due fazioni, i nostalgici di Allende e quelli di Pinochet, e tutti gli anni ci sono scontri anche violenti: mi spiace, ci ripete, ma non vi porto in centro, non è sicuro per voi, quasi ci chiede scusa ma è irremovibile; ci rassegniamo a un giro nel quartiere moderno, bellissimo, grattacieli arditi, dalle forme e dal design innovativi; c’è una luce bellissima al tramonto con il sole che incendia di rosso le Ande distanti poche decine di km ed che fanno da sfondo allo skyline dei grattacieli; tutto è tranquillo, quasi idilliaco, ma ci sono camionette della polizia e dell’esercito, in centro anche mezzi blindati in assetto da guerra; da queste parti non scherzano con la sicurezza, se ci sono tensioni e scontri si interviene subito con altrettanta violenza, anche perché nessuno si può permettere il lusso che il passato ritorni alla ribalta: tutto potrebbe precipitare in poche settimane e si scivolerebbe indietro di 40 anni. Noi vediamo la superficie della società cilena, poi c’è tutto il resto sommerso come un iceberg. Anche in albergo al rientro ci chiedono se abbiamo avuto problemi, e non per pura cortesia. Poi, alle tre di notte, in pulmino all’aeroporto, strade deserte, esercito e mezzi blindati ancora schierati, ci dicono che questa volta è filato tutto liscio, se ne riparlerà l’anno prossimo.

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Santiago de Chile: modernità, discreto benessere ma ancora forti tensioni sociali ai piedi delle Ande

Si torna col pensiero di un continente che non sa cosa sia l’ISIS e il terrorismo fondamentalista, ma conosce perfettamente tutta la storia recente di dittature sanguinose, di destra e di sinistra, tutte le formazioni dei clan di narcotrafficanti, le débâcle finanziarie di interi stati come l’Argentina o il Venezuela; però rimane il ricordo di uno stormo di fenicotteri che volava sul Salar de Atacama indifferente a tutti i nostri problemi, e di una struggente musica popolare che faceva volare in alto il suono dei flauti andini e le canzoni dei giorni di festa, di danze, di matrimoni, battesimi, funerali e di tutto ciò che è possibile inventarsi per festeggiare qualcosa, bere, masticare foglie di coca e dimenticare un passato e un presente pesanti come macigni; ma i fenicotteri volavano più in alto di tutte le miserie umane sulle ali della libertà, e non ci degnavano di uno sguardo.

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