Hans e l’arte della fuga

di Paolo Repetto, 4 dicembre 2022

La scomparsa di Hans Magnus Enzensberger mi spinge a ripensare finalmente il mio rapporto con lui. È stato uno dei miei autori di culto, per molti versi lo è ancora, tanto che l’ho inserito nel recente album sui Ritratti di famiglia, tra coloro che i Viandanti considerano padri e maestri. Qualcosa però ultimamente si era rotto. Forse tracciare bilanci dei propri debiti intellettuali in occasioni come queste è poco appropriato, soprattutto se i conti non sono affatto chiari: ma credo che malgrado in questa settimana siano stati pubblicati migliaia di coccodrilli enfatici, la riflessione cui sono indotto non vada a mescolarsi di “mille voci al sonito”, perché vorrebbe guardare un po’ oltre la figura e il ruolo dell’estinto.

Il quale, beato lui, aveva raggiunto in fondo un’età ragguardevole, a dispetto della dieta quotidiana da quaranta sigarette, conservandosi perfettamente lucido sino alla fine (questa cosa, e anche la faccenda delle sigarette, mi confortano molto). Penso che onestamente non potesse chiedere di meglio. Ma non sta qui il motivo della mia tiepidezza empatica, perché di norma la perdita di amici o di corrispondenti ideali anche più anziani di lui mi rattrista molto: e nemmeno lo è la svolta “conservatrice” (per alcuni addirittura reazionaria) intrapresa da Enzensberger negli ultimi decenni, che anzi, avrebbe semmai dovuto farmelo sentire più vicino. Ho condiviso infatti sino alla fine le sue critiche, i suoi sarcasmi e anche molto del suo scetticismo, e quando magari non ero del tutto d’accordo con lui non potevo fare a meno di apprezzarne la schiettezza nello schierarsi contro la dittatura ipocrita del politicamente corretto. E poi, soprattutto, continuava ad accomunarci il culto di Alexander von Humboldt, che ha rappresentato per entrambi la passione e l’impegno di studio di una vita (nel rispetto delle proporzioni, naturalmente: lui è riuscito ad editarne l’opera completa, che comprende anche dieci volumi di corrispondenza, io a scriverne una smilza presentazione per i miei studenti), nonché l’ammirazione per Orwell. Avrei dunque dovuto patirne la scomparsa come quella di un fratello maggiore o di un amico fraterno.

Niente di tutto ciò. Il vuoto culturale, questo si, lo avverto: dopo Berlin, dopo Steiner, non erano rimasti molti gli autori dai quali aspettarsi qualcosa capace di spiazzarti e stimolarti assieme. Forse era rimasto proprio solo lui, nato ancora in tempo utile per rientrare di diritto in quella generazione d’anteguerra alla quale mi accorgo di essermi sempre ispirato. Quello che non provo è invece il vuoto emozionale. Mi mancherà un riferimento intellettuale forte, ma non una di quelle “amicizie” extra-corporali ed extra-temporali che ho idealmente stretto con Berneri, con Leopardi, con Camus, con Timpanaro e con pochi altri.

In realtà, non è stato sempre così. Quando ho letto i suoi primi saggi, agli inizi degli anni Settanta, sapevo assai poco della sua militanza politica, anche se mi era chiaro che stava dalla mia stessa parte, e che ci stava in una maniera tutt’altro che dottrinaria e dogmatica: motivo per cui l’ho immediatamente eletto tra i maestri. Per anni ha poi continuato a rappresentare una sicurezza: se volevo trovare conferma a sensazioni che avvertivo confusamente, chiarimenti su processi dei quali non ero in grado di seguire il filo, mi era sufficiente rivolgermi ad Hans Magnus. Aveva già visto e raccontato e spiegato perfettamente quel che mi interessava conoscere, si parlasse di pubblicità, di televisione, di politica, di Europa, ecc. (In proposito mi pare ancora significativo quello che scrivevo trenta o forse quaranta anni fa in Un filo di resistenza).

Più tardi ho cominciato però ad avvertire una progressiva distanza nei confronti della “persona” Enzensberger. Mi è accaduto dopo aver letto quella sorta di autobiografia sottilmente auto-assolutoria che è raccontata in Tumulto, ma la sensazione circolava già prima, era nata da un paio di interviste rilasciate in occasione dei settant’anni, nelle quali tracciava un bilancio piuttosto compiaciuto della sua vita, di quella privata come di quella pubblica. Ora, non ho nulla contro chi legge a ritroso in positivo la propria esistenza, al contrario, semmai non sopporto quelli che trovano solo di che recriminare: ma nel positivo deve rientrare a mio giudizio anche la capacità di prendere atto “seriamente” delle proprie responsabilità, non quella di scrollarsele di dosso. A un certo tipo di errori non si può rimediare, ma ammetterli è già un buon passo avanti e una lezione che si trasmette agli altri. Non è sufficiente dire “ho scherzato col fuoco, ma non ero così stupido da stargli troppo vicino, e quindi non mi sono ustionato”. Soprattutto quando non è stato così per altri partecipanti al gioco. Chi sapeva che il gioco era pericoloso (e riteneva anche fosse stupido) è responsabile non solo di aver partecipato e di aver forse indotto anche altri a farlo, ma del non aver operato per dissuaderli.

Hans e l'arte della fuga 02

Credo di potermi spiegare meglio riassumendo quello che ho trovato in Tumulto. Prima, durante e anche immediatamente dopo il Sessantotto Enzensberger ha stazionato a margine delle frange più estremiste del movimento di protesta: non nel senso che fosse marginale la sua presenza, tutt’altro, era un leader ed era senza dubbio l’intellettuale di punta della sinistra “rivoluzionaria” tedesca, direttore di una prestigiosa rivista di controcultura, reduce da precocissimi successi letterari, da una docenza negli Usa chiusa polemicamente e da un lungo soggiorno a Cuba altrettanto polemicamente interrotto. “A margine” era invece il suo modo di esserci: da come la racconta parrebbe finito in mezzo al movimento di contestazione quasi per caso, pur essendone stato a tutti gli effetti un capo e un ispiratore. In realtà non sopportava affatto i suoi “compagni di lotta”: né i contestatori “creativi”, come quelli della Kommune 1, un gruppo anarco-situazionista comprendente anche suo fratello e la sua prima moglie, che organizzava azioni di protesta tanto spettacolari quanto patetiche e che Enzesberger stesso a posteriori definisce “una piccola truppa di artisti sbandati” – non li sopportava ma li ospitò nella propria casa per due anni; né i “duri e puri”, che già militavano nella Rote Armee Fracktion, da Andreas Baader a Gudrun Esslin a Ulrike Meinhoff, e che sarebbero poi finiti tragicamente – ma l’ospitalità e il supporto, sia pure di malavoglia, li offrì anche a loro.

Non li sopportava perché la sua superiorità intellettuale (indubbia) gli faceva scorgere quanto velleitario fosse il “vogliamo tutto” e quali insidie nascondesse quel tipo di rivolta. Quindi si teneva sempre sufficientemente discosto dalla “prassi rivoluzionaria”. La sua critica nei confronti del capitalismo, dell’imperialismo, della cultura consumistica, del perbenismo piccolo-borghese rimaneva lucida e violenta, ma proprio in Tumulto racconta che lui stesso era spaventato a volte dall’effetto incendiario che le sue parole avevano nell’animo dei suoi ascoltatori o lettori. “È stato terribile. Non sono un grande oratore, ma ho notato come si può infinocchiare una folla infiammata, se si adotta il timbro giusto, che può giungere fino all’istigazione. D’un tratto ci si trasforma in un propagandista. E anche se si ha ragione nello specifico, è qualcosa di fatale.

La sua posizione è rimasta quindi per tutto quel periodo, come lui stesso scrive, quella di un “osservatore che partecipa”, ma già in partenza disincantato: di uno che “mangia con gli autoctoni, danza e va a letto con loro”, ma è ben consapevole dei loro limiti, e di quelli della causa stessa per cui credono di combattere: di chi vede insomma il male prima e meglio degli altri, e lo denuncia, ma non è poi così ingenuo da pensare che si potrà spazzarlo via sotto le risate o con qualche pallottola. Era il giocatore che non si assume responsabilità, nel senso che pur partecipandovi non prende sul serio il gioco, e al quale la posta in fondo neppure interessa, perché troppo impegnato a soddisfare la propria sete di novità (politiche ma anche sentimentali), a camminare sempre in avanscoperta. Il che non gli consente di fermarsi a considerare chi, avendo invece nel gioco creduto troppo, cade o si perde lungo la strada, non solo per insufficienze proprie ma anche per aver ricevuto indicazioni ambigue.

Scrive ad un certo punto: “Inizialmente me ne volevo solo andare via velocemente. Non volevo davvero finire in prigione. Semplicemente non sono adatto a fare l’eroe”. Di qui la pulsione sempre più urgente a chiamarsi fuori: e il suo modo di ritrarsi non era il taglio netto, ma la latitanza: spingersi talmente avanti e scartare tante volte di lato da essere perso di vista da chi lo seguiva. Negli anni caldi del terrorismo tedesco è rimasto quasi sempre fuori dalla Germania, praticamente in fuga, non dalla polizia, ma da ogni possibile coinvolgimento, da ogni coazione a schierarsi. Ha viaggiato per mezzo mondo rimbalzando qua e là come una pallina da flipper, e spiazzando sia gli amici che gli avversari con continui cambi di posizione. Nel frattempo ha maturato il distacco dal marxismo, ed a metà degli anni Settanta era ormai out tanto per la sinistra che per la destra, mentre per contro il suo peso di intellettuale anticonformista si andava consolidando ad ogni uscita di una sua nuova opera di poesia o di saggistica. Quando io ho cominciato a leggerlo esercitava già il ruolo del battitore libero, equamente e acutamente critico nei confronti tanto delle ipocrisie democratiche occidentali quanto dei socialismi reali e delle utopie movimentiste. Ha continuato a farlo, a modo suo, fino all’ultimo.

Hans e l'arte della fuga 03 Enzensberger

Perché allora è uscito ad un certo punto dal mio Pantheon? Forse, messa così, come l’ho forzatamente sintetizzata, può sembrare che Enzensberger abbia voluto raccontare senza farsi sconti una progressiva presa di coscienza dell’ambiguità del proprio ruolo, e offrire una lettura del fenomeno della contestazione che in linea di massima è condivisibile (almeno, io lo condivido). Ma in realtà la sua narrazione è all’insegna di un sarcasmo scanzonato che alla lunga suona presuntuoso, che investe tutto e tutti e giustifica la ritrosia a impegnarsi a fianco degli altri, mentre al contempo rivendica un personalissimo diritto all’irriverenza. L’anticonformismo sembra essersi involuto in lui da una vocazione in una professione: e questo lo ha costretto a riposizionarsi costantemente, senz’altro per continuare ad essere un testimone credibile e un accusatore non incline ai patteggiamenti, ma anche per corrispondere, ad un certo punto, al ruolo che lo stesso sistema da lui messo sotto accusa gli aveva ritagliato.

Insomma, non so quanto sia riuscito a spiegarmi. Spero sia chiaro che non sto parlando di uno spacciatore di anticonformismo da salotto, ma di una intelligenza eccezionale, per la quale nutro un reverenziale rispetto. Il che non mi impedisce tuttavia di pensare che si tratti di una intelligenza “fredda”, acuta e senz’altro accattivante, ma in realtà egoistica e poco disponibile ad ascoltare e considerare le ragioni altrui. Da tutta questa vicenda vien fuori a mio giudizio la figura di un uomo del quale in definitiva non mi fiderei, molto diversa da quella che mi ero costruito leggendo La breve estate dell’anarchia o Mausoleum: e alla nuova luce ho dovuto ripensare anche quelle opere.

Per meritare la fiducia non c’entra avere o meno l’animo dell’eroe (che in questo caso non è una giustificazione alla don Abbondio, che arrivava dal basso di una condizione di estrema fragilità, ma suona un po’ presuntuosamente come un diritto accampato dall’alto, un “Io me lo posso permettere”). E neppure c’è l’obbligo di essere sempre coerenti, se non nei confronti dei valori fondamentali. C’entra invece una particolare disposizione, che io ritengo innata, verso gli uomini e verso le idee. In sostanza, io non credo che Enzensberger abbia mai davvero amato gli uomini, o per lo meno li abbia amati per quel che sono: ha coltivato per qualche tempo una sua idea di come gli uomini dovrebbero essere (e fin qui ci sta, lo facciamo tutti) ma stabilendo da subito dei parametri che non consentivano compromessi con la realtà della natura umana. Una volta verificato come questi parametri fossero inapplicabili (e lo ha fatto girando non solo in Russia o a Cuba o nella Germania dell’Est, ma per tutti i “socialismi reali” che all’epoca fiorivano) e quanto poco in definitiva gli importava lo fossero, non ha abbassato l’asticella ma si è dedicato ad uno sport a lui più congeniale.

Volendo trovare una vicenda analoga alla sua qui da noi, l’accostamento che mi viene più spontaneo è con Pasolini. Non solo per il ruolo di grillo parlante recitato da entrambi, quanto proprio per il tipo di rapporto che questo ruolo creava con gli altri. La differenza tra i due sta nel fatto che in Pasolini il rapporto era più sofferto, perché da un lato desiderava superare la distanza, essere accettato nella sua diversità, e non tollerato, ma dall’altro di questa diversità faceva in fondo un’arma, il lasciapassare per potersi permettere ciò che agli altri non era consentito; mentre Enzensberger la distanza se la creava, e il suo proposito era semmai quello di riconfermare in ogni occasione la propria irriverente autonomia nei confronti di ogni autorità intellettuale e politica. L’esito finale è comunque lo stesso. Naturale o culturalmente indotta che sia, la distanza nei confronti degli altri rimane. E l’uno e l’altro, tutto sommato, la vivessero con sensi di colpa o con disincantata ironia, in questa condizione di eccentricità deresponsabilizzante hanno trovato un loro ruolo e un loro modo di essere.

Molto diversa è invece è la posizione di Enzensberger da quella di Orwell, che pure era un suo pallino e al quale avrebbe voluto senz’altro somigliare (come del resto lo avrei voluto io). Orwell non era un anticonformista, anzi, per molti aspetti era un conservatore, che ha trascorso però più di metà della sua vita remando controcorrente. Ma remando sempre nella stessa direzione. “Ogni riga del lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”. A differenza di Enzensberger aveva un’idea chiara non solo di chi fossero gli avversari da combattere, ma anche in nome di cosa bisognava combatterli. Il suo concetto un po’ antiquato di decency gli offriva dei punti fermi di approdo: e malgrado arrivasse anch’egli da una serie di disillusioni continuava a pensare che valesse la pena lottare con gli altri e per gli altri. Non si poneva il problema di essere o meno adatto a fare l’eroe: si rimboccava le maniche e faceva quello che riteneva giusto per rispettarsi come uomo.

Intendiamoci, non sto insinuando che Enzensberger non sia rimasto sempre attento e partecipe alle sorti del mondo: per tornare al tema iniziale, sto dicendo che col tempo l’ho scoperto un intellettuale molto più attento alle idee che agli uomini: uno che ironicamente con le idee ci scherzava e col sarcasmo magari le demoliva, mentre gli uomini per le idee o per colpa delle idee ci muoiono.

Con tutto ciò, perché ho allora inserito Enzensberger nell’Album degli antenati e dei maestri dei Viandanti? Perché tale è stato e tale rimarrà a tutti gli effetti, indipendentemente dai miei mal di pancia: e i suoi libri continueranno ad occupare nella mia libreria uno scaffale di centro. E anche perché, alla sua maniera maliziosa, Hans Magnus aveva già preventivamente risposto agli appunti che gli ho mosso. L’ultima sua opera pubblicata in Italia, proprio quest’anno, si intitola Artisti della sopravvivenza. Raccoglie sessanta brevi ritratti di intellettuali e artisti vissuti nel XX secolo e sopravvissuti alle repressioni e alle epurazioni praticate non solo negli stati totalitari. Ciò che importava ad Enzensberger era mostrare attraverso queste minibiografie in quanti modi e a quali prezzi un uomo può sopravvivere al carcere e in qualche caso scampare all’esecuzione. Viene in mente subito che altri, e mi riferisco naturalmente ad un sopravvissuto vero, Primo Levi, si è interrogato sul perché alcuni si siano salvati e altri no. Ma qui si tratta di una cosa diversa (e trattata in maniera decisamente più superficiale).

Enzensberger ha pescato trasversalmente a destra e a sinistra, tra le vittime dei fascismi come tra i reietti della bonifica post-bellica. Non è un libro di riabilitazioni, ma di pacificazione. Considerandosi evidentemente anch’egli un sopravvissuto, e anticipando quello che magari prevedeva sarebbe stato il giudizio su di sé, Enzensberger riconduce tutte le strategie di sopravvivenza a quell’invisibile vantaggio che l’intelligenza creativa offre nei confronti dei persecutori e dei carcerieri. Ognuno a modo suo, ciascuno dei suoi personaggi ha saputo aggrapparsi alla fune di solidarietà diacronica gettata dalla cultura. Come a dire: ciò che resta è la cultura, sono le opere prodotte da queste persone, e allora giudichiamo queste ultime per ciò che hanno lasciato, non per come hanno vissuto.

Non credo di essere del tutto d’accordo, e questo stesso scritto lo dimostra, ma quando la domanda, inespressa ma chiaramente avvertibile, è: cosa ne sai tu, cosa ne sappiamo noi per giudicare una vita, delle circostanze, delle condizioni, delle mentalità correnti all’epoca, beh, allora devo convenire che qualche riflessione me la impongo. E così Hans Magnus ha colpito ancora, mi ha suscitato un dubbio, fa vacillare una mia convinzione.

Questo, appunto, è il compito di un vero maestro.

Hans e l'arte della fuga 04 Enzensberger

Il lavoro intellettuale come vocazione

di Paolo Repetto, 1994

Il tema di questa sera è “la Cultura”. Con la C maiuscola. Per essere più precisi, ci chiederemo: “cosa è, cosa non è Cultura”? Una domanda del genere avrebbe fatto correre immediatamente la mano di Goering alla fondina: voi, che siete più tolleranti, vi sentirete al massimo cascare le braccia. A ragione, perché è una domanda vecchia almeno quanto l’homo sapiens, perché ha già ricevuto un’infinità di risposte, tutte per certi versi egualmente valide, e perché questo significa che non esiste alcuna risposta seria e oggettiva. Tuttavia, se siamo qui evidentemente un po’ di curiosità la conserviamo, e pensiamo che in fondo porsi una volta di più il problema e azzardare una risposta nuova non faccia male a nessuno Il rischio massimo che corriamo è per me di dire delle banalità, per voi quello di ascoltarle.

Premesso questo, vediamo intanto perché ho accettato di trattare un argomento così trito e impalpabile, con la prospettiva, oltre che di riuscire banale, anche di apparire presuntuoso. Bene, io ho l’impressione che a furia di rivoltare per dritto e per traverso certi concetti finiamo per darli come acquisiti; oppure, e forse è ancora peggio, rinunciamo a darne una definizione, sia pure provvisoria, e li priviamo pertanto di ogni valenza e significato, facendone dei contenitori. Vorrei dunque approfittarne dell’occasione di questo incontro per provare a chiarirmi una fastidiosa sensazione di distonia linguistica e mentale con quel che mi circonda: ma niente paura, non intendo partire dalla mela di Eva, mi limiterò ad alcune considerazioni spicciole. Se siano poi marginali, o gratuite, o decisamente stupide, starà a voi giudicare.

 

Prendo lo spunto da un articoletto apparso su “La Stampa” dell’8 febbraio scorso (“L’Italia patria di libri e i mostre/ Ma RAI e Fininvest non lo sanno”), firmato da Giorgio Calcagno. Calcagno si chiede quanto spazio venga riservato in televisione alla cultura, e trae dalle statistiche dati decisamente sconfortanti: un misero 5% nei palinsesti della RAI, una presenza puramente simbolica (l’1%) in quelli della Fininvest. Sdegnato, il notista deplora la generalizzata insensibilità dei programmatori televisivi per ogni tipo di evento culturale, e soprattutto la quasi totale assenza di informazione libraria. “Ha perfettamente ragione – direte – spazio ai libri la televisione ne concede veramente poco. Ma è una novità? È sempre stato così, a memoria di teleutente”. Infatti, e sono il primo a pensare che l’articolo di Calcagno non aprirà nuovi orizzonti e dibattiti serrati. Ma non voglio farne questione di novità o meno: quel che mi preme è altro, e sta a monte dell’indignazione del nostro. Vorrei piuttosto chiedermi(vi): la disattenzione televisiva nei confronti dei libri, o più in generale, della “cultura”, è un problema? E rispondermi(vi): no, per niente.

 

Non scandalizzatevi. Io credo che il vero problema sia un altro, e che le geremiadi di Calcagno non soltanto non dicano, ma soprattutto non siano niente di nuovo. Mi paiono tanto inutili quanto stantie, al pari di tutte le grida di dolore che da più parti e a vari titoli si levano a chiedere una più consistente “offerta” culturale. Perché questo è il vero problema: ha senso esigere una “offerta” culturale? Sembra a prima vista un quesito assurdo, tanto appare ovvia la risposta. In teoria, infatti, una vasta gamma di proposte culturali consente ad un maggior numero di persone di scegliere, di partecipare, mentre in assenza di una offerta esibita il mercato si restringe, e molti potenziali fruitori sono scoraggiati o esclusi. Quindi l’offerta contribuisce alla diffusione, ovvero alla democratizzazione della cultura.

Ma le cose stanno davvero così? Crediamo davvero che se i libri avessero sul teleschermo più spazio delle gambe delle ballerine, e le rubriche di critica letteraria più seguito dei telequiz, questo avrebbe a che fare con l’informazione culturale? Non raccontiamoci storie. Sarebbe come voler pensare che le facce di Andreotti o di Craxi hanno indotto negli italiani una maggiore partecipazione e consapevolezza politica, o le cosce della Parietti un costume sessuale più evoluto, o i telequiz un anelito all’erudizione. No, l’informazione, rispetto ai libri (ma allo stesso modo rispetto a tutto ciò che considero “cultura”) uno se la procura in altro modo. Cercare, trovare, sapere che esiste una pubblicazione, e capire che ci interessa, deve rappresentare una conquista, diventare momento di un itinerario culturale che è insieme metodo e obiettivo. Ogni libro parla di altri libri, rimanda ad essi, si inserisce in un percorso tutto personale, solo apparentemente casuale, costruito attraverso letture, cataloghi, riviste, note, chiacchiere con gli amici: tutto, tranne la televisione. La televisione offre, esibisce, si rivolge ad un mercato di spettatori, non di lettori: fa pubblicità, non informazione. È’ nella sua natura. Crea una disposizione attendista, passiva, che nulla ha a che vedere con la conquista e con la partecipazione, quindi con la cultura. Chi attende dalla televisione indicazioni e stimoli per le sue letture, per le sue scelte, è già perso per la causa della cultura (e per tante altre), come del resto lo è chi li “attende” da qualsiasi altra fonte. “Il pubblico vero, effettivo, una minoranza di dieci o ventimila persone che non sono disposte a farsi abbindolare, questo pubblico si è già affrancato da un pezzo dalle arlecchinate dei mass-media, si forma il proprio giudizio senza dipendere dai bla-bla delle recensioni e dei talk-show, e l’unica fonte di pubblicità alla quale crede è la propaganda orale, che è insieme gratuita e impagabile”. (H. M. Enzensberger). Il “pubblico” di Enzensberger, che è poi quella koiné dispersa e disaggregata nella quale sopravvive l’ultima resistenza all’omologazione, sa benissimo a quali criteri può ispirarsi l’”informazione libraria” televisiva. L’unico in sintonia col mezzo e con i suoi utenti è il “di tutto e di più”: ovvero, ciò che piace a tutti e non interessa a nessuno, e che comunque si presta a mettere in piedi un teatrino. È quanto in effetti si è verificato anche in trasmissioni “qualificate” (da Apostrophes a Babele) e non può che essere così, perché si tratta di una questione di contesto. È’ naturale che “consigli culturali” che cadono in mezzo ai “consigli per gli acquisti”, precedendo o seguendo altri spot più o meno espliciti in sembiante di telefilm, varietà o tribune politiche, debbano trattare il libro come un comune oggetto di consumo, al pari di merendine e pannolini e carta igienica, e debbano proporre quei libri che sono proprio tali, fatta salva la minore utilità. Non ha dunque senso lamentarsi perché ciò accade, e rivendicare spazio per qualcosa che nulla ha in comune con la dimensione televisiva.

 

Le lamentazioni di Calcagno (il quale evidentemente non rientra nei dieci o ventimila di Enzensberger) attengono a quella stessa logica che permette a qualcuno di distinguere tra “Samarcanda” e “Il processo del lunedì”. Chi ha bisogno di Babele per conoscere i libri, e di Samarcanda per scoprire la corruzione e il malgoverno, accetta in pieno il gioco della spettacolarizzazione, e non è neppure abbastanza onesto con se stesso da godersi in santa pace gli opinabili “vantaggi” della sua scelta. Non è questione di stabilire se la televisione sia un medium buono o cattivo, caldo o freddo, stupido o intelligente: di questo si è discusso già sin troppo. La televisione è quel che è, risponde perfettamente alle logiche, ai bisogni e ai disegni del sistema che l’ha prodotta. Proprio per questo non ha niente a che fare con l’idea affermativa e formativa di cultura di cui sopra.

 

Ho finito per parlare solo di televisione, ma l’intento era un altro. Se infatti non ha senso caricare la televisione di ruoli che non le competono, che vanno contro la sua “natura”, ne ha ancor meno attribuire una speciale dignità ad ogni altro prodotto che si fregi del bollino d.o.c. della qualità “culturale”. E mi riferisco a mostre, convegni, rassegne, dibattiti, festival, meeting, stagioni liriche e teatrali, concerti, premi letterari, a tutta la paccottiglia del “kultur-shop”, a quegli eventi culturali in confezione patinata ai quali pensa Calcagno quando ne stigmatizza l’assenza in tivù. Sono queste le “occasioni” invocate, offerte speciali sempre più spettacolari, più fini a se stesse (o comunque a qualcosa che è ben lontano dalla crescita culturale), puro pretesto per la chiacchiera salottiera, per il presenzialismo, per l’auto-gratificazione di divi delle lettere, del bel canto, delle scene o delle tele, per gli incensamenti impudichi e gli sproloqui insensati dei critici col patentino, e per il plauso pecoreccio di un pubblico tanto ignorante quanto ansioso di farsi titillare da questi vibratori mentali.

 

Ma allora, cosa si salva? Se inteso come pura “offerta”, niente. Non c’è nulla cui si possa rivendicare un valore “culturale” intrinseco, che possa agire culturalmente quando è rapportato ad un soggetto passivo: mentre è cultura tutto ciò che postula una partecipazione mentale ed emozionale accrescitiva, tutto ciò che induce a non sentirsi soddisfatti, a voler perseverare nella ricerca, tutto ciò che funziona da tramite, e non si propone come punto d’arrivo. È pur vero che anche le “occasioni” culturali ufficiali possono essere vissute in questo modo (io ho i miei dubbi), ma ciò vale per qualunque altra occasione, dalla serata al bar con gli amici alla scampagnata con famiglia, sino all’assemblea condominiale, e senza bisogno di tanti certificati di conformità.

Insomma, spero sia chiaro a tutti che i luoghi deputati della cultura esistono ormai solo in funzione di prosaici significati economici, che vanno (in progressione geometrica) dallo stipendio degli insegnanti nella scuola alle prebende dei docenti universitari, dai rimborsi-spese dei relatori nei convegni ai gettoni dei giurati nei premi letterari, dalle percentuali dei critici nelle mostre ai cachet dei teatranti e dei concertisti. Non è il caso di scandalizzarsi: è così, in altri modi lo è stato anche prima, probabilmente lo sarà sempre più per il futuro. È invece il caso, preso atto di tutto questo, di rifiutare il ruolo di consumatori di cultura e di diventarne attori: e allora diventa necessario uscire dal circuito ufficiale, prendere sentieri meno battuti, e camminare. “Dovete camminare come il cammello, l’unico animale, si dice, che rumina mentre cammina”. (Thoreau)

 

Camminare ruminando: perché non è sufficiente alzarsi dalla poltrona e rifiutare le offerte speciali, per fare cultura. Non ha senso nemmeno ascoltare questo sfogo, se poi non ci si confronta con le quattro idee che ne possono venir fuori. È per questo che vi chiederò, tra pochissimo, di non applaudire mentre già tenete il cappotto sottobraccio e vi affrettate a guadagnare l’uscita. Non invoco il dibattito, da Fantozzi in poi riuscirebbe comunque ridicolo: vorrei semplicemente capire se c’è qualcuno in questa sala che sta in qualche modo ruminando, per conto proprio o in compagnia, se ha consigli da dare, proposte da avanzare, critiche da fare all’impostazione che ho dato al mio intervento, esperienze di percorsi da condividere. Risparmiatemi però, ve ne prego, le analisi a tutto campo sullo stato pietoso della cultura nel nostro paese o nel mondo intero: non dico che non me ne freghi niente, anzi, ma non siamo qui per ripeterci quello che già dovremmo sapere. Non ho accettato il vostro invito per esibire un consumato scetticismo su tutto e su tutti, sono qui perché credo che ancora ci siano valori da sottrarre all’impacchettamento da grande distribuzione e voglio uscire di qui avendo imparato qualcosa sui modi in cui difenderli. Quale sia lo stato della Cultura già lo so, e penso anche che il problema si sia posto, sia pure in modi differenti, in ogni epoca. In altri tempi le urgenze erano magari quelle di sfuggire alla censura o di allargare l’area della comunicazione delle idee: rispetto ai nostri voglio capire se e come posso muovermi senza produrre alimento per lo spettacolo e senza accettare di rassegnarmi all’immobilità.

 

Penso che dovremmo approfittare di occasioni come questa, che “ufficiali” non sono, nelle quali al relatore non va nemmeno il rimborso delle spese, per vivere il tema cultura “come se”: come se fosse possibile, ad esempio, sfruttare le nuove tecnologie per produrre in economia pubblicazioni dignitose, e non soggiacere quindi al ricatto e all’imperativo delle sponsorizzazioni. Oppure per creare una rete comunicativa davvero libera, una rete del tam tam, una semplice amplificazione del passaparola, svincolata dai sensi unici e dal controllo preventivo del sistema, politico, mediatico o “culturale” che sia. O semplicemente per intrecciare conoscenze, sulla base di comuni interessi che evidentemente ancora esistono, altrimenti non sareste qui, che possano magari domani trasformarsi in amicizie. Non so, vedete un po’ voi. In fondo, è quello che nel piccolo della nostra serata stiamo già facendo.

 

Vi sarete accorti, spero, che ho evitato con cura di accennare a temi, soggetti o discipline, così come ad ambiti o a modalità di ricerca e di creazione particolarmente qualificanti. Non ho parlato di conventicole chiuse ed esclusive di illuminati o di “veri sapienti”, ma di amicizie aperte, libere e inclusive di sani curiosi. Per rapporti del genere gli interessi in comune non devono necessariamente concernere il teatro Nô, la poesia erotica finlandese o il dibattito storiografico sui “comuneros”. Si può volare anche più rasoterra, ridere e godere coi fumetti, discutere della pallosità dei cantautori brasiliani, condividere l’amore per i western di John Ford, scherzare sul cinema horror: si può persino parlare di politica. Tutto può essere messo in circolo, purché preso con la dovuta dose di ironia e di distacco, la sola capace di dare una valenza veramente culturale a ciò che altrimenti rimane solo esibizione o moda.

 

Per come la vedo io questo è fare cultura, questa è l’unica possibile e credibile resistenza all’omologazione, all’imbalsamazione, al bollino di qualità da appiccicare sulla confezione patinata. Non mi importa nulla poi del riscontro, dell’utenza o, come si dice oggi, dell’ “audience”: non cerco ascoltatori, voglio interlocutori, non voglio vendere o comprare, voglio scambiare, per anacronistico che sia.

E qui finalmente chiudo, per lasciare spazio a voi. Se per qualcuno la conversazione di stasera non è stata sufficientemente “stimolante”, mi spiace per lui e mi scuso: ma mi era stato chiesto di proporre la mia idea di cultura, e questo semplicemente ho fatto.

 

Appendice 2010 – Da quella serata, in concreto, non uscì nulla. Dalle idee espresse in quella serata, invece, qualche anno dopo hanno avuto origine due diverse esperienze, che andavano esattamente nella direzione prefigurata: quella di sodalizi culturali aperti, autoironici e non conformisti. Entrambe quelle esperienze possono essere considerate ad oggi, per certi versi, esaurite. Sono rimaste vive però le amicizie nate con l’una e con l’altra: e questo è ciò che in fondo chiedevo, e ancora oggi chiedo, quando parlo di cultura.