da un’escursione autunnale con HANS MAGNUS ENZENSBERGER
di Paolo Repetto, 1991 e da Sottotiro review n. 3, maggio 1993
P. Allora, le piace qui, dottor Enzensberger?
H.M. Certo. È veramente un bel posto. E poi queste colline, questa natura, sono molto diversi rispetto al paesaggio italiano cui sono abituato. Io conosco bene soprattutto la Toscana, come tutti i tedeschi, d’altra parte.
P. Già, è così. Comunque, con tutto il rispetto, credo ci siano molti altri volti dell’Italia che lei non conosce. Confesso che mi è piaciuto molto il quadro che Lei ne ha dato in “Ah! Europa”, perché è più che veritiero: ma non è completo. Per questo ci tenevo tanto ad incontrarla, e tra l’altro, ad incontrarla proprio qui.
H.M. L’avevo capito dalla sua lettera: e ho accettato per la stessa ragione. Mi corregga se sbaglio, ma ho l’impressione che Lei voglia mostrarmi la “faccia seria” di questo paese.
P. Direi piuttosto la faccia “in ombra”, quella che non è sempre sotto i riflettori, che non invade i teleschermi, le sale dei congressi e le riviste più o meno patinate. Badi bene, niente a che vedere con l’Italia dei misteri, anzi. Questo anche Lei lo ha sottolineato, in Italia non ci sono misteri, tutti sanno tutto, fingono di non saperlo ma lasciano capire che lo sanno, e le prime e seconde e terze pagine sono piene dei resoconti di attività che paradossalmente vengono definite occulte. No, semplicemente mi premeva farle constatare che anche in un paese come il nostro, zeppo di parassiti e cialtroni, c’è gente che lavora e resiste in silenzio. Anche se sta diventando sempre più difficile. In fondo è la stessa gente di cui Lei parla ne “In difesa della normalità”: magari meno “maggioranza silenziosa”, perché qui la maggioranza è piuttosto di casinisti, ma insomma, c’è anche gente seria.
H.M. Non ne dubitavo. Mi sembra naturale che dietro la mandria di idioti che appaiono in tivù, accendono fuochi nei boschi e si pestano negli stadi, ci debbano essere anche persone normali e responsabili. Anche se, a dire il vero, non ho avuto molte occasioni di incontrarle. Sa, col mio lavoro finisco per frequentare soprattutto convegni culturali. Resta il fatto che il fenomeno di italianizzazione dell’Europa di cui parlo nel saggio da Lei citato fa riferimento soprattutto al modello “eccessivo” italiano. Tra l’altro, da allora (era l’87) sono maturate altre situazioni che rendono a mio parere ancor più valida la prospettiva di una esportazione del modello italiano. Mi riferisco alla crisi di legittimità del sistema partitico. Quello che in apparenza sembra un prodotto dell’arretratezza politica italiana è in realtà l’anticipazione di una tendenza che a breve interesserà tutta l’Europa (e quella parte del mondo in cui esistono istituti politici basati sui partiti). Intendo dire che il sistema capitalistico, dopo aver avuto bisogno della democrazia partitica, dei partiti politici (e mi riferisco a tutti i partiti, di governo e forse ancor più di opposizione, con tutti gli annessi e connessi, tipo sindacati, ecc.) quali cinghie di trasmissione per far digerire alle popolazioni i mutamenti economici, culturali e sociali degli ultimi due secoli, oggi può farne tranquillamente a meno. Il sistema-capitale aderisce ormai al nostro corpo come una seconda pelle, si propone come una seconda natura. Nel corso di cinque o sei generazioni ci siamo abituati a considerare “naturale” ogni sua manifestazione, dal lavoro parcellizzato alla cementificazione a tappeto, dal guidare l’automobile al rimbambirci davanti alla televisione. Non è stata una rieducazione indolore: i partiti politici hanno funzionato da anestetico. Ricorda Guicciardini, a proposito di Ferdinando il Cattolico? “Quando volea fare impresa nuova o deliberazione di grande importanza, procedeva spesso di sorte che, innanzi si sapesse la mente sua, già tutta la corte e i popoli desideravano ed esclamavano: el re dovrebbe fare questo, ecc.” Perfetto. A questo sono serviti i partiti, a far si che la gente si convincesse di aver chiesto quel che le veniva imposto. Ora non è più necessario, come dicevo, ormai il filo è diretto.
P. Il filo diretto passerebbe in Italia attraverso la guaina del leghismo? Non mi sembra di aver colto un’analisi di questo tipo nel suo ultimo libro, “La grande migrazione”.
H.M. In effetti “La grande migrazione” è solo un excursus molto generale su un fenomeno che tutti sembrano scoprire solo adesso, con i “barbari” alle porte, ma che in realtà ha caratterizzato da sempre la storia dell’umanità. Quanto al leghismo, si, penso che in qualche modo si proponga come modello di decisionismo diretto, non mediato: l’illusione di scegliere “di persona”, senza più deleghe, quando in verità tutte le scelte sono già state fatte e le decisioni sono già state prese. Comunque, il filo non ha nemmeno più bisogno di guaine metaforiche. Esiste già materialmente, corre via etere, e magari oggi anche via modem, si dispiega sempre più invisibile e solido e veloce fino a tessere “la grande rete” nella quale ci stiamo ingabbiando, narcotizzati dal sogno della democrazia telematica.
P. Credo che Lei prefigurasse qualcosa del genere ne “Gli installatori del potere”.
H.M. Già, pressappoco. Ma le confesserò che quel “prefigurasse” mi dà un po’ fastidio. Preferisco pensare di avere gli occhi aperti sul presente piuttosto che lo sguardo lungo sul futuro. Per come la vedo io, poi, finirei per passare per un profeta di sventure.
P. Capisco. Ma resta il fatto che a Lei riesce di anticipare sistematicamente i tempi rispetto alle grandi tematiche, e di affrontare i risvolti di un problema prima che il grosso dell’armata intellettuale abbia avuto anche solo la percezione del problema stesso. Nelle poesie di “In difesa dei lupi”, ed erano l’opera di un giovane, c’era già la presa per i fondelli di quella puzza al naso “di sinistra” che ha caratterizzato le “avanguardie” politiche e intellettuali degli anni sessanta. In “Politica e terrore”, e siamo prima del ‘68, è puntigliosamente dimostrata la sostanziale equivalenza e complementarità tra l’azione politica del sistema e l’azione politica di chi lo combatte col terrorismo. In “Palaver”, e siamo ai primi anni settanta, si colgono le ambiguità di un ecologismo “integralista”, nonché la sua predisposizione ad essere strumentalizzato. Tra i saggi di “Sulla piccola borghesia” ho trovato finalmente un discorso sincero e pulito rispetto agli esotismi terzomondisti, quello di “Eurocentrismo controvoglia”. E lo stesso vale per l’analisi spietata de “Il massimo stadio del sottosviluppo”, sul socialismo reale e la sua fine incombente, prodotta negli anni settanta. Certo, non parliamo di doti profetiche, ma è senza dubbio frutto di una stupefacente lungimiranza.
H.M. Insomma, non un profeta ma uno scout. Mah, non mi ci vedo a cavalcare un po’ avanti alla truppa, a leggere le tracce sul terreno e a spiare i polveroni lontani. No, torniamo a terra. Mettiamola così: è evidente che scrivo perché credo di aver qualcosa da dire, magari anche di vedere qualcosa che gli altri non vedono, o fingono di non vedere. Niente lungimiranza, se mi permette: solo onestà intellettuale. E già così non mi sembra di peccare di eccessiva modestia. Se c’è una cosa che mi irrita è il constatare come la stragrande maggioranza, tra coloro che formano l’intellighentia, rifiuti ostinatamente di guardarsi attorno, o, quando lo fa, di prendere atto di quanto vede. Ricorda quella poesia, “Sulle difficoltà della rieducazione”? “Quando è il momento della liberazione dell’umanità/ corrono dal barbiere…/ Invece che per la giusta causa/ lottano con le vene varicose e il morbillo. / Eh sì, se non ci fosse la gente/ tutto si aggiusterebbe in un baleno”. Certo che si aggiusterebbe! C’è solo il piccolo dettaglio che l’opera di aggiustaggio viene intrapresa, negli intenti, in nome, alla testa, per il bene della “gente”. Quando dico “prendere atto” non intendo che una volta realizzato come la “gente” non voglia quello che vuoi tu, la si debba lasciar cuocere nel suo brodo, o peggio, che si debbano rincorrere i suoi gusti per non essere cacciati dalla cucina: no, intendo dire che non si può costruire un abito ideale, senza prendere le misure, avendo in mente magari il canone di Policleto, e poi arrabbiarsi se quelli cui è destinato hanno la pancia, o le gambe corte. Ecco, se uno si guarda in giro, o ha il coraggio di guardarsi allo specchio, vede che la “gente” ha la pancia, le gambe corte, le spalle strette o il sedere sporgente. Cosa fa, li elimina tutti? Non è più sensato cucire abiti meno attillati, un po’ più informi e goffi, ecco, oggi si dice “casuals”, che si adattino a tutti? Fuor di metafora, se dà un’occhiata proprio all’abbigliamento moderno, vedrà che il sistema questo l’ha già capito da un pezzo. Insomma, giriamo giriamo, ma stiamo parlando semplicemente di buon senso.
P. Ecco, ci siamo arrivati: buon senso, ovvero razionalità. Assieme a Calvino, e in qualche modo anche ad Eco, Lei per me rappresenta la persistenza e la validità dell’atteggiamento illuministico. Il più simpatico tra i personaggi dei suoi “Dialoghi tra immortali, morti e viventi” risulta Diderot. Forse perché è un ironico autoritratto. Le piace essere considerato un epigono dell’Illuminismo?
H.M. Mah, intanto aggiungerei al gruppetto anche Böll, così siamo giusti per lo scopone. Quanto all’Illuminismo, dopo il contropelo di Adorno e Horkeimer c’è da chiedersi se non sia un insulto. Comunque, seriamente, rifiuto di considerarmi un epigono, perché questo connoterebbe l’Illuminismo come una moda culturale, mentre è un atteggiamento, una disposizione di spirito. In questo senso sì, allora lo considero un complimento: se illuminismo significa difesa del buon senso, che non sempre si identifica col senso comune, ma qualche volta sì, ebbene, sono un illuminista. Riguardo a Diderot, poi, c’è senz’altro un po’ di me, anzi, c’è parecchio: ma l’intento era piuttosto quello di evidenziare una certa “banalità”, aspetti, la precedo, una “normalità” attraverso la quale lo spirito, diciamo l’intelligenza, riesce ad operare in positivo. Niente ascetismi, niente eroismi: la storia va avanti attraverso il tran tran, e si accompagna alle grettezze e meschinità di persone che comunque lavorano seriamente e con passione. Qualcosa di simile, anche se colto in chiave più ironica, a quel che ho cercato di dire nelle poesie di “Mausoleum”.
P. È vero. “Mausoleum” mostra l’altra faccia di tante medaglie, quelle che recano da un lato l’effigie dei protagonisti della vicenda del “progresso”. Quel che più mi piace, in questa Spoon River del villaggio della conoscenza, è l’assenza di qualsiasi volontà dissacratoria. C’è un clima di mestizia, piuttosto: sono presentati i costi, a fronte dei ricavi. E qualche volta è dubbio che ci sia stato per l’umanità un utile netto.
H.M. Già. Credo sia andata proprio così: le grandi scelte scientifiche, o in senso più lato culturali, sono state fatte tutte in buona fede, da gente convinta di essere nel giusto, di operare per il bene comune. I risultati non sempre hanno corrisposto. Quanto al dissacrare, credo che presupponga qualcosa di sacro: nell’epoca nostra è quasi un gioco di società. Una volta che è caduto, tutti vogliono portarsi a casa un pezzetto del muro di Berlino. Ci sono bancarelle che li vendono, e sospetto che ormai questi detriti arrivino addirittura dall’Italia.
P. È probabile. Ma in definitiva, banalizzando, lei ritiene di avere un’attitudine ottimista o pessimista rispetto alla storia dell’umanità, quindi al passato, o rispetto ai suoi sogni, quindi al futuro?
H.M. Dovendo proprio rispondere direi ottimista, ma non lo so, dipende dall’accezione che si vuol dare al termine. C’è chi crede che la storia dimostri come l’umanità abbia comunque sempre progredito, malgrado Attila e Hitler e tutti gli altri, e che in pratica è in moto un processo di perfezionamento. Chiaro che questo non è essere ottimisti, ma idioti. Cinque miliardi di persone che muoiono per fame, malattie e violenze, e tutti gli altri miliardi che sono morte allo stesso modo e per le stesse ragioni nel corso degli ultimi cento secoli stanno a dimostrare il contrario, e avrebbero qualche obiezione a questa idea. Nemmeno credo valga l’ipotesi di una razionalità che si è affermata, o che comunque si è ritagliata un suo spazio, e non lo perderà più. Basta accendere per cinque minuti un apparecchio televisivo per avere la dimostrazione del contrario.
P. In effetti in “Mediocrità e follia” Lei esprime molti dubbi in proposito. E anche nelle poesie di “La furia della caducità” non sembra nutrire speranze in una nuova primavera dei Lumi.
H.M. Beh, è chiaro che ultimamente è un po’ difficile coltivare entusiasmi. Qualcuno potrebbe dire: per fortuna. Ma spero che da nessuna delle due opere da Lei citate giunga la sensazione di una mia posizione “apocalittica”, un annuncio della fine dei tempi. Per carità, i grandi pessimisti, tipo Cioran, o il vostro Ceronetti, mi danno sui nervi. Volgarità trionfante, barbarie incombente, suicidio collettivo, eh, santo Iddio! Tocchiamo ferro. O almeno, sia un po’ come vuole, questo significa forse che io debba rinunciare al rispetto di me stesso, e quindi al dovere di capire e di aiutare, per quel che posso, anche gli altri a capire? E magari tentare qualcosa, con gli altri, per evitare lo sfascio?
P. Mi par di potere desumere, allora, che Lei, arrivato a sessant’anni, con alle spalle un quarantennio di attività come letterato e polemista, non dia segni di cedimento. Dica la verità, non la sfiora ogni tanto l’idea di mettersi in pensione?
H.M. Oh, altroché. A volte penso che dovrei davvero staccare. Ho i miei amici, i miei affetti, i miei libri: magari in ordine inverso. Ma vede, è più facile smettere di fumare che di impicciarsi. Io non riesco a liberarmi né dell’uno né dell’altro vizio.
P. Ma non prova mai una impressione di inutilità, la sensazione di predicare nel deserto, di dire cose che alla fin fine vengono ascoltate da quattro gatti, ma delle quali i più sembrano poter fare tranquillamente a meno?
H.M. No, no. O meglio, si, è naturale che a volte uno ne abbia le scatole piene e si chieda: ma cosa sto facendo, perché, e per chi? E più ancora quando ti accorgi di essere travisato, che non quando sei ignorato. Si, capita. Ma poi? Voglio dire, il senso che do al mio impegno, per quel che vale, non è senz’altro quello di fare adepti. Per quelle cose lì ci sono altre strade: si predica, come il reverendo Moon, o si fa lo scemo in televisione, come il vostro Sgarbi. Ne abbiamo già parlato: se ti proponi di essere una voce critica non puoi certo pretendere gli applausi. Ritorniamo al discorso delle “avanguardie” e della pretesa che ad ogni presunta provocazione il pubblico reagisca, ma nello stesso tempo consenta. Se il pubblico, come sempre più spesso accade, incassa imperturbabile, non significa che non ha capito niente, ma che non aveva senso la provocazione. Comunque, tornando a me: Lei ed io siamo qui, Lei ha vent’anni meno di me, si pone gli stessi problemi, domani risponderà ad altri che Le porranno le stesse domande. È un filo di “resistenza”, come Lei stesso lo ha chiamato, che val la pena continuare a tessere. Direi che, al limite, è sufficiente questo a giustificare quarant’anni di impegno: o le sembra poco?
P. No, certo. E anzi, la ringrazio, a nome mio e di tutti coloro che continueranno ad attaccarsi a quel filo. E ora andiamo, signor Enzensberger: arriveremo a quella chiesetta lassù, sul monte lì di fronte, il Tobbio. È un po’ il nostro Broken. La vede?
H.M. Uhm, si direbbe piuttosto lontana. Pensa che possa farcela?
P. Ce la farà senz’altro. Lei è ancora capace di salire molto in alto. Garantito.