di Paolo Repetto, 30 aprile 2020
Per titolare questa raccolta ho malamente saccheggiato un’espressione leopardiana, forzando il verso da cui l’ho tratta a un significato opposto a quello originario. La siepe che escludeva lo sguardo di Leopardi da ogni lato in realtà liberava la sua immaginazione, lo portava a sollevarsi da terra come a bordo di una mongolfiera (all’epoca, anche la più sfrenata delle fantasie non aveva immaginato lo Shuttle), a vedere l’orizzonte allontanarsi verso l’infinito, a perdere il senso del tempo, sino al punto da causargli uno “spauramento” del cuore e della mente. Il virus che abbiamo di fronte noi, al contrario, annichilisce ogni nostra capacità di immaginare un domani, di proiettarci in una prospettiva futura, e ci costringe a vivere da fermi quello spazio che virtualmente conosciamo sempre più grande, e teoricamente mai come oggi aperto e percorribile.
In un’altra occasione avevo descritto la struttura de “L’Infinito” paragonandola a un sistema di assi cartesiani, con il tempo computato sulle ascisse e lo spazio nelle ordinate, e con l’autore che partendo dal punto zero e salendo in verticale introduce, tramite l’ascensione impostagli dalla siepe, una terza dimensione, perpendicolare ad entrambe le altre: il suo è appunto un moto verso l’infinito, attraverso il quale lo sguardo può sganciarsi dal presente per cogliere il passato e il futuro, e si stacca dal qui per perdersi in distanza, nell’altrove.
Ebbene, noi viviamo la condizione opposta. La zavorra del virus non ci permette di staccarci da terra e dal presente, non scorgiamo un futuro e questo rende irrilevante anche la conoscenza del passato. Vediamo solo virtualmente il mondo intero, e persino l’universo: telecamere e mappe satellitari e sonde spaziali ce li mostrano nei minimi dettagli, ma sentiamo che non ci appartengono, quando va bene, oppure, peggio, che celano un pericolo.
Non sto annunciando la fine del mondo: il mondo ha conosciuto epidemie, pestilenze e tsunami e follie umane ben più devastanti, che hanno provocato ogni volta decine e decine di milioni di morti: ed è comunque sopravvissuto, “più bello e più forte che pria” avrebbe detto Petrolini. È anche probabile che il contagio che oggi ci angoscia si lascerà alle spalle una scia di morti inferiore, almeno in proporzione, rispetto quelle di altri flagelli che hanno decimato le popolazioni di interi paesi. Forse alla fine i grandi numeri daranno ragione a chi ritiene sopravalutata la pericolosità del covid 19. Ma io non mi riferisco all’effetto epidemiologico, bensì a quello psicologico. I danni più gravi li porterà non la diffusione del contagio, che pure ha “realizzato”, reso tangibile, lo stato effettivo della globalizzazione, ma la percezione che ne abbiamo.
La novità di questa percezione sta nel fatto che abbiamo potuto seguire la progressione di questa epidemia in tutto il globo minuto per minuto, e che come noi lo ha fatto tutta quanta l’umanità. Questo non era mai accaduto prima. Ogni area viveva separatamente il suo dramma, e aveva vaghe notizie, o nulle, di quelli vissuti in altre parti del mondo. E queste parti di mondo erano comunque sempre circoscritte. Di quei flagelli è rimasta la memoria storica e letteraria, ma non certamente una memoria come questa, universamente condivisa, di una vicenda che ha coinvolto tutti in prima persona, non fosse altro attraverso i provvedimenti restrittivi.
È una memoria diretta che interesserà almeno quattro generazioni. Poi anche questa si perderà, ricoperta dalle macerie delle calamità future e dalla vegetazione delle rinascite. È possibile che di questo momento già per i nostri nipoti rimangano solo i numeri, o il vago ricordo di un periodo strano in cui si usciva pochissimo di casa. Ma anche quando la improvvisa trasformazione del modo di vivere, di stare assieme, di pensare e di sperare sarà ormai metabolizzata (e questo avverrà, indipendentemente dalla introduzione di vaccini preventivi o di piani antipandemici e di terapie efficaci) nel profondo dell’inconscio l’idea che sia esistito un prima, e che questo prima era diverso, rimarrà. Vale forse la pena allora scriverne, anche se lo stanno facendo in troppi, e testimoniare dal vivo questa trasformazione.