di Paolo Repetto, 1996
In un parcheggio arroventato, in un pomeriggio torrido di luglio, ho visto il tapiro. Non è stato difficile scovarlo. Mi hanno portato dritto dritto alla savana d’asfalto i manifesti rosso fiammanti che per una decina di chilometri attorno ad Ovada tappezzavano muri e viadotti. Al centro l’immagine di un animalone bicolore; sopra, cubitale, la scritta “Tapiro!”, senza l’articolo e con il punto esclamativo. E sotto: “Unico esemplare in Italia!”. Li ho rivisti per giorni, non potevo farne a meno: nel tragitto tra Lerma e Ovada il manifesto compariva almeno venti volte. Quaranta esclamativi! E così ho finito per andare a visitare lo zoo ambulante, e a vedere il tapiro.
La prima emozione mi attendeva già all’ingresso: quindicimila. Ma insomma, esemplare unico in Italia, si entra. Altra botta all’interno: una puzza terrificante, non giustificata dalla quantità di animali, in effetti pochini, ma solo dal loro esotismo. C’erano infatti galline tibetane, molto simili alle nostre, anzi, identiche; caprette del Perù, anche quelle identificabili solo dal passaporto; cavalli, un dromedario, sei ferocissimi galli messicani da combattimento, tutti in una stia, a razzolare tranquillamente assieme; un lama, uno gnu e poco altro. In compenso però c’erano il marabù e naturalmente la star, sua maestà il tapiro. Che era poi un poveraccio, un goffo incrocio tra un maiale e un ippopotamo, con un muso da vittima più interrogativo che esclamativo, oppresso da un ciranesco nasone di cui, stando in una gabbia, non sapeva assolutamente cosa fare (e nemmeno ho capito a cosa potesse servirgli fuori). Questo poi non era nemmeno bicolore: indossava uno spelacchiato mantello setoloso, di colore indefinibile, un marroncino sporco. Bofonchiava annoiatissimo, spostandosi nell’afa il meno possibile, quel tanto sufficiente a guadagnargli due sparute strisce d’ombra. A dirla tutta, faceva una gran pena.
Quando sono uscito (per vedere tutto, anzi, per ripetere in semiapnea due volte il giro sono stati più che sufficienti cinque minuti) la domanda era lì già pronta: ma sul momento, diciamo sull’onda dell’emozione, o forse del gran caldo, ho preferito lasciar perdere.
È stata l’ironia degli amici, un paio di sere dopo, a costringermi ad una riflessione più seria. Per loro ero io l’esemplare unico, l’unico fesso italiano che aveva visto il tapiro. E allora mi sono chiesto cosa può spingere un adulto cosciente, passabilmente normale, a spendere quindicimila lire per vedere un malinconico maialone dal grugno allungato: e ho trovato la risposta.
Ammetto che una parte nella suggestione l’ha avuta la scritta. Quell’esclamativo riecheggiava certi titoli degli albi di Tex, Navahos! Anaconda! Mephisto!, e quindi evocava l’avventura, il pericolo, il mistero. Ho pagato il tributo a un colpo di genio pubblicitario e alle mie reminiscenze bonelliane.
Ma il motivo vero era ben più profondo: erano altre reminiscenze, quelle salgariane. Ricordate come sopravvivono i bucanieri braccati nella foresta, o Josè il Peruviano alle pendici delle Ande, o un sacco d’altri personaggi sperduti nei più selvaggi anfratti del globo? Mangiano carne di tapiro. Quando sono allo stremo, pressati dai nemici o dispersi in zone sconosciute, spunta provvidenziale un tapiro e finisce in bistecche. Ma è anche il piatto forte di banchetti selvaggi, rosolato allo spiedo in notti di festeggiamenti o in improvvisati bivacchi. Per Emilio quella del tapiro doveva essere una fissazione. Gli cascava a pennello, è un animale diffuso in tutti i continenti calcati dai suoi avventurieri, niente pericoloso, esotico quel che basta per eccitare la fantasia. Perfetto per salvare la situazione e per mantenere l’atmosfera. Come le testuggini e i tacchini selvatici (le tre T alimentari di Salgari) è facile da catturare, offre cibo in abbondanza e aggiunge (letteralmente) sapore all’avventura. Non possiamo immaginare un bucaniere che spenna una gallina.
Dunque, ho visto il tapiro: ma la mia non era una semplice curiosità, era un omaggio. Un pellegrinaggio, come andare sulla tomba di Leopardi, o a Santa Croce. Non sto scherzando: perché alla fin fine, a dispetto della povertà dello spettacolo e dell’insignificanza del protagonista, devo confessare che una certa emozione l’ho provata. Siamo sinceri: cosa accade quando ci accostiamo con religiosa compunzione ai sepolcri dei nostri Grandi Maestri, o radiografiamo con curiosità devota, ma anche un po’ forzata, gli angoli più anonimi del palazzo di Recanati e del casale di Santo Stefano Belbo? Il “sospiro che dai tumuli a noi manda Natura” non è certo quello degli spiriti magni, sovrastato ormai dal vocio delle fiere culturali e turistiche allestite sulle loro spoglie: è invece quello della memoria, delle fantasie, dei sogni e degli ideali che romanzi e poesie, o magari canzoni, ci hanno ispirato, quando ancora il nostro fantasticare non era dettato dal telecomando. Quelle mura spoglie, la sedia, il tavolo di scrittura, la pietra tombale, non ci comunicano alcunché di nuovo, non ci aiutano a costruire alcuna aura. Non siamo lì per trovare Leopardi o Pavese, siamo lì per ritrovare una parte di noi stessi che non vogliamo vada perduta.
Che senso hanno, dunque, questi rituali, queste occasioni commemorative e celebrative? Lo hanno se siamo capaci di darglielo. Lo hanno se riusciamo ad ignorare lo squallido mercato di icone o di convegni di cui è oggetto tutto ciò che ci ha appassionato, se rifiutiamo l’imprigionamento di ogni nostra fantasia in confezioni patinate o in puzzolenti baracconi, se difendiamo il nostro diritto alla privacy del sogno. Se riteniamo cioè che le cose non importino per quel che sono, ma per quel che rappresentano, o hanno rappresentato. E allora, se il gusto che sentivamo a dodici anni nell’addentare il pane era quello della galletta dei corsari o della “tortilla” degli scorridori, e se strappavamo a morsi le rare bistecche dell’adolescenza come fosse carne di bufalo affumicata, e se questo ce le faceva amare e digerire, ben venga il tapiro, cari amici, e bando all’ironia. Con quindicimila lire ho fatto un viaggio nella stagione più bella della mia vita: e se penso che ho visto anche lo spolpatore di cadaveri della jungla nera, l’immondo marabù, e ne ho ascoltato il verso, quella specie di singulto che gela il sangue nelle vene anche a Tremal Naik, figlioli, era proprio regalato!