Ariette

di Maurizio Castellaro, 11 marzo 2021

Le “ariette” che postiamo a partire da oggi dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». Ben vengano dunque, se possono mitigare con un refolo di leggerezza un clima che per ragioni obiettive e per stanchezza di chi lo vive sta diventando davvero troppo pesante (n.d.r).

Ritorno a Tex

Non l’avrei mai detto, eppure mi sono ritrovato a comprare su Ebay 200 numeri di Tex per poco più di 100 euro. Per uno che ha avuto l’imprinting al fumetto western con Ken Parker (l’anti Tex per definizione) bisogna ammettere che deve significare qualcosa. Eppure è da un po’ che prima di chiudere gli occhi scelgo le storie di Aquila della Notte. Mi chiedo perché. Ken Parker è la vita vera, un personaggio che quando è ferito sta male davvero, che va a letto con le donne, che finisce in prigione. Berardi ad un certo punto l’ha pure fatto morire, vecchio e malridotto. Giusto così, in fondo. Ma noi? Noi continuiamo ad essere vivi. Anzi, con il tempo ci sembra di capire finalmente qualcosa, e vorremmo che la nostra vita non finisse mai. Allora finisce che ci si butta sull’illusione dell’eterno ritorno dell’identico. Sulla mira infallibile, la morale granitica, la logica inesorabile, la ricerca delle tracce, il salvataggio all’ultimo istante, la bistecca (enorme) e le patatine fritte (una montagna). Ma forse non è solo questo. Forse tornare a Tex per me è un altro modo per tornare al giardino segreto dell’infanzia, ai Tex che da bambino scovavo di nascosto nel comodino del nonno, accanto al vaso da notte (Mefisto, Yama, El Morisco…). Non è nostalgia. Credo piuttosto che sia una forma di manutenzione del legame con il bambino che continua a vivere dentro il mio corpo di uomo, e che con il sguardo sul mondo ingenuo ed ironico mi ha aiutato ad uscire vivo da più di un labirinto. Ne ho ancora bisogno di quel bambino, meglio tenermelo buono.

 

Tuoni e fulmini

Durante un incontro di gruppo il formatore ha chiesto di disegnare la storia del proprio percorso professionale, immaginandolo come una strada inserita in un paesaggio simbolico (curve, salite, montagne, blocchi, pericoli, discese, aiuti, cartelli, ecc.). Eravamo una ventina, e quasi tutti per rappresentare i 18-20 anni della nostra vita abbiamo disegnato sul percorso nuvolacce, tuoni, fulmini, pioggia battente. Poi, usciti da quella fase, partiva di solito un percorso più o meno accidentato, in cui il tempo migliorava di brutto: farfalle, arcobaleni, risorse e visioni. Consola l’idea che la vita abbia concesso a molti (e anche a me) di far quadrare in qualche modo i suoi conti. Ma uscendo dalla consolazione prospettica e retroattiva ho pensato che questo lusso di solito non è dato quando si ha vent’anni, specie se si sta sotto la pioggia, esposti a tuoni e fulmini, senza un’idea di futuro. Credo che per uscire vivi da quella palude si debba imparare ad accendere fuochi sott’acqua, trovare la luce delle stelle oltre le nuvole e capire quali sono i boccioli che per primi fioriranno. I più fortunati trovano maestri che lo insegnano. Gli altri invece, in qualche modo, imparano da soli.

 

Evoluzioni

Per secoli li hanno catturati e costretti con la violenza a salire sulle nostre navi. Oggi per fare un viaggio molto simile sono loro a mettersi in fila, pagando con tutti i soldi che hanno (e con quelli che non hanno ancora). È l’evoluzione del capitale, baby.

 

Un pensiero riguardo “Ariette”

  1. Bella Ariette. Sopravvivere all’inferno dell’inganno sarà forse darsi altre possibilità, anche se la vita piega e non tutti e non sempre si ha la flessibilità di una canna al vento, forse a 20 anni, vero, ma la vita irrigidisce in formule piene che ne suggellano il senso esterofilo, mentre l’interno arde e annega in un caos ancora primigenio da cui forse la vita si è scaturita per volontà di forze maggiori a da cui continua a scorrere. Tutto ha un peso , nel senso proprio di una materialità aggiuntiva, ma da anziani, il peso delle questioni diviene piombo ed è anche difficile sradicare le gambe da una fossa che incombe come un precipizio.
    Vorrei parlarti della mia prigione metafisica, delle spranghe a losanghe che si formano nei cieli raggrumati sopra le case e tinteggiati dai soli e dai venti, oltre, l’infinita catarsi in un azzurro ineffabile quanto irraggiungibile e sognatore, mentre l’anima è chiusa, dentro lo scrigno, in una stanza fedele.
    La prigione metafisica non ha altri spazi se non l’immaginifica fantasia da cui trarre nutrimento spirituale e da cui si muovono, anche, i passi del non esistere, nella infinita ricerca di un frammento di se stessi.
    Tutto diviene impalpabile nella stanza delle ossa e capita, che un odore riporti indietro verso l’evasione di una fanciullezza spirata e respirata ancora per un attimo; ed è vero, lo penso anch’io, che l’arte sia un tentativo di fermare il tempo e di scolpire, nel tempo stesso , qualcosa fatto dal tempo e che lo stesso tempo porterà via, se mani e cuori coraggiosi non imprigionassero quello spessore in manifestazioni, in forme e colori.
    Del resto la vita ci pone sempre davanti a noi stessi e davanti al riflesso degli altri, come davanti abbiamo ciò che eravamo e ciò che siamo stati o che abbiamo cercato di essere o che abbiamo cercato di raggiungere e avere, sono forse queste le risposte che cercano consenso, (?) risposte a cui, però, abbiamo già donato parte di noi, della nostra inutile e fittizia esistenza, del nostro tempo per ricavarne ciò che siamo in grado di vivere e decidere nel presente. Forse.

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