Ariette 27.0: Quel che non ha rimedio

di Maurizio Castellaro, 19 ottobre 2025 [1]

Le “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso». (n.d.r).

Sempre più spesso di fronte alle notizie dalla Palestina ripenso alla Shoah e alla nascita di Israele come tentativo dell’Occidente di un risarcimento impossibile, come speranza di purificazione di una ferita aperta, ancora e per sempre. L’inconcepibilità di Auschwitz si rovescia nell’inconcepibilità di un Israele terra promessa inventata, legittimata dalla forza, che afferma l’insostenibilità del suo esistere aprendo ferite inguaribili attorno a sé e dentro di sé. Il veleno che ancora oggi intossica le nostre vite e i nostri pensieri è stato prodotto nelle camere a gas dei lager nazisti, ed è sempre attivo. Ne bastano poche gocce per inquinare per sempre i mari delle buone intenzioni.


[1] L’immagine d’apertura è di Anselm Kiefer, “Angeli caduti”.

La lingua batte …

di Nicola Parodi, da un colloquio con Paolo Repetto, 18 ottobre 2025

Sono abbastanza vecchio da aver prestato servizio di leva obbligatorio (quello pre-riforma, quindici mesi di naia), e abbastanza poco raccomandato da averlo prestato come soldato semplice, non dietro il tavolo di un ufficio ma secondo il modello old style, marcia o crepa: e per di più in un reparto dell’artiglieria someggiata (muli e mortai). Tutto sommato, al netto dei residui quasi solo linguistici del nonnismo (nel frattempo era arrivata la contestazione sessantottina), delle prevaricazioni e dell’imbecillità diffusa nelle gerarchie di comando (cose che peraltro non sono affatto scomparse, si sono soltanto ulteriormente diffuse in altri ambiti della società), di quella esperienza ho un ricordo positivo: tanta fatica, disagi, a volte arrabbiature, ma anche tanto sano cameratismo, tanta reciproca solidarietà, un po’ di avventura: la consiglierei oggi ai nostri nipoti (naturalmente in tempi di pace), per evitare loro la ricerca di prove fisiche a volte insensate, di rischi fini a se stessi, di guerriglie urbane.

Comunque: oggi le chiacchiere con un amico convalescente hanno fatto riemergere un ricordo vecchio di oltre mezzo secolo. Sono ai campi estivi, ormai quasi in chiusura, con la 8a batteria del Gruppo artiglieria da montagna Pinerolo. Abbiamo trascorso diversi giorni sulle Dolomiti Friulane senza incontrare un paese e nutrendoci solo delle famigerate razioni K, e stasera ci siamo accampati presso una diga della val Tramontina. A me e ad un commilitone è toccato il primo turno di guardia. Ci aggiriamo così fra le tende che ospitano un piccolo plotone di artiglieri, mentre poco più in là sonnecchiano le file dei muli.

Nelle tende sparse aspettano il sonno giovanotti ventenni robusti e di sani appetiti, che conversano pacatamente, anche per via della stanchezza cumulata durante la marcia del giorno precedente. Quel che ci sorprende (ma neanche poi tanto) è che l’unico argomento di conversazione sia il cibo. Non che ci aspettassimo disquisizioni filosofiche, ma da ragazzi di quell’età sarebbe lecito attendersi qualche struggente riferimento al sesso, alle donne, ai motori. Invece si parla esclusivamente di pesto, magari associato alle trenette o alle trofie, di torte pasqualine, di lardo (circa la metà dei soldati proviene dalla Liguria).

Siamo stupiti ma, ripeto, non troppo: in fondo anche nella nostra testa (e per il nostro fisico) la priorità è quella. Rimarchiamo la cosa, ci scherziamo sopra, senza tuttavia avventurarci in considerazioni più generali. Ciò che invece vado a fare ora.

Si tratta di una gerarchia naturale di priorità. La prima preoccupazione di qualsiasi essere vivente è la propria sicurezza, e in quel frangente in rischio era contenuto, fatta salva l’eventualità di un calcio di mulo. Subito dopo viene la necessità di nutrirsi adeguatamente e abbondantemente: il miraggio era quindi in quel caso una bella tavola imbandita. Solo quando sono soddisfatti i primi due istinti si passa al resto. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza possiamo dire che, almeno dalle nostre parti, questi istinti prioritari sono sufficientemente garantiti: momentaneamente nessuno corre il rischio di essere sbattuto in trincea, e nessuno – tranne casi estremi – conosce i morsi della fame. A quell’epoca, e in quella situazione, invece, non lo erano affatto. O almeno, non del tutto. Il servizio militare era obbligatorio, il rancio e, peggio ancora, le razioni K (confezionate in scatole metalliche, per durare anni nei magazzini, e contenenti, fra l’altro, delle gallette così dure che solo i muli riuscivano a rosicchiarle. Per mangiarle bisognava bollirle!), non seguivano le indicazioni del dietologo ma quelle dei marescialli di fureria: quindi facevano schifo. Soprattutto durante le esercitazioni e i campi esterni era normale dover tirare la cinta fino all’ultimo buco. Per questo le chiacchiere sotto le tende giravano tutte attorno allo stesso argomento: era un modo per condividere un bisogno primario impellente, creando socializzazione, ma anche per esorcizzarlo, scaricarlo, scherzandoci magari sopra.

Ora, per non tirarla troppo in lungo e per trarne un paio di considerazioni magari elementari ma pienamente fondate, il fatto è che noi siamo condizionati molto più di quanto vorremmo credere dai nostri istinti. La storia della “umanizzazione” è quella del progressivo controllo sulla nostra istintualità, dell’emancipazione dal dominio biologico: ma è una storia ben lontana dall’essere arrivata a compimento. E anzi, è una storia periodicamente smentita dai fatti, dalle necessità, dalla ricaduta nella precarietà e nella barbarie. Per questo le vicende umane andrebbero lette con minor presunzione: non possiamo hegelianamente spiegarle come vicende “dello spirito”. C’è altro che si muove, e che ci muove, dentro di noi. Questo non significa che siamo delle “bestie”, ma che siamo comunque degli animali, ufficialmente pensanti, ma spesso anche no (basta guardarci attorno): e voler negare questo dato significa metterci in condizione di non capire o di male interpretare le reazioni altrui, di relazionarci sulla base di convenzioni estremamente fragili, diverse nei tempi e nelle svariate aree culturali, e pretendere che le risposte che otteniamo siano sempre conseguenti. Significa negare il nostro sostrato naturale e il condizionamento da esso esercitato. Anzi, ci siamo talmente convinti del potere dell’intelligenza culturale sull’istinto naturale da attribuire la prima anche ai nostri cugini più o meno prossimi, con zampe, ali e piume, e siamo finiti ad adottare nei loro confronti comportamenti stupidamente esasperati.

Mio padre, che il militare lo aveva fatto durante l’ultima guerra, mi raccontava come sul fronte greco/albanese alcuni suoi commilitoni, comandati di pattuglia, stanchi ed affamati, avessero preso a sparare contro i loro stessi compagni in fila per il rancio giù nella vallata. È probabile che la sera, nelle loro tende quei pochi fortunati che ne disponevano, quei ragazzi ragionassero di giacigli caldi, di mura sicure, di volti amici, e cercassero di scacciare dalla mente le immagini dei corpi straziati di morti e di feriti che impedivano loro di chiudere occhio. A volte magari lo facevano nella maniera più stupida, reagivano inconsultamente, ma si trattava appunto di una reazione sfuggita al controllo che chi non ha vissuto quei momenti non è in grado di valutare né di giudicare.

Oggi, alla loro stessa età, i ragazzi stazionano la sera non sotto le tende, tremando di paura o rosi dalla fame, ma nei dehors spuntati come funghi, sorseggiando l’apericena: e quando non si inchiodano al loro iPhone sproloquiano del nulla, annichiliti dal deserto di senso e di idealità che li circonda. Si badi bene: non sto dicendo che siano degli idioti, o abbiano meno risorse mentali delle generazioni che li hanno preceduti. Dico che ogni generazione reagisce in base agli stimoli, negativi o positivi, che arrivano dall’ambiente, e sono questi stimoli a determinare l’ordine delle priorità. Può sembrare un ossimoro, e può sembrare in contraddizione con quanto detto sinora, ma esistono anche “priorità secondarie”, apparentemente solo “culturali”, in realtà dettate anch’esse da un input biologico. In questo caso ad agire è una somma confusa di stimoli, da quello riproduttivo a quello del dominio, tradotti e ricondizionati dal nostro cervello per essere compatibili con i modelli in costante evoluzione della socialità, ma pur sempre basilari per indirizzare i nostri comportamenti.

Insomma, anche là dove non intervengono la fame o il rischio fisico noi reagiamo in primo luogo a bisogni originari, per quanto mascherati e rimossi, e faremmo bene a non dimenticarlo mai, quando parliamo di educazione, di politica, di socialità, di tutto ciò che consideriamo erroneamente di assoluta pertinenza “culturale”, e quindi passibile di un controllo quasi completo. Il pensiero risponde prima di tutto alle istanze della biologia.

Ovvero, come dicevano gli antichi, la lingua batte dove il dente duole.

Occidente senza pensiero

di Giuseppe Rinaldi, 13 luglio 2025

Pubblichiamo il saggio più recente di Beppe Rinaldi, già comparso nei giorni scorsi sia sul blog personale, Finestre rotte, sia su Città futura on line. Lo pubblichiamo perché riteniamo meriti, come tutti gli altri scritti di Rinaldi che abbiamo ripresi e quelli che vi invitiamo a leggere direttamente sul suo sito, la maggiore visibilità possibile. È difficile di questi tempi trovare analisi altrettanto puntuali ed esaurienti dell’attualità politica e delle derive del pensiero contemporaneo, e siamo quindi ben felici di poterle ospitare. Paolo Repetto

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1. Il titolo di questo saggio[1] fa riferimento a un recente libretto di Aldo Schiavone nel quale egli descrive e denuncia un ormai consumato degrado della vita intellettuale e morale dell’Occidente e, dunque, anche e soprattutto del primo Occidente, cioè dell’Europa. La nozione di un Occidente senza pensiero costituisce una sintesi assai evocativa di una situazione di vuoto culturale che si sarebbe instaurata, sulle sponde atlantiche, pressappoco con l’affievolirsi delle cosiddette ideologie, proprio quelle ideologie peraltro già in crisi che avevano avuto il loro ultimo momento di gloria nell’ambito della Guerra fredda.

2. Sulla cosiddetta fine delle ideologie sono state ormai scritte intere biblioteche[2]. Daniel Bell, già alla metà del secolo scorso, parlava di una «exhaustion of political ideas». Su questa “fine”, e su altre “fini”, la baldanzosa corrente filosofica postmodernista ha campato di rendita per alcuni decenni. Qualcuno ha anche provato a ipotizzare una fine della storia. Con la fine delle ideologie, comunque si valuti l’evento, ci si poteva attendere il luminoso inizio di una nuova prospettiva culturale, scevra di ideologismi, realistica, con i piedi ben piantati in terra, capace di guidarci con sicurezza nell’affrontare le difficili sfide che abbiamo di fronte. Invece, a quanto pare, l’ipotesi più probabile è che sia subentrato il vuoto. Un vuoto che non si può soltanto più considerare come un momentaneo smarrimento, una crisi di crescita. Si tratta piuttosto di un vuoto che si appresta a diventare un vuoto permanente, visto che il Muro è caduto nel 1989, quasi quarant’anni fa, 36 per la precisione.

3. Cosa vuol dire che siamo rimasti “senza pensiero”? È proprio vero? Perché non ce ne eravamo accorti prima? O non si tratta forse dell’ennesima moda denigrativa dell’Occidente, tanto popolare nella cultura woke e recentemente denunciata, ad esempio, da Federico Rampini[3]? Le assenze sono decisamente più difficili da rilevare delle presenze. I vuoti non parlano, non protestano, non hanno effetti causali diretti. Per cui occorre un certo tempo perché vengano identificati, perché venga loro attribuito uno status, per così dire, ontologico. Non è facile – soprattutto nel dominio culturale – rendersi conto del fatto che ci manca qualcosa. Che siamo sull’orlo di un buco nero. A parere di chi scrive l’avvertimento acuto della assenza di un pensiero dell’Occidente (e dell’Europa) si è avuto piuttosto tardi, in concomitanza con una serie di fenomeni che avrebbero dovuto avere una interpretazione univoca e una risposta altrettanto univoca da parte dell’Occidente. E invece non l’hanno avuta. Fenomeni come: 1) l’aggressione russa all’Ucraina; 2) la diffusione stessa della cultura woke entro e fuori degli USA; 3) la Brexit che in sostanza ha costituito una scissione dell’Unione Europea; 4) la prima vittoria di Donald Trump alle elezioni nel 2017, l’assalto al Campidoglio e la sua seconda elezione nel 2024; 5) l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele e la reazione sproporzionata dello “Stato degli ebrei” nei confronti del territorio di Gaza; 6) lo svuotamento dell’ONU e dei Tribunali internazionali (a seguito delle guerre di Ucraina e di Gaza); 7) in generale, poi, la estrema lentezza e riluttanza con cui si sta realizzando la unificazione europea. Se si vuol essere un poco più drastici, il blocco ormai pluridecennale del processo di unificazione europea. Se ne potrebbero citare altri.

Questi meri fatti hanno diviso profondamente il mondo della politica, gli intellettuali e l’opinione pubblica europea e hanno mostrato come, da tempo ormai, fosse diventato impossibile l’impiego di criteri comuni di interpretazione, di fronte a questioni che pure sono di enorme importanza, che pure toccano profondamente i valori e i principi fondamentali. Se di fronte a fatti di questa portata non hai una risposta tendenzialmente univoca, vuol dire che non sai tanto bene chi sei, che non hai propriamente un’identità. È lecito domandarsi se non ci sia un limite nella disomogeneità di pensiero che possa essere sopportato da una società, in termini di coesione e di funzionamento. Una società che peraltro è impegnata in un programma di unificazione politica.

4. Se si guarda alla fase storica precedente, quella della Guerra fredda, avevamo mezzo mondo mobilitato per la costruzione del socialismo, in qualcuna delle sue molteplici varianti (alcune delle quali davvero discutibili). Un altro mezzo mondo era alacremente impegnato nella costruzione delle società democratiche aperte e per resistere alla minaccia del socialismo o comunismo reale. Un “Terzo mondo” era poi impegnato nella costruzione di nuovi Stati nazione, per liberare i diversi Paesi dal colonialismo e dallo sfruttamento straniero. Non si può certo dire che mancassero ideologie, valori e finalità. Non mancava dunque il pensiero. Certo, c’erano dei conflitti e alcuni “pensieri” erano del tutto sbagliati, ma questo è il rischio che si corre sempre quando si è impegnati a fare la storia in qualche modo.

Con l’implosione dell’Unione Sovietica e con la fine della Guerra fredda, l’Occidente, che poteva considerarsi come il virtuale vincitore della lunga contesa, è invece entrato in una sorta di stato comatoso, in una sconcertante assenza di progettualità e di prospettive, in una stupida concentrazione sugli egoismi nazionali e sui particolarismi. Sono diventati così visibili, in un certo senso, i due Occidenti, uno dalla statualità muscolare e l’altro dalla statualità evanescente. L’Occidente europeo evanescente ha delegato all’altro, agli USA, una serie importante di responsabilità[4] collettive e questi – oggi possiamo affermarlo con totale certezza – si sono dimostrati assolutamente incapaci, assolutamente non all’altezza del compito. Con una “assenza di pensiero” forse ancora più plateale di quella diffusa in Europa. Basta nominare, uno in fila all’altro, i recenti Presidenti americani. Ve li trascrivo qui di seguito per comodità. Richard Nixon (1969-1974), Gerald Ford (1974-1977), Jimmy Carter (1977-1981), Ronald Reagan (1981-1989), George H. W. Bush (1989-1993), Bill Clinton (1993-2001), George W. Bush (2001-2009), Barack Obama (2009-2017), Donald Trump (2017-2021), Joe Biden (2021-2025) e Donald Trump (2025-). Messi così, uno in fila all’altro, che impressione vi fanno? Riuscite a identificare una qualche linea di pensiero?

5. Gli ultimi quarant’anni della nostra storia, nel primo e nel secondo Occidente, ci mettono drammaticamente di fronte a questo vuoto di prospettiva, vuoto di politica, vuoto di cultura, vuoto, appunto, di pensiero. Un vuoto che si sta facendo sempre più evidente nella misura in cui i problemi, abbandonati a se stessi, urgono per una soluzione e si incancreniscono sempre più. Nel proseguimento di questo saggio – che non va propriamente inteso come una recensione – prenderò in considerazione soprattutto la parte introduttiva e la parte conclusiva del libro di Schiavone, al solo scopo di meglio caratterizzare questo fenomeno, oggi per me divenuto evidentissimo, di un Occidente senza pensiero.

6. Così esordisce Schiavone nel suo libretto: «Nel quadro delle conoscenze e dei saperi che alimentano la vita pubblica delle nostre società […] si è aperto da qualche tempo, nell’indifferenza generale, un vuoto inquietante. Prodottosi quasi di colpo, ha per causa un fatto senza precedenti, con conseguenze che si stanno rivelando via via più disastrose: la scomparsa dalla scena d’Europa del grande pensiero sull’umano: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali»[5].

Va notata qui l’espressione “pensiero sull’umano”, una terminologia di cui sembra si sia persa decisamente l’abitudine. Vorrei ricordare che anche le atroci lacerazioni del Novecento vertevano comunque, bene o male, intorno a un qualche “pensiero sull’umano”. L’amaro tribunale della storia ha alfine decretato qualcosa di abbastanza preciso, intorno all’umano e al disumano. Qualcosa abbiamo dovuto forzatamente imparare. Oggi, per contro, l’umano e il disumano sono mescolati in una poltiglia inestricabile: Hamas, Trump, Putin, Netanyahu, cui possiamo aggiungere, fuori Occidente, gli ayatollah, i talebani e diverse varietà di islamisti. Ma anche Xi e Kim Jong-un. Eppure ci siamo così abituati che invocare l’umano oggi suscita senz’altro, presso il pubblico, ilarità e compassione.

Schiavone qui giustamente denuncia il progressivo venir meno della cultura umanistica nell’attuale contesto europeo, e più ampiamente nel contesto di quello che suole definirsi come Occidente. È implicito nel suo discorso che la cultura umanistica costituisca ancora una componente fondamentale nella definizione degli orientamenti di una società. Possiamo aggiungere che non assistiamo soltanto a un venir meno della prospettiva umanistica e alla proliferazione del cinico disincantato, stiamo assistendo a una promozione sfacciata dell’antiumanismo, in una varietà di forme che hanno sempre più successo o che comunque, invece di una condanna, suscitano solo benevola indifferenza[6]. Difendere l’umanismo oggi significa spesso fare la parte dell’anima bella che sogna i bei tempi andati. Significa essere malamente apostrofati dai truci realisti della politica che oggi abbondano più che mai. Questa tendenza antiumanistica si accompagna costantemente con lo screditamento della modernità, lo screditamento della tradizione stessa dell’Occidente e con l’implicito e conseguente screditamento della democrazia.

7. Schiavone chiama direttamente in causa le humanities: filosofia, teoria politica, scienze storiche e sociali. Altre volte cita le discipline giuridiche, l’etica, l’economia. Chi scrive si è occupato di filosofia e scienze umane fin da quando era sui banchi di scuola. Ebbene, la filosofia occidentale, nella sua versione continentale, sta attraversando una crisi epocale dalla quale difficilmente riuscirà a riprendersi. Ho trattato ampiamente di questo argomento nel mio recente saggio Esiste la filosofia continentale?[7] L’aspetto interessante della questione è il fatto che, a partire dagli anni Settanta la filosofia continentale europea, soprattutto tedesca e francese (la french theory), ha completamente colonizzato le facoltà umanistiche americane, gettando le basi di quella cultura del piagnisteo politically correct, che si svilupperà poi nel movimento stay woke. In altri termini, stiamo importando in forma peggiorativa, come vuoto di pensiero, quello che abbiamo esportato oltre atlantico qualche decennio fa.

Per le scienze sociali è avvenuto un processo inverso. Le scienze sociali americane del primo Novecento, che avevano studiato per prime la nuova società di massa, sono state esportate in Europa, dove hanno avuto una diffusione straordinaria e hanno contribuito alla conoscenza e all’ammodernamento delle società europee, almeno quelle al di qua del Muro. Per decenni le scienze sociali nord americane furono le sole capaci di fare una dura concorrenza all’ortodossia marxista, che pretendeva il monopolio della conoscenza sociale. Esse diedero notevoli contributi ai processi di riforma delle società europee postbelliche. Negli anni Novanta tuttavia le scienze sociali americane caddero vittima dei social studies, del piagnisteo politically correct e lo stesso accadde, di converso in Europa. Con l’avvento del neo liberismo (la Tatcher sosteneva che “la società non esiste”) e con l’abbandono dei grandi progetti di riforma, le scienze sociali cominciarono a perdere qualsiasi ruolo e centralità. Contribuendo così a quel vuoto di pensiero di cui stiamo discutendo.

8. Una delle manifestazioni più tangibili di questo vuoto inquietante è – per Schiavone – la progressiva scomparsa dei Maestri. «Una volta c’erano tra noi i Maestri. Non in un’età ormai lontana, ma appena qualche decennio fa, ancora nel tardo Novecento. Guide da cui non si poteva prescindere e con cui ci siamo a lungo confrontati, fin quasi al passaggio del secolo. Spesso discussi e criticati, e non soltanto seguiti e imitati, ma comunque riconosciuti in grado di misurarsi con le grandi personalità del passato, e di aprire, attraverso quel dialogo, vie inesplorate per affrontare i problemi del presente nella continuità di una tradizione: quella stessa della modernità»[8].

La collocazione cronologica posta da Schiavone, “appena qualche decennio fa”, dell’avvento del vuoto di pensiero, è all’incirca quella che ho segnalato nella mia introduzione. Va poi ricordato che intellettuali e modernità hanno costituito, per secoli, un binomio inseparabile. Gli intellettuali, pur con molte contraddizioni, hanno costantemente svolto il ruolo di coscienza critica della modernità. Anche i conflitti del Novecento sono stati elaborati e consumati nell’ambito di un aspro dibattito intellettuale intorno alla modernità, o a quel che ne restava.

Ma è ora subentrata la postmodernità, la reazione contro la modernità che ha finito per scindere il ruolo stesso degli intellettuali nei confronti della società e della storia. Intellettuali e modernità sono due categorie che hanno subìto, negli scorsi decenni, un attacco violentissimo. Proprio ad opera della postmodernità che, in virtù di questo vandalismo di principio, ha mostrato alla fine la propria vacuità e inconsistenza. Senza l’apporto della modernità, senza il ruolo degli intellettuali, abbiamo perso progressivamente la capacità di pensare al nostro passato, al nostro presente, al nostro destino. Abbiamo rinunciato a domandarci chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Con chi ci accompagniamo.

9. Schiavone usa alcune pagine per elencare una nutrita schiera dei grandi Maestri cui faceva riferimento in apertura. «Era insomma la grande cultura formatasi nel cuore del ventesimo secolo che continuava a svolgere il proprio ruolo, e finiva con l’illuminare un’intera civiltà. […] Di comparabile a tanta ricchezza, oggi non rimane più nulla: ed è così che il buio è sceso senza preavviso sul cuore dell’Occidente. I primi risultati sono sotto gli occhi di tutti: un’America irriconoscibile, e un’Europa che tace o balbetta»[9].

Si noti che l’elenco dei Maestri citati, che qui non riporto e discuto per brevità, comprende posizioni culturali anche assai diverse e talvolta incompatibili. In omaggio dunque alla natura sempre conflittuale del pensiero. Per quel che riguarda invece il buio che ha colto il secondo Occidente, ci dovremmo soffermare a lungo sulla cultura woke, che è insieme causa e conseguenza della sparizione dei grandi Maestri e del rifiuto della modernità. Luca Ricolfi nel suo saggio sul Follemente corretto[10] ha esaurientemente descritto il fenomeno e ne ha tracciate alcune linee interpretative. Il politically correct e la cultura woke, con tutti i loro annessi e connessi, hanno gravemente minato la libertà di pensiero, uno dei principi cardine dell’Occidente.

10. Tuttavia Schiavone mette anche l’accento sul deterioramento qualitativo della produzione culturale. Ciò ovviamente mette in causa i meccanismi stessi della produzione e riproduzione dei saperi umanistici. Afferma Schiavone che: «[…] se si considerasse l’elenco dei docenti di una qualunque importante Facoltà umanistica in Francia, in Germania, in Italia qual era quaranta o cinquanta anni fa, e lo si mettesse a confronto con coloro che vi insegnano oggi, sarebbe arduo sottrarsi all’impressione di una distanza crescente e incolmabile, se appena si avesse una cognizione non superficiale delle materie prese in esame: filosofiche, storiche, giuridiche, sociologiche»[11].

Va osservato, da parte nostra, che l’appiattimento qualitativo riguarda non solo l’offerta culturale, ma anche il lato della domanda. Le capacità medie conseguite dagli studenti nelle nostre scuole sono in caduta libera. Lo stesso vale per le capacità medie dei cittadini di svolgere efficacemente i doveri loro prescritti dalla Costituzione. Anche su questo appiattimento ormai esiste una letteratura ampia e ben documentata.

11. Ciò vale perfino – ci permettiamo di aggiungere – nel campo dell’intelligenza. Secondo gli studiosi dell’effetto Flynn, nei Paesi occidentali anche l’intelligenza media avrebbe cessato di crescere. L’Effetto Flynn[12] era quel fenomeno, ben conosciuto dagli psicologi, per cui le prestazioni nei test di intelligenza tendevano a crescere col passare del tempo (3 punti ogni decennio). Questo fenomeno era stato rilevato sulla base dell’accumulo dei dati conseguenti alla pratica sistematica della somministrazione dei test di intelligenza diffusa in varie nazioni e istituzioni. Dall’inizio del nuovo secolo sono comparsi diversi studi che testimoniano di un arresto del fenomeno di crescita dei punteggi medi nei test di intelligenza. O, addirittura, sembrano avallare la presenza generalizzata di un effetto Flynn rovesciato. Col passare del tempo, le prestazioni individuali nei test di intelligenza non solo avrebbero cessato di crescere ma addirittura tenderebbero a diminuire. La cosa è tuttora controversa sul piano statistico, ma decisamente allarmante, se collegata ad altri sintomi di degrado del livello culturale medio delle nuove generazioni.

12. Eppure viviamo in un’epoca formidabile di progresso tecnico scientifico. Abbiamo fotografato i buchi neri, abbiamo scoperto il bosone di Higgs e intercettato le onde gravitazionali. L’intelligenza artificiale contribuisce a migliorare la nostra vita in un’enorme quantità di settori. Schiavone precisa che, a suo giudizio, il vuoto di pensiero incombente concerne proprio il contesto delle humanities, visto che, per quel che riguarda le scienze della natura, non pare proprio esserci alcuna crisi alle porte. Non abbiamo dunque a che fare con disturbi funzionali di base, visto che nel campo scientifico hard il prodotto è rimasto per ora del tutto competitivo. Abbiamo proprio a che fare col vuoto di pensiero sull’umano. Un autentico smarrimento. Come un gigante dotato di un’enorme muscolatura, ma col cervello di un moscerino.

Schiavone confronta l’epoca della prima Rivoluzione industriale, quando il passaggio d’epoca fu caratterizzato da un intenso lavorio culturale allo scopo di comprendere le trasformazioni che stavano avvenendo, con l’epoca nostra, un’epoca di grandi trasformazioni che avvengono in una totale mancanza di comprensione. «Ma questa volta dov’è il pensiero – filosofico, economico, sociale, politico, giuridico, etico: in una parola, l’indagine sulle società e sull’umano in trasformazione e sui loro nuovi caratteri – che dovrebbe fare da guida al passaggio d’epoca, orientandone direzione e conseguenze, come è accaduto con le grandi rivoluzioni della modernità?»[13]. Stiamo, in altri termini, vivendo una grande trasformazione con gli occhi completamente bendati.

13. Insiste Schiavone: «Quello che manca è in particolare una cultura – storica, filosofica, sociale – che si ponga il problema di una lettura d’insieme dei processi che si stanno sviluppando nel mondo, dei loro caratteri e delle loro tendenze, e che offra soluzioni innovative alla politica. Un pensiero che analizzi da vicino, con capacità teorica adeguata, il salto di qualità avvenuto nella struttura dell’economia capitalistica in seguito alla rivoluzione tecnologica, con il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali – il lavoro della classe operaia. Un passaggio, quest’ultimo, che ha posto fine a un intero tratto della modernità, ha provocato il crollo dei regimi comunisti, e ha portato alla nascita di uno specifico meccanismo unico di tecnica e di economia per la prima volta senza alternative nell’intero pianeta – sul quale tuttavia sappiamo pochissimo dal punto di vista della sua teoria e della sua critica»[14].

Qui torna uno dei problemi su cui Schiavone aveva già insistito, in passato, e cioè «il definitivo tramonto della centralità storica del lavoro umano produttivo di beni materiali». Si tratta di un motivo ben presente nel suo Sinistra! Un manifesto del 2023[15]. La presenza del conflitto di classe aveva caratterizzato i due secoli precedenti della modernità e aveva monopolizzato i dibattiti intorno alla configurazione della società. Intorno alla società giusta. Ora quella centralità storica non c’è più e ciò imporrebbe lo sviluppo di un nuovo pensiero intorno al futuro stesso delle società occidentali. Un manifesto, appunto, per una nuova sinistra[16]. Ma la sinistra europea appare ammutolita e in difficoltà. Non parliamo poi dei Democratici americani. Sia le destre tradizionali, sia le sinistre, che bene o male avevano entrambe una qualche solida visione della società e della storia, sono oggi soppiantate dal non pensiero dei populismi organizzati, spesso inestricabilmente rossobruni, nazicomunisti nei loro fondamenti. A ogni consultazione elettorale questi registrano incrementi preoccupanti di consensi.

14. Così Schiavone sintetizza la situazione: «L’Occidente è rimasto in tal modo orfano della sua stessa intelligenza: che lo ha lasciato all’improvviso completamente solo, a metà strada di un cammino incompiuto. E ne è rimasta orfana in particolare la politica, sia progressista sia conservatrice. Una specie di nuovo “tradimento dei chierici”, consumato quando mettere in campo nuovo pensiero sarebbe stato indispensabile per concepire e realizzare scenari adeguati alle peculiarità della nuova realtà capitalistica e al suo rapporto con la tecnica e con la politica»[17]. In questi passi si evoca il tradimento dei chierici, uno smarrimento cioè della funzione intellettuale, un inchino del mondo della cultura a interessi totalmente estranei. Il riferimento ovviamente va a Julien Benda (1867-1956) e al suo noto Tradimento dei chierici (1927)[18]. E il tradimento dei chierici ha avuto effetti esiziali sulla politica: «E invece proprio nel momento cruciale del salto, il circuito delle conoscenze si è interrotto. E la politica è diventata cieca, senza concetti e categorie in grado di leggere oltre la superficie dei processi che ci coinvolgono, nei caratteri e nelle tendenze di lunga durata del mutamento»[19].

La debolezza della politica è senz’altro un effetto della debolezza del pensiero. Il problema è che, in un simile quadro, pare davvero impossibile che la politica riesca a porre un qualche rimedio alla stessa debolezza del pensiero. L’immagine che se ne trae è quella di un Occidente sempre più invischiato in un circolo vizioso autolesionistico. Invece di politica e cultura, come in Norberto Bobbio, avremo sempre più politica senza cultura.

15. Non seguiremo da vicino i vari capitoli nei quali Schiavone approfondisce la propria analisi. Dove si affrontano questioni come il degrado della politica, la globalizzazione, l’impatto delle nuove tecnologie, i problemi della democrazia, la situazione americana. Le conclusioni di Schiavone si aprono con un’affermazione davvero impegnativa: «Solo una rivoluzione intellettuale e morale dell’intera cultura europea di portata eguale alla trasformazione che stiamo vivendo potrà essere in grado di indirizzare per il meglio il cambiamento in cui siamo immersi. Perché lo ripetiamo: la tecnica dona potenza, non assicura salvezza. Stabilisce la direzione e l’irreversibilità del cammino, contribuendo a fissare la forma dell’umano attraverso l’aumento del suo controllo sulle proprie condizioni materiali di esistenza; non garantisce il buon esito dell’intero viaggio»[20].

La tecnica ci rende sempre più forti ma non può darci alcuna indicazione su come usare proficuamente questa stessa forza. Mentre i vari corifei della sinistra in senso lato invocano il disarmo, oppure gli ennesimi provvedimenti di tutela a favore di questi o quelli – quelli che non arrivano alla fine del mese – oppure ancora evocano il diritto alla rivolta e il ritorno alla lotta di classe, ebbene Schiavone va contro corrente e avverte che è necessaria principalmente una «rivoluzione intellettuale e morale», due rivoluzioni con cui nell’immediato «non si mangia». Due rivoluzioni senza cui non sapremmo neanche quale sia la meta verso cui andare. Non ci mancano i mezzi, ci mancano i fini. O forse ne abbiamo di troppi, e di confusi. Il che è come non averne neanche uno.

16. Sarebbe allora da fare una riflessione profonda intorno al significato di queste parole. Cosa significa «rivoluzione intellettuale e morale»? In estrema sintesi, così interpreto io, l’Occidente senza pensiero ha coltivato – ancora una volta – la fiducia nei meccanismi automatici. Come quando aveva creduto alle leggi marxiane della storia. Oggi si tratta della fiducia nelle leggi automatiche dei mercati, nella iniziativa individuale e nella concorrenza, nello slogan «Enrichissez vous!», nella fiducia del gocciolamento del benessere verso tutti gli strati della società. L’Occidente senza pensiero ha fatto di tutto per ridurre ai minimi termini lo Stato e le istituzioni, per dare mano libera alla vandalica deregulation. È stata questa una comune ubriacatura che ha coinvolto sia la destra sia la sinistra. Destre e sinistre che la capacità di pensare l’avevano forse persa da tempo. Così ci siamo ritrovati immersi nel populismo e stiamo così mettendo a repentaglio le stesse istituzioni democratiche. L’Occidente europeo ha pensato che bastasse «laissez faire, laissez passer». Che bastasse stare a guardare, e tutto si sarebbe aggiustato da sé.

17. Ora, a quanto pare, la storia ci sta presentando il conto, e non sappiamo cosa fare. Il fatto è che – di questo dobbiamo davvero convincerci – la società va pensata. La società è fatta proprio per essere pensata. Soprattutto le società altamente complesse come le nostre. Per le quali occorre un pensiero di pari complessità. Invece abbiamo creduto alle semplificazioni. Da noi, per stare a casa nostra, abbiamo creduto al pensiero semplice di Berlusconi, di Bossi, di Renzi, di Grillo, di Meloni, di Salvini. Mi spiace molto dirlo, ma anche quello di Schlein e di Landini, di fronte ai problemi che abbiamo davanti, è puro pensiero semplice[21].

In Europa, pensare di continuare a sopravvivere come uno Stato senza Stato (che non unifichi in sé le fondamentali prerogative di uno Stato) è puro pensiero semplice, come quello dei pacifinti che vogliono la pace e la sicurezza, non vogliono la NATO e non vogliono spendere una lira per comperare le cartucce. Pensiero semplice anche quello dei governi europei che vorrebbero, a fasi alterne, una politica estera di grande potenza, senza però cedere alcun potere a un Ministro degli esteri europeo di un Governo europeo. Purtroppo siamo guidati dal pensiero semplice e gli elettori, divenuti semplici anch’essi, non sembrano neanche più persuasi di dover andare ogni tanto a votare. Non vanno più a votare non perché siano delusi dalla politica ma perché sono divenuti incapaci di un qualsiasi pensiero effettivamente politico. Ricordo che gli esponenti del secondo partito di opposizione italiano andavano in parlamento agitando l’apriscatole. Non solo intellettuali senza pensiero dunque, ma anche elettori senza pensiero.

18. Già, ma allora, come possiamo fare per recuperare un pensiero alto, degno dell’Europa e dell’Occidente migliore? Davvero all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte? Schiavone si pone il problema, ma qui mi permetto di dubitare alquanto sulla fattibilità della sua proposta. Dice: «[…] almeno in Europa, per rimettere in moto la macchina del pensiero serve una scossa esterna al mondo delle idee, tanto forte da rendere possibile la ripresa del cammino interrotto. Un impulso che può venire soltanto dalla politica: da una politica che sappia spezzare con la forza di una decisione il vuoto di idee che la circonda. E questa non può consistere in altro se non in un passo avanti decisivo verso l’unificazione del continente»[22].

Qui Schiavone incorre purtroppo in una qualche circolarità di pensiero, visto che, nella introduzione ha sostenuto che proprio il vuoto di pensiero confina la politica alla mera amministrazione. Come farà una politica priva di pensiero a trovare da sé la forza di una decisione? Personalmente una risposta ce l’ho, ed è una risposta poco piacevole. Solo una colossale esternalità negativa, una grave catastrofe, potrà costringere i nostri maestri del pensiero semplice a prendere decisioni forti. A prendere finalmente le ovvie decisioni indispensabili. Non resta che sperare nella catastrofe.

19. Così l’Occidente si è cacciato in un circolo vizioso che lo condanna a rendimenti sempre più bassi. A continuare a rimandare e ad attendere, come se avessimo davanti un tempo infinito. Certo, è comodo fare l’ammuina. Schiavone avverte che: «Progresso tecnico e scadimento morale e sociale possono coesistere, entro certi limiti. Con la conseguente deriva verso un mondo in cui l’anomia sarà diventata la regola di un suprematismo capitalistico – tecnologico fuori controllo: segnato dal dominio di minoranze più o meno ristrette – arroccate nei privilegi derivanti dalla loro posizione rispetto al dispositivo tecnoeconomico globale – su moltitudini uniformate dalla comune sconfitta e dal patimento condiviso della sopraffazione»[23]. L’Amministrazione Trump è oggi un perfetto esempio di coesistenza di progresso tecnico e scadimento morale, intellettuale e sociale. Questo è forse il destino che ci aspetta.

Rincarando la dose, secondo Schiavone oggi ci troviamo in: «Una congiuntura in cui la capacità del pensiero sull’umano di padroneggiare e di orientare verso paradigmi di razionalità fondati sul bene comune quel potere di trasformazione del reale che stiamo acquisendo con tanta velocità appare drammaticamente ridotta, se non addirittura azzerata. Se non riusciremo a riequilibrare in corsa questo scompenso; se una parte di quella che chiamiamo la nostra civiltà continuerà a rimanere indietro rispetto all’altra, il prolungarsi del ritardo renderà realistiche ipotesi di futuro nelle quali l’aver cancellato la comune identità dell’umano diverrà il principale carattere di una costituzione materiale del pianeta fondata esclusivamente sulla discriminazione e sul dispotismo»[24].

Val la pena di aggiungere che non sarà certo demandando alla intelligenza artificiale la soluzione delle maggiori questioni – come qualcuno auspicherebbe – che risolveremo il nostro deficit di pensiero. Un imbecille con l’AI diventa un imbecille al quadrato. C’è già chi pensa di infilare l’intelligenza artificiale nelle scuole, così avremo finalmente il pensiero semplificato a disposizione di tutti, paziente, autorevole, efficiente e del tutto incontrollabile. Non sono tra gli scettici oppositori della AI, sono piuttosto tra gli scettici che dubitano della nostra capacità di controllare la AI, cui ci stiamo affidando con tanta disinvoltura e dabbenaggine. Anche qui è in gioco il vuoto del pensiero. Chi pensiero non ha, non può darselo artificialmente.

20. Schiavone manifesta tuttavia, nonostante tutto, un certo ottimismo: «[…] nonostante tutti gli ostacoli che si frappongono, credo che in questo frangente sia proprio dall’Europa che possa partire il primo e più forte segnale di risveglio; che sia da qui che si possa riannodare il filo spezzato del nostro pensiero»[25]. Schiavone entra qui nel merito di alcuni punti di forza restanti su cui l’Europa potrebbe basarsi per dare il via a una ripresa. In effetti, dopo il declino ormai palese e profondo della democrazia americana, del secondo Occidente, non resta che riporre qualche speranza nel primo Occidente. Effettivamente se il patrimonio di pensiero dell’Occidente non è rimasto da qualche parte in Europa, può allora esser tranquillamente dichiarato in via di estinzione. Basti pensare al trattamento inferto da Trump alle università americane per rendersi conto che da quelle parti non verrà più fuori alcunché, per un bel po’. Bisogna riconoscere che Alexandr Dugin, al di là del suo tono profetico ed esaltato, nei suoi scritti è andato vicino a una diagnosi ben precisa della capitolazione dell’Occidente di fronte all’Euroasiatismo. In un suo scritto[26] di qualche anno fa aveva individuato proprio in Trump il capofila inconsapevole della reazione dei popoli del Mondo contro l’Occidente, irrimediabilmente corrotto e pervertito.

Comprendiamo che Schiavone, nel suo ruolo di pubblico intellettuale, si sforzi di mostrare un volto tutto sommato ottimistico. Comprendiamo come si sia sentito in dovere di considerare la partita del pensiero dell’Occidente ancora come aperta. Di mostrare una strada praticabile per uscire dalla crisi. Di considerare come ancora non del tutto perduto il nostro patrimonio di pensiero, la nostra scala di valori e le nostre istituzioni. In questo senso, il suo saggio è un appello. Purtroppo la sua diagnosi è perfetta, ma una eventuale prognosi positiva è invece dipendente da una miriade di condizioni che, se considerate da vicino, non possono che risultare altamente improbabili.

21. Il lettore, compulsando attentamente il testo di Schiavone, potrà farsi un’idea di quanto realistiche siano le possibilità di successo di un programma di rinascita del pensiero europeo da lui intravisto e propugnato. Personalmente, siamo alquanto più pessimisti e il vuoto di pensiero dell’Occidente oggi ci sembra ormai decisamente irreparabile. Più che di un improbabile programma di rinascita, oggi ci pare quanto mai necessario un programma di resistenza. Un appello disperato che chiami alla resistenza le poche forze del pensiero d’Occidente sopravvissute, e non ancora del tutto stravolte. Una resistenza, appunto, intellettuale e morale. Una resistenza destinata tuttavia a diventare sempre più clandestina, sempre più confinata nei bantustan o nelle riserve indiane. Il trattamento inferto da Trump alle università americane è di una chiarezza esemplare. Una resistenza nella lucida consapevolezza che la guerra è stata ormai perduta, che i barbari sono alle porte e che domineranno per secoli. Si tratta allora di mettere da parte e conservare i codici, ricopiare e commentare i testi, trasmettere la tradizione, tenere acceso il lumicino in attesa di un’improbabile nuova alba. Proprio come i monaci irlandesi nei secoli bui della decadenza europea.

Opere citate

1960 Bell, Daniel, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Harvard University Press, Cambridge. Tr. it.: La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo Edizioni, Milano, 1991.

1958 Benda, Julien, La trahison des clercs, Editions Grasset, Paris. [1927]

2021 Dugin, Alexandr, Contro il Grande reset. Manifesto del Grande risveglio, AGA Editrice.

2022 Rampini, Federico, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, Milano.

2024 Rampini, Federico, Grazie Occidente!, Mondadori, Milano.

2024 Ricolfi, Luca, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, Milano.

2023 Schiavone, Aldo, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, Torino.

2025 Schiavone, Aldo, Occidente senza pensiero, Il Mulino, Bologna.


[1] Nella scrittura di questo saggio non ho fatto uso alcuno di strumenti di intelligenza artificiale.

[2] La prima occorrenza della questione risale al 1960. Si veda Bell 1960.

[3] Cfr. Rampini 2022 e Rampini 2024.

[4] Tra queste responsabilità, attribuite di fatto dall’Europa agli USA, abbiamo la difesa (attraverso la NATO), il governo monetario e del commercio internazionale, la politica internazionale, il controllo degli Stati canaglia, il governo delle crisi internazionali derivanti da alcuni Paesi ex comunisti e dall’insorgente fondamentalismo islamico, compresa anche la lotta al terrorismo. Possiamo aggiungere la responsabilità della salvaguardia e della promozione delle organizzazioni internazionali. A uno sguardo retrospettivo, gli USA hanno fallito in tutti questi compiti. Marcatamente, in politica internazionale hanno fallito sulla questione israelo-palestinese, hanno fallito in Iraq e in Afghanistan. Solo per elencare le crisi più importanti. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, gli USA hanno dato un notevole contributo al loro indebolimento.

[5] Cfr. Schiavone 2025: 15.

[6] Fanno parte dell’antiumanismo, a nostro parere, anche il transumanismo e il postumanismo nelle loro varie e confuse manifestazioni.

[7] Si veda Finestre rotte: Esiste la filosofia continentale?

[8] Cfr. Schiavone 2025: 16.

[9] Cfr. Schiavone 2025: 19.

[10] Cfr. Ricolfi 2024.

[11] Cfr. Schiavone 2025: 20.

[12] Dal nome dello psicologo neozelandese James Robert Flynn (1934-2020).

[13] Cfr. Schiavone 2025: 25.

[14] Cfr. Schiavone 2025: 26-27.

[15] Cfr. Schiavone 2023.

[16] In un mio saggio precedente ho analizzato dettagliatamente il Manifesto di Schiavone. Per chi fosse interessato, si veda Finestre rotte: Prolegomeni a una nuova sinistra.

[17] Cfr. Schiavone 2025: 30.

[18] Cfr. Benda 1958.

[19] Cfr. Schiavone 2025: 30.

[20] Cfr. Schiavone 2025: 123.

[21] Mi permetto qui di richiamare la mia recente analisi sui Referendum del giugno 2025: Finestre rotte: Referendum 2025.

[22] Cfr. Schiavone 2025: 123.

[23] Cfr. Schiavone 2025: 124.

[24] Cfr. Schiavone 2025: 124.

[25] Cfr. Schiavone 2025: 124-125.

[26] Cfr. Dugin 2021.

Esuli, infiltrati e vita di bohème

Stefano Oberti e i fuorusciti parigini

di Paolo Repetto, 23 maggio 2025

La memoria crea talvolta connessioni inattese e singolari. Anzi, per la precisione non le crea, ma le scopre, perché erano già lì ad aspettarci nella realtà, in quella storica o in quella naturale. Accende solo la luce. Accade che ci occupiamo di una vicenda, di un ambiente, di un personaggio, e poco a poco esce dall’ombra tutto ciò che sta attorno, si allarga il nostro campo visivo, si schiudono nuove curiosità.

A me è capitato proprio recentemente, mentre scrivevo il pezzo su Andrea Caffi. Fantasticavo come al solito su come sarebbe stato conoscerlo, quando all’improvviso ho realizzato che se Caffi non avrei potuto incontrarlo comunque, non fosse altro per ragioni anagrafiche, ho conosciuto però qualcuno che probabilmente l’aveva incrociato, dal momento che entrambi avevano vissuto come fuorusciti a Parigi negli anni Trenta e avevano frequentato più o meno gli stessi circoli antifascisti. Non ho testimonianze certe di una loro frequentazione diretta, ma le probabilità che ci sia stata mi paiono altissime.

Ora, il motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe non è il compiacimento per la possibilità di essere collegato a Caffi da una catena molto corta di relazioni: è invece la curiosità destata dagli sviluppi e dagli esiti diversi di due storie che almeno nella condizione iniziale presentano molte somiglianze. A dimostrazione del fatto che l’ambiente agisce sino a un certo punto, ma è poi l’indole a fare la differenza.

È andata così. Nell’autunno-inverno tra il ‘68 e il ‘69 mi fermai a Genova, dove, oltre a seguire (molto saltuariamente) i corsi universitari e vivere gli ultimi fuochi della contestazione studentesca, avevo trovato un’occupazione part time presso un mobiliere (non in ufficio, camallavo frigoriferi e lavatrici). Alloggiavo in una camera in subaffitto in Castelletto, uno dei quartieri più eleganti della città, scovata da un compagno che aveva un’altra camera nello stesso alloggio. Il costo era irrisorio. Scoprimmo più tardi che potevamo permettercela perché il tizio che ci ospitava non pagava a sua volta l’affitto alla proprietaria.

Il tizio era un signore anziano, alto e corpulento, segnato in viso da diverse cicatrici, simpatico ma decisamente fuori dagli schemi. Si chiamava Stefano Oberti (“dottor” Oberti puntualizzava lui), e vantava un passato interessante. Era infatti stato esule in Francia per più di un decennio, dalla fine degli anni Venti, per sfuggire alla persecuzione dei fascisti. Tra le amicizie che raccontava di avere lì contratto spiccavano quelle col nipote di Nitti e con Rosselli (il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, lo aveva già conosciuto prima), ma in pratica non era possibile citare qualcuno di quel giro col quale non vantasse confidenza. Sospettavamo che buona parte del suo racconto fossero millanterie, ma al tempo stesso eravamo divertiti dalle stravaganze e dall’assurdità del personaggio. Girava per casa quasi sempre inguainato in un capo unico maglia-mutandoni di lana, di quelli che Terence Hill indossa in Trinità, abbottonato davanti e con lo sportelletto sul fondoschiena, che gli dava una silhouette da orso Yogi. Ad un certo punto ho persino cominciato a invidiargli quella tenuta, perché il riscaldamento era sempre spento.

Oberti seguiva e ci segnalava tutti gli eventi culturali e politici della città, compresi quelli cui non era invitato, ma nei quali riusciva ad infiltrarsi invariabilmente tra gli organizzatori o tra gli ospiti d’onore. Una sera ci chiese di accompagnarlo ad una conferenza alla Terrazza Martini, il luogo più elegante di Genova, in cima ad un grattacielo dal quale si vedeva tutta il golfo. Lo stipammo sulla 500 del mio socio, con l’auto che dalla parte in cui era seduto lui raschiava quasi l’asfalto, e dovemmo anche arrischiare l’ascensore per salire i Trenta piani che portavano alla terrazza. Arrivammo naturalmente a conferenza già iniziata, ma non fu un problema, perché guidati dall’addome perentorio di Oberti ci dirigemmo immediatamente al buffet, imbandito su un lato del salone. Ci fu un mormorio di disapprovazione, che distrasse e irritò anche il conferenziere, ma a quanto pare l’argomento proposto non era granché, perché di lì a breve gli astanti cominciarono ad alzarsi, uno o due alla volta, e a raggiungerci ai tavoli. Avevano visto come noi, e soprattutto Oberti, stavamo spazzolando salatini e beveraggi. Credo sia stata la conferenza più breve di tutta la stagione.

Qualche serata la trascorremmo anche a discorrere di politica col nostro locatore, ma non riuscivamo a cavarne molto, perché lui era impallato con la massoneria e con una statua che avrebbe dovuto essere eretta a Mazzini nel cimitero di Staglieno (dove già peraltro le spoglie del patriota erano raccolte in un mausoleo scavato nella roccia). Ci dettagliava anche sulle annose schermaglie di potere che caratterizzano da sempre gli ambienti massonici, e tanto più quelli di provincia, sui voltafaccia e i tradimenti e su quanto fossero infidi i suoi rivali. Ma l’impegno maggiore era rivolto in quel periodo a raccogliere fondi per il monumento, e a lamentarsi della tirchieria dei genovesi, che a quanto pare non si rivelavano particolarmente entusiasti dell’iniziativa. (All’epoca noi non avevamo dubbi che non se ne sarebbe fatto nulla, ma come vedremo ho dovuto poi ricredermi).

Della sua vita di fuoruscito, oltre ad elencare le conoscenze, non raccontò praticamente nulla: sembrava gli fosse rimasta solo una fortissima ammirazione per le donne francesi (confermata nell’autobiografico Esilio a Parigi, dove almeno tre capitoli sono dedicati alle sue presunte conquiste e alla frequentazione di un postribolo d’alto bordo) e aveva maturato una vera passione per Marie Laforet. Una sera dovemmo scarrozzarlo fino al cinema di una delegazione periferica dove proiettavano Delitto in pieno sole: per tutta la durata del film la Laforet recita in bikini, e in qualche scena anche senza. Ne uscì entusiasta.

Una cosa comunque devo riconoscergliela. Quando gli proposi di assistere assieme a me al Cinema Centrale, la sala più “di sinistra” della Genova dell’epoca, alla proiezione di Ottobre di Eisenstein, mi rispose, anticipando di molto Fantozzi, che non solo era una boiata pazzesca, ma travisava anche rozzamente la verità storica. Non ci misi molto ad arrivare alle stesse conclusioni, ma gli avessi dato ascolto mi sarei risparmiato almeno il penoso dibattito che seguì la proiezione.

Alla fine di marzo purtroppo dovetti lasciare la camera, la campagna aveva bisogno di me. Tornai a Genova solo per dare una manciata di esami a giugno, e non rividi mai più Oberti. Il mio coinquilino mi raccontò poi di altre scorribande in cui era stato coinvolto, ma anche lui l’autunno successivo dovette cambiare sistemazione.

L’impressione che entrambi avevamo maturato era quella di un personaggio simpaticissimo, ma decisamente mitomane e inaffidabile. Infatti mi sorprese, ma non mi meravigliò più di tanto, trovare alla fine degli anni Ottanta il suo nome in capo ad una lista elettorale della Lega Nord. Mi confermò l’immagine di un uomo pronto a cavalcare qualsiasi cavallo, pur di stare in sella, e l’idea che il fuoriuscitismo non raccogliesse soltanto idealisti come Gobetti, Caffi, Chiaromonte, Rosselli e Berneri, ma anche diversi opportunisti e qualche sballato, per tacere del gran numero di infiltrati dalla polizia politica del regime.

Per questo, nel raccontare Caffi mi è tornato immediatamente in mente Oberti. E per questo ho voluto indagare un po’ più a fondo il personaggio, ricavandone una storia sorprendente.

Ciò che ho sin qui raccontato attiene alla mia personalissima memoria. È tutto ciò che posso dire dell’uomo Oberti come io l’ho conosciuto quasi sessant’anni fa, o almeno tutto ciò che mi era parso significativo.

Quanto segue appartiene invece alla Storia, non solo alla sua, ma a quella di un particolare fenomeno in un particolare momento. L’ho desunto confrontando diverse fonti, tutte quelle cui mi è stato possibile attingere, e penso che quanto ne viene fuori si avvicini accettabilmente alla verità dei fatti.

Infine, l’ultima parte di questo scritto ospita delle riflessioni di carattere generale, che niente hanno a che vedere con una valutazione o un giudizio storico. Dalle letture e dalle ricerche che ho fatto sono nate delle impressioni, che non riguardano solo il personaggio Oberti, e che propongo in funzione interlocutoria, sperando che il discorso non si chiuda qui.

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Stefano Oberti nasce a Genova nel 1903. Il padre, Zaccaria, è un massone, repubblicano convinto e anticlericale, imprenditore di un certo successo ma sin da giovanissimo portato a cacciarsi nei guai per le sue idee politiche libertarie (anche lui sarà costretto, dopo l’avvento del fascismo, ad emigrare in Francia, dove rimarrà poi sino alla morte).

Stefano si distingue invece in gioventù soprattutto per le passioni sportive, il canottaggio e il calcio: quest’ultimo lo fa entrare in contatto con Sandro Pertini, presidente della compagine universitaria genovese. Non tarda però a seguire le orme del padre e ad essere iscritto nella lista nera dalle autorità del nuovo regime. Come studente di legge fonda infatti l’Unione goliardica italiana per la libertà, che osteggia la riforma Gentile, e ad un convegno internazionale delle federazioni universitarie tenutosi a Varsavia, nel 1924, attacca decisamente gli altri esponenti della delegazione italiana, già allineati col fascismo. La sua attività politica si intensifica dopo il delitto Matteotti, sino a che, una notte del gennaio 1925, viene aggredito da un gruppo di squadristi che lo bastonano fino a sfigurargli il volto. Nell’immediato non vuole demordere, ma quando alla fine dell’estate successiva gli è ritirato il passaporto capisce che è venuto il momento di cambiare aria ed emigra clandestinamente in Francia.

«A Parigi arrivai a fine settembre 1925. Ben consigliato sul da farsi, presi alloggio in un albergo del Quartiere Latino […]. Presentai domanda alle Autorità francesi per ottenere asilo politico e m’iscrissi all’ “Alliance Française” per perfezionare il mio francese. La Sûreté Nationale fece le sue indagini e tutto risultò a mio favore. […] Poi andai ad abitare […] sulla riva destra della Senna, oltre Passy, presso una signora francese che ospitava un altro studente straniero. Questa signora aveva due figlie […]. Esse mi furono di grande utilità, insegnandomi come dovevo comportarmi con le famiglie parigine, molto restie a legarsi con gli stranieri. […] A noi italiani, tutto sommato, il trapianto in Francia è stato facilitato dalla presenza di una forte comunità di connazionali e dalla benevolenza del Governo francese. Io avevo amici fedeli […]. Un anno dopo fui raggiunto in esilio da mio padre. […] Facevamo colazione assieme e con noi c’erano italiani come il figlio del presidente Nitti, […], francesi e spie italiane di cui ingoiavo la presenza assieme alla pastasciutta e ai sughi all’italiana che cucinavano per noi

Fa a tempo ad incontrare Gobetti poco prima della morte di quest’ultimo e stringe amicizia con l’avvocato siciliano Teocrito Di Giorgio, personaggio che ricomparirà nella sua vita a più riprese: con la gran parte degli altri esuli, invece, e con le diverse formazioni in cui sono raggruppati, entra quasi subito in conflitto. In un libello sollecitamente pubblicato (Episodi della lotta antifascista) ci va giù particolarmente duro: “Qualche mezza dozzina di persone che pretendono di costituire e monopolizzare il fuoruscitismo ufficiale a Parigi sono un’accozzaglia acefala di esseri privi di senso storico, di coraggio personale molto discutibile, di scarsa volontà e iniziativa e quasi totalmente sprovvisti di quello spirito di indipendenza e di sacrificio richiesto dalla grandiosità della lotta”. Al tempo stesso li accusa di offrire dell’Italia all’estero “l’immagine di un Paese immerso nel terrore da un manipolo di bravi […] ciò che significava divenire ancora una volta lo zimbello dell’Europa”.

I suoi atteggiamenti a volte assurdamente intransigenti, spesso sconcertanti, e comunque sempre confusi e dettati da smania di protagonismo, creano non poco imbarazzo nell’ambiente dei fuorusciti; in qualche occasione però tornano utili e sono sfruttati strumentalmente dalle diverse fazioni dell’antifascismo parigino in funzione delle rivalità che più o meno scopertamente allignano (ad esempio, quella tra i togliattiani e tutte le altre). Di fatto comunque Oberti finisce sempre più isolato, se si escludono tre o quattro “seguaci” che gli si associano per calcolo o per spirito gregario, e di conseguenza diventa sempre più insofferente della sua vita di esule e rancoroso nei confronti dei compagni.

Anche sopravvivere materialmente, in questo isolamento, non è facile, a dispetto delle conoscenze di cui può avvalersi tramite il padre. Per un certo periodo sbarca il lunario grazie al denaro che quest’ultimo gli invia dall’Italia. Quando poi questo viene meno comincia a passare per una serie di occupazioni le più diverse, comunque sempre molto precarie: operaio alla Renault, agente di commercio, corrispondente estero, persino comparsa alla Comédie Française . Non è particolarmente portato per il lavoro, mentre è invece attivissimo nella polemica e nelle iniziative di organizzazione: dà vita a gruppi scissionisti all’interno della Concentrazione antifascista, cerca contatti a destra e a sinistra, pubblica opuscoli come Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne. Fino ai primi anni Trenta continua comunque a ruotare nell’ambito dell’organizzazione, e per qualche tempo è in rapporto anche col gruppo di Giustizia e Libertà.

La situazione internazionale sta però evolvendo. Il governo francese comincia a cercare approcci con il fascismo, che nel frattempo ha ammorbidito i toni e le rivendicazioni. Cresce, di qua e di là delle Alpi, il timore per una possibile salita al potere di Hitler, e vengono opportunamente rispolverate le affinità culturali e i possibili interessi comuni. Anche all’interno del mondo dei fuoriusciti le idee non sono chiare: la maggioranza chiaramente è contraria, ma c’è anche chi vede di buon occhio un riavvicinamento pacifico tra i due paesi.

Di questa posizione si fa immediatamente alfiere Oberti, che su iniziativa personale, senza consultare nessuno, si reca ad esporre direttamente al console italiano di Parigi la concordanza d’intenti del suo sparuto gruppo di seguaci con i due governi in riconciliazione, esprimendosi a nome di tutto l’antifascismo. La notizia si diffonde con la pubblicazione di un’intervista rilasciata al quotidiano La République, e la cosa scatena le ire dei dirigenti in esilio, che si affrettano a sconfessare Oberti e lo espellono dal raggruppamento. Ciò non gli impedirà comunque, nel giugno 1933, in occasione dei funerali di Claudio Treves, di sfilare nella processione silenziosa che segue il feretro, al fianco di Emilio Lussu, di Carlo Rosselli, di Raffaele Rossetti e di Camillo Berneri, e accanto a personalità di spicco della sinistra francese.

Nel frattempo però Oberti ha già intrapreso una nuova strada. È stato chiamato da Alberto Giannini, altro bizzarro e sfuggente personaggio e fuoruscito “pentito”, a collaborare alla rivista satirica Il Merlo. Giannini aveva dovuto rifugiarsi in Francia per aver pesantemente satireggiato col suo giornale Il becco giallo il regime fascista, e ha continuato per un certo periodo a farlo riprendendo la pubblicazione oltralpe e introducendola clandestinamente in Italia: ma ad un certo punto i finanziamenti elargiti dai fuorusciti hanno cominciato ad assottigliarsi ed è venuto meno anche il rapporto di fiducia che lo legava a Carlo Rosselli. Fonda allora una nuova testata, finanziata stavolta dal regime stesso, e finisce sul libro paga dell’OVRA, il servizio segreto mussoliniano. Come racconta Gaetano Salvemini parlando del gruppo dei fuoriusciti a Parigi: “Alberto Giannini era il più faceto della compagnia, finché non passò, nel 1934, dalla sera alla mattina, armi e bagagli, nel campo dei fascisti, il più svergognato caso di voltafaccia che io abbia mai visto”.

Non risulta che anche Oberti sia diventato a pieno titolo un informatore, ma senz’altro non gli par vero scrivere articoli denigratori contro esponenti del gruppo che lo ha cacciato, e più in particolare contro quelli del partito socialista in esilio.

Intanto sta già muovendosi per regolarizzare la propria situazione di emigrato presso il Consolato italiano. Tenuto ormai forzatamente fuori dalla politica, da Parigi si trasferisce a Nancy, e si butta assieme al padre in un tentativo di rientrare nell’imprenditoria, che si rivela fallimentare.

A questo punto non gli rimane che rientrare in Italia, approfittando di una serie di condoni e della prescrizione dei reati per i quali era stato condannato in contumacia (la renitenza alla leva e l’espatrio clandestino). Decide per questa soluzione alla fine del 1938, e se la cava a buon mercato, con soli due mesi di effettiva reclusione. Nel maggio del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, è nuovamente un uomo libero.

Nei primi anni del conflitto Oberti risiede a Milano, dove, a quanto lui stesso afferma, svolge un’attività di intermediazione industriale (della quale peraltro non si ha alcun riscontro). L’occasione di tornare alla ribalta gliela offrono paradossalmente la caduta di Mussolini e la successiva nascita della repubblica sociale italiana nel settembre del 1943. Agli inizi dell’anno successivo rivolge al ministro della Cultura Popolare del regime collaborazionista una serie di richieste dal tono perentorio, com’è nel suo stile, proponendosi come custode dell’autentica tradizione mazziniana contro l’opera di oscuramento e di travisamento compiuta dalla monarchia sabauda. È assecondato in questo tentativo delirante da vecchi compari anch’essi ex transfughi, come l’avvocato Di Giorgio, e addirittura da ex acerrimi nemici, come Gian Gaetano Cabella, fascista della prima ora, direttore de Il popolo di Alessandria (una delle più feroci gazzette dei fasci repubblichini), specializzato in falsi (nel 1948 sarà arrestato per aver pubblicato un falso testamento di Mussolini: ma pubblicherà anche un romanzo, Dieci anni a Parigi, ispirato probabilmente proprio alle vicende di Oberti).

Per quanto confuse e velleitarie le sue richieste (il trasferimento di tutto l’archivio mazziniano da Genova in Alessandria, per sottrarlo al pericolo di bombardamenti, e l’apertura di un Istituto di Studi Mazziniani in quest’ultima città, con lui e i suoi sodali naturalmente a dirigerlo) sono in linea con il tentativo del nuovo regime di prendere le distanze dalla monarchia e di dare una legittimità e una continuità storica alla repubblica pescando nel Risorgimento, e trovano udienza. Insomma, si ripete la storia, anche se cambiano gli interlocutori, che ora sono le autorità repubblichine: Oberti è percepito chiaramente anche da queste ultime come uno spostato (nelle informative dell’OVRA sul suo periodo parigino era definito il “ragazzo semipazzo”), tanto più che ormai va a briglia sciolta e affastella un mare di proposte farneticanti per pubblicazioni (una storia d’Italia illustrata per ragazzi), per cerimonie ufficiali celebrative e rievocative (l’inaugurazione di una lapide alla cittadella di Alessandria, dove era stato imprigionato Andrea Vochieri, con tanto di divi del cinema fascista che officiano in costume), per lavori teatrali, sempre su tematiche patriottiche (una storia d’Italia raccontata per quadri scenici). Eppure alle sue stravaganti iniziative si interessano, e le appoggiano e le finanziano, persino un paio di ministri di Salò, oltre alle autorità locali (anch’esse evidentemente in gran confusione). Questo mentre nei dintorni di Genova e di Alessandria il grande rastrellamento nazifascista di primavera porta alla strage della Benedicta e all’arresto e alla deportazione di centinaia di giovani.

Tanto fervore si spegne però nell’estate del ‘44, dopo che un bombardamento su Alessandria ha coinvolto anche la sede del neonato istituto mazziniano. Oberti si eclissa. Di cosa combini da quel momento non ho trovato notizia negli archivi, ma è certo che non collabora con le bande partigiane genovesi, come invece lui stesso sostiene. Riesce poi evidentemente ad attraversare indenne il periodo post-liberazione, così che nel giro di qualche anno torna sulla scena.

Sul dopoguerra e su come la sfanga nei quaranta e passa anni successivi, a parte la breve parentesi di “convivenza” di cui ho raccontato, so soltanto quel che ho potuto trovare spulciando qualche periodico e qualche quotidiano. Frammenti che sono comunque indicativi e mi confermano quel che già all’epoca avevo intuito del personaggio.

Naturalmente Oberti è sempre in rotta con qualcuno. Dal periodico Il pensiero mazziniano (Anno VI, N. 6, 10 Giugno 1951) veniamo a sapere che “A proposito del comunicato inserito nel numero scorso in cronaca da Genova, ove è citato il dott. Stefano Oberti, questi ci scrive per contestare che l’espulsione sua dalla Sezione di Genova dell’A.M.I. (Associazione Mazziniana Italiana) sia stata allargata all’indegnità morale, oltre a quella politica)”. Sarei curioso di sapere a cosa alludeva l’indegnità morale, ma avendo potuto apprezzare da vicino la sua disinvoltura economica l’allargamento dell’accusa non mi stupisce affatto.

Quindici anni dopo la stessa fonte ci fa capire però che il nostro è stato riaccolto, tanto che «Il 7 settembre, a Parigi, l’amico Stefano Oberti di Genova ha deposto sulla tomba di Piero Gobetti un fascio di garofani rossi di Liguria: sui nastri tricolori era la scritta: “A Piero Gobetti e ai duemila combattenti antifascisti morti in esilio”. Si sono voluti ricordare, nel ventennale della Repubblica, quanti all’estero, a fianco dei repubblicani spagnoli e dei resistenti francesi, si sacrificarono per la libertà» (Il pensiero mazziniano, Anno XXI, N. 8-9, 25 settembre 1966. L’iniziativa è commentata anche su La Stampa dell’8 settembre 1966, pag. 7: Commemorati gli esuli italiani morti in Francia durante il fascismo.)

Sempre La Stampa, nella sua edizione serale (Stampa Sera, 20 luglio 1970, pag. 2: Roma deve darci le spoglie di Mameli), qualche anno dopo ci informa che Oberti ha chiesto il trasferimento della salma di Mameli da Roma al Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’umanità costruito a Staglieno. E lo ha fatto in qualità di presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli.

Nella stessa veste l’ho trovato menzionato in GRECIA (mensile di informazione della resistenza greca, Anno II, N. 10-11, ottobre 1970, Nel Pantheon degli esuli) in occasione dell’autoimmolazione dello studente Costas Georgakis. «Il nome di Costantino Georgakis è stato inciso nel Pantheon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità al Cimitero di Staglieno. La decisione stata comunicata dal presidente del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio difensori della libertà dei popoli, dott. Stefano Oberti, alla fidanzata di Kostas, con una lettera inviata alla Casa dello Studente. Nella lettera tra l’altro, si legge: “Oggi, dopo avér attraversato quasi mezzo secolo di cedimenti e conosciuto tanti traditori, testimonio che Costas Georgakis fu un eroe, perché volle sacrificare soltanto se stesso, sottraendo ogni altra persona a lui cara agli aguzzini di oggi, di domani e di sempre. Lenito il Suo dolore, Ella ritroverà la pace dei giusti; quella che Costas Georgakis ha certamente ritrovata, morendo in esilio senza compromessi con coloro che umiliano oggi la patria di Eschilo, di Socrate e di Platone, ponendola al servizio dell’imperialismo straniero. Se può esserLe di un piccolo conforto, sappia prima di ogni altro, che, per decisione del Comitato Nazionale per le onoranze agli esuli morti in esilio combattendo per la libertà dei popoli, il nome di Costas Georgakis sarà inciso nel Panthéon di tutti gli ‘esuli invitti dell’Umanità, nel cimitero monumentale di Staglieno in Genova, accanto a quello del drammaturgo greco Eschilo, del poeta inglese George Byron e del patriota interalleato italiano Santorre Annibale di Santarosa, morti per la libertà della Grecia”».

È sempre lui. L’enfasi retorica, gli accostamenti peregrini e l’autocelebrazione recriminatoria sono tipicamente suoi. E a quanto pare è anche riuscito a realizzare, nel 1970, il Panthéon di tutti gli esuli invitti dell’Umanità. Segno che qualcuno ha continuato a dargli fiducia. Tanto da riproporlo, dopo quasi altri vent’anni, come capolista in una competizione elettorale.

Contavo di trovare qualche ulteriore notizia nello scritto autobiografico Esilio a Parigi, redatto quando Oberti aveva ormai superato l’ottantina, ma tutto ciò che ne ho ricavato è l’accenno del prefatore a un eccezionale impegno del nostro per la causa del divorzio. Per il resto è una somma piuttosto confusa di ricordi, tra i quali primeggiano quelli dei sughi e delle pastasciutte, o di avventure galanti piuttosto improbabili. Unica notazione interessante: ha lavorato alle officine Renault quasi contemporaneamente a Simone Weil, ma ne ha tratto un’impressione ben più positiva. In compenso, ci ha resistito ancor meno. C’era da aspettarselo.

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Non mi sono soffermato così a lungo su questa vicenda per il suo intreccio con la mia aneddotica personale, o per quella malintesa voglia di un protagonismo tutto di riflesso che sembra essere diventata l’unica modalità di autorealizzazione (l’io c’ero, o l’io l’ho conosciuto, i selfie al funerale del papa o sui luoghi di un incidente o di un delitto, ecc.). L’ho raccontata, come dicevo sopra, perché mi sembra aprire ad alcune considerazioni di carattere più generale.

Il tema immediato cui mi rimanda è quello della memoria, e più specificamente quello della “memoria condivisa”. La memoria non coincide con la Storia (intesa etimologicamente, come narrazione dei fatti), anche se ne è uno strumento indispensabile. È una lettura della Storia alla luce di esperienze personali o collettive, vissute o tramandate, comunque sempre parziali, vuoi nei contenuti, vuoi nel punto di vista. Anche la Storia non ci racconta la verità, sappiamo che generalmente la scrivono i vincitori, ma il suo carattere di “disciplina” impone confronti e riscontri che dovrebbero, col tempo, farci approssimare almeno a grandi linee a quanto è veramente accaduto. Insomma, la Storia ci dovrebbe informare di quanto è successo, la memoria ci dice come è stato vissuto quel che è successo.

Ciò rende decisamente improbabile pensare di arrivare un giorno ad una “memoria condivisa”, mentre avrebbe un senso puntare a scrivere una “Storia” il più possibile condivisa. Quanto alla prima, è più probabile che si arrivi ad una sua perdita, che già incombe con la scomparsa degli ultimi protagonisti o degli ultimi depositari dei loro racconti. Per cui, anziché condivisa credo diverrà una memoria confusa, una nebbia entro la quale tutti i gatti saranno grigi e all’interno della quale ciascuno potrà pescare ciò che più gli conviene, e farsene bandiera (come accade oggi, ma come è accaduto anche per tutta la seconda metà del Novecento).

Il problema dunque sta a monte, proprio nel fatto che si insiste sulla memoria, che per forza di cose è partigiana, e non ci si sforza di ricostruire un po’ più fedelmente la storia. Il che vale allo stesso modo per tutte le parti in causa, ivi compresa la sinistra, così che gli argomenti che potrebbero risultare più scabrosi, che andrebbero ad intaccare alcuni miti sui quali si sono costruite le narrazioni e le rivendicazioni politiche dei diversi schieramenti, vengono accuratamente evitati.

Quanto detto sopra è perfettamente applicabile alla storia del fuoriuscitismo italiano. Dopo il libro di Aldo Garosci (Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953) scritto settant’anni fa da uno storico più che serio e onesto, ma coinvolto direttamente nella vicenda e uscitone da pochissimi anni, sembra che a nessuno importi di riprenderla, nemmeno infedelmente. Il libro non è mai più stato ristampato, è rarissimo ed è un miracolo se te lo lasciano consultare nelle biblioteche, sempre che lo si trovi. Non a caso, l’argomento trova poco o zero spazio nei programmi di divulgazione storica che vanno per la maggiore in tivù, i vari Barbero e Cazzullo, ma anche Mieli, Augias and co. Non mi è mai capitato, ad esempio, di sentir rievocare il maggio barcellonese del ‘36 e l’uccisione di Berneri. C’è un tabù che ostacola la ricostruzione “critica” dell’opposizione al fascismo: del tipo, gioca coi fanti, ma lascia stare i santi.

Il risultato di non fare mai seriamente i conti col proprio passato, con la propria storia, è quello di lasciare aperta la strada alla rilettura, naturalmente altrettanto poco obiettiva, che ne daranno gli avversari. La motivazione sottintesa (anche quando in realtà ne esistono altre meno nobili) è che non si vogliono concedere armi alla polemica revisionista: ma il non dire tutta la verità, il coprire le macchie confidando che il tempo le cancelli, non è solo fuorviante, è altresì il miglior regalo che si possa fare a quest’ultima. Perché allunga l’ombra del dubbio anche su ciò che è ormai assodato e incontestabile. È accaduto con i vari punti oscuri della Resistenza stessa, con lo stalinismo togliattiano, persino con il Sessantotto. E tanto più questo vale per ciò di cui mi sto oggi occupando. Sono trascorsi novant’anni, ma sembra non ci sia stato verso di imparare la lezione.

Lo dimostra anche un altro fatto. Alla vicenda dei fuorusciti in Francia la nostra letteratura non ha prestato la minima attenzione. Ci sono alcuni libri di memorie, anche notevoli, alcuni diari, qualche saggio, ma non c’è un’opera letteraria che abbia offerto, ai giovani e ai meno giovani, l’opportunità di incuriosirsi per questa pagina di storia. A vent’anni avevo già letto le descrizioni degli espatriati (volontari) americani, da Hemingway a Miller, o di quelli (forzati) russi come Herzen, o alcune cose di Benjamin, ma non avrei potuto trovare alcun italiano che raccontasse queste cose. E temo che chi ne avrebbe avuto magari le capacità si sia astenuto per timore (fondato, stante l’egemonia che per tutta la seconda metà del secolo la sinistra, ortodossa e non, ha esercitato sulla cultura storica) di apparire sacrilego e di essere immediatamente colpito dall’ostracismo.

Prima di proseguire penso dunque mi convenga ricordare sinteticamente in quale reale scenario si sono svolte le vicende che ho scelto di raccontare (quella di Caffi e quella di Oberti, ma già ne avevo parlato nella storia di Berneri): non credo sia molto conosciuto.

Dopo l’avvento del fascismo (ma anche prima del ‘22) ha inizio la diaspora degli attivisti e degli intellettuali di sinistra presi di mira dal regime, spesso aggrediti anche fisicamente e comunque impediti a svolgere qualsiasi attività, non solo quella politica. La migrazione verso la Francia procede a ondate, aumenta dopo il delitto Matteotti e conosce un ulteriore incremento dopo che nel 1926 vengono emanate le leggi speciali. A metà degli anni Trenta gli aderenti ai movimenti politici antifascisti ospitati in terra francese possono essere valutati in oltre diecimila, e ad essi va aggiunto un numero almeno doppio di simpatizzanti, reclutati direttamente in loco tra i migranti economici. I più attivi e i più organizzati in questo senso sono i comunisti, che lavorano soprattutto attraverso l’UPI (Unione Popolare Italiana) e dispongono anche di un organo di stampa.

Socialisti riformisti e massimalisti, repubblicani, liberali, mazziniani, massoni, ecc… confluiscono invece nella Concentrazione d’azione antifascista, all’interno della quale però ciascun gruppo mantiene la propria autonomia e ampia libertà di azione. Come a dire che poi ciascuno fa un po’ come gli pare.

Gli esuli purtroppo si portano appresso le rivalità che già avevano caratterizzato la sinistra in patria nell’immediato dopoguerra. Lo schieramento antifascista rimane quindi costantemente diviso, sia per divergenze di ordine ideologico, sia per il contrasto di tipo generazionale. Tanto che la maggioranza degli oppositori preferirà il silenzio alla militanza attiva. E le contrapposizioni sono anche accese, risentendo delle continue oscillazioni provocate a metà degli anni Trenta dal mutare delle direttive politiche di Stalin: così che quando si passa dal tacciare di social-fascismo le componenti che non orbitano attorno al bolscevismo ad incoraggiare la costituzione dei “fronti popolari”, e i comunisti entrano a far parte della Concentrazione antifascista, la convivenza si rivela da subito problematica. Ancor più lo sarà verso la fine del decennio, dopo la negativa esperienza spagnola e di fronte ai voltafaccia dell’URSS nei confronti della Germania nazista.

Quale sia l’atmosfera nell’ambiente dei fuorusciti italiani in Francia tra la metà degli anni Venti e la Seconda guerra mondiale lo si evince bene, forse ancor meglio che dal saggio già citato di Garosci, dalle Memorie di un fuoruscito (Feltrinelli, 1960) di Gaetano Salvemini. Rispetto ai compagni d’esilio Salvemini era senza dubbio un privilegiato, visto che i suoi lavori storico-giuridici gli avevano già procurata un notorietà internazionale che gli permetteva di trascorrere molto tempo all’estero, ad esempio negli Stati Uniti e in Inghilterra, con incarichi di insegnamento nelle più prestigiose università o per giri di conferenze; mentre il suo passato di intransigente antifascista della prima ora gli garantiva credibilità e autorevolezza presso tutti i diversi gruppi. Questa condizione gli consentiva d’altro canto un punto di vista più equilibrato rispetto a quello di coloro che al di là dell’antifascismo propugnavano poi specifiche soluzioni politiche o ideologiche (primi tra tutti naturalmente i comunisti, che infatti lo avversarono costantemente).

La sua posizione è perfettamente espressa nel documento di presentazione di Giustizia e Libertà che redasse nel 1932 (ma l’organizzazione era già nata nel 1929). «Giustizie e Libertà è un’organizzazione di lotta rivoluzionaria antifascista in Italia, e raggruppa a questo scopo in Italia gli uomini di tutti i partiti di sinistra, e gli uomini fuori partito, purché di idee democratiche e repubblicane, che sono disposti a mettere a rischio la vita per la lotta rivoluzionaria contro la dittatura fascista […] Questi uomini, che in tutti i partiti e fuori di tutti i partiti formano una esigua minoranza – una vera e propria “compagnia della morte” che si batte nelle trincee più avanzate e più pericolose, non debbono rimanere in gruppi indipendenti. Debbono coordinare i loro sforzi contro il nemico comune. Debbono tenersi affiatati gli uni agli altri. Non hanno tempo e non vogliono discutere quel che sarà l’Italia dopo che la dittatura fascista sarà abbattuta.»

Quanto poco questo intento fosse comune lo si vide proprio in occasione dei diversi atteggiamenti assunti rispetto ai fronti popolari che si avvicendarono nell’Europa occidentale negli anni Trenta. L’interesse di partito veniva sempre anteposto a quello della causa comune.

Ma c’è dell’altro, ed è questo che tengo a mettere in luce. Sempre Salvemini, nelle sue memorie scrive: “La mia persuasione era – ed è tuttora – che su tre cospiratori uno è una spia; il secondo è uno scioccone, che per vanità di parere bene informato, racconta alla spia quanto sa sul terzo; e il terzo e il secondo vanno in galera, grazie al primo. D’altra parte il terzo, se non fa niente per paura dello scioccone e della spia, non andrà in galera, ma non farà niente, cioè lascerà padrone delle acque il nemico”. Ragion per cui: “bisogna correre il rischio di andare in galera, e alla fine andarci. Cioè bisogna obbedire alla legge del proprio temperamento, quanto al resto, sarà quel sarà”.

Cosa ci sta dunque dicendo Salvemini? Innanzitutto che prima di accapigliarsi su quel che sarà il futuro sarebbe bene affrontare il più possibile uniti, e provare a sconfiggere, l’avversario presente. Cosa che a leggere un resoconto sull’atteggiamento dei fuorusciti antifascisti nei due anni precedenti lo scoppio del conflitto c’è da mettersi le mani nei capelli (cfr. Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia). Divisi sino all’ultimo momento e ostinatamente decisi a farsi la guerra, come i capponi di Renzo.

Poi, che anche prescindendo dalle divisioni e dalle contrapposizioni politiche occorre tenere conto di quelle che sono le differenze umane. Che cioè non sono tutti eroi e sinceri paladini della libertà coloro che bazzicano l’opposizione, e che la bontà di una causa e l’eccezionalità della condizione di espatriati politici non è da sola una garanzia di genuinità. Dice cioè ciò che sappiamo tutti (o che dovremmo sapere): le situazioni vanno affrontate con realismo, se vogliamo darci almeno una possibilità di uscirne vincitori. E realismo non significava, nella particolare situazione in cui Salvemini si trovava ad operare, cinismo o spregiudicatezza, ma massima prudenza, discrezione, parsimonia nell’accordare fiducia. Invece “In Parigi nessuno credé necessario preoccuparsi […]. L’ambiente formicolava di spie, ma anche di persone che non capivano la necessità di tenersi in guardia dalle spie”. Persone che alla fine hanno obbedito “alla legge del proprio temperamento”, hanno cioè scelto di correre coerentemente il rischio, ma troppo spesso questa scelta l’hanno pagata cara

Realismo perciò significa anche, se applicato alla rilettura storica di quella vicenda, mettere in evidenza questa debolezza, l’autolesionismo derivante dai facili e malriposti entusiasmi che hanno da sempre caratterizzato la storia della sinistra. Se si rimuovono queste cose per non scalfire l’immagine di eroi e martiri ormai incorniciati in santini (oggi magari in poster), se si imbelletta la realtà per farla coincidere con le proprie ideologie e strategie, si ottiene l’effetto opposto: i valori etici della resistenza ad ogni forma di totalitarismo vengono affidati al mito, così come i suoi protagonisti, e questo significa imbalsamarli in una dimensione che non ha più alcuna valenza di esemplarità, perché troppo lontana dalla realtà.

Prendiamo il caso di Camillo Berneri, che è quello che conosco meglio. Se qualcosa ho amato nella sua personalità, insieme alla schiettezza e al coraggio, è la capacità di prendere atto dei tanti errori commessi per eccessiva fiducia nella lealtà altrui, senza comunque arretrare di un passo nell’impegno. Al tempo stesso però non posso negare che, al netto della fulgida testimonianza di eroismo, la lezione più importante da trarsi dalla sua vicenda sia quella dell’inutilità, oltre che dell’inopportunità, delle azioni “dimostrative” mirate (come recitava ancora il terrorismo degli anni di piombo) a “colpire il cuore dello Stato”. Si può tenere il suo ritratto nello studio, come faccio io, si può opporre la sua lucidità e coerenza, nonché tutta la complessità del pensiero anarchico, all’imbecillità, all’ignoranza e alla riduzione in slogan omeopatici che ne fanno i sedicenti anarco-rivoluzionari odierni, ma si deve avere ben chiaro che su un piano prosaicamente pratico tutto quell’eroismo non ha sortito granché.

Lo stesso realismo andrebbe poi impiegato nella narrazione dell’acquiescenza di quasi tutto il popolo italiano al regime, quella che era già denunciata, prima ancora che la guerra avesse termine, da un altro giovanissimo fuoruscito (questo in Svizzera): «Va anzitutto definito quello che si intende precisamente col termine «fascista» per colpirlo e eliminarlo inesorabilmente come realtà – insieme al vocabolo “antifascista” (troppo generico ormai e ambiguo) – dalla vita italiana. Non è mai esistita una dottrina fascista; sono invece esistiti (e esistono tuttora, ben lungi dal tramontare) una mentalità e un costume fascisti: irridenti – sul piano politico – alle nozioni di libertà, di democrazia, di dignità civile (cose degne dello “stupido diciannovesimo secolo” per gli “uomini nuovi”), e – sul piano morale – alle forme del vivere onesto, prudente, vigilato (“vecchio gioco” per chi voleva forzare gli altri a “vivere pericolosamente”). […] Da allora l’abdicazione è venuta crescendo, la responsabilità allargandosi per cerchi concentrici a masse sempre più vaste fino ad abbracciare la quasi totalità del popolo italiano. La complicità – tolta qualche voce clamorosa – è stata fatta di silenzio e d’assenso». (Ariberto. Mignoli, Epurazione, su Giovane Italia, 10 aprile 1945, n. 5).

Vent’anni prima queste cose le aveva già scritte anche Andrea Caffi, che sull’anelito degli italiani alla libertà (e alla verità) nutriva giustamente i suoi dubbi. E infatti: ancora oggi noi sappiamo tutto su I volenterosi carnefici di Hitler, e quanto alla complicità collettiva del popolo tedesco ci chiediamo se sia vero che “La Germania si che ha fatto i conti col nazismo”, ma su un sincero esame di coscienza nostro ci andiamo cauti. Tanto cauti che a furia di autocompiacerci per l’immagine artificiosa di una gente italica disposta comunque al buono e al bello stiamo già arrivando alla riabilitazione del regime.

C’entra tutto questo con le vicende parallele eppure divergenti (per cui non si incontrerebbero neppure all’infinito) di Caffi e di Oberti? C’entra eccome, perché l’accostamento riguarda solo la condivisione della condizione di fuorusciti, mentre il modo in cui questa condizione è stata vissuta dai due e quello in cui è stata recepita da coloro che l’hanno condivisa con loro mettono a fuoco piuttosto il contrasto.

Senz’altro entrambi viaggiavano in asincrono rispetto ai loro compagni di sventura: ma mentre a questa differenza di ritmo il primo cercava di ovviare con una presenza ferma e tuttavia discreta, non invasiva, anzi piuttosto elitaria, che lo faceva apprezzare da tutti coloro che lo conoscevano, l’altro la differenza la rimarcava costantemente, autoproclamandosi unico genuino custode dei valori dell’antifascismo ed entrando immediatamente in conflitto con tutti. La differenza non concerneva però solo i modi della partecipazione, il primo sempre sottotraccia, nell’ombra, il secondo amante delle celebrazioni, dei rituali, del centro della scena; riguardava anche, e soprattutto, i valori per i quali si battevano. Caffi europeista, cosmopolita, anarchico, Oberti nazionalista sfegatato, cultore del mito della patria e della nazione, legato alle consorterie massoniche, ecc.

Ora, capisco che il parallelo tra i due possa sembrare già in partenza assurdo: in effetti, pur con tutta la divertita simpatia che all’epoca della coabitazione Oberti mi ispirava, mi rendo conto che sto mettendo a confronto due livelli di umanità incomparabili. Caffi era un puro, con tutto ciò che di affascinante, ma anche in qualche misura di escludente, questa disposizione comporta. E infatti si è tenuto, ed è poi stato volutamente confinato, a margine, perché la sua intransigente purezza fissava dei parametri troppo alti. Oberti era un mitomane squinternato, e d’altro canto lui stesso confidava che “i ferri del chirurgo penetratimi mediante incisioni all’interno delle fosse nasali mi hanno scosso la cassa cranica”. Non so quanto i suoi squilibri fossero stati determinati o acuiti dalla bastonatura, sono propenso a pensare che non fosse del tutto in quadra nemmeno prima. Anche se, a scanso di equivoci, rimango convinto che pure in mezzo a tutte le sue palesi contraddizioni Oberti fosse sempre sinceramente convinto della legittimità e bontà del proprio operato (il che poi in molti casi è ancora più grave, ed è un problema comune a tanti apparentemente più coerenti di lui). Ma, ripeto, non è tanto il personaggio in sé ad intrigarmi quanto piuttosto il fatto che per settant’anni qualcuno abbia potuto continuare a prenderlo sul serio.

Li ho accomunati solo perché mi sembrano incarnare significativamente gli estremi dell’ampio spettro di modalità nelle quali la condizione dell’esule, e nella fattispecie dell’esule antifascista, poteva essere declinata. E perché giustificano le domande che Garosci si poneva a caldo nella presentazione del suo tempestivo studio: “Chi sono stati i fuorusciti? Come hanno influito sul destino dell’Italia? Si può porre un problema generale dei fuorusciti, oppure si danno problemi e soluzioni diverse per diversi periodi e personalità?” Domande cui la ricerca storica, della quale Garosci auspicava che la sua Storia fosse solo un punto di partenza, non ha in realtà ancora dato risposte soddisfacenti.

Quanto poi al motivo per cui due vicende e due personaggi ciascuno a suo modo così singolari sono finiti nell’oblio, potrebbe sembrare legato al fatto che in definitiva entrambi, sul piano pratico, hanno combinato poco o nulla. Ma questo, se vogliamo essere sinceri, vale in fondo anche per tutti gli altri loro compagni d’esilio. Io credo invece che il motivo stia per l’uno nel non aver lasciato eredi “istituzionali”, partiti, movimenti, congreghe, che avessero interesse a coltivarne la memoria, magari anche strumentalizzandola; per l’altro in una rimozione mirata a spazzare la polvere sotto il tappeto. Rispetto al quadro che della resistenza degli esiliati si voleva dare, uno ne era fuori, l’altro è stato coperto dal bordo esterno della cornice. A volte la “menzogna utile”. contro la quale si battevano tra i fuorusciti soprattutto Caffi e Chiaromonte, non ha nemmeno bisogno delle “post-verità”, può servirsi altrettanto proficuamente dei silenzi. Nel caso dei miei due protagonisti, poi, l’esclusione dalla memoria e l’assenza di una lettura distintiva non solo dà luogo ad una palese ingiustizia, ma tace una realtà, e quindi non insegna nulla.

Qui volevo arrivare. Ho forzato questo confronto, senza la pretesa di dare il minimo contributo alla ricostruzione della verità storica, semplicemente per offrire un esempio di come la melassa acritica e celebrativa finisca per appiattire o addirittura azzerare i valori, e di quanto sarebbe invece necessario operare delle distinzioni proprio per ristabilire e riaffermare la pregnanza di questi ultimi.

Al di là dei risultati concreti, infatti, rimane comunque l’importanza della testimonianza etica, in positivo o in negativo, che può essere lasciata in eredità, e che tanto più in questi tempi di carestia morale andrebbe recuperata. Proprio per questo il loglio andrebbe separato dal grano, con una ricostruzione documentata di chi ha fatto davvero cosa, e di come, e del perché. Quanto ai nostri, senza scendere ulteriormente nel dettaglio, è evidente che se Caffi apparteneva al novero ristretto di coloro che vivono sentendosi sempre in debito, Oberti è il prototipo, al di là della sua ‘stranezza’, di chi si sente sempre in credito. E tutta la vicenda racconta di come anche nei gruppi più selezionati, addirittura nei gruppi in cui la selezione la fa la sventura, questi ultimi esistono, e non sono pochi, e nella gran parte dei casi sopravvivono e hanno modo di raccontarla alla loro maniera.

Mentre i primi, come testimonia Primo Levi ne I sommersi e i salvati, le rare volte in cui scampano provano quasi rimorso per non avere seguito la sorte di chi è rimasto sul terreno.

vignetta di Mauro Biani, 2024

Riferimenti bibliografici

Per le notizie relative alla vita e alle attività di Oberti sia in Francia che Italia sono debitore soprattutto degli studi (e delle indicazioni) di:
Donato D’Urso, Quando la pietà era morta. Aspetti della guerra civile 1943-1945, Bastogi libri, 2015
Donato D’Urso, Stefano Oberti, in Tuttostoria.net, 29/03/2015

Altre informazioni le ho attinte in:
Emanuela Miniati, La migration antifasciste de la Ligurie à la France dans l’entre-deux-guerres: familles et subjectivité à travers les sources privées (Tesi di dottorato in Storia contemporanea discussa presso Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015)
Emanuela Miniati, Antifascisti liguri in Francia. Caratteristiche e percorsi del fuoriuscissimo regionale, in Percorsi Storici, 1 (2013)

Trattazioni più generali sulla migrazione antifascista in Francia sono in:
M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Torino. 1999
Aldo Garosci, Storia dei fuorusciti, Laterza, 1953
Leonardo Rapone, I fuorusciti antifascisti, la Seconda Guerra Mondiale e la Francia, in Persée pubbl. dell’École Française de Rome 1986 n. 94 (fa parte del numero tematico: Les Italiens en France de 1914 à 1940)
Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoruscito, Feltrinelli, 1960
Fedele Santi, Storia della Concentrazione antifascista, 1927-1934, Feltrinelli, 1976
Fedele Santi, I Repubblicani in esilio nella lotta contro il fascismo (1926-1940), Le Monnier, 1983
Simonetta Tombaccini, Storia dei fuorusciti italiani in Francia, Mursia, 2022

Degli scritti di Oberti ho potuto consultare solo
Esilio a Parigi. 1922-1943 Il ventennio fascista raccontato da un fuoruscito, Lanterna, 1984

Non Ho rintracciato Mazzini perseguitato dai Savoia (Alessandria, 1944), né Episodi della lotta antifascista, mentre presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza, Archivi di Giustizia e Libertà è consultabile Notre bataille dans les Universités et à l’Etranger, avec versions espagnole et italienne (Parigi, 1927?)

Fuori dalle nuvole

di Stefano Gandolfi, 19 ottobre 2024

Pubblichiamo il commento di Stefano alle perplessità espresse da Nicola e Paolo a proposito dell’Intelligenza Artificiale (cfr. Nella nuvola). Dal momento che Stefano risponde puntualmente, paragrafo per paragrafo, a queste perplessità, per non appesantire troppo il testo ripubblicando il nostro pezzo rimandiamo di volta in volta il lettore alle singole parti oggetto della riflessione, indicandone l’incipit e la frase finale.

Buon giorno Viandanti. Provo sempre un po’ di disagio a confrontarmi con dei maestri della dissacrazione quali siete. Mi sento totalmente inadeguato, ma cercherò di fare come quando, studente liceale, sceglievo sempre il tema di attualità per sopperire alle lacune in tutti gli altri settori specifici … Tu sai bene, Paolo, quanto io ami esprimermi anche (non solo) per “provocazioni”, non fini a se stesse, ma nella speranza di stimolare un dibattito.

Vediamo se mi riesce …

Mi sono imbattuto […] neppure le briciole saranno del tutto gratis, perché serviranno soprattutto a farci prendere gusto a quel pane, a rendercelo indispensabile e a indurci a farne un elemento essenziale della nostra dieta. A pagamento, naturalmente.”

Beh, nessun dubbio e nessuna illusione, e questo vale per qualsiasi ambito. Da medico posso parlare ad esempio della sanità. Ci stiamo avviando ai modelli privatistici, in Italia abbiamo ancora una discreta riserva di servizi pubblici, che per ancora molti anni garantiranno prestazioni imprescindibili, ma sempre più con affanno, lentezza, minore qualità e disagi nelle prenotazioni, liste d’attesa, rapporti umani con il personale sanitario. Tutto ciò si tradurrà in quanto già si verifica adesso, la qualità la paghi e quando lo fai (se lo puoi fare) tocchi con mano la differenza; sapete bene come in più di una occasione io ho dovuto sperimentare di persona questo percorso. Se pagheremo per la salute, perché scandalizzarsi se dovremo pagare per la cultura? Per lo meno ci sarà la ben magra consolazione che, se nella salute un errore lo paghi anche con la vita, nella cultura tutt’al più pagherai con disinformazioni, fake news, abbrutimento della già pessima cultura di base della popolazione, ma forse la pelle riusciamo ancora a salvarla …

Per questo ritengo […] al più possa essere opposta una consapevolezza, che non può essere che individuale, di come funziona tutta la faccenda. O meglio ancora: di come ha sempre funzionato.

Individuale: giusto. E qui mi (vi) faccio una domanda retorica: a quanti potrà interessare come funziona? tranne ovviamente a noi (si dice sempre: esclusi i presenti) e a quei sempre più sparuti e in minoranza intellettuali, storici, giornalisti, semplici cittadini che abbiano ancora la forza di porsi il problema della veridicità delle fonti? che vogliano ancora combattere per difendere una verità che già adesso, oggettivamente, e non solo in tempi recenti, è sempre più difficile da cercare e conservare preziosamente?

Mi permetto una digressione (prof., fuori tema? rischiamo): sapreste dirmi, in pochi secondi, quanti e quali dei grandi avvenimenti degli ultimi 100 anni, 50 anni, 30 anni, 2 anni, possano con assoluta certezza e obiettività essere ascritti ad una verità vera, inconfutabile, indiscutibile? non parlo dei fatti in sé, ma della interpretazione storica, politica, etica, antropologica, religiosa ecc. che di quei fatti sia doveroso esprimere? A me viene in mente la Shoah, con buona pace dei negazionisti, dopodiché si attraversa un terreno minato: conflitto Russia-Ucraina, conflitto Israele-Palestina, tutto ciò che hanno fatto gli U.S.A. dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti, la assoluta impossibilità di sapere chi ha fatto uccidere Kennedy e chi sono stati i mandanti delle efferate stragi in Italia (Ustica ecc.), il nuovo ordine mondiale che sconvolgerà e modificherà radicalmente tutte le categorie etiche da parte delle nuove potenze dominanti (Cina e non solo, pensiamo anche a Modi e all’India, ai paesi arabi del golfo), le furiose polemiche sul Climate Change (anche, e in primis, da parte di scienziati che dicono tutto ed il suo contrario, anche in buona fede intendiamoci, non solo per ovvi interessi economici e di corruzione), il problema dell’inquinamento e dell’intossicazione e avvelenamento collettivo dell’umanità che, analogamente, fa litigare furiosamente tutti perché se lo si accettasse bisognerebbe accettare anche di parlare di decrescita e di un cambiamento radicale dello stile di vita di tutta l’umanità? non mi dilungo, è solo per fare degli esempi, ma il succo della questione che pongo è: al di là che possa interessare, e a quanti, ma che possibilità ci sono, ben prima dell’avvento dell’I.A., di mettere una linea di confine netta e inconfutabile fra verità e interpretazione? In questo mio lungo paragrafo di sproloqui tocco anche considerazioni valide per i passi successivi.

Ma non basta […] Rimane allora il dubbio che possano un giorno tornare utili i cinquanta e passa tomi della vecchia Treccani che Paolo ha messo al sicuro nel Capanno.

Sugli aspetti tecnici della conservazione dei dati non mi preoccuperei più di tanto, anche perché qui non si tratta più di semplice “cultura” di roba per intellettuali di élite, ma di dati assolutamente indispensabili per la sopravvivenza dell’umanità, quindi sarei disposto a scommettere che, quando il gioco si farà serio, si spenderanno cifre folli per riuscire a gestire e conservare con sicurezza tutto quanto, ivi compreso anche l’attacco degli hacker; basta che i “buoni” li paghino un dollaro di più dei cattivi e questi, come già succede abitualmente, si mettono al servizio della “parte giusta”.

La preoccupazione maggiore e più attuale […] ogni innovazione tecnologica da un lato ha ampliato la cerchia degli utenti sui quali la cultura “addomesticata” poteva esercitare influenza, ma dall’altro ha progressivamente eroso a chi la deteneva ampi margini di controllo.

Anche qui il problema può essere valutato in due direzioni uguali ed opposte: intanto, come considerazione terra-terra, nessuno può negare come oggi chiunque possa avere accesso ad una quantità mostruosamente più grande di dati di quanti ne avessimo noi da giovani, ovunque, anche nei posti più poveri, arretrati e remoti del pianeta, un ragazzo ha un cellulare in mano con una connessione, noi lo abbiamo sperimentato in Bolivia a 4500 metri di altitudine, in Nepal, in tutta l’Africa. Poi, che uso uno faccio dei dati, è un altro discorso, qui entra in gioco anche il libero arbitrio del genere umano, nessuno può essere obbligato a usare la connessione per leggere i classici, magari gli interessa solo sapere i risultati di campionati di calcio, dell’NBA o quant’altro, e non dobbiamo correre il rischio del giudizio snobistico ed elitario su quali siano i temi su cui uno si documenta …

Le nuove tecnologie fanno intuire invece un controllo molto più soft […] provvederà il sistema stesso pilotando sapientemente all’interno del bailamme le nostre aspettative, a liquidare o a banalizzare sul nascere ogni tentazione di eresia o di autonomia di pensiero.”

Qui purtroppo, sul tema del controllo, temo che non ci sia molto dire, ma non sull’I.A. in senso stretto, ma su qualunque modalità di informazione, di comunicazione, di relazioni umane che siano sviluppate, succedute nel corso della storia: da sempre chi detiene il potere, politico, economico, religioso, culturale esercita o tenta di farlo, il controllo sulla popolazione che governa, in modo più o meno democratico, in modo più o meno subdolo e feroce, ma sempre con l’obiettivo di tenere sotto controllo le opinioni pubbliche e tutti coloro che possono influenzarle. Tramite i testi religiosi, i testi di storia da usare nelle scuole, i programmi televisivi, insomma l’“egemonia culturale” di cui si discute bilateralmente e appassionatamente nel nostro paese anche oggi. Lancio sul piatto però un’altra provocazione: perché i regimi totalitari come la Cina limitano enormemente l’accesso alla rete? non sarà che poi nessuno, nemmeno i dittatori più spietati, hanno/avranno la possibilità tecnica e politica di limitare l’accesso ai dati? Ne sono letteralmente terrorizzati, il che starebbe a significare non tanto che possano manipolarli a loro piacimento, bensì, al contrario, siano consapevoli che non possono opporsi allo “tsunami” del flusso di dati in rete. Questo potrebbe ribaltare, o se non altro modificare, la preoccupazione sul controllo dei dati e delle informazioni.

Seconda considerazione scientifica: La mente umana, nel senso anatomico-funzionale del cervello, è un organo nobile enormemente plasmabile, modificabile nei suoi circuiti neuronali, nelle sue singole aree di funzionalità, nelle sue connessioni interemisferiche, nel suo sviluppo plastico principalmente nell’infanzia-adolescenza ma anche nei decenni successivi, se adeguatamente “allenato” e sollecitato. I millennial, rispetto ai boomer, possiedono, già, da questo punto di vista, peculiarità da “digitali nativi” ormai universalmente accettate e documentate a livello neurobiologico. Le connessioni con devices esterni, al momento oggetto di scrittori di fantascienza, non penso siano molto lontane da applicazioni pratiche con scenari a seconda dei punti di vista, minacciosamente distopici, inquietanti oppure di progresso ed evoluzione inimmaginabili. Potremmo ipotizzare che in un futuro nemmeno troppo remoto le menti umane potranno competere o comunque confrontarsi alla pari con I.A.? Arrivare ad un punto tale in cui non avrà più senso chiedersi chi modifichi cosa o viceversa, perché il cambiamento, il rimodellamento, sarà un flusso continuo, bidirezionale senza un conduttore che prevale sull’altro? Un potenziamento in cui la parte umana potrà esprimere sempre più potentemente la sua componente psichica, emotiva, imprevedibile, intuitiva e geniale grazie alla quale potrà adeguarsi al potentissimo incremento tecnologico e informatico di I.A.? Un gioco alla pari? Poi, la domanda delle domande, sono d’accordo, è: chi potrà usufruire di tutto questo? sempre i soliti ricconi l’élite che comanda il mondo senza che se ne conoscano i nomi e i volti, oppure saranno accessibili a tutti? E chi li distribuirà alla popolazione? l’OMS, l’ONU, un comitato di Premi Nobel per la Medicina, Fisica, Biochimica oppure personaggi come Elon Musk? Ma anche in questo caso il problema si pone e si porrà per tutto: per il cibo, per l’acqua, per i farmaci, per l’aria che respiriamo, arriveremo a pagare l’acqua e l’ossigeno? In tal caso temo che l’I.A sia se non l’ultimo, comunque il meno urgente dei problemi …

L’idea poi che le leggi, le regole sulle quali si basa la nostra convivenza, possano essere affidate ad un cloud ci inquieta […] E infine, comunque la si metta, anziché agevolare il recupero o il potenziamento di quella intelligenza naturale che tanto sembra oggi difettare, c’è il rischio concreto che ne sanciscano la definitiva atrofizzazione.

A conti fatti, non sembriamo messi troppo bene.

Sì, non troppo bene, ma, ripeto, per molti altri motivi fra i quali l’I.A. non necessariamente potrebbe essere il motivo peggiore … l’intelligenza naturale non si atrofizzerà, più probabilmente si trasformerà in qualcosa che difficilmente oggi possiamo immaginare. Sarà meglio? peggio? chi può dirlo? Dipenderà, come sembra, da quanto questo cambiamento sarà “democratico” piuttosto che elitario, da come verrà gestito e da chi, e non ultimo da cosa l’essere umano vorrà fare di questi nuovi strumenti … e sulla affidabilità e fiducia nel genere umano, Paolo ce lo insegna, non c’è molto da stare allegri “a prescindere”, come direbbe Totò!

Mi viene in mente un malsano pensiero, che cercherò di ricacciare indietro, o magari ne potremo parlare poi (tu Paolo sai già dove vado a parare …), ovvero la considerazione che, diventando vecchi, diventiamo tutti chi più chi meno più pessimisti, più negativi, più categorici, più nostalgici dei bei tempi passati, più severi nel giudizio sulle nuove generazioni, più intolleranti, meno in grado di adeguarci al nuovo, al mondo presente e futuro e più spaventati, inquietati e disturbati dalle nuove tecnologie … non esiste nessuno, nella storia dell’umanità, che ad un certo punto ben preciso della propria vita, all’incirca fra i 55-60-65 anni ed oltre, non individui in quel preciso momento il punto di svolta dell’universo, in cui tutto ineluttabilmente volge al peggio, un punto preciso in cui fino a prima le cose erano migliori e da subito dopo diventeranno irreversibilmente peggiori … potrebbe essere che questo c’entri qualcosa ??

P.S. ma Leonardo da Vinci avrebbe avuto paura dell’I.A ??

Ariette 20.0: Cartoline dalla Baviera

di Maurizio Castellaro, 30 gennaio 2024

Ariette logoLe “ariette” che postiamo dovrebbero essere, negli intenti del loro estensore, «un contrappunto leggero e ironico alle corpose riflessioni pubblicate di solito sul sito. Un modo per dare un piccolo contributo “laterale” al discorso».
Ben vengano dunque, se possono mitigare con un refolo di leggerezza un clima che per ragioni obiettive e per stanchezza di chi lo vive sta diventando davvero troppo pesante (n.d.r).

Ho trascorso qualche giorno a Monaco di Baviera, la sorprendente “ultima città italiana al di là delle Alpi”, come dicono i tanti italiani che ci vivono. Ai tempi della Riforma il Papainviò qui un piccolo esercito di Gesuiti per fronteggiare l’attacco, e direi che i Padri non hanno tradito le aspettative, dato che i cattolici sono ancora in maggioranza. E che dire dei Wittelsbach, la loro antica dinastia regnante? Oltre a difendere con spregiudicatezza la loro autonomia territoriale (ad esempio furono alleati di Napoleone in funzione antiaustriaca), e a modellare la capitale sui modelli di Atene e Firenze, hanno riempito i loro splendidi musei di capolavori fiamminghi e greci. Essendo stati a lungo i governatori delle Fiandre (nel 600) e i re di Grecia (nell’800), immagino fosse difficile per i poveri sudditi rifiutare le loro proposte di acquisto.

Sono stato naturalmente anche nelle famose birrerie di Monaco. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale in quelle sale si potevano trovare prima i comunisti rivoluzionari di Rosa Luxemburg e poi nazisti come Himmler e Goering, che condivisero con Hitler il fallito colpo di stato del 1922, partito proprio da Monaco. Oggi nel centro dalla città, in larga parte ricostruito dopo i 74 bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra, si può visitare il Museo Cittadino, dove una intera sezione è dedicata alla Storia del Nazionalsocialismo a Monaco. Aggirandomi tra manifesti di propaganda nazista, foto di adunate e di bombardamenti, divise brune e testimonianze di Dachau (a pochi chilometri) mi sono chiesto se in Italia avevo mai visitato un museo del genere. E mi sono reso conto che in Italia si trovano Musei della Resistenza, Musei dell’Olocausto, ma nessun Museo del Fascismo.

Ho sempre pensato che il fascismo si aggiri come un convitato di pietra nella storia del nostro infinito dopoguerra. Ma nelle strade di Monaco penso di averne compreso il motivo. Rispetto alla Seconda Guerra Mondiale a noi la storia non ha dato, come alla Germania, la possibilità di un finale tragico, coerente fino al suicidio finale di Hitler nel bunker di Berlino. E poi lo shock dei campi di concentramento, la Germania Anno Zero, il processo di Norimberga, la ricostruzione. In Italia niente è finito davvero con chiarezza, quindi niente è mai finito davvero. Abbiamo avuto un re vigliacco in fuga, che ha lasciato l’esercito allo sbando, e nonostante ciò nel referendum del 1946 la democrazia si è affermata a fatica. Poi abbiamo avuto la fine pasticciata del Fascismo. Lo scempio di Piazzale Loreto ci ha regalato un capro espiatorio che ha assolto tutti senza processo, incoraggiando poi il trasformismo politico di cui siamo maestri insuperati. La celebrazione dei Valori della Resistenza e la memoria dell’Olocausto hanno poi fornito una narrazione fondativa che alla distanza si è rivelata indebolita dal troppo rimosso, un rimosso che torna a bussare e a chiedere ragione di sé.

A Monaco di Baviera a gennaio 2024 c’era una mostra su Eichmann e sulla banalità del male. In Italia quando pensiamo al fascismo pensiamo al folclore di Predappio, ma sbagliamo il bersaglio. Di recente a Roma hanno proposto di aprire il primo serio Museo sul Fascismo, ma ancora una volta non se ne è fatto nulla. La Fiamma che ricorda il passato rimosso e negato è ancora viva, incuba nuove forme, e rischia di perderci ancora.

Il legno storto

Una dieta ricostituente. Ho chiesto a Beppe Rinaldi l’autorizzazione a riportare sul sito dei Viandanti delle Nebbie due suoi recenti saggi, già postati nel blog Finestre rotte. Il link che rimanda a Finestre rotte compare da tempo nella home page dei Viandanti, e a quello avrei potuto semplicemente indirizzare: ma ho ritenuto opportuna in questo caso anche la pubblicazione diretta, per più di una ragione.

In primo luogo perché ritengo che questi scritti abbiano una rilevanza intrinseca assoluta: ultimamente ho letto ben poche cose di questo livello (forse nessuna) e mi pare dunque doveroso pubblicizzarli e renderli disponibili il più possibile. La nostra non sarà una gran tribuna, ma è comunque una “finestra” in più.

In secondo luogo perché ho egoisticamente “calcolato” (eccola la “ragione calcolante” tanto aborrita dai post-moderni) che la loro pubblicazione avrebbe alzato decisamente il tiro e il tono del nostro sito, negli ultimi tempi piuttosto moscio.

Infine perché questi scritti costituiscono una sfida, alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di concentrazione: stiamo rammollendo i nostri cervelli, nutrendoli di pappine omogeneizzate e precotte che non richiedono alcuno sforzo nell’assunzione e nella digestione, ma atrofizzano le nostre papille gustative e il vello intestinale. I risultati purtroppo si vedono, non solo in tivù o nell’informazione cartacea, ma nella impossibilità di un qualsivoglia confronto serio nel dibattito “domestico”, conviviale, socratico, chiamatelo un po’ come volete. Questi saggi vanno in una direzione diametralmente opposta: esigono impegno nella lettura e coerenza nella riflessione. Li ho letti una prima volta, mi hanno colpito e li ho riletti, non perché temessi di non aver capito – si capisce tutto benissimo, ogni argomento è spiegato e sviscerato come meglio non si potrebbe – ma per assicurarmi di non aver saltato alcun passaggio. Ora li ripropongo agli amici, appunto come una sfida, come stimolo a rompere un po’ la linea sulla quale si va appiattendo il pensiero.

Gli scritti di Beppe mi sembrano costituire il miglior campo base per ogni eventuale tentativo di risalita. Le sue argomentazioni e le idee ad esse sottese possono essere condivise in toto, com’è nel mio caso, oppure discusse e contestate: ma se si vuole chiudere la ricreazione e tornare allo studio serio non si può prescinderne.

Spero dunque sia evidente che non propongo questi saggi come testi sacri, novelli Atti dei Viandanti, o come manifesti programmatici del sodalizio: li promuovo a titolo personale, me ne assumo ogni responsabilità, e li concepisco come strumenti per tornare a far lavorare un po’ i nostri cervelli. Sono strumenti che vanno dalla pinzetta da orafo al martello pneumatico, per cui ci sarà da divertirsi (e da nutrirsi) per tutti.

Il piano di pubblicazione prevede per i due saggi (che sono piuttosto impegnativi rispetto allo standard dei documenti digitali) momenti separati, un intervallo di qualche settimana l’uno dall’altro, per dare modo ai Viandanti “volenterosi” di digerire e assimilare con calma il loro enorme apporto proteico. Nel frattempo io rimango in attesa, curioso di vedere se la nuova dieta avrà qualche effetto.

Il tema che Beppe tratta in questo primo saggio è quello della pace. Tema scivoloso e controverso, rispetto al quale siamo abituati a prendere posizioni decisamente rozze (cfr. ad esempio il mio Contare a fino a dieci, del 2003) o ambigue e superficiali, oppure assolutamente ipocrite (vedi le manifestazioni pacifiste che finiscono a sassate e manganellate): sempre comunque dettate da una profonda ignoranza rispetto all’argomento. Qui ci è offerta l’occasione, una volta per tutte, di avere almeno chiaro di cosa parliamo quando parliamo di pace. Dopodiché, non ci saranno più alibi all’uso improprio o distorto o strumentale del termine.

di Paolo Repetto, 18 ottobre 2023

Una dieta ricostituente 01

Il legno storto

Note di filosofia della pace e della guerra

di Giuseppe Rinaldi, pubblicato su Finestre rotte il 24 novembre 2022

1. Solo quando scoppiano le guerre[1], come quella attuale in Ucraina, tendiamo a porci una serie d’interrogativi sulla pace come fossimo nati ieri. E gli interrogativi tendono a moltiplicarsi, quanto più le prospettive della pace si fanno oscure e incerte e quanto più siamo coinvolti dalla guerra, anche nella nostra vita quotidiana. La riflessione sulla pace e sulla guerra sembra dunque procedere a sbalzi, al ritmo delle guerre che ci colpiscono da vicino. Le due Guerre del Golfo (1990-91 e 2003-11) erano state, in ordine di tempo, l’ultima ormai scordata occasione di riflessione pubblica sull’argomento. Quasi contemporaneamente, analoghi dibattiti si erano tenuti in occasione delle Guerre jugoslave (1991-2001) e in occasione dell’11 settembre 2001. Nessun dibattito ovviamente intorno alle innumerevoli guerre lontane o guerre dimenticate[2], quelle guerre che, abitualmente, appena possiamo, ci scrolliamo di dosso.

La guerra russo ucraina combattuta alle porte dell’Europa ci ha dunque trovati piuttosto impreparati e così abbiamo finito per rispolverare e riportare in auge vecchi luoghi comuni. Si sono avute molte grida ma decisamente poche riflessioni approfondite e argomentate. E si è preferito trascurare l’ampio patrimonio di riflessione sulle questioni della pace e della guerra che si è ormai accumulato nel campo degli studi politologici e filosofici, nonché nel campo storiografico. In questo scritto cercherò di compiere un’esposizione sintetica intorno alle principali questioni teoriche che si pongono da sempre a proposito della pace e della guerra. Niente di particolarmente nuovo dunque, ma una sintesi intorno alle questioni fondamentali. Insomma, quello che a me pare il minimo indispensabile da cui partire.

2. Pace e definizioni. Per mettere un po’ di ordine nelle diverse questioni, è preferibile, come sempre, cominciare dalle definizioni. Cominceremo proprio dalla pace. Si tratta anzitutto, in via preliminare, di mettere da parte certi usi generici della parola “pace”. La pace che ci interessa e sulla quale ci concentreremo è quella connessa all’ambito stretto delle comunità politiche, sia nei loro rapporti esterni, internazionali, sia al proprio interno, come nel caso della guerra civile. Il termine “pace” sta a indicare genericamente, in quest’ambito, un’assenza di conflitto violento[3], quel tipo di conflitto cioè che generalmente è identificato con il termine guerra. Parlare di pace significa necessariamente tirare in ballo il suo rovescio, cioè appunto il conflitto violento e la guerra. Si tratta dunque di una definizione in termini negativi. La pace, a quanto pare, non ha un suo significato autonomo e non può che essere definita in stretta antitesi con la guerra. Pace e guerra sono due diversi alternativi stati possibili. Una familiare dicotomia suggerisce che ci si trovi in pace, oppure ci si trovi in guerra.

Le cose tuttavia non sono così semplici. Se appena facciamo un qualche sforzo di riflessione, ci renderemo conto immediatamente che, all’occorrenza, possiamo individuare diversi stati intermedi compresi tra la pace e la guerra. In certi casi può anche risultare non del tutto chiaro se una certa situazione sia di pace o di guerra. Nel linguaggio comune si esprime qualcosa di simile dicendo: “Siamo sull’orlo di una guerra”, oppure: “Ci sono segnali di pace all’orizzonte”. In taluni casi, un chiarimento definitivo può derivare solo da un’esplicita dichiarazione di guerra o dalla sottoscrizione di una tregua, oppure di un trattato di pace. Ci sono poi delle situazioni che possono essere considerate come guerre anomale o guerre non convenzionali.

Una simile incertezza terminologica e concettuale la stiamo sperimentando proprio in questi mesi. Notoriamente, per i Russi l’aggressione all’Ucraina non è una guerra. È stata denominata operazione militare speciale. I cittadini russi che la chiamassero “guerra” potrebbero essere perseguiti penalmente[4]. Del resto nessuna esplicita dichiarazione di guerra è stata pronunciata da entrambe le parti. Secondo Putin, chi fornisce armi all’Ucraina è già “in guerra” con la Russia. Secondo alcuni pacifisti, gli USA, la UK, l’Europa sarebbero già in guerra con la Russia. Secondo il papa, questa sarebbe la Terza guerra mondiale “a pezzi”. Secondo alcuni altri, poi, la NATO aggressiva era già in guerra con la Russia fin dagli anni Novanta. Come si vede, la definizione dei confini tra pace e guerra è tutt’altro che semplice. I dati di fatto e la propaganda sembrano ormai intrecciarsi in maniera indissolubile.

Ancora più complessa è la situazione nel caso della guerra interna, o guerra civile. È difficile che le guerre civili siano dichiarate (anche se talvolta accade). Ci sono guerre civili de facto che non sono mai state combattute come tali e che sono state riconosciute come tali solo successivamente. È il caso, ad esempio, del riconoscimento, da parte dello storico Claudio Pavone, della Resistenza italiana al nazifascismo come guerra civile. È probabile che nel Donbass, dal 2014 in poi, si sia combattuta una guerra civile, con ogni probabilità fomentata dalla Russia con l’introduzione clandestina di uomini e mezzi. O forse una guerra di secessione.

3. Almeno due tipi di pace. Nella letteratura filosofica e politologica è stato spesso fatto notare come si possano annoverare due tipi di pace, quella negativa, quella più ovvia cui abbiamo già accennato, e quella positiva. La distinzione risale a Johan Galtung 1969. Galtung tratta non tanto della guerra quanto della violenza. La pace negativa è costituita dalla assenza di violenza personale, mentre la pace positiva è costituita dall’assenza della violenza strutturale. Per Galtung la pace positiva coincide dunque con la giustizia sociale. La distinzione tra pace negativa e positiva è stata poi usata ampiamente da Bobbio specificatamente in relazione alla guerra. Si parla comunemente di pace negativa quando il significato che si conferisce al concetto è soprattutto quello di negazione della guerra, cioè negazione del conflitto violento interno o internazionale. Si parla invece di pace positiva quando, oltre alla mera negazione della guerra, si vuol riempire il concetto della pace di una serie di connotazioni positive, che appartengano solo e soltanto alle situazioni di pace. Queste connotazioni dunquesi aggiungono alla pace negativa, cioè all’assenza di guerra. Si può parlare, in tal caso, di cessazione della violenza strutturale, ma anche di tranquillità, felicità, di fioritura umana, di prosperità, di progresso e simili. Oppure anche di armonia, integrazione, aiuto reciproco, cooperazione e scambio. Come ben si vede da questi esempi, se la nozione di pace negativa come assenza di guerra è relativamente precisa, pur con tutti i problemi del caso, la nozione di pace positiva è ancor più vaga, tanto che questa può essere ricondotta al capitolo generico dei benefici della pace – quali che questi possano essere. Oppure anche delle conseguenze positive della pace[5]. Si noti tuttavia che la condizione di pace positiva non si presta a definire un modello preciso di società, come, per esempio, la società cristiana, la società aperta, oppure la democrazia o il socialismo. Cioè, la pace difficilmente si lascia tradurre in un preciso modello di società che sia alternativo ad altri modelli. Sono i diversi modelli di società che possono sperimentare, talvolta, la condizione della pace positiva (o della guerra).

4. La guerra. Se vogliamo sapere cosa è la pace, almeno nella sua forma elementare, dobbiamo dunque come minimo sapere bene cosa sia la guerra. La guerra necessita dunque, a sua volta, di una definizione, che può risultare anch’essa piuttosto difficoltosa. Di solito non basta però definire la guerra come non pace. La guerra ha invece una sua definizione in positivo, cioè dotata di suoi specifici e autonomi contenuti. Vagamente, il termine guerra può significare un conflitto di qualsiasi tipo, ma abbiamo già detto che ci sono conflitti che non sono guerre. Allora abbiamo dovuto introdurre fin da subito la specificazione di “conflitto violento”. La guerra è un conflitto la cui caratteristica precipua è l’uso sistematico della violenza. Secondo una definizione esaustiva proposta da Bobbio, la guerra in senso stretto sarebbe caratterizzata dal conflitto violento entro o tra comunità politiche e/o Stati[6]. Osserva Bobbio: «Va da sé che, una volta definita la pace come non guerra, la definizione di pace dipende dalla definizione di guerra […]. Le più frequenti connotazioni di “guerra” sono queste tre: la guerra è, a) un conflitto, b) tra gruppi politici rispettivamente indipendenti o considerati tali, c) la cui soluzione viene affidata alla violenza organizzata»[7].Si noti che, secondo Bobbio, la guerra rientra nel novero della politica e che la violenza impiegata non ha da essere sporadica o casuale, bensì organizzata.

5. La questione della violenza. La definizione della guerra non poteva che evocare anche la questione della violenza. La violenza è uno dei principali contenuti della guerra. La nozione di violenza, ovviamente, è assai più ampia della nozione della guerra. Non ogni violenza è guerra. Possiamo pensare alla violenza dei fenomeni naturali, a parole violente, alla violenza nei confronti degli animali, oppure alla violenza psicologica. Nel caso della guerra, siamo interessati a un particolare uso della violenza allo scopo di risolvere un conflitto di tipo politico, tra comunità politiche o entro di esse.

Che tipo di violenza è quella della guerra? Secondo Hobbes la guerra era lo stato prepolitico per eccellenza che comportava svariate forme di violenza, la cui massima espressione poteva giungere fino all’estremo dell’uccisione del nemico. La soglia minima che ci interessa in questo caso sembra sia proprio l’ammissibilità dell’uccisione del nemico. Altrimenti anche un incontro di boxe potrebbe essere considerato come una guerra. Per Hobbes, la costituzione dello stato politico attraverso il contratto determinava la fine della guerra di tutti contro tutti e del conseguente rischio di essere ammazzati. La pace negativa (la negazione della guerra) si oppone dunque al conflitto violento entro le comunità politiche e tra gli Stati e, dunque, a quelle forme di violenza che, oltre alla distruzione delle cose, ammettono l’uccisione del nemico.

Fatta questa distinzione fondamentale, tuttavia, fin dai tempi di Hobbes le forme della violenza connesse alla guerra si sono moltiplicate a dismisura, in un museo degli orrori senza fine. Dalla generica uccisione del nemico si è giunti al genocidio, ossia al tentativo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Oppure alla minaccia atomica, la quale implicherebbe la possibile distruzione dell’intera umanità.

Occorre riconoscere che si è fatto uno sforzo per codificare l’uso della violenza in guerra, giungendo alla proibizione di determinate condotte e alla definizione dei crimini di guerra e di tribunali internazionali. Alla messa al bando di determinati tipi di armi. Va tuttavia riconosciuto che lo ius in bello, cioè il diritto bellico, nazionale e internazionale, nonostante i lodevoli sforzi, ha ottenuto scarsi successi nel governo della violenza in guerra. L’attuale guerra russo ucraina fornisce in merito una documentazione impressionante di barbarie. D’altro canto questa guerra mostra anche come non tutti i contendenti sono uguali nell’osservanza del diritto bellico e nel contenimento della barbarie della guerra. Qui mi riferisco precisamente alla guerra contro i civili messa in atto sistematicamente dai Russi in Ucraina. Ciò va detto chiaramente, contro le troppo facili generalizzazioni che corrono. E contro le troppo comode equidistanze.

In generale, abbiamo dunque la possibilità minimale di cercare di controllare l’uso della violenza in guerra, oppure la possibilità di far cessare ogni violenza bellica attraverso la pace. Abbiamo tuttavia anche la possibilità di rifiutare altri tipi di violenza che sono di fatto possibili. Fino al rifiuto di tutti i tipi possibili di violenza – ammesso che ne sia possibile un inventario[8]. In questo caso non possiamo parlare semplicemente di diritto bellico o di pace negativa, ma dovremo parlare proprio di un’altra cosa e cioè della nonviolenza[9]. Questa va oltre la guerra in senso stretto e diventa così un atteggiamento, una predisposizione a comportarsi, da applicare sempre, in tutte le situazioni, in tutti i casi della vita, non solo in contrapposizione alla guerra. L’insieme della nonviolenza è dunque assai più ampio dell’insieme della pace negativa. Anche se la pace negativa non può che essere uno degli aspetti compresi nella nonviolenza.

6. La nonviolenza. Trascrivo qui una definizione generale e generica: “La nonviolenza è una pratica personale che consiste nel non causare offesa ad altri in qualsiasi caso. Essa può derivare dalla credenza che offendere persone, animali e/o l’ambiente non sia necessario per ottenere qualsiasi tipo di scopo. Può avere come riferimento una filosofia complessiva che implichi l’astensione da ogni violenza. Può essere basata su principi morali, religiosi o spirituali, oppure le ragioni per promuoverla possono anche essere di tipo strategico o pragmatico[10]. La nonviolenza è dunque anzitutto una pratica personale, più che uno strumento di lotta politica, anche se questa è stata talvolta impiegata proprio in questo senso. Si noti che la nonviolenza, secondo Aldo Capitini, non andrebbe intesa semplicemente come negazione della violenza, bensì dovrebbe essere intesa come un valore autonomo, dotato di un proprio contenuto positivo.

Per comprendere la posizione della nonviolenza, che riguarda indubbiamente il nostro discorso e a cui faremo spesso riferimento, può essere utile riandare a Lev Tolstoj (1828-1910). Preferisco rifarmi a Tolstoj, piuttosto che al ben più noto Gandhi, perché la sua posizione mi pare più chiara ed esemplare. Per una considerazione critica di Gandhi, si veda Losurdo 2010. Tra la fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta dell’Ottocento, anche in seguito all’ esperienza personale della guerra, Tolstoj visse una profonda crisi[11] e sperimentò un’intensa trasformazione interiore che lo spinse alla fede in Dio, alla semplicità volontaria, al rifiuto di tutte le forme di violenza, alla dieta vegetariana e all’animalismo. In questo ambito elaborò i principi fondamentali della nonviolenza, in un contesto fondamentalmente di tipo religioso. I riferimenti principali da cui aveva attinto sono costituiti dai Vangeli, dal cristianesimo minoritario (ad esempio i Quaccheri), da alcuni testi orientali e da alcune filosofie, tra cui quella di Schopenhauer.

Nell’ambito della nonviolenza, la dottrina centrale di Tolstoj – che si rifà soprattutto al Discorso della montagna evangelico – è quella della non-resistenza al male con il male[12]. Tolstoj ritiene che la non resistenza al male, quando sia perseguita rigorosamente, possa condurre – oltre che alla liberazione interiore – a un’autentica trasformazione sociale e possa provocare il dissolvimento degli ordinamenti sociali oppressivi e disumani. Tutto ciò senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Per questo occorre tuttavia un radicale impegno personale individuale, fino a giungere a praticare la disobbedienza civile, rifiutare il servizio militare e rifiutare il pagamento delle tasse, poiché queste sono usate dagli Stati per finanziare le guerre. In ciò seguendo David Henry Thoreau (1817-1862) come precursore. Il fondamento ultimo della nonviolenza è posto da Tolstoj nel comando divino contenuto nel Vangelo. E in ultima analisi nella fede. Notoriamente fu Tolstoj a influenzare Gandhi, con tutto quel che ne seguirà, circa la dottrina della nonviolenza, dottrina che in Gandhi prende il nome di ahimsa.

Come si può notare, si tratta di un pensiero senz’altro estremamente profondo. È stato tuttavia sempre fatto notare come sia anche piuttosto difficile da praticare, poiché implica, negli eventuali praticanti, un cambiamento radicale di vita e, di fatto, uno scontro radicale con l’esistente, in pressoché tutte le sue manifestazioni. Si noti che la strada proposta dalla nonviolenza implica uno scoglio di gran rilievo in materia di etica, su cui avremo modo di discutere ampiamente, e cioè la possibilità che il male sia lasciato libero di agire senza ostacoli. Questo poiché gli eventuali ostacoli posti al male implicherebbero a loro volta il ricorso alla violenza. E dunque alla riproposizione della violenza stessa. Questa posizione – come vedremo oltre – implica un’irrisolvibile incongruenza dei valori.

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7. Bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Siamo così giunti a circoscrivere, in termini di prima approssimazione, oggetti concettuali come pace negativa e positiva, guerra, violenza e nonviolenza. Siamo ora in grado di meglio comprendere le dottrine o le elaborazioni teoriche corrispondenti a questi concetti e, conseguentemente, anche una serie di movimenti pratici che vi si ispirano. Avremo dunque le teorie pacifiste (nel senso della pace negativa ed eventualmente della pace positiva), le teorie belliciste (ed eventualmente violentiste, cioè le filosofie della violenza, anche se queste sono state raramente esplicitate e professate[13]) e le teorie della nonviolenza sul modello tolstojano e poi gandhiano. Avremo dunque, di conseguenza, come prima sistemazione, su un continuum, orientamenti e movimenti bellicisti, pacifisti e nonviolenti. Si potrebbero produrre ulteriori distinzioni, ma la cosa andrebbe troppo oltre i nostri scopi.

8. Esistono davvero i bellicisti? Dei tre punti di vista, il bellicismo è oggi l’orientamento meno caratterizzato, meno teorizzato, meno organizzato. Si tratta di un “–ismo”, il che comporterebbe, in senso proprio, una sorta di esaltazione della guerra, una sua promozione fino alla sua massima realizzazione, che corrisponderebbe al perseguimento di una sorta di guerra perfetta o di guerra perpetua[14]. Sicuramente, guardando al passato, possiamo trovare in merito numerosi casi storici. Molte società del passato si sono costituite avendo la guerra come fulcro. O, per lo meno, avendo al proprio interno gruppi sociali interamente devoti alla pratica della guerra. I quali spesso, proprio per questa loro attività connessa all’esercizio della forza, finivano per ricoprire una posizione sociale centrale e dominante. Oggi, in generale, nelle più diverse società, la centralità della guerra sembra in via di superamento. Anche molti di coloro che oggi sono impegnati settore della guerra, nel settore militare, ritengono auspicabile non doversi mai ricorrere effettivamente alla guerra. Il termine “bellicismo” oggi – almeno in Occidente – viene applicato in forma residuale soprattutto per designare coloro che ritengono possibile l’uso della guerra in determinate situazioni, oppure che, pur non esaltando la guerra, la accettano come necessaria, oppure ancora coloro che, una volta scoppiata una guerra, non vi si oppongano con la dovuta risolutezza. Talvolta si tratta di un termine che ha abbandonato la connotazione descrittiva e ha assunto connotazione retorica e dispregiativa, come il ben più noto termine guerrafondaio.

La domanda che ci dobbiamo porre allora è se oggi esistano realmente i bellicisti in senso proprio, o se questi non siano soltanto dei pacifisti deboli. Oppure pacifisti minimali, pacifisti moderati, o anche pacifisti imperfetti. In talune situazioni retoriche coloro che, pur non desiderandola, accettano la guerra come una necessità sono stati considerati come dei bellicisti. Si ponga mente al dibattito occorso in Italia alla vigilia della Grande guerra. Bellicisti autentici erano sicuramente gli interventisti, ma oggi sarebbero considerati bellicisti anche coloro che avevano come motto “Né aderire, né sabotare”, oppure i cattolici che, pur disapprovando la “inutile strage”, la ritenevano comunque doverosa in termini di obbedienza alle leggi vigenti dello Stato. Ancora diversa la posizione di taluni interventisti democratici, che volevano unicamente quella guerra per porre fine a tutte le guerre.

Come si vede, anche in questo caso, la distinzione tra bellicismo e pacifismo sembra piuttosto evocare un continuum, piuttosto che una secca dicotomia, come sembra invece emergere invece dal dibattito superficiale dei giorni nostri. Può essere anche comprensibile il fatto che nello scontro politico si sia indotti a dicotomizzare, ma è sufficiente un minimo di riflessione per concludere che la dicotomia tra pacifismo e bellicismo costituisce una ben povera rappresentazione della realtà. Soprattutto una rappresentazione di fatto priva di utilità. Tratteremo più in là della teoria della guerra giusta, che è un caso esemplare di situazione di continuità tra i due opposti.

9. Militaristi. Abbiamo visto che la guerra è una forma di violenza organizzata. Nelle società a elevata divisione del lavoro, i militari sono i professionisti della guerra. La questione degli armamenti, degli eserciti e più in generale della tecnica militare, è una conseguenza delle distinzioni precedenti. Armi, eserciti e tecniche militari sono impiegati per produrre i conflitti violenti e organizzati tra le comunità politiche ed entro gli Stati, cioè le guerre. La posizione attribuita all’organizzazione militare nell’ambito della società diventa dunque fondamentale. Quando la sfera strumentale della guerra tende a prevalere e a sopravanzare le altre sfere della società, si parla di militarismo e di società e/o Stati militaristi. Possiamo parlare più correttamente, in generale, di società a trazione militare. Si tratta di società la cui attività fondamentale ruota attorno alla guerra e dove i militari giocano un ruolo centrale nelle principali decisioni. E dove consumano nella loro attività le principali risorse economiche e finanziarie accumulate dalla società stessa. Nel corso dei secoli, in Occidente siamo stati testimoni del passaggio progressivo da società a trazione militare verso società a trazione commerciale, o a trazione industriale, tecnologica e finanziaria. Queste ultime tendono ad attribuire al settore militare un ruolo sempre più strumentale e marginale. Questa tendenza si è accentuata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il caso degli USA è esemplare: pur essendo una potenza militare, la sua trazione fondamentale è di tipo tecnologico, industriale e finanziario. Oggi è di moda trascurare questo punto, a causa dell’anti americanismo pregiudiziale assai diffuso nel nostro Paese. Sul piano del militarismo, gli USA e la Russia non sono proprio la stessa cosa. La Russia di Putin, insieme a pochi altri esempi, è invece effettivamente una potenza a trazione militare (o si illude di esserlo, viste le scarse prestazioni sul campo).

Dunque, armamenti, eserciti e tecnica militare costituiscono dei mezzi che rendono possibile l’esercizio della guerra. Secondo un certo senso comune diffuso, il semplice possesso di armamenti ed eserciti sarebbe un indice certo di militarismo. Si trascura tuttavia il fatto che oggi, nella maggioranza dei casi, il possesso di armamenti ed eserciti ha la funzione di provvedere alla difesa. Questo per garantire un bene pubblico indubbio che si chiama sicurezza. Si è discusso a lungo su come ottenere la sicurezza senza disporre tuttavia di apparati di difesa ma una soluzione efficace non pare sia stata ancora trovata. Se comunque nel mondo tutti gli eserciti servissero solo per la difesa, non ci sarebbero più guerre. Forse è vero che in determinate circostanze i mezzi militari rendono anche più probabile l’esercizio della guerra. Ma è anche del tutto possibile pensare ad armi, eserciti e tecniche militari che siano perfettamente approntate, ma mai adoperate. L’idea che se hai un’arma prima o poi la usi è un’idea stupida e superficiale. Anche gli svizzeri tengono lo schioppo sotto il letto, ma è difficile pensarli come pericolosi aggressori e guerrafondai. Secondo la teoria della deterrenza, le atomiche sarebbero armi prodotte proprio per non essere mai usate.

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C’è ancora indubbiamente, da qualche parte nel mondo, un militarismo aggressivo. Ci sono ancora imperialismi a trazione militare, com’è proprio il caso della Russia. Ma oggi nel mondo c’è anche un realistico impiego di eserciti e armamenti per la mera difesa. O anche per gli interventi umanitari nelle situazioni di crisi. L’esigenza di finanziare con risorse pubbliche una forza di difesa non può che dipendere dalla valutazione razionale di quanto pericoloso sia l’ambiente internazionale in cui ci si trova. I recenti avvenimenti dell’aggressione della Russia all’Ucraina hanno indubbiamente reso più pericoloso l’ambiente internazionale, determinando così – a parere di molti – l’esigenza di maggiori investimenti nella sicurezza[15]. Dunque, anche nell’ambito del militarismo, sarebbe il caso di introdurre delle distinzioni. Anche il povero Enrico Letta è stato rappresentato con l’elmetto. Non tutti i militarismi sono uguali. Dovrebbe essere evidente che il militarismo della NATO non è esattamente uguale al militarismo della Russia di Putin. Le semplificazioni eccessive precludono la comprensione della realtà e impediscono un’azione efficace nel mondo.

Può ben essere che il superamento e infine l’abolizione dell’apparato militare possa essere in futuro una conseguenza desiderabilissima dell’affermazione universale di una situazione di pace positiva. Magari connessa anche all’accettazione universale della prospettiva filosofica e religiosa della nonviolenza. Al giorno d’oggi però un simile obiettivo non sembra essere alla nostra portata. Può al più costituire al più una idea regolativa, nel senso kantiano del termine.

10. La pace si dice in molti modi. Gli elementi definitori che abbiamo fin qui introdotto hanno mostrato la complessità delle questioni affrontate, tale da afflosciare la sicumera di molti protagonisti dell’odierno dibattito pubblico. La prima acquisizione inevitabile, per chi frequenti ancorché saltuariamente questo campo, è proprio quella per cui la pace “si dice in molti modi”. Questo vuol dire che, a dispetto del senso comune, non c’è un concetto unico di pace. Si tratta piuttosto – come dicono i filosofi – di una “somiglianza di famiglia”, cioè di una rete di concetti interconnessi e di relativi usi linguistici. Dunque chi dice di essere per la pace non ha ancora detto niente: dovrebbe sforzarsi di esplicitare chiaramente cosa intende per pace. Altrimenti, bisognerebbe concludere inevitabilmente che tutti vogliono la pace. Ma una volta affermato il punto, tutti si scontrerebbero immediatamente intorno alle questioni che hanno appena evitato di chiarire. Nella letteratura filosofica e politologica si fa riferimento ad almeno quattro tipi di pace[16]. Molto diversi tra loro. Abbiamo dunque: a) la pace come resa incondizionata; b) la pace come tregua; c) la pace come trattato; d) la pace positiva. Potremmo aggiungere un quinto tipo: e) la pace come conseguenza della nonviolenza, che sarebbe poi un tipo particolare di pace positiva, alla quale abbiamo tuttavia già accennato.

11. La pace come resa incondizionata. È questo un tipo di pace che sopravviene quando uno dei contendenti (o più di uno) è talmente coartato che non può neanche decidere di scendere in guerra. Di solito si cita in proposito un famoso esempio da Rousseau. Il filosofo, all’inizio del suo Contratto sociale[17], scrive contro Hobbes: “Si vive tranquilli anche nelle carceri: basta questo per trovarcisi bene? I Greci rinchiusi nell’antro del Ciclope ci vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati”. Si trovavano dunque certo in pace i marinai di Ulisse, chiusi nella prigione del ciclope, in attesa di essere divorati. È questa una condizione di pace (senz’altro assenza di guerra e di violenza nell’immediato!) che deriva dalla totale passività, dalla totale costrizione, cioè dalla resa incondizionata al nemico.

La storia è piena di casi in cui una comunità politica avrebbe sicuramente scelto di combattere, solo se appena avesse potuto farlo. Possiamo pensare a situazioni nelle quali l’oppressione è così forte che i soggetti non hanno neppure la possibilità di scegliere eventualmente la via delle armi. L’attuale Afghanistan gode senz’altro di una situazione di pace in seguito alla resa incondizionata ai talebani. L’attuale Iran, che godeva senz’altro della pace interna, sta mostrando che quella pace si fondava sostanzialmente sull’oppressione (in particolare delle donne) e sta precipitando verso una situazione di guerra civile. Spesso ci si dimentica che per decidere di scendere in guerra occorre perlomeno disporre di un minimo di libertà d’azione. Rispetto a una situazione di totale dominazione, checché ne pensasse Tolstoj, la possibilità di combattere una guerra può anche essere considerata, in taluni casi, come una sorta di miglioramento della propria posizione, un auspicabile avanzamento. Solo la determinazione assoluta di non opporsi al male può sconsigliare di ricorrere alla guerra nelle situazioni più estreme di oppressione.

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12. La pace come non libertà. Coloro che sono nella situazione descritta da Rousseau hanno sicuramente la pace (ammesso che così si possa chiamare), ma non hanno alcuna libertà. Non si tratta di un caso tanto raro. Assomiglia questa alla situazione hobbesiana post contrattuale, dopo che i cittadini hanno ceduto tutti i loro poteri al Leviatano (lo stato assolutistico) e sono così diventati sudditi. Hanno la pace ma sono sottomessi in tutto e per tutto al potere assoluto. Per di più l’hanno fatto per propria scelta e volontà. Si ricorderà che quella situazione, secondo Hobbes, in un solo caso si sarebbe potuta risolvere in una guerra civile: qualora il Leviatano avesse attentato alla vita dei cittadini. I sudditi sottomessi nel patto hobbesiano sarebbero dunque appena più fortunati dei marinai di Ulisse nella prigione del ciclope. Questo tipo paradossale di pace, intesa come resa incondizionata e totale sottomissione all’arbitrio, è stata ampiamente teorizzata e praticata. Ad esempio, nel caso di certi martiri cristiani. O nel caso della nonviolenza tolstojana già citata. È tuttavia davvero singolare – dovrebbe indurre a qualche riflessione coloro che in questa materia mostrano grandi certezze – che il tipo più infimo di pace, la pace come resa incondizionata, finisca con il coincidere con quella che taluni presumono essere il tipo più nobile di pace e cioè quello derivante dalla applicazione integrale della nonviolenza.

13. Una digressione nell’attualità: forse la pace non è tutto. Più recentemente, e assai più ignobilmente, nel dibattito nostrano seguente alla guerra in Ucraina, il noto opinionista prof. Orsini ha teorizzato l’opportunità della resa incondizionata di fronte all’aggressore russo, pur di avere salva la vita. Così, secondo il professore, avrebbero dovuto fare gli Ucraini di fronte all’invasione russa. In uno dei tanti talk-show, il prof. Orsini ci ha ricordato anche che: “Anche sotto il fascismo i bambini potevano vivere felici”. Poiché Putin non avrebbe probabilmente divorato gli Ucraini come il ciclope – anche se avrebbe potuto far ammazzare il loro presidente – dunque gli Ucraini, se si fossero subito arresi, avrebbero certo perso totalmente la libertà ma avrebbero guadagnato comunque la pace. Almeno per la popolazione civile e per i bambini. Dunque, ne conseguirebbe che i morti che la resistenza degli Ucraini ha indirettamente provocato (militari, civili e i bambini) sarebbero tutti da mettere sulla coscienza di Zelens’kyj, del suo bellicoso governo, con tutti i suoi alleati, che non si sono prontamente arresi. E sulla coscienza di tutti quelli che hanno dato ragione a Zelens’kyj e lo hanno aiutato. Si tratta ovviamente, questa di Orsini, non della conseguenza di una professione di fede nonviolenta, ma di una davvero singolare applicazione dell’etica della responsabilità (vedi oltre). Al professor Orsini non viene neppure in mente il punto problematico fondamentale e cioè il fatto che forse la pace non è tutto.

14. Scoglio: la pace e l’incongruenza dei valori. La situazione della pace come resa incondizionata ci fornisce l’occasione per affrontare uno scoglio teorico di notevole interesse. Ci costringe a domandarci se la pace (la pace prima di tutto, a qualunque costo) possa essere davvero considerata come il bene supremo. Se possa cioè essere considerata indipendentemente dalla situazione nella quale essa si realizza. Se possa cioè essere valutata in piena autonomia da ogni altra considerazione, se sia davvero un valore in sé, incomparabile rispetto ad altri valori. Appena la pace viene tolta dal suo carattere assoluto e viene considerata in termini situazionali, viene cioè confrontata con altri valori, o altri beni, nascono molte questioni inaspettate. Per avere in cambio la pace, possiamo rinunciare completamente alla nostra libertà? Cos’è una pace senza libertà? Anche la giustizia può essere tirata in causa. Una pace ingiusta è una vera pace?

Molti autorevoli intellettuali nostrani, soprattutto di sinistra, negli infiniti talk-show che si sono susseguiti dopo il 24 febbraio, seguendo più o meno consapevolmente il prof. Orsini, consigliavano senz’altro agli Ucraini di non resistere. Che deponessero le armi. Qualcuno si affannava addirittura a negare con argomentazioni fantasiose che quella messa in atto dagli Ucraini fosse una resistenza. Addirittura, si sentivano di decidere che non si dovessero mandare armi agli Ucraini, perché questi si arrendessero prima, dunque con meno danni per loro. Qualcuno, beato lui, s’inventò anche le “armi non offensive”. Possiamo qui parlare di altruismo? Se gli Ucraini avessero subito obbedito a questi desiderata, oggi sarebbero senz’altro in pace, sarebbero cioè sotto la pace di Putin (dove senz’altro anche i bambini potrebbero vivere felici!). Qualcuno ha pensato di mettere a confronto il bene di una simile pace con i beni della libertà e della giustizia? Qualcuno di questi “altruisti” ha pensato almeno di chiedere il parere degli Ucraini? Cioè dei diretti interessati. Purtroppo nell’epoca del pensiero incontinente nessuno si ferma ad approfondire le questioni.

Credo abbia colto nel segno il filosofo Alexandr Dugin (un filosofo russo euroasiatista e nazibolscevico, per chi non lo conoscesse) quando dice che gli Occidentali si sono rammolliti, sono in piena decadenza, perché non sono neanche più in grado di pensare di poter morire per la propria causa. Del resto Heidegger era dello stesso parere. Fa davvero pena, oggi, vedere coloro che hanno imbracciato le armi per difendere il proprio Paese, o chi per essi, negare ad altri di fare la stessa cosa, in nome della pace.

Queste considerazioni (e questi esempi) ci pongono di fronte a un problema ben noto nell’ambito dell’etica. Normalmente si pensa che i valori e/o i beni siano semplicemente di carattere additivo, che possano cioè essere sempre assommati tra loro a piacere. Per questo tutti i valori e/o i beni dovrebbero sempre essere tra loro compatibili. In realtà è noto fin dalla filosofia antica che i valori o i beni possono non essere compatibili tra loro. Perseguire determinati valori può implicare necessariamente la rinuncia ad altri. I due tipi aristotelici di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa, ad esempio, non sono affatto compatibili. Per avere l’uno si deve necessariamente sacrificare l’altro. In generale, è poi noto come sia molto difficile essere giusti e buoni contemporaneamente. In campo teologico, se Dio è giusto, non può essere buono, e viceversa. Nel caso del contratto hobbesiano, accade che per avere la pace si debba sacrificare la libertà. Questa spiacevole situazione è nota come incongruenza dei valori[18]. Dunque – spiace per taluni pacifisti puri – la pace deve scendere dal piedistallo del bene assoluto o per lo meno deve accettare di essere messa a confronto con altri possibili valori o beni. Come minimo con la libertà e la giustizia. Ma anche con beni assai più prosaici. Come ad esempio la sopravvivenza materiale, cioè la vita[19]. Per Orsini, la vita dei bambini vale la capitolazione e dunque la pace come resa incondizionata. Per altri tuttavia la guerra può significare una possibilità di vita. I poveri buriati (una delle etnie asiatiche prevalenti nell’esercito Russo attuale che combatte in Ucraina – la Repubblica di Buriazia è una repubblica della Federazione Russa) sono spinti ad arruolarsi e a combattere perché è pressoché l’unico lavoro che è messo loro a disposizione. Non possono permettersi di fare i pacifisti più di tanto. Poiché l’incongruenza dei valori è una questione fondamentale, ce ne occuperemo oltre.

15. La pace come tregua o “situazione di pace”. È questa la pace che corrisponde all’interruzione temporanea delle ostilità. Se vogliamo, corrisponde alla nozione della tregua. I contendenti sono ostili tra loro. Sono liberi di decidere se continuare o meno a combattersi. Decidono tuttavia di sospendere le ostilità. Siamo cioè in una situazione di ostilità non belligerata.

È questa una situazione ben nota, poiché l’abbiamo sperimentata nel corso della lunga Guerra fredda. Anche se la Guerra fredda è stata in realtà belligerata indirettamente, attraverso una serie notevole di proxy war, le guerre indirette o guerre per procura. È questa anche la situazione descritta dalla locuzione della pace armata. È anche la situazione descritta dall’equilibrio del terrore, o dall’equilibrio della deterrenza. Non si combatte più, cioè ci si è messi in una situazione di tregua, per il fatto che la prosecuzione dei combattimenti produrrebbe esiti non desiderati o temuti da entrambe le parti. Dunque, ci si mette in uno stato di tregua per la paura degli effetti di una continuazione dello stato di guerra belligerata. Si accetta di smettere di combattere perché si è sottoposti a una minaccia (o a uno svantaggio) più grande (sia da parte dell’altro contendente, sia da parte di un Terzo che sia intervenuto). Tuttavia perdura l’inimicizia e la minaccia reciproca, e resta alta la probabilità di riprendere il conflitto.

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16. Scoglio: si può imporre la pace? Un caso filosofico interessante, un vero e proprio scoglio etico, è quello dell’imposizione della pace (nel senso della tregua o del trattato). Affinché si dia il caso, occorrono minimamente due contendenti e un Terzo, il mediatore, il pacificatore, che costringa i due a deporre le armi. Usando magari la persuasione, l’influenza, distribuendo garanzie e vantaggi di qualche tipo. Ma è possibile anche pensare che il Terzo possa provvedere all’imposizione della pace attraverso l’uso della forza.

Non sarà sfuggito al lettore che, in un certo senso, la possibilità di imporre la pace, cosa spesso effettivamente successa nella storia, ha in sé qualcosa di contradditorio. In una visione completamente irenica, la pace dovrebbe in un certo senso imporsi da sé. Tuttavia purtroppo la guerra, una volta iniziata, tende ad auto alimentarsi, tende addirittura a intensificarsi. Il Terzo allora è posto di fronte al dilemma di lasciare che la guerra continui oppure di imporre la pace. Se tuttavia sceglie di imporre la pace, si troverà a usare una guerra per imporre la pace. I pacifisti si scandalizzeranno, ma questo è un altro problema legato all’incongruenza dei valori. Per avere la pace si finisce per accettare che si apra una nuova guerra tra il Terzo pacificatore e i due contendenti. Non affrontiamo qui quali possano essere gli eventuali interessi del Terzo nello scendere in guerra per imporre la pace. In generale, dall’intervento del Terzo non si ha alcuna garanzia preventiva; potrebbe certo scaturire anche una pace senza libertà e/o senza giustizia.

L’idea di un Terzo pacificatore attraverso l’uso della forza non dovrebbe tuttavia risultare così peregrina. Si tenga conto che l’ONU dovrebbe, in teoria, proprio agire come un Terzo virtuoso, capace di sedare i conflitti internazionali eventualmente anche con la forza, come sta scritto nella sua Carta. Si noti tuttavia di sfuggita che, se appena si accetta la prospettiva che il Terzo possa (o sia tenuto a) intervenire con la forza per riportare la pace, allora si dovrà come minimo ammettere che non tutte le guerre sono uguali. Alcune sarebbero guerre comuni destinate a continuare o a finire con la sopraffazione dell’uno da parte dell’altro. Altre sarebbero invece guerre determinate dall’intervento del Terzo che avrebbe tuttavia come scopo il ristabilimento della tregua o della pace.

Dovrebbe suscitare un certo stupore il fatto che – in concomitanza con la attuale guerra russo ucraina – a livello mondiale non si sia aperto per lo meno un acceso dibattito circa la riforma dell’ONU, organizzazione oggi pesantemente screditata dal fatto che lo Stato palesemente aggressore, la Russia, siede nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il diritto di veto. Questo significa che la Russia, con la sua aggressione, ha di fatto privato il mondo intero di quel minimo di organizzazione internazionale abilitata a fungere da Terzo virtuoso nelle controversie. È come pretendere da ora in avanti che – ove sia violata – la pace si ristabilisca da sola. Perché questa reticenza ad affrontare la questione della riforma dell’ONU? Evidentemente l’idea di una forza militare internazionale capace di fare interventi di pacificazione anche con le armi non è così popolare, in parte per una forma di pacifismo estremista ma in parte anche per malcelato bellicismo: qualora ci si trovasse nella situazione di fare la guerra è preferibile avere le mani libere.

Così avviene che si stia togliendo di mezzo proprio il Terzo virtuoso che sarebbe in grado di intervenire con la forza e di “rendere il male con il male” all’aggressore. Ciò paradossalmente potrebbe anche essere in linea con i migliori auspici dei nonviolenti. Quel che seguirà tuttavia a questa nuova situazione non sarà il regno della pace positiva ma il regno dell’anarchia internazionale, dove ognuno farà quello che vuole, o quello che si potrà permettere, grazie magari alle sue bombe atomiche. Così gli Stati deboli cercheranno la protezione degli Stati forti, di coloro che sono in grado di vendere protezione nel più puro stile mafioso.

17. La pace come ordine privo di ostilità. È la condizione che si configura quando cessano tutte le ostilità. Solitamente questa è la condizione che si consegue sul piano del diritto attraverso la stipulazione di un trattato di pace e, in termini fattuali, attraverso la cessazione delle violenze, il ritiro delle forze e il disarmo. È quella che Bobbio, sulle orme di Aron, chiamava la pace di soddisfazione. Perché è così difficile la pace di soddisfazione? La difficoltà è dovuta al fatto che la condizione di pacificazione, una volta raggiunta, non garantisce il mantenimento della pace stessa. Detto in altri termini, la pace non si auto rigenera, la pace non è in grado di garantire il mantenimento della pace stessa. Poiché i trattati di pace possono sempre essere violati, la condizione pacifica guadagnata è sempre reversibile. La pace non ha alcuna autonomia, è comunque instabile e può tendere a precipitare verso la guerra.

Si tratterebbe allora di comprendere quali siano le condizioni, che non dipendono dalla pace stessa, che possono favorire (o addirittura garantire) il mantenimento della pace. Ad esempio, secondo un famoso assunto del politologo Michael W. Doyle, gli Stati democratici di solito non si fanno la guerra tra loro. Dunque la democratizzazione globale degli Stati costituirebbe una delle precondizioni per il mantenimento di una pace priva di ostilità. Anche un ONU riformato e funzionante (non quello attuale) potrebbe dare un contributo. È chiaro che le condizioni che potrebbero mantenere la pace potrebbero essere le più varie. Non posso entrare nel merito. C’è un’intera disciplina dedicata a questo tipo di questioni e cioè i peace studies, o anche peace and conflict studies.

In generale, possiamo però dire con relativa certezza che una delle cause principali della fine della pace è il sopravvenire dell’ingiustizia, sia all’interno delle nazioni sia tra di loro. Il mantenimento di un ordine privo di ostilità, il mantenimento di una pace di soddisfazione conseguita, implica evidentemente la giustizia. La pace senza giustizia percorre poca strada. Chi voglia mantenere una pace ordinata senza ostilità dovrebbe dunque contemporaneamente procurare la giustizia. È chiaro che una condizione di ingiustizia può spingere al ricorso alla violenza, determinando una catena causale che può portare alla guerra, interna o esterna. Sappiamo bene tuttavia che la pace di per sé non è senz’altro in grado di procurare la giustizia. D’altro canto, lo scopo di procurare la giustizia può implicare anche la rottura della pace. Per questo la pace è sempre a rischio. Ovviamente, la giustizia sussistente in una data situazione viene sempre giudicata dal punto di vista dei soggetti coinvolti, i quali potrebbero non essere affatto concordi sulla natura giusta o ingiusta della pace in questione. Anche in questo caso si presenta l’opportunità di ricorrere all’intervento di un Terzo, capace di intervenire nel merito delle ingiustizie rivendicate. Ma il Terzo come si è visto non è sempre un ospite gradito.

Queste semplici considerazioni stanno a significare che gli sforzi per realizzare e mantenere la pace non possono avere mai fine. Una volta stipulato il trattato di pace c’è sempre il rischio che l’ingiustizia, sopravvenuta o latente, rovini la pace. Allora al pacifista consapevole non resterebbe altro che reinterpretarsi come politico impegnato indefinitamente per l’implementazione della giustizia. Impegnarsi solo per la pace è indice davvero di corte prospettive sulla natura della pace stessa.

18. Pace positiva. I filosofi hanno spesso anche trattato della pace positiva, della quale abbiamo già accennato in apertura, per circoscrivere la pace negativa. Questa non è soltanto un effetto del diritto, attraverso un trattato di pace, che come abbiamo visto può però sempre essere violato. È piuttosto la condizione che la società nazionale e la comunità internazionale assumono dopo che si sia instaurata una pace giusta e sia stata instaurata la giustizia. Un caso tipico è costituito dalla teoria di Galtung, cui abbiamo già accennato.

Spesso questo concetto è stato tacciato di essere un concetto assai vago e di fatto utopico. Esso implica l’esistenza di società pacifiche e giuste e la contestuale trasformazione spirituale degli individui in modo da diventare essi stessi pacifici e giusti. Quando si pensa alla pace positiva non si può fare a meno di evocare la kantiana pace perpetua[20]. La quale tuttavia – Kant era un pessimista cronico – assomigliava più a una pace trattata che non a una pace positiva universale. Sul piano filosofico si può disquisire se una pace positiva fondata sulla giustizia sia possibile, sia effettivamente alla portata della natura umana o se non sia piuttosto incompatibile con questa. Per qualificare la inemendabilità della natura umana Kant ha usato la nota metafora del legno storto: “Dal legno storto dell’umanità non si potrà mai cavare alcuna cosa dritta”[21]. Non posso addentrami in questa problematica del rapporto tra la guerra e la natura umana ma la segnalo al lettore come stimolo per la riflessione.

Tutto ciò ha comunque una conseguenza importante, cui ho già accennato ma che vale la pena di ribadire in forma più estesa. La realizzazione della pace positiva non può essere conseguita restando all’interno dell’esclusivo dominio della pace stessa (e dei relativi pacifismi). La pace da sola non è sufficiente. Non pare bastevole alla sua compiuta realizzazione positiva. Questo significa che l’impegno per la pace non può essere disgiunto dall’impegno politico per la realizzazione di una società giusta. L’impegno per la pace non può dunque essere single issue. Raramente tuttavia i movimenti pacifisti mostrano esser consapevoli dell’esigenza, per la costruzione e il mantenimento della pace, di connettere strettamente la difesa della pace con la realizzazione della giustizia. Questa miopia dei pacifisti si spiega col fatto che ammettere di doversi impegnare per la giustizia finirebbe per sporcare le mani alla purezza apparente dell’impegno per la pace. Queste considerazioni mostrano anche i limiti della nonviolenza. La quale azzarda a ritenere che sia sufficiente la diffusione della nonviolenza per la realizzazione della giustizia. Una società con una maggioranza di nonviolenti praticanti sarebbe presumibilmente comunque sempre ostaggio di una minoranza di violenti praticanti. Anche a Paperopoli c’era la Banda Bassotti.

19. Un’altra classificazione. I diversi tipi di pace di cui abbiamo discusso rappresentano solo una delle tante classificazioni delle situazioni di pace[22]. Un’altra classificazione della pace, che riprende alcuni aspetti della precedente, è stata fornita da Raymond Aron[23].Egli distingue tre tipi di pace. A) Anzitutto la pace di potenza. È la pace che si ottiene grazie al sopravvenire di un potere forte che impone l’ordine e, dunque, la pace. Può essere di tre tipi, di equilibrio, di egemonia o di imperio. B) Abbiamo poi la pace di impotenza, che era quella fondata – all’epoca di Aron – sull’equilibrio del terrore tra le potenze atomiche. Queste erano costrette a non farsi la guerra poiché la guerra avrebbe implicato la mutua distruzione assicurata. C) In ultimo, abbiamo la pace di soddisfazione. È la pace che sopravviene quando ciascuno è in sé soddisfatto della propria situazione, per cui non cerca in nessun modo l’aggressione. Spiega Bobbio che: “La pace di soddisfazione ha luogo quando in un gruppo di stati nessuno ha pretese territoriali o d’altro genere verso gli altri, e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (che è proprio l’opposto del timore reciproco); pace di soddisfazione è quella che vige dopo la seconda guerra mondiale fra gli stati dell’Europa occidentale”[24].

La classificazione di Aron ha il merito di mettere in luce la dimensione di potere (e di disuguaglianza) che comunque è spesso connessa anche alle situazioni di pace (come nel caso estremo dell’antro del ciclope) e che contribuisce drammaticamente a privare la pace di quel manto idealistico che spesso i pacifisti le attribuiscono. La pace non elimina il potere e questo può sempre riprodurre l’ingiustizia.

20. Dai tipi di pace ai tipi di pacifismo. Visti i diversi tipi di pace, si possono anche dare per definiti i principali obiettivi possibili dei diversi movimenti pacifisti, cui – come dicevamo – possiamo aggiungere anche i movimenti nonviolenti. Per la chiarezza del discorso pubblico, e per l’efficacia del dibattito, questi movimenti dovrebbero però dichiarare esplicitamente quale tipo di pace vorrebbero raggiungere, nelle diverse specifiche situazioni. E dovrebbero evitare di contrabbandare un tipo di pace per un altro, come invece amano fare abitualmente, quasi senza accorgersene.

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21. Intermezzo. Nell’intento di capitalizzare i dubbi del lettore volenteroso che sia giunto fino a questo punto, propongo un esercizio di riflessione su un caso concreto[25]. Vediamo con qualche dettaglio la narrazione di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (RepublikaSrpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una delle tre enclave bosniache in territorio serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito serbo nei confronti delle poche enclave rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il 6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale Mladich, circondarono l’enclave, la conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono sistematicamente il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.

Nonostante vari processi e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata ancora del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado di intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione[26]. In un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche timida trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.

Quando si resero conto di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i Serbi, avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi, i caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo olandese.

Il caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come “al di là del bene e del male”. Ecco allora qualche motivo di riflessione circa la filosofia della pace e della guerra. Qualcuno può sostenere che l’ONU, come pacificatore armato, non dovesse neppure trovarsi nella ex Jugoslavia, lasciando così che i diversi contendenti di quella guerra si pacificassero da soli. Qualche sincero umanitario può sostenere che, pur essendo inferiori in termini di forze, i caschi blu dovevano comunque intervenire per tentare di proteggere la popolazione; avrebbero cioè dovuto fare il loro dovere morale comunque, eventualmente anche sacrificando la propria vita. Oppure si può sostenere che l’ONU abbia peccato di omissione: doveva intervenire con regole di ingaggio più dure, con maggiori forze e più efficacemente, costringendo i Serbi a stare al loro posto. Anche con la minaccia o l’uso delle armi. Ma c’è anche un altro interessante punto di vista: i caschi blu olandesi non hanno fatto altro che tenere un comportamento del tutto consono con le prescrizioni nonviolente tolstojane di non rispondere al male con il male.Meglio dunque sarebbe stato in questo caso che non si fossero neanche presentati in Jugoslavia.

22. Un po’ di metaetica. Dopo il nostro intermezzo, passiamo ora a proseguire il nostro ragionamento. Finora ci siamo accontentati di individuare diversi tipi di pace, mostrando svariati problemi ad essi connessi. Ci siamo cioè occupati principalmente dei diversi obiettivi che possiamo avere in mente quando dichiariamo di essere per la pace. Dovrebbe essere emerso come minimo che la pace è un obiettivo di per sé assai problematico. Ma la pace non è solo problematica in quanto obiettivo. È anche decisamente problematica se consideriamo il modo con cui la vogliamo. Ebbene sì, la pace non solo si dice ma anche si vuole in diversi modi. Prenderemo in considerazione due modi principali. Ce ne sarebbero anche altri, ma questi due sono i più importanti. In termini di metaetica[27], la pace può essere considerata in due modi diametralmente opposti: dal punto di vista deontologico oppure da quello consequenzialista. Si tratta di una distinzione del tutto analoga a quella forse più nota di Max Weber tra l’etica dell’intenzione (o convinzione) e l’etica della responsabilità. Il primo punto di vista tende a considerare la pace come principio in sé. Il secondo punto di vista tende a considerare la pace in base alle sue conseguenze. Detto in sintesi, se assumiamo la pace come un principio universalmente valido, e dunque moralmente doveroso, saremo portati a disinteressarci delle sue conseguenze, le quali però, come s’è visto, possono anche non essere sempre buone. Se consideriamo invece primieramente le conseguenze della pace, non saremo più in grado di trattare la pace come un principio universale, valido sempre e comunque. Potremmo anche mettere in conto, in certi casi, di dover rinunciare alla pace, per evitare certe sue conseguenze negative e/o per conseguire altri beni che siano ritenuti preferibili o prioritari.

23. Deontologi. Vediamo meglio. Chi adotta la prospettiva deontologica ritiene in generale che ci siano dei principi, proprio come la pace, che sono buoni o cattivi in sé. Questi principi sarebbero dunque dotati di un loro valore intrinseco. Questa convinzione si traduce in un dovere, in un comandamento morale al quale si deve soltanto obbedire. Chi non obbedisce si rende colpevole e si colloca ipso facto dalla parte del male. Il principio della pace è dunque considerato una cosa buona di per sé e dovrebbe sempre essere realizzato senza discutere, a tutti i costi: etsipereat mundus.

Resta allora solo il problema di definire come si giunga a stabilire un principio come quello della pace, quale ne sia il fondamento o la giustificazione. I fondamenti che possono essere individuati sono molteplici e curiosamente possono anche essere in contrasto tra loro. Tuttavia mirano tutti a conferire alla pace il suo valore intrinseco. Qui può essere utile, a scopo meramente illustrativo della problematica, rammentare la vecchia classificazione kantiana delle etiche eteronome, formulata a seconda del carattere internoo esternorispetto all’individuo del principio che le guida. In termini esterni, il dovere della pace può derivare da un comando divino, oppure da un’abitudine sociale trasmessa (la tradizione e l’educazione) oppure ancora da una legge degli uomini. In termini interni può derivare invece da un impulso socievole, fornitoci dalla natura, oppure da un sentimento morale, oppure ancora dalla spinta verso la perfezione derivante dalla nostra coscienza razionale. Se si vuol essere kantiani fino in fondo, si può poi invocare anche l’imperativo categorico, come caso di etica dell’autonomia[28].

Quale che sia il fondamento posto alla sua base, è opportuno notare che, in ambito deontologico, il principio della pace viene in tal modo assolutizzato. Ciò indubbiamente lo mette al riparo da qualsiasi dubbio e da qualsiasi eccezione. Questa strategia può tuttavia essere controproducente. Già Kant aveva avvertito come l’assolutizzazione di un principio possa costituire l’anticamera del perfezionismo morale, del ritualismo e financo del fanatismomorale. In fin dei conti le cose dai tempi di Kant non sono cambiate molto. L’impressione è che coloro che si auto proclamano pacifisti in senso deontologico non siano gran che consapevoli di questi rischi. Se il principio così individuato è considerato come un assoluto allora non può mai essere confrontato e messo in concorrenza con altri valori. Gli eventuali insuccessi pratici derivanti dall’applicazione del principio (la prova dei fatti) non scalfiscono minimamente il valore che è stato assunto. Il tutto in linea con la convinzione che le conseguenze non interessino più di tanto: “Il mio dovere l’ho fatto, accada ciò che vuole”.

24. Qualche esempio particolare. Discutiamo più concretamente qualche caso. Almeno i casi principali. Chi è religioso è facile che, per fondare la pace, invochi la legge divina. Spesso in ambito cristiano si cita il Vangelo come legge suprema. Tuttavia ciò non sempre sembra bastare. Il caso di Tolstoj mostra come ci si possa trovare in disaccordo anche a partire dal Vangelo. Tolstoj riteneva che il vangelo predicasse una forma radicale di nonviolenza e ciò lo portò allo scontro con la sua Chiesa. Il moscovita patriarca Kirill oggi benedice la guerra di Putin. Il Catechismo della Chiesa cattolica sostiene invece la teoria della “guerra giusta” discostandosi dalla prospettiva deontologica (vedi oltre). Non ci potrebbero essere interpretazioni più divergenti dello stesso principio.

Secondariamente, tra i deontologisti c’è chi preferisce fondare il principio della pace sulla legge umana, sulle prescrizioni del diritto. In Italia, ad esempio, c’è chi sostiene che la nostra Costituzione proibirebbe la guerra in tutte le sue forme. Secondo i pacifisti che fondano la pace sulla Costituzione, poiché la Costituzione proibisce la guerra, il nostro Paese non dovrebbe neppure partecipare alle missioni internazionali di pacificazione, non dovrebbe produrre e vendere armi. Non dovrebbe stare nella NATO. In teoria non dovrebbe neppure possedere un esercito e (forse) non dovrebbe neppure difendersi in caso di aggressione. È evidente che una simile interpretazione della Costituzione istituirebbe la Pace non solo come obbligo morale o politico individuale ma anche come obbligo legale per tutti i cittadini italiani e le loro istituzioni. In realtà sappiamo che la questione è piuttosto controversa. Secondo autorevoli giuristi, sembra che la Costituzione proibisca certamente le guerre di aggressione. Tuttavia non è certo che proibisca le guerre di difesa e/o di resistenza. Altrimenti non sarebbe stato neanche previsto un Ministero della Difesa.

In terzo luogo è stata spesso indicata come fondamento della pace una convinzione della coscienza, intima e individuale, che imporrebbe all’ individuo di non indossare divise, di non portare armi, di non fare il servizio militare, di rifiutare dunque la guerra, o anche tutte le forme di violenza. Si tratta della cosiddetta obiezione di coscienza. Si tratta questo di un principio che non è fatto valere per tutte le coscienze o per le istituzioni ma limitato alla coscienza individuale. L’obiettore, insomma, ammette che gli altri eventualmente facciano la guerra, tuttavia rivendica per sé la prerogativa di seguire la propria coscienza e di rifiutarsi di farla. Il principio dell’obiezione di coscienza è stato accolto – com’è noto – dalla legge italiana dopo molte controversie (è appena il caso di ricordare in merito la figura di Don Milani[29] e la sua polemica con i cappellani militari). Naturalmente anche in questo caso la convinzione intima può derivare da una pluralità di fonti, dall’adesione a qualche religione, dall’adozione di un qualche imperativo morale, o simili, da un sentimento di amore verso tutti gli umani o addirittura verso tutti gli esseri viventi. Molte delle argomentazioni individuali addotte per l’obiezione di coscienza possono essere legate non solo al rifiuto della guerra ma anche al rifiuto di ogni violenza.

25. Consequenzialisti. Vediamo ora l’altra posizione metaetica. Secondo la prospettiva consequenzialista, o dell’etica della responsabilità, non accade mai che un’azione sia buona o cattiva in sé, ma va sempre valutata in base ai suoi effetti o conseguenze. Una scelta è buona solo se produce conseguenze buone, anche e soprattutto nel caso specifico. Unico criterio normativo che deve stare alla base della scelta sono dunque le conseguenze. Questo orientamento si richiama alla responsabilità di colui che sceglie la linea di condotta. L’eventuale ossequio a principi a-priori implicherebbe invece laderesponsabilizzazioneindividuale e una universalizzazione irrealistica. Per comprendere questa posizione ci si può rifare dibattito intorno alla questione dell’obbedienza assoluta alle leggi. Se n’è discusso alquanto a proposito del caso Eichmann. Se obbedire alla Legge o allo Stato è sempre un atto dovuto, allora non si sarà mai responsabili delle eventuali conseguenze dannose. Deontologicamente, in senso stretto, Eichmann avrebbe avuto perfettamente ragione. La sentenza di condanna contro Eichmann – piaccia o no – è stata pronunciata in un quadro consequenzialista.

Mentre sul piano deontologico, il principio della pace è considerato come universale, sul piano del consequenzialismo invece non può mai essere considerato come universale, deve sempre essere messo in relazione alle specifiche situazioni. Dipende, in altri termini, dalle circostanze. Questo significa che il principio della pace, come ogni altro principio, viene considerato come contingente. Poiché le conseguenze di una scelta possono essere diverse da caso a caso, nella prospettiva consequenzialista è ammesso dare valutazioni diverse a seconda dei casi. In certi casi si può decidere per la pace, in altri per la guerra. Dato quest’approccio per così dire minimalista, i consequenzialisti tendono a non assolutizzare le loro scelte e così rischiano assai meno di incorrere nel perfezionismo morale o nel fanatismo.

26. Obiezioni. Un’obiezione al consequenzialismo è che non possiamo conoscere tutte le conseguenze delle nostre scelte, per cui il processo decisionale per essere corretto dovrebbe essere infinito. Inoltre tutti i principi sarebbero relativizzati alle singole situazioni esaminate. Ogni decisione sarebbe unica e diversa da ogni altra. In questo modo il mondo dei valori diverrebbe altamente instabile, sottoposto all’arbitrio valutativo di ciascun singolo e di ciascuna situazione. Un’altra obiezione è che possiamo non trovarci d’accordo sull’analisi delle conseguenze, poiché, in quanto umani, ragioniamo sempre in condizioni di incertezza o di relativa ignoranza. Oppure siamo sempre sottoposti ai condizionamenti più diversi. Il consequenzialista dunque non avrebbe alcuna garanzia di essere nel giusto, non potrebbe mai rifarsi ad alcun fondamento consolidato. I consequenzialisti risponderebbero che è proprio così, che queste sono le autentiche condizioni di ogni scelta morale.

 

27. Qualche implicazione. Vediamo qualche concreta implicazione. Nello specifico della guerra russo-ucraina, i pacifisti deontologici anche più soggettivamente sinceri si stupiscono di essere considerati spesso come “amici di Putin”. In realtà essi, adottando deontologicamente il principio della pace, facendo dunque il loro “dovere”, non si faranno mai carico delle specifiche conseguenze delle loro azioni, anche quando siano abbastanza prevedibili. Ad esempio, è fattualmente abbastanza chiaro che se si togliessero gli aiuti militari all’Ucraina, questa sarebbe facilmente sopraffatta. I deontologisti tuttavia non si sentono minimamente imbarazzati da simili conseguenze, perché le conseguenze non li riguardano affatto. Se tutti ragionassero come loro, Putin avrebbe già vinto. Ma questo, appunto, non li riguarda proprio. E così si stupiscono di essere considerati “alleati oggettivi” di Putin.

Anche gli interventisti consequenzialisti (si noti che i consequenzialisti possono anche essere non interventisti) hanno un dilemma da risolvere. Accettando la guerra, anche dopo articolata riflessione, non possono che accettarne anche le gravose conseguenze, le quali si manifesteranno però solo dopo la scelta. Essi, al momento della scelta avevano ritenuto che le conseguenze sarebbero state tutto sommato accettabili se messe a confronto con un male peggiore che sarebbe derivato se avessero deciso altrimenti. Tuttavia costoro si espongono alla confutazione da parte della realtà. La posizione dei deontologi resta invece inconfutabile. Il consequenzialista interventista può essere comunque accusato di avere scelto il male minore della guerra, perché è comunque un male. Ma potrebbe anche essere ancor più accusato qualora il male minore si riveli essere in realtà un male peggiore. Il consequenzialista non può mai avere la coscienza del tutto tranquilla, finisce sempre per avere in qualche modo le mani sporche. E questo può sempre essergli rimproverato dal deontologo (il quale può sempre comodamente dire “Non in mio nome!”). In altri termini, i consequenzialisti sono indotti, in ogni situazione, a cercare di calcolare e prevedere i risultati (di cui saranno comunque responsabili, nel bene e nel male) e a scegliere di conseguenza. Ai deontologi invece non importa dei risultati specifici, dei quali non si sentono responsabili. Per loro conta solo l’aderenza al principio assoluto.

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28. Dell’incompatibilità delle due posizioni. Possiamo domandarci a questo punto se sia possibile conciliare queste due prospettive. Ebbene, no, non è possibile. Si può solo stare da una parte o dall’altra. Si può, volendo, argomentare a favore dell’uno o dell’altro punto di vista, in maniera più o meno convincente, ma mai in termini risolutivi. Per questi due mondi, “fare la cosa giusta” può significare cose completamente diverse.

Che fare allora? Di fronte a questi due orientamenti incompatibili si finisce spesso per scegliere una modalità o l’altra a seconda dei casi. Diciamo pure a seconda della convenienza del momento. Si finisce per formulare delle argomentazioni miste che possono essere anche abbastanza ridicole. Ci sono tuttavia dei soggetti che sono invece più costanti e tendono più o meno a essere sempre deontologi oppure sempre consequenzialisti, in base a un atteggiamento personale spesso poco consapevole. Una specie di predisposizione.

Mi permetto qui di suggerire una scappatoia. Di porre all’attenzione la possibilità di adottare un criterio di tipo decisamente pragmatico, un criterio piuttosto “a spanne”, anche se si tratta di un criterio piuttosto vicino al modo di pensare consequenzialista. Si tratta di far ricorso alla casistica empirica nota, all’esperienza passata. Nella storia passata hanno avuto migliori risultati (cioè, hanno fatto meno disastri) coloro che hanno applicato ciecamente i loro valori o principi, oppure coloro che hanno esaminato attentamente e prudentemente le possibili conseguenze delle loro scelte? Cosa convien fare in generale, sulla base del senno di poi? È chiaro che ciascuno formulerà la propria risposta. Dal mio punto di vista, da un esame spassionato, emerge come i consequenzialisti siano meglio adattati alla democrazia. Le ragioni dovrebbero essere facilmente ricavabili da chiunque conosca appena un po’ le regole elementari della democrazia. Propongo al lettore questo compito come esercizio. Sono disposto a correggere gli elaborati.

29. La teoria della guerra giusta. Il caso più celebre di consequenzialismo è senz’altro quello della teoria della guerra giusta[30] alla quale val la pena di riservare uno spazio particolare. È una teoria che risale addirittura ad Agostino e a Tommaso d’Aquino[31]. Prima ancora si trova, ad esempio, in Cicerone. È stata ripresa nell’ambito del giusnaturalismo moderno e, per suo tramite, è giunta fino a noi. A tutt’oggi è una teoria che ha molti sostenitori ed è ancora ampiamente dibattuta. C’è una letteratura immensa sull’argomento. In campo filosofico, tra i sostenitori contemporanei della teoria della guerra giusta possiamo annoverare i filosofi Michael Walzer[32] e Norberto Bobbio[33].

La premessa minimale della teoria è che le guerre non sono tutte uguali. Ci sono guerre inique e guerre giuste. Le guerre giuste si distinguono per essere tali sia nelle motivazioni che le hanno scatenate (jus ad bellum) sia nella condotta sul campo (jus in bello). Per quel che concerne lo jus ad bellum, la sola guerra giusta tendenzialmente è quella che è messa in atto per difendersi da una aggressione. La guerra di offesa non è mai giusta. Nel corso della complessa storia di questa teoria sono state dettate precise condizioni affinché si possa parlare di guerra giusta. Abbiamo, nell’ordine: 1) La giusta causa. 2) La retta intenzione. 3) L’autorità appropriata (legale) e la dichiarazione pubblica. 4) La guerra come ultima risorsa. 5) La probabilità di successo. 6) La proporzionalità. Entrare nel merito dei punti precedenti esula dalle finalità di questo scritto. Il lettore che fosse interessato non farà fatica a trovare un’adeguata documentazione. Va segnalato che l’epiteto di “guerra giusta” non ha in questo caso alcun significato morale, bensì ha un significato giuridico. È definita giusta la guerra che abbia determinati requisiti accertabili in base alla tecnica giuridica. La teoria permette dunque di esprimere un giudizio di tipo giuridico sulla guerra. Il giudizio ovviamente, come tutti i giudizi, potrebbe anche essere errato. Potrebbe anche essere riconsiderato nel caso del sopravvenire di nuovi dati.

Non manca chi ha fatto notare come la teoria della guerra giusta sia del tutto corretta ma che nessuna delle guerre passate sarebbe in grado di passare la prova, se questa fosse condotta in maniera rigorosa. Questa teoria si presta soprattutto a essere impiegata quando in sede internazionale un consesso di nazioni (ad esempio in sede ONU) deve decidere se operare o meno un intervento. Come accade facilmente nelle faccende umane, la teoria è tuttavia stata anche usata strumentalmente dai bellicisti. L’aggressione americana all’Iraq nel 2003, ad esempio, è stata giustificata anche col pretesto che fosse una guerra giusta[34]. In quell’occasione fu anche elaborata una assai discutibile dottrina della guerra preventiva. Occorre dunque tener conto di un possibile uso ideologico e propagandistico della teoria della guerra giusta. Le strumentalizzazioni non bastano tuttavia a invalidarla e, come si diceva, è ancora ampiamente dibattuta.

Taluni hanno sostenuto – lo riporto per imparzialità affinché siano chiare tutte le posizioni – che la teoria della guerra giusta poteva valere per le guerre convenzionali. Non varrebbe più ora che c’è la possibilità della guerra atomica. Norberto Bobbio ha discusso ampiamente su questo punto. Il problema è che la possibilità della guerra atomica non ha messo fuori mercato le altre guerre convenzionali. E su queste, che sono di fatto le uniche a essere praticate, è comunque il caso di pronunciarsi. In effetti l’arma atomica ha una funzione di deterrenza ed è poco probabile che venga mai più usata (dopo il caso del Giappone) poiché con la tecnologia odierna l’uso dell’arma atomica implicherebbe la mutua distruzione assicurata. Le guerre convenzionali hanno invece molta più probabilità di essere utilizzate e di fatto lo sono. Abbiamo dunque bisogno anche di ragionare circa il da farsi relativamente alle guerre non atomiche.

Ma avremmo anche bisogno di ragionare rispetto alle armi atomiche. Negli ultimi decenni l’arsenale atomico mondiale è rimasto congelato dal TNP (Trattato di non proliferazione nucleare) e l’opinione pubblica non pare si sia mai preoccupata più di tanto circa la questione dello smantellamento. Solo nel 2017 è stato proposto da un ristretto gruppo di Paesi il TPNW (Trattato per la proibizione delle armi nucleari) cui però non hanno aderito gli Stati possessori delle bombe o aspiranti tali. Certi pacifisti si rifiutano di mandare qualche cartuccia e qualche obice agli Ucraini che stanno facendo la loro resistenza, un caso cioè che sarebbe generalmente riconosciuto come guerra giusta, ma non dedicano neanche un tweet alla causa della messa al bando delle armi nucleari. Meno male che ci ha pensato Putin a riproporre la questione.

30. L’ambiguo caso della Chiesa cattolica. Come ho spiegato ampiamente in un mio saggio precedente[35], da sempre la Chiesa cattolica sostiene esplicitamente la dottrina della guerra giusta, fin da Agostino e Tommaso d’Aquino. Nel mio saggio ho mostrato dettagliatamente come il Catechismo della Chiesa cattolica sia totalmente incentrato intorno alla teoria della Guerra giusta. Ciò significa l’adesione piena a una prospettiva consequenzialista. Ciononostante, il Papa nel suo attuale pubblico insegnamento mostra di condividere una prospettiva deontologica talvolta assai estrema, fino quasi alla nonviolenza tolstojana, cioè alla proibizione di rendere il male con il male. Questo soprattutto quando sono in questione gli aiuti militari e le spese per la difesa. Ma poi il Papa non trae tutte le conseguenze dalla sua adesione alla nonviolenza. Il messaggio è dunque piuttosto ambiguo. Nel Catechismo si teorizza il diritto alla difesa e alla resistenza da parte di chi è aggredito e invece nelle piazze la Chiesa tuona contro l’invio delle armi in Ucraina e contro gli investimenti nella sicurezza. Si tratta di una palese contraddizione che, nel mio saggio, ho sintetizzato nella formula del peace populism. Intendendo con ciò che questa contraddizione sia dovuta principalmente allo scopo più o meno consapevole della Chiesa di ottenere una qualche popolarità a buon mercato. Un pacifismo deontologico e fondamentalista è senz’altro più popolare di un consequenzialismo responsabile.

Va notato che la teoria consequenzialista della guerra giusta della Chiesa cattolica (almeno quella contenuta nel Catechismo) si espone alle critiche deontologistiche di coloro che professano rigorosamente la teoria della nonviolenza. Per rendersene conto, basta mettere a confronto il Catechismo della Chiesa cattolica con Tolstoj[36]. Agli occhi di Tolstoj, il Catechismo cattolico sarebbe da considerarsi come una mera manifestazione di eresia, un vero e proprio tradimento dell’insegnamento di Cristo. Se stiamo alla lettera, è probabile che Tolstoj abbia ragione. Solo la plateale ignoranza dilagante presso il grande pubblico permette oggi alla Chiesa cattolica di sostenere e insegnare la guerra giusta nel Catechismo e, contemporaneamente, di presentarsi come sostenitrice di un pacifismo deontologico nonviolento, senza che nessuno ne ravvisi le incongruenze.

31. Di che pacifismo sei? Da quanto detto, dovrebbe risultare chiaro fin qui che i problemi che questa materia comporta sono davvero complessi e che ciascuno dovrebbe essere attentamente impegnato nel costruire la propria posizione personale. Una posizione comunque che, per la natura stessa della cosa, non sarà alla fine esente da lati oscuri, incongruenze, conseguenze non desiderate. Sarà dunque una posizione che avrà punti forti, ma anche punti di debolezza. Sarà una simile posizione che sarà poi utilizzata per formulare gli opportuni cauti giudizi sui casi concreti. Dovrebbe dunque risultare chiaro che non ci si può accontentare di superficialità e banalità. Se il ragionamento fin qui sviluppato sarà sembrato eccessivo, ebbene pensi il nostro coraggioso lettore che quel che qui è stato fornito è solo un approccio del tutto elementare. La complessità delle questioni è ben maggiore. In altri termini, non c’è via di scampo, bisogna studiare! Vediamo allora in sintesi, ad usumdelphini, quali sono le principali posizioni possibili.

32. Nonviolenti. Abbiamo anzitutto i nonviolenti. Pare questo il caso relativamente più chiaro, sebbene sia il più difficile da mettere in pratica. Riteniamo di doverli collocare in una loro categoria a parte per il fatto che essi hanno, come obiettivo, non tanto la eliminazione della guerra bensì l’eliminazione della violenza in generale. Se poi intendono – come fa Galtung – per violenza anche la violenza sociale (cioè le disuguaglianze, lo sfruttamento, l’impedimento allo sviluppo delle potenzialità umane di ciascuno, la discriminazione e simili) essi sarebbero impegnati nella impresa di costruire, senza fare uso della violenza, una società completamente nuova, in una vera e propria rivoluzione, sia sul piano istituzionale sia sul piano degli individui. Dal punto di vista metaetico, l’approccio dei nonviolenti è generalmente di tipo deontologico, con tutti i suoi pregi ma anche con i difetti che abbiamo ampiamente discusso in precedenza. I nonviolenti, posti di fronte alla guerra, si troveranno comunque a dover affrontare e risolvere la molteplicità dei dilemmi circa la pace e la guerra che abbiamo segnalato. In particolare, potranno facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e ai paradossi derivanti dal “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Un problema particolare poi è quello della efficacia effettiva in termini pratici della metodologia nonviolenta.

33. Pacifisti assoluti. Abbiamo poi i pacifisti deontologici. Sono coloro che – per i principi più diversi – scelgono sempre la pace, “senza se e senza ma”. Costoro potrebbero essere definiti come pacifisti assoluti. Diciamo pure che costoro, per quanto ampiamente variegati al loro interno, costituiscono un blocco relativamente monolitico. Questa posizione deve comunque risolvere il problema (che non hanno i nonviolenti) di identificare cosa si debba intendere per guerra, cioè di identificare l’oggetto della loro opposizione. Abbiamo visto che l’oggetto guerra è piuttosto fuzzy e, a seconda di quel che si intende, può produrre comunque già delle differenziazioni interne assai marcate nello schieramento. Ci possono essere posizioni assai radicali ove si vietino la produzione e il commercio di armi, ove si chieda lo smantellamento degli eserciti, ma anche ove si vietino i cosiddetti interventi umanitari, le varie forme di interposizione, oppure gli interventi dell’ONU. Ove si condannino nel passato e nel futuro tutte le forme di resistenza armata e ove si condanni anche la guerra passata al nazifascismo. C’è poi anche chi intende la pace solo come obiezione di coscienza individuale (la riserva solo per sé e non la impone agli altri) e chi la intende invece come norma legale da imporre a tutti attraverso una Costituzione. Anche i pacifisti deontologici possono facilmente trovarsi di fronte alla incongruenza dei valori e al paradosso di “non opporsi al male con il male”. E al rischio del fanatismo. Il pacifismo assoluto sembrerebbe dunque la posizione più facile ma al proprio interno, osservando un minimo di rigore, può riservare molti problemi piuttosto difficili da risolvere.

34. Pacifisti relativi. Ma l’elenco non è finito. L’approccio metaeticoconsequenzialista pone più di un problema, per quel che riguarda il da farsi rispetto alla pace (e alla guerra). Se i pacifisti deontologici sceglieranno pressoché sempre la pace, senza badare alle conseguenze, i consequenzialisti invece potranno essere indotti a scegliere, in casi specifici diversi, sia la pace sia la guerra. Ma allora, i consequenzialisti sono da considerare come pacifisti o non piuttosto come bellicisti? Oppure vanno considerati di volta in volta, solo sulla base della loro scelta del momento? Risultando così come dei ballerini morali che transitano troppo facilmente da una posizione all’altra?

Una dieta ricostituente 09Facciamo un esempio per capirci. Bertrand Russell (1872-1970) è ritenuto generalmente un’importante figura di filosofo e attivista pacifista. È famoso per essersi impegnato per la messa al bando delle armi atomiche. Si è opposto alla partecipazione della Gran Bretagna alla Prima guerra mondiale. Per questo fu privato della cattedra e fu perfino incarcerato. Eppure Russell, dopo un notevole impegno per prevenire il conflitto, giunse ad approvare la guerra contro la Germania nazista. Come dovremmo considerare la sua posizione? Siamo in presenza di un pacifista eroico, oppure di un bellicista guerrafondaio? Oppure di un voltagabbana? Russell ha chiarito la sua posizione in un famoso articolo del 1943[37] nel quale egli si considera non un pacifista assoluto ma “pacifista politico relativo”[38]. Ben al di là di essere un altalenante, egli si considera dunque un pacifista perfettamente coerente. Ma come tale, e proprio in quanto tale, ammette che talune guerre vadano appoggiate. Va da sé che i nonviolenti e i pacifisti assoluti difficilmente accetterebbero Russell in loro compagnia.

Se non vogliamo trattare anche Russell come un guerrafondaio allora non possiamo fare altro che accettare la sua argomentazione e ampliare la nostra classificazione dei pacifisti. Avremo allora, da un lato, i pacifisti assoluti che deontologicamente scelgono sempre la pace e poi avremo, d’altro canto, anche i pacifisti non assoluti, pacifisti “relativi”, che non scelgono sempre la pace e si riservano di giudicare caso per caso. Dovrebbe essere abbastanza chiaro, almeno a partire dall’esempio di Russell, che i pacifisti relativi non possono essere assimilati tout court ai bellicisti (i quali sceglierebbero pressoché sempre la guerra). Assumiamo dunque che non basta dare un appoggio circostanziato a una certa guerra, per essere considerati tout court bellicisti o guerrafondai. Si può combattere Hitler anche in nome della causa della pace. Anche qui, le distinzioni sono importanti, non si tratta della stessa cosa! Nella recente letteratura anglosassone sulla pace e sulla guerra si parla tranquillamente di relative pacifism, di contingentpacifism, oppure di conditionalpacifism. Se non si accetta questa soluzione si corre il rischio di screditare una categoria di pacifisti sicuramente numerosa e ben impegnata. Facendo un cattivo servizio alla causa della pace. Si tratterebbe dunque di ammettere una buona volta che i pacifisti relativi siano comunque dei pacifisti a pieno titolo e che un pacifista in certi casi possa anche stare dalla parte della guerra. Pazza idea! Ancora una volta, questa non è una questione che può essere affrontata in maniera schematica. Il pericolo del fanatismo è sempre alle porte.

35. Pacifisti relativi insufficienti. I pacifisti relativi (che non possono che essere consequenzialisti) costituiscono tuttavia un gruppo davvero composito, spesso diviso al proprio interno in base alle diverse analisi condotte circa l’opportunità o i costi e i benefici delle diverse scelte di pace o di guerra. È il caso di ricordare che molti pacifisti relativi (forse la maggioranza!) sembra che, nel caso del conflitto russo – ucraino, abbiano optato proprio per la pace (cioè, di fatto, per la resa incondizionata dell’Ucraina). Sembra tuttavia che i pacifisti relativi facciano notizia solo quando scelgono di appoggiare la guerra. Nel caso della guerra russo – ucraina, diversi di loro hanno appoggiato la resistenza ucraina, fino ad approvare le sanzioni, l’invio di armi, guadagnandosi così l’appellativo dispregiativo di pacifisti con l’elmetto. Ugualmente hanno approvato l’aumento delle spese militari per la sicurezza, beccandosi l’accusa di essere dei guerrafondai e di voler togliere risorse alla sanità, all’istruzione e a una miriade di altre buone cause.

Il livello decisamente poco elevato dell’attuale dibattito italiano sulla guerra in Ucraina suggerisce, ahimè, una pessimistica considerazione circa i molti pacifisti relativi che sono in circolazione. Tra i quali può essere anche collocato il già citato prof. Orsini. Nonostante il parere autorevole di Ockham[39],per tutti costoro mi verrebbe di suggerire una nuova categoria, quella dei pacifisti relativi insufficienti. Se non piace questo termine, si potrebbe anche parlare di pacifisti relativi deboli. Come diceva Viano: “di quelli che non ce la fanno”. O, ancora, di pacifisti relativi opportunisti. Che abbiano optato per la pace o per la guerra, costoro, come consequenzialisti, mostrano abbastanza palesemente di avere operato la loro scelta in base ad analisi assai discutibili delle conseguenze. Purtroppo, l’analisi delle conseguenze non sempre è caratterizzata da onestà e imparzialità, da considerazioni approfondite e di ampio respiro. Talvolta può essere caratterizzata da basse e ciniche convenienze, da abietti e futili motivi. Non tutti si chiamano Bertrand Russell. Non tutti si chiamano Albert Einstein (il quale sulla guerra a Hitler ha sostenuto posizioni analoghe a quelle di Russell). L’analisi delle conseguenze poi può non sempre essere caratterizzata dall’impiego di dati fondati e deduzioni logicamente corrette. Dunque, bisogna purtroppo riconoscerlo, il consequenzialismo è in fin dei conti fin troppo democratico. Ce n’è davvero per tutti i gusti, e anche gli imbecilli sono comunque sempre autorizzati a fare la loro brava analisi delle conseguenze. Del resto in una democrazia è senz’altro giusto che sia così. La democrazia dovrebbe essere così robusta da scoraggiare gli imbecilli e invece li subisce continuamente. E forse li alimenta.

36. Utilitarismo e verità. I pacifisti relativi insufficienti, che sono una legione, non sono purtroppo una sorpresa poiché abbiamo già sottolineato la possibile parentela del consequenzialismo con le etiche utilitaristiche. L’utilitarismo tradotto in pratica purtroppo spesso dimentica il principio cardine che lo dovrebbe improntare, il principio della “maggior felicità per il maggior numero”[40],e tende a scadere in mero opportunismo individualistico. Questo è il motivo per cui, in ambito consequenzialistico occorre sempre esercitare una grande vigilanza affinché l’analisi delle conseguenze non sia viziata dagli innumerevoli bias in cui ci si può imbattere. Mentre in campo deontologico il dibattito non può che vertere intorno ai valori universali (i quali però per lo più si assumono a torto o a ragione senza gran ché dibattere), in campo consequenzialista invece il dibattito è essenziale.Dovrebbe sempre essere approfondito, ampio, documentato, e soprattutto pubblico, per permettere la formazione di un’opinione pubblica matura e consapevole. In altri termini, per fare bene i consequenzialistibisogna studiare. Mi permetto in proposito di richiamare una considerazione recentemente espressa da Emanuele Parsi[41], e cioè che le democrazie non possono proprio funzionare al di sotto di una certa soglia di circolazione della verità. A maggior ragione, ciò dovrebbe valere di fronte a questioni gravi come quelle della pace e della guerra. Occorrerebbe dunque un forte commitment per la verità. È invece un dato fatto che il pubblico medio attuale non si occupa di politica e men che mai di politica internazionale. E le informazioni che circolano sono quelle che corrono sui social media e sui media nazionali. E, soprattutto, i nostri pacifisti relativi insufficienti tendono a decidere piuttosto irresponsabilmente con un tweet o con un Like, magari in base a un bel corredo di fake.

37. Per concludere. Lo scopo di questo saggio, divenuto ormai fin troppo lungo, era quello di fornire alcuni strumenti elementari di analisi a chi volesse condurre una riflessione indipendente e non banale sulle questioni della guerra e della pace. Lo scopo era anche di esercitare un’opera minima di chiarificazione del linguaggio che, su questo tema, è oggi davvero molto inquinato. Spero di avere mostrato ancora una volta come la filosofia possa disseminare dubbi piuttosto che propinare certezze e come possa rappresentare tuttavia uno strumento critico nei confronti per lo meno delle forme più crasse di superficialità. Ho cercato di essere il più obiettivo possibile, non rinunciando ovviamente di volta in volta a esprimere le mie opinioni. Per rispetto nei confronti del lettore, mi sono tuttavia sforzato di rendere sempre ben distinguibili le mie analisi argomentate dalle mie opinioni e valutazioni. Ringrazio i pochi lettori che siano giunti fin qui, sperando di avere fatto loro un qualche buon servizio. Disponibilissimo a ricevere critiche e osservazioni. E a ricevere, qualora fosse il caso, anche qualche ringraziamento. In ossequio al motivo kantiano del “legno storto”, non mi faccio comunque nessuna illusione che tutto ciò possa servire a migliorare anche di un solo millimetro la nostra etica pubblica.

Opere citate

2021 AA. VV., (a cura di), Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Decima edizione, Terra Nuova Edizioni.

1962 Aron, Raymond, Paix et guerre entrelesnations, Calmann-Lévy, Paris.Tr. it.: Pace e guerra tra le nazioni, Edizioni di Comunità, Milano, 1970.

1990 Berlin, Isaiah, “Alla ricerca dell’ideale”, in AA., VV. (a cura di), Etica ed economia, La Stampa, Torino. [1988]

1984 Bobbio, Norberto, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna.

1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.

1991 Bobbio, Norberto, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia.

2010 Losurdo, Domenico, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Bari.

1967 Erasmo, da Rotterdam, Il lamento della Pace (a cura di Luigi Firpo), UTET, Torino. [1517]

1969 Galtung, Johan, “Violence, Peace, and Peace Research”, in Journal of Peace Research, Vol. 6, No. 3 (1969), pp. 167-191.

1995 Kant, Immanuel, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Kant, Immanuel, Scritti di storia, politica e diritto (a cura di Filippo Gonnelli), Laterza, Bari. [1784]

1965 Milani, Lorenzo (Don), L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze.

1991 Kant, Immanuel, Per la pace perpetua (a cura di salvatore Veca), Feltrinelli, Milano. [1795]

2022 Parsi, Vittorio Emanuele, Il posto della guerra e il costo della libertà, Bompiani, Milano.

1992 Rousseau, Jean-Jacques, Il contratto sociale (a cura di Tito Magri), Laterza, Bari. [1762]

1943-44 Russell, Bertrand, “The Future of Pacifism”, in The American Scholar, Vol. 13, No. 1 (Winter 1943-44), pp. 7-13.

2009 Tolstoj, Lev, La confessione, Feltrinelli, Milano. [1882]

1988 Tolstoj, Lev Nikolàevič, La mia fede, Editoriale Giorgio Mondadori. [1884-1892]

1894 Tolstoi, Leone, Il Regno di Dio è in voi, Fratelli Bocca, Roma.

1997 Walzer, Michael, Just and Unjust Wars, Basic Books, Harper Collins Publishers. Tr. it.: Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990.

[1]Ho iniziato a scrivere questo saggio pochi giorni dopo il 24 febbraio 2022, data dell’aggressione all’Ucraina da parte della Russia. Per questo sono andato a ripescare materiali relativi alla mia attività di insegnamento, insieme a una gran quantità di vecchi appunti e scritti risalenti al periodo delle guerre jugoslave e al periodo della occupazione dell’Afghanistan. Ricordo in proposito di avere dato un mio perdurato contributo alla Campagna contro le mine antiuomo in Afghanistan, condotta dall’ICS. La stesura del saggio è durata per tutti questi lunghi mesi di guerra, nel corso dei quali ho potuto tuttavia assistere al pressapochismo sia del dibattito mediatico sia delle prese di posizione delle diverse forze politiche, pacifisti compresi. Ho potuto assistere anche alle incertezze, alle ambiguità e al tradimento della causa dei resistenti ucraini da parte di molti degli appartenenti alla mia stessa parte politica, fattori questi spesso uniti all’ignoranza e allo stravolgimento della verità storica. Ho pensato più volte di lasciar perdere. Che non ne valesse proprio la pena. Ho trovato la motivazione minima per condurre a termine questo lavoro dopo la liberazione di Kherson. Slava Ukraini!

[2]Cfr. AA. VV. 2021.

[3]Si noti che possono ben sussistere conflitti d’altro tipo, considerati come accettabili o addirittura utili e indispensabili. Come, ad esempio, il conflitto tra i candidati in una democrazia.

[4] Putin dichiara che la sua è un’operazione militare speciale, ma poi dichiara la mobilitazione “parziale” come se fosse in guerra. D’altro canto, l’Ucraina non ha mai dichiarato guerra alla Russia. Si è trovata in guerra suo malgrado.

[5]Si veda il noto saggio di Erasmo da Rotterdam: Il lamento della pace. Cfr. Erasmo da Rotterdam 1967[1517].

[6] È il caso di far notare che perché si possa parlare di guerra occorre che ci siano delle comunità politiche. La nozione di guerra dunque ha poco a che vedere con la questione dell’aggressività umana, com’è stata trattata dagli etologi, o dagli psicologi. Certo, l’aggressività rappresenta uno dei substrati biologici della guerra. Ma si può dire la stessa cosa anche del pollice opponibile.

[7] Cfr. Bobbio 1984: 124.

[8] La definizione di ciò che è considerato violento è senz’altro di tipo storico e culturale. Certi rituali primitivi erano – e sono talvolta tuttora – violenti. Violenti i sacrifici, animali ma anche umani, previsti da talune religioni. Violenti certi metodi educativi, o certe modalità nel rapporto tra uomo e donna. Taluni considerano violento il cibarsi di carne animale o di certi prodotti animali. Qualcuno considera violento anche l’uso di certi aggettivi o espressioni linguistiche. Ma violenza è anche quella legale, esercitata dallo Stato. È nozione comune il fatto che lo Stato moderno abbia il “monopolio della violenza”.

[9] Scrivo “nonviolenza” senza il trattino seguendo un’indicazione di Aldo Capitini.

[10]La definizione è tratta da Wikipedia, versione in lingua inglese. La traduzione è mia.

[11]Di questa crisi è dato conto nello scritto La confessione. Cfr. Tolstoj 2009.

[12] Trascrivo per comodità del lettore quello che secondo Tolstoj costituirebbe l’autentico comandamento del Discorso della Montagna. Il testo è banalmente tratto da Wikipedia:

“Primo precetto (Matteo, V, 21-26). L’uomo non solo non deve uccidere l’uomo, ma nemmeno adirarsi contro di lui, suo fratello; non deve disprezzarlo né considerarlo “stupido”. Se avrà questionato con qualcuno dovrà riconciliarsi con lui prima di offrire i suoi doni al Signore, vale a dire prima di accostarsi a Dio con la preghiera.

Secondo precetto (Matteo, V, 27-32). L’uomo non solo non deve commettere adulterio, ma neppure servirsi della bellezza della donna per il proprio piacere; e se sposa una donna, deve restarle fedele per tutta la vita (nella tradizione cattolica corrente sono qui unificate la seconda e terza antitesi).

Terzo precetto (Matteo, V, 33-37). L’uomo non deve impegnarsi in niente, sotto giuramento.

Quarto precetto (Matteo, V, 38-42). L’uomo non solo non deve rendere occhio per occhio, ma quando qualcuno lo percuote su una guancia, deve porgergli l’altra; deve perdonare le offese, sopportarle con rassegnazione e non rifiutare nulla di ciò che gli venga chiesto.

Quinto precetto (Matteo, V, 43-48). L’uomo non solo non deve odiare i suoi nemici e combatterli, ma deve amarli, aiutarli e servirli”.

[13] Nella filosofia di Hobbes, lo stato di natura è descritto come una lotta violenta di tutti contro tutti, dove è contemplata l’uccisione del nemico. In Hegel la violenza è generatrice della Storia. Si ricordi la sua metafora del bancone del “macellaio della storia”. La volontà schopenhaueriana è eminentemente conflittuale e violenta. In alcuni aspetti della filosofia di Nietzsche la violenza è contemplata come fondamento stesso della realtà. La teoria darwiniana – che è teoria scientifica – implica, di fatto, la predazione che rappresenta comunque una forma di violenza. Ma una vera e propria filosofia della violenza è contenuta nel darwinismo sociale che è uno stravolgimento della teoria darwiniana. Molte filosofie della razza si fondano sul conflitto razziale inteso come motore della storia. Nonostante molte ragguardevoli filosofie abbiano posto come fondamento la violenza, nella storiografia filosofica si esita a riconoscere l’esistenza di una corrente sotterranea che potremmo chiamare violentismo. Quando si vuol dire qualcosa del genere di solito si ricorre al realismo politico. Ma non è la stessa cosa.

[14]Osserva Bobbio che, mentre si può pensare a una pace perpetua, assai più raramente è stato elaborato il pensiero di una guerra perpetua. I bellicisti che ammettono la guerra normalmente la considerano come un elemento temporaneo, da concludersi con una pace. Sorge dunque il dubbio che i bellicisti possano, in qualche misura, essere considerati minimamente pacifisti.

[15]Coloro che sono contrari alle spese militari di solito lo sono per principio. E tendono a non considerare se la situazione attuale internazionale sia o meno una situazione di insicurezza. Il problema sembra non li riguardi. Posto che si ammetta di essere in una situazione di insicurezza, non spiegano se in tal caso si debba ugualmente procedere con un disarmo unilaterale.

[16]Faccio qui riferimento all’articolo di Andrew Fiala contenuto nella Enciclopedia Stanford. Vedi: Fiala, Andrew, “Pacifism”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/pacifism/.Fiala è uno tra i più importanti studiosi anglosassoni della materia.

[17] Cfr. Rousseau Capitolo IV, Della schiavitù.

[18]Per un orientamento sulla questione si può vedere: Hsieh, Nien-hê and Henrik Andersson, “IncommensurableValues”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = https://plato.stanford.edu/archives/fall2021/entries/value-incommensurable.

[19]Si noti si può sostenere che anche la vita non sia un valore assoluto. E che vada comunque sempre commisurato con altri beni materiali o immateriali altrettanto importanti. È noto che gli umani, essendo animali culturali, sono in grado di sacrificare volontariamente la propria vita, in determinate condizioni. Giusta o sbagliata che sia la decisione. Una riflessione articolata sulla questione si trova nel mio saggio: Durkheim e i “suicide bombers”. Cfr. Finestre rotte: Durkheim e i “suicide bombers”.

[20]Cfr. Kant 1991 [1795].

[21]Cfr. Kant 1995[1784]. La traduzione che propongo qui si trova in Berlin 1990.

[22]Ci siamo rifatti particolarmente ad Andrew Fiala, uno dei più importanti studiosi anglosassoni di queste questioni.

[23] Cfr. Aron 1962.

[24]Cfr. Bobbio :137

[25]Il resto di questo paragrafo è tratto da un mio saggio precedente.

[26]Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..

[27]La pace può essere trattata anche sul piano della metaetica, cioè attraverso quella disciplina dell’etica che riflette sui metodi dell’etica stessa.

[28]Non posso qui dilungarmi su questa classificazione. Chi fosse interessato troverà ampi ragguagli in merito su un qualsiasi manuale di storia della filosofia o in qualsiasi monografia su Kant.

[29] Cfr. Milani (Don) 1965.

[30] Si noti che il consequenzialismo ha prodotto molte altre argomentazioni a proposito della pace e della guerra.

[31] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, Questione 40.

[32]Cfr. Walzer 1997.

[33]Cfr. Bobbio 1984, Bobbio 1989, Bobbio 1991

[34]Detta anche Seconda Guerra del Golfo, fu combattuta nel 2003 anche se gli eventi possono essere datati tra 2003 e 2011. La guerra fu condotta dagli USA (allora presidente era George W. Bush) e da una coalizione dei cosiddetti Volenterosi. Si tratto di una cosiddetta “guerra preventiva”. Le analisi e le inchieste successive dimostrarono che non sussistevano le motivazioni per considerare questa guerra come una “guerra giusta”.

[35]Cfr. il mio saggio Catechismo, guerra e resistenza. Finestre rotte: Catechismo, guerra e resistenza.

[36]Si veda Tolstoj 1988 e Tolstoi 1894.

[37]Cfr. Russell 1943-44.

[38]La qualificazione di “politico” Russell intende distinguere la sua posizione da quella degli obiettori di coscienza.

[39]Il quale sosteneva che le entità (i concetti) non dovrebbero essere moltiplicate se non per estrema necessità.

[40]Il principio benthamiano costituisce un nobile tentativo di universalizzare in qualche modo l’utilitarismo.

[41]Cfr. il recente Parsi 2022.

Risvegli

di Paolo Repetto, 29 luglio 2023

Nelle Vite dei maggiori filosofi Diogene Laerzio racconta di un giovane cretese, Epimenide, che fu mandato un giorno dal padre in campagna a cercare una pecora dispersa. Dopo aver girovagato a lungo il ragazzo, sfinito per il caldo e la fatica, si addormentò in una caverna, per risvegliarsi solo cinquantasette anni dopo. Devo dire che Diogene Laerzio non è particolarmente attendibile, tirava un po’ all’enfasi sensazionalistica, e che altri che hanno scritto di Epimenide prima di lui, come lo stesso Platone e poi Plutarco, non fanno cenno a questo episodio, mentre colui che fu probabilmente la sua fonte, lo storico-geografo Pausania, parla di “soli” quarant’anni. Anche nelle trasposizioni moderne della leggenda (Goethe ne Il risveglio di Epimenide e Washington Irving ne La leggenda di Rip Van Winkle) le cifre sono discrepanti: cinquant’anni di sonno per il primo, venti per il secondo: ma c’è una spiegazione, e la vedremo.

La sostanza della storia è comunque che, a prescindere dalla durata del riposino, al suo risveglio Epimenide trovò il mondo molto cambiato, quasi irriconoscibile (e si parla di sei o sette secoli prima di Cristo). A quanto pare già in gioventù il bell’addormentato era un tipo poco convenzionale (ad esempio, portava i capelli lunghi, contro l’uso dei tempi) ed è naturale che al momento in cui rientrò dal mondo dei sogni la sua eccentricità apparisse ancora più marcata. Ma nelle società antiche la stranezza, se da un lato era vista con sospetto, dall’altro veniva letta come spia di facoltà speciali, in questo caso divinatorie. Epimenide cominciò dunque ad essere chiamato in tutta l’Ellade per fornire consulenze su situazioni difficili. Lo interpellarono anche gli ateniesi, prostrati da un’annosa pestilenza, e il nostro risolvette in quattro e quattr’otto il loro problema, identificandone le cause; poi se ne andò, schivo di onori e rifiutando oltretutto qualsiasi compenso (era davvero un eccentrico). Pare invece che, come sempre accade, non fosse particolarmente apprezzato dai suoi compatrioti, dei quali infatti diceva: “Cretesi, cattive bestie, ventri pigri, mentitori sempre” (questa invettiva gli è attribuita da Paolo di Tarso). Di qui il famoso paradosso del mentitore, per cui, essendo lui cretese, se tutti i cretesi mentono nemmeno lui è credibile, e le sue accuse sono infondate.

Ma non è questo che mi interessa. Mi interessano invece la capacità divinatorie, perché interrogato sull’origine dei suoi poteri Epimenide si scherniva asserendo di non vaticinare rivolgendo lo sguardo al futuro, ma sulla base della conoscenza del passato. Mi pare un’affermazione tutt’altro che scontata, degna nel caso specifico di una riflessione più approfondita: credo infatti che il filosofo-vate non volesse affermare semplicemente che pensare al passato è fondamentale per capire il presente e orientare il nostro futuro, cosa abbastanza ovvia (anche se oggi non lo è affatto). Intendeva dire, sulla base della sua straordinaria esperienza, che chi per qualche motivo è rimasto più strettamente vincolato al passato, o non ha vissuto direttamente i cambiamenti, quando se li trova di fronte è in grado di apprezzarne la reale portata, si rende conto più nitidamente della di-stanza intercorsa. È in fondo ciò che accade a noi tutti, che non avvertiamo i mutamenti che avvengono in noi stessi e nelle persone con le quali abbiamo maggiore consuetudine, mentre li constatiamo sgomenti in coloro che abbiamo perso di vista per venti o più anni.

La cosa mi coinvolge perché in qualche modo un’esperienza simile a quella di Epimenide la sto vivendo anch’io. Provo sempre più spesso la sensazione di risvegliarmi da un lungo letargo e di trovarmi di fronte ad una realtà nella quale non mi raccapezzo. Ne avrei tutti i motivi, perché nel frattempo la trasformazione del mondo ha conosciuto un’accelerazione esponenziale. I cambiamenti che mi sorprendono in realtà io li ho vissuti da dentro, sono passati sulla mia pelle, sul mio corpo, sulle mie speranze e aspirazioni (lasciando anche cicatrici evidenti): eppure, sarà senz’altro per effetto dell’età e del rimbambimento senile, che induce anche patologiche nostalgie, il mondo nel quale mi risveglio ad ogni notizia di telegiornale, ma anche ad ogni esperienza di quotidiana banalità, non lo riconosco, non mi piace, mi respinge (il che potrebbe in fondo essere un bene, perché avrò meno rimpianti al momento di lasciarlo). Insomma, l’impressione è di essermi addormentato sessant’anni fa pieno di certezze e di speranze e di risvegliarmi oggi pieno di dubbi e di delusioni.

Per esemplificare questa sensazione ricorro ad alcune notazioni che ho appuntato in una giornata tipo della scorsa settimana. Non tengo un diario, ma assicuro che è andata proprio così, non sto inventando nulla.

Dopo aver tentato invano di chiudere gli occhi per più di un paio d’ore consecutive, e troppo stanco per leggere, mi piazzo ad un un’ora antelucana davanti al televisore, lasciando scorrere distrattamente le immagini mute e sperando nel loro effetto soporifero. Ad un certo punto però mi imbatto in un vecchio film-documentario, di quelli in voga nei tardi anni cinquanta, che giocavano maliziosamente col pretesto del cinema-verità per offrire agli spettatori immagini che all’epoca apparivano pruriginose. Si tratta di Europa di notte, di Alessandro Blasetti, che quella moda l’ha inaugurata. Mi sono perso tutta la parte “spettacolare”, ma mi godo invece lo spezzone finale, quello davvero documentale, che mostra in bianco e nero una Roma percorsa ai primi chiarori dell’alba dalla cinepresa, a raccontare un lento risveglio dopo i bagordi notturni: una Roma semideserta (per le strade ci sono solo i netturbini e distributori dei pacchi dei giornali alle edicole), grigia ma pulitissima (è quella dei film tardo-neorealistici, tipo Poveri ma belli – quella sporca comincerà ad apparire solo tre anni dopo, con Accattone).

Il caso (?) vuole che uno dei servizi del telegiornale trasmesso immediatamente dopo sia dedicato proprio all’immondizia che sta sommergendo ormai da decenni la capitale. Roba da chiedersi come abbia fatto una città che un tempo dominava il mondo – e già all’epoca era abitata da più di un milione di persone – a ridursi ad un tale letamaio. E non c’è in giro un Epimenide da consultare (se ci fosse se ne andrebbe via di corsa), o meglio, ne vengono consultati una miriade, ma si limitano a intascare il compenso. Soprattutto non c’è l’ombra di netturbini (anche se a ruolo paga ne risultano duemilaquattrocento).

Con la prima sigaretta arriva anche la prima riflessione: allora la mia non è solo una percezione distorta, falsata dalla nostalgia: il mondo che ho conosciuto prima di addormentarmi era molto più pulito, nelle città come nelle campagne, lungo le strade di montagna come sul greto dei fiumi. Come ho già raccontato altrove, nelle campagne non si producevano rifiuti: tutto veniva riutilizzato, legno e carta per le stufe, l’organico per gli animali o come fertilizzante, la plastica non esisteva e le bottiglie di vetro erano preziose, i mobili, gli abiti e persino la biancheria passavano di padre in figlio. Persino le cicche venivano disfatte per recuperare il tabacco. Lungo le strade che salivano al paese e nelle vie interne le cunette erbose erano rasate ogni tre o quattro giorni, a ciascun cantoniere competeva la manutenzione di un tratto e c’era una vera e propria gara a chi lo teneva più in ordine. Anche nelle città funzionava una raccolta minuziosa. A Genova, dove ho trascorso nell’infanzia brevi periodi presso una zia portinaia, lo smaltimento dei rifiuti era quasi un rito, i netturbini erano implacabili con chi non rispettava i tempi e i luoghi del conferimento. Certo, la mia è una visione di superficie, ma almeno la superficie era pulita.

Risvegli 02

Mentre attendo che il caffè gorgogli nella moka il telegiornale prosegue. Un automobilista ubriaco, tra l’altro già privato un sacco di volte della patente, ha sterminato una famiglia che passeggiava tranquillamente a bordo strada. Gli omicidi stradali danno ormai vita ad una rubrica quotidiana, come i femminicidi e le previsioni meteo. Quando mi sono assopito, sessant’anni fa, naturalmente queste cose non accadevano. Mi si obietterà che circolavano forse un cinquantesimo delle auto odierne, ma la realtà è che c’erano anche molti meno ubriachi, alla faccia delle statistiche che vengono sbandierate ad ogni occasione, e quelli che c’erano in genere potevano fare del male solo a se stessi. Durante tutta l’adolescenza e la giovinezza non ricordo comunque di aver mai visto un mio coetaneo sbronzo. C’era sì qualche adulto o qualche anziano che alzava il gomito, ma al massimo capitava di trovarlo steso in una cunetta, dove aveva trascorso la notte dentro la neve, protetto dall’antigelo che circolava nel suo corpo. Oggi, a quanto mi arriva, lo sballo e la sbornia sono diventate abitudini giovanili, riti di passaggio che tendono a protrarsi poi all’infinito, e hanno anche cancellato le differenze di genere.

Al contrario di quanto faccio al solito, dopo il caffè non spengo il televisore. Una sindrome masochistica mi spinge a seguire anche le notizie internazionali. A meno di duemilacinquecento chilometri da noi, distanza che un aereo di linea percorre in tre ore, è in corso una guerra. Dopo quasi un anno e mezzo di carneficina, della quale non conosciamo nemmeno approssimativamente i costi reali, in vite umane, in sofferenze e in distruzioni, siamo a constatare che la cosa potrebbe durare all’infinito, così come evolvere all’improvviso in un disastro globale. Ci siamo già assuefatti, e le notizie dal fronte arrivano ormai di spalla, dopo le polemiche sulla Santanché e su La Russa.

Risvegli 03

Nessuno dei miei coetanei, nati a immediato ridosso dell’ultimo grande conflitto, avrebbe mai immaginato sessant’anni fa una cosa del genere. Si parlava di guerra fredda, è vero, veniva evocato ad ogni piè sospinto lo spauracchio nucleare, ma almeno dalle nostre parti (intendo in Italia, e penso anche al resto d’Europa) nessuno ci ha mai creduto veramente. A differenza che negli Stati Uniti, le aziende produttrici di rifugi antiatomici da noi hanno chiuso velocemente i battenti, e i pochi che sono stati venduti erano più intesi ad esibire uno status che a garantire una improbabile sicurezza.

Questo non significa che le guerre non ci fossero, che non fossero sanguinose e che non ne avessimo notizia. Sapevamo dell’Algeria, del Congo, del Biafra, del Vietnam e di tutti gli altri conflitti in corso in ogni angolo del mondo. Ma almeno li percepivamo come gli ultimi sussulti di un imperialismo in agonia, speravamo che avrebbero chiuso definitivamente la vergogna dello sfruttamento coloniale e aperto ad un mondo più giusto. Non è certamente il caso di quest’ultimo scontro: ed è indubbiamente assai più concreto il rischio di una deriva nucleare, anche se lo si esorcizza parlando di “atomiche tattiche”. Sembra che il mondo si sia rassegnato alla ineluttabilità di questo esito.

Di fronte a tutto ciò appare ancora più colpevole e scandalosa l’impotenza dell’Europa. All’epoca l’Unione Europea era ancora in fasce, esisteva solo per determinati settori economici, ma davvero si credeva che avrebbe potuto evolvere in una realtà politica. Magari eravamo tutti molto più ingenui, e non solo noi ragazzi, ma a volere questa unione era una classe politica che aveva vissuti gli orrori della guerra ed era determinata a non consentire che si ripetessero. Se potesse assistere allo spettacolo offerto dalle istituzioni politiche europee odierne inorridirebbe.

In appendice alle immagini della guerra arrivano quelle degli sbarchi dei migranti dall’Africa e dall’Asia. Nella sola giornata di ieri se ne sono contati settecento, e si sospetta che almeno un centinaio siano scomparsi nelle acque dello Ionio. Non riesco a seguire le polemiche e le dichiarazioni su accoglienza, respingimenti e ricollocazioni: un teatrino nauseante. Da neo-risvegliato mi colpiscono invece la natura e la dimensione del fenomeno. Mi ero assopito più mezzo secolo fa nella convinzione che la grande novità del terzo millennio sarebbe stata costituita da un terzo mondo finalmente libero e indipendente, capace di giocare un ruolo da protagonista: non mi aspettavo certo che la cosa prendesse questa tragica piega. Anche se non sono mai stato facile agli entusiasmi “rivoluzionari” del terzomondismo (voglio dire, niente Cuba, niente libretto rosso, niente Angola, ecc…), se guardo alla situazione geopolitica mondiale con gli occhi di allora non posso che rimanere allibito. È accaduto tutto il contrario di quanto speravo: il colonialismo ha cambiato pelle e ha trovato nuovi interpreti (la Cina, la Russia, gli stati arabi del golfo, …), le classi dirigenti indigene, in Africa come in Asia come nell’America Latina, hanno dato di sé pessima prova, dimostrandosi tutte egualmente incapaci e corrotte, quale che ne fosse l’estrazione o l’ideologia di riferimento, l’ONU è un baraccone privo di qualsiasi credibilità e potere, mentre tutte le agenzie specializzate che ha partorito, come l’UNESCO, la FAO e compagnia cantante sono diventate delle greppie inefficienti alle quali si nutre un numero scandaloso di funzionari, reclutati per lo più nei paesi “in via di sviluppo” e affamatissimi. Certo, hanno concorso gli stravolgimenti climatici, la desertificazione, lo sfruttamento criminale delle risorse operato dalle potenze neocoloniali: ma quello che balza agli occhi è ad esempio il fallimento di ogni progetto di “negritudine”, quello che aveva ispirato i primi anni dell’indipendenza africana. Altro che terzomondismo: e infatti, persino il termine è sparito dal vocabolario politico (così come “negritudine”, che da bandiera è diventata un insulto), e l’eredità è stata raccolta dall’azione “caritatevole” delle organizzazioni non governative, che anche quando sono in buona fede sembrano travasare l’acqua dell’oceano con un cucchiaio.

Risvegli 04

Le previsioni del tempo completano il quadro. Mezza Europa è prostrata da temperature torride, una buona parte è devastata da roghi che mandano in cenere il poco che rimane del patrimonio boschivo, mentre l’altra mezza è bombardata da fenomeni atmosferici estremi, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate. Questo accadeva senz’altro anche sessant’anni fa, e seicento, e seimila: ma si trattava di situazioni eccezionali, ed erano percepite come tali. Oggi rappresentano la nuova “normalità” meteorologica, al di là dei titoli strillati sui quotidiani e del sensazionalismo isterico dei notiziari televisivi: una “normalità” percepita attraverso lo stravolgimento mediatico, nel quale all’afa e alla grandine si aggiungono le inconcludenti polemiche tra catastrofisti e negazionisti (che, è sin troppo scontato dirlo, lasciano il tempo che trovano). La chiusa finale, prima del diluvio pubblicitario, reca almeno una nota comica, ma di una comicità desolante, priva di qualsiasi umorismo: sono i consigli dispensati degli esperti, che tutti seri in volto e qualche volta supportati dall’autorevolezza di una divisa suggeriscono di bere molta acqua e di stare all’ombra, o nel caso opposto di rimanere in casa durante i nubifragi e non cercare riparo sotto gli alberi.

È ora di spegnere e di staccarsi dal divano. Una passeggiata solitaria mi porta al Capanno, dove trascorrerò il resto della mattinata trafficando e leggendo. Ma lungo il percorso mi guardo attorno. Sessant’anni fa questa passeggiata la ripetevo quattro volte il giorno, con un passo decisamente diverso, oppure in bicicletta. L’ultima casa del paese era in fondo al viale, dopo partivano i vigneti. Non c’era un metro di incolto, e a vista d’occhio i filari coprivano le colline più prossime ma anche quelle al di là del fiume. Dalla tonalità di verde delle foglie potevi capire dove maturavano il dolcetto, la barbera, il moscato. Oggi la macchia ha riconquistato tutti i declivi. Nella Valle del Fabbro non c’è più una sola vite, l’unico fazzoletto di coltivo è costituito dal mio frutteto, anch’esso purtroppo in via di inselvatichirsi. Per certi versi può apparire un angolo paradisiaco, ma è il paradiso dei rovi, e anche se egoisticamente me lo godo non può non trasmettermi la sensazione triste dell’abbandono.

Per la lettura mi rifugio in alcuni fascicoli de Le vie del mondo, risalenti agli anni in cui mi sono addormentato. Ho conferma di ciò che scrivevo sopra quanto alle aspettative su un mondo più libero, più giusto, più pacifico. E noto anche come non ci sia traccia di razzismo nella descrizione di paesi e di popoli lontani, appena emersi dal limbo della storia: c’è solo una gran curiosità, checché ne dicano gli odierni cancellazionisti, per i costumi, per le tradizioni, per le prospettive future che ciascuna di queste culture potrà perseguire senza negarsi. L’occidente non ha atteso i cultori della memoria particolaristica per farsi un esame di coscienza, come ben sa qualsiasi appassionato del western classico: nel cinema degli anni Cinquanta dietro ogni rivolta o scorreria o massacro operato dagli indiani c’erano la mano o le mene di mascalzoni bianchi.

Nel pomeriggio cerco consolazione dal Tour de France. Un tempo, nel dormiveglia di fine secolo scorso, andavo a seguirne dal vivo qualche tappa alpina. E prima della metà degli anni Sessanta lo vivevo attraverso le radiocronache. Ho tifato e ho urlato anch’io, ma quella che vedo oggi è una mandria di idioti assiepati lungo le salite, che intralciano con bandiere e cartelli la fatica dei corridori, corrono al loro fianco mezzi nudi per scattarsi un selfie, rischiando ad ogni passo di buttarli a terra, o si parano davanti alle moto bardati da cerebrolesi per strappare un attimo di visibilità internazionale. Non mi si venga a dire che è sempre stato così, che anche Bartali e Nencini erano stati ostacolati: si tratta di cose ben diverse. Là c’era di mezzo uno sciovinismo esasperato, stupido ma ingenuo: qui vediamo invece manifestarsi platealmente gli effetti del rincretinimento mediatico, della spettacolarizzazione di tutto, e in primis della stupidità. Lo sciovinismo, il tifo, sono degenerazioni della sportività: questa è invece degenerazione assoluta, una crescente tabe antropologica.

Non riesco neppure ad attendere l’arrivo della tappa, sono disgustato. Esco a fare un giro per strada. Il paese sembra un villaggio fantasma. Non un’anima, neppure un cane o un gatto (oggi vivono in casa), e non certo per via del Tour. È già l’ora nella quale dalle porte delle case che si affacciano in via Benedicta o dai vicoli che ne dipartono uscivano sedie e sgabelli, e zie e nonne e mamme si riunivano in capannelli lungo la strada, dandosi sulla voce da un gruppo all’altro, commentando ogni passaggio e facendo la tara ad ogni acquirente che uscisse dai negozi aperti sullo stradone. Oggi i capannelli non ci sono più, in compenso malgrado il divieto ci sono auto posteggiate lungo tutta la via, e non ci sono più nemmeno i negozi (erano dodici, oggi ne rimane uno). Se muore qualcuno paradossalmente se ne ha notizia solo il giorno dopo, dai manifesti affissi nella bacheca, se qualcuno è malato o finisce all’ospedale lo si viene a sapere quando ricompare, per i pettegolezzi ci si può rivolgere solo all’agenzia informale che opera davanti al bar, ma con gravi ritardi e scarsi dettagli. Insomma: non c’è più alcun controllo sociale, e questo in un paese di meno di mille abitanti. Figuriamoci in città. L’unico controllo è quello che passa attraverso gli iphone, ma è tutta un’altra faccenda.

In tre quarti d’ora, misurando il passo e cercando di cogliere i minimi indizi di cambiamento, di interventi edilizi, di restauro dei muri e degli infissi, dei segni di vita insomma, faccio il giro completo del paese. Incrocio quattro persone, e non ne conosco nemmeno una. Più della metà degli attuali abitanti è arrivata recentemente da fuori, attratta dai costi stracciati delle case – che nonostante ciò rimangono invendute per anni.

Alla metà del secolo scorso, quando i residenti erano quasi il doppio, li conoscevo benissimo tutti, sapevo dove abitavano, che attività svolgevano, che carattere avevano, se fossero affidabili o meno. Oggi mi sento uno straniero nella terra nativa. Continuo a non chiudere a chiave la porta la notte, ma in realtà non sono più così serenamente fiducioso.

Risvegli 05

Scende finalmente la sera, e con essa torna purtroppo anche l’incubo dell’insonnia. Una volta era costume tirar tardi in cortile, dove confluivano vicini, dirimpettai e passanti occasionali: ma dopo la morte dei miei genitori la consuetudine si è rapidamente persa.

La televisione naturalmente non aiuta, i film sono gli stessi già trasmessi cinquanta volte, persino i western sono inguardabili, ridotti a uno spezzatino in un mare di pubblicità, i talk show sono un oltraggio costante al pudore intellettuale. Non restano che i libri, ma anche la dondolo a quest’ora è scomoda, e a letto ogni posizione di lettura è immediatamente stancante. Spengo la luce, chiudo gli occhi e mi concentro.

Realizzo che per tutta la giornata ho comunque fatto uso senza pensarci affatto di strumenti (il computer, il cellulare, il forno a microonde, ecc …) dei quali sessant’anni fa nemmeno avrei sospettato l’avvento, e di altri dei quali non avevo la disponibilità (auto, telefono, televisione, …). Che ho mangiato cibi conservati in confezioni di plastica, e lo stesso vale per le bevande. E che tutto sommato, a dispetto della consapevolezza negativa, ho anche pensato secondo gli schemi conseguenti a tutto questo modo di vita. Solo ora mi rendo conto di quanti bisogni artificialmente indotti ho cumulato, di quanto ne sono diventato dipendente. Mi vien da pensare di essermi mosso per tutto questo tempo come un sonnambulo. Di fatto, mi piaccia o meno, mi sono adeguato a tutti i cambiamenti, a tutte le novità. Non dico di averli digeriti o capiti tutti, ma quantomeno ci ho convissuto. E nemmeno ho scordato come il mondo preletargico non fosse propriamente un Eden. Diciamo che ho vissuto in uno stato di coma vigile, e che forse sono meno convinto di quanto credo di volerne davvero uscire.

Comunque ci provo. Può essere che stavolta mi addormenti, per risvegliarmi sessant’anni addietro. Non con sessant’anni di meno, non è questo a interessarmi. Eden o no, ciò che rivoglio, almeno per un attimo, è quel mondo.

P.S. Ho accennato inizialmente alle discrepanze sulla durata del sonno di Epimenide (alias Rip Van Vinkle) che si trova nelle versioni moderne della leggenda. Me ne do questa spiegazione. Goethe scrive Il risveglio di Epimenide nel 1814. Dietro l’opera c’è una motivazione politica autogiustificatoria. L’autore cerca di spiegare il suo cinquantennale silenzio di fronte agli straordinari accadimenti dell’ultimo secolo, rivoluzioni americana e francese comprese, e soprattutto rispetto a quelli che hanno profondamente toccato la vita della Germania. Sembra voler dire che il suo non è stato un atteggiamento di fuga e di non compromissione con la realtà, ma di osservazione della realtà dall’alto di una speciale consapevolezza indotta dal sapere artistico. E infatti, dopo tanti sconvolgimenti, le cose sono tornate al loro posto (Napoleone è appena stato sconfitto), l’ordine è stato ristabilito. Al contrario Irwing, che scrive il Rip van Winkle pochi anni dopo (1819) in Inghilterra, ma lo ambienta in America, constata che in vent’anni le cose sono cambiate moltissimo, sia sul piano politico che su quello economico e sociale. Si è addormentato in una colonia inglese e si risveglia negli Stati Uniti, rischiando addirittura di essere linciato quando in perfetta buona fede dichiara la propria lealtà alla corona britannica. Ma soprattutto prende atto di una rivoluzione ancora più importante, quella industriale, che viaggia sulle ferrovie e sui battelli a vapore, e del fatto che le trasformazioni sono destinate a diventare sempre più veloci. Nessuno attribuisce a Rip facoltà divinatorie, ma molti credono alla sua storia e invidiano la sua esperienza, non fosse altro per il fatto che gli ha consentito di sfuggire alla tirannia della moglie. In sostanza, secondo Irwing, due decenni sono sufficienti a cambiarti la vita e a trasformare il mondo.

Direi che alla luce degli ultimi due secoli abbia visto ben più lontano di Goethe.

Risvegli 06

Anni perduti – e da dimenticare

(appunti sparsi sullo stato mio e della nazione)

di Paolo Repetto, 24 dicembre 2022

Nel solco di una tradizione recentissima, inaugurata su questo sito solo dodici mesi orsono con lo scritto sui Buoni propositi, propongo un sintetico resoconto dell’anno che sta mestamente per chiudersi. È un bilancio da economia domestica, nel quale si mescolano le voci più disparate: ma proprio per questo credo corrisponda nella maniera più veritiera a ciò che tutti abbiamo percepito di un anno decisamente infausto.
In questa prima parte ho inserito senza aggiornarle alcune riflessioni maturate nel corso dell’estate: non vanno oltre il livello di una bozza, ma mi sembra rimangano tuttora valide. A breve saranno postate quelle più recenti. Mi propongo di sviluppare meglio in futuro alcuni degli argomenti toccati, ma prima di tutto spero di muovere anche altri ad occuparsene. A quanto pare il mio ottimismo resiste, è a prova di sanità pubblica e di imbecillità private, di crisi energetiche e di smottamenti a destra. Per questo non ho ritegno a fare (e a farmi) ancora gli auguri.

Anni perduti 01

Se esiste una mente universale,
deve necessariamente essere sana?

La Débâcle

Non piove praticamente da nove mesi. Fiumi in secca, laghi che scompaiono, ghiacciai che si sciolgono o si disintegrano a ritmi sempre più accelerati. Mentre i campi e le risaie sono bruciati dall’arsura, le sorgenti e i rubinetti cominciano a tossire. Di quando in quando, con frequenza incalzante, arriva una tromba d’aria a movimentare un po’ il paesaggio. Da qualche giorno poi hanno ripreso a crepitare anche gli incendi. La peggiore siccità dell’ultimo secolo, si dice, ma solo perché non sono possibili raffronti con quelli precedenti. Saranno anche fenomeni in larga parte indipendenti dalle attività umane, come testimonia la ciclicità delle glaciazioni, ma non si può negare che l’umanità ci stia mettendo molto del suo, con comportamenti che moltiplicano gli effetti degli sconquassi naturali.

Anni perduti 02

In compenso sono ricomparsi il covid, che s’inventa sempre nuove varianti, e l’inflazione, invocata fino a ieri come la pioggia, ma subito sfuggita di mano e schizzata a due cifre: e soprattutto la violenza, tanto quella pubblica come quella privata. Qui la natura non c’entra, facciamo tutto da soli.

La violenza internazionale è riesplosa improvvisa persino nel vecchio continente. Anche se si mantiene stabilmente “a bassa intensità”, da febbraio il conflitto tra la Russia e l’Ucraina chiede il suo quotidiano tributo di morti (di quelli russi non si sa), desertifica intere regioni e le spoglia delle loro strutture produttive, impedendo tra l’altro l’esportazione di quel grano dal quale dipende la sopravvivenza di metà della popolazione africana. Di conseguenza questa a breve si sposterà con un esodo ben più che biblico verso le coste europee. Le sanzioni inflitte alla Russia dall’occidente si sono rivelate un boomerang, stanno logorando soprattutto le economie europee e hanno spinto i Russi nelle braccia sempre tese (a prendere) della Cina.

Anni perduti 03

In questo allegro panorama le “democrazie” occidentali sono guidate da governi deboli e da classi politiche decisamente incapaci. La nostra è neppure più guidata: siamo riusciti a mandare a casa anche il meno peggio, e affideremo tra un paio di mesi il nostro destino al “paese reale”.

In situazioni come queste non esiste una terminologia capace di rendere appieno l’entità di quanto sta accadendo. Almeno nella lingua italiana, che in linea con il nostro modo di pensare bada più a lasciare spazio alle sfumature sottili di significato, consentendoci di giocare con interpretazioni ambigue o riduttive. Il francese, invece, dispone quasi sempre della parola giusta, capace di riassumere tutti i sinonimi e di andare oltre. Lo abbiamo già visto in un’altra occasione, con bêtise. Nel caso attuale la parola appropriata e definitiva mi sembra débâcle, che sta per sconfitta, disfatta, batosta, resa umiliante, disastro, sfacelo, fallimento, ecc., e sottintende un ampio margine di responsabilità umana.

Il riassunto che ho fatto è ovviamente tanto generico da sembrare banalmente superfluo: il disagio che tutti quanti stiamo vivendo è evidente, anche se si manifesta nei modi più disparati. Ogni tanto però fa bene anche sintetizzare la situazione in un quadro generale, perché di norma tendiamo a preoccuparci dei singoli problemi uno alla volta: il che è normale e comprensibile, ma finisce poi per distrarci dal guardare in faccia l’aspetto più angosciante e immediato della tragedia, che è proprio lo stato del “paese reale”.

(luglio 2022)

 

Un paese di farlocchi

Giudicato in base all’immagine che ci torna dai media, il paese reale è una jungla (secondo la stampa) o un serraglio di deficienti (secondo la televisione). Sappiamo però che i media non raccontano la verità, e allora proviamo a fidarci dei nostri occhi, del nostro intuito. Ci diciamo che questa è una falsa immagine, che in fondo a guardarci attorno siamo circondati da un sacco di gente normale, di persone che fanno il proprio lavoro, che non uccidono la moglie o i vicini di casa, non frequentano i siti pedofili e non incassano pensioni per finte invalidità.

Ed è anche vero: ma nemmeno questa è un’immagine oggettiva del paese reale. Certo, se evitiamo di frequentare le discoteche o i parchi cittadini, di uscire a fare quattro passi la sera, di andare allo stadio per partite o mega-concerti, di partecipare alle adunate politiche, di farci candidare alle amministrative o semplicemente alla rappresentanza condominiale, allora sì, abbiamo l’impressione che tutto sommato le cose funzionino. Ma se soltanto usciamo di un passo dal perimetro di sicurezza che ci siamo ritagliati, e che si riduce ogni giorno di più, allora il paese reale lo incontriamo davvero.

C’è una quotidianità che non possiamo ignorare, a dispetto dell’ottimismo della volontà cui facciamo sempre meno convintamente ricorso. Parlo delle piccole irritazioni dalle quali siamo continuamente assaliti, dal momento in cui scendiamo a buttare la spazzatura a quello in cui cerchiamo di prendere sonno a dispetto di sagre, di sfide motoristiche notturne o di cani che latrano tutta la notte alla luna, anche quando la luna non c’è. Parlo della sensazione che nulla sia più sotto controllo, che se ci è andata bene oggi già domani potremo imbatterci in un pazzo o in un cinghiale in libertà, o trovarci coinvolti in un crack finanziario di cui nessuno alla fine sarà tenuto responsabile e tutti (o quasi) pagheranno le conseguenze. Non è questione di catastrofismo: è evidente come su questa percezione pesi anche il battage dei media, ma lo è altrettanto il fatto che lo smottamento sociale procede palpabile e accelerato. Questo è il “paese reale”.

Del quale, naturalmente, facciamo parte anche noi. Ne fanno parte i piccolissimi e costanti cedimenti alla non legalità o alla non correttezza cui siamo costretti per sopravvivere (anche perché quali siano la legalità e la correttezza non è mai ben chiaro), che riusciamo a giustificare con sempre meno rimorsi e ai quali ci stiamo velocemente assuefacendo.

Da sociale dunque il problema diventa in prima battuta individuale. Lo smottamento coinvolge anche noi, già per il solo fatto, quando non troviamo una risposta credibile al “cosa posso farci io, concretamente” (di fronte all’inquinamento, ai cambiamenti climatici, al degrado sociale, culturale, scolastico, linguistico, ecc…) di assistervi inerti. E peggio ancora va quando la risposta la diamo abbracciando posizioni che non tardano a diventare ideologiche, quando chiamiamo a responsabili tutti gli altri, quelli che si ostinano a non capire, dall’alto di una nostra presunta (e presuntuosa) esemplarità.

Anni perduti 04

Qualche giorno fa (per la precisione il 19 giugno) Luca Mercalli, meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico superdecorato e onnipresente in tivù, ha tenuto a Lerma una “Chiacchierata ecologica”, per spiegare al popolo quanto gravi siano i problemi ambientali, quanto siamo in ritardo per risolverli e quali piccoli accorgimenti comportamentali ciascuno di noi può adottare da subito per dare un suo contributo. Tutte cose molto giuste e vere, supportate da fior di dati sull’oggi e di proiezioni sul domani, in una serata talmente afosa da far percepire sulla loro pelle agli astanti la portata dei cambiamenti climatici. Tanto che ad un certo punto qualcuno ha pensato di procurare a un Mercalli grondante sudore un paio di bottigliette di acqua minerale. Lo avesse mai fatto! Le bottigliette (di plastica) sono state sgarbatamente respinte dall’oratore, in coerenza perfetta quanto al merito con ciò che andava predicando sull’inquinamento, ma molto meno, quanto ai modi, con quel che pretendeva di insegnare sui comportamenti. Dubito che la chiacchierata abbia segnato qualche punto a favore della causa ambientalista. Il giorno successivo nessuno probabilmente ricordava qualcosa dell’argomento, ma tutti avevano ben presente la malagrazia dell’illustre ospite. Mi sembra un esempio palese di come ogni integralismo, anche quello applicato a giuste cause, finisca per perdere di vista quello che è il nocciolo di qualsivoglia problema sociale, ovvero la mancanza di buona educazione.

(luglio 2022)

Anni perduti 05a

Un fil di fumo

Avrei svariati motivi per sentirmi a terra. Alcuni sono indubbiamente seri, e richiedono continui e sempre più faticosi colpi di reni per rialzarsi. Altri, non meno seri, sono comuni a tutti, riguardano la situazione politica, e più ancora quella ambientale, ma sembrano ormai sfuggire ad ogni nostra possibilità di controllo e spingono alla rassegnazione. Altri ancora, invece, possono apparire decisamente futili, sono sindromi del tutto personali, ma per accumulo provocano alla lunga un’insostenibile pesantezza.

Io patisco soprattutto questi ultimi, nel senso che ai primi bene o male reagisco, mentre di fronte ai cumuli di cretinate mi sento impotente. Soffro di una sensibilità addirittura morbosa per la stupidaggine, segnatamente nei confronti di quella che viaggia col passaporto “culturale”. Mi arrabbio ad esempio se sento su RaiTre che vogliono consacrare a museo un appartamento abitato da Pasolini per qualche mese, interrompo immediatamente la lettura di un saggio filosofico sull’avventura quando vi trovo scritto che nel 1794 le truppe napoleoniche (?) marciavano sulla superficie ghiacciata del Reno, spengo il televisore se mi propone un dibattito sul sacro cuore di Maradona o un concerto polemico del maestro Muti, diserto le mostre sui cugini o sui vicini di casa degli impressionisti, ma anche quelle sugli impressionisti stessi, e le conferenze degli storici a gettone. Va da sé poi che evito come la peste i film che “devi” vedere, i libri che “devi” leggere, i musicisti che “devi” ascoltare per non sentirti fuori sintonia. Intendiamoci, ciascuno è libero vedere e leggere e ascoltare ciò che gli pare, purché non pretenda poi di dettare più o meno larvatamente un canone.

Un’attitudine di questo tipo crea naturalmente dei problemi. A volte mi sento sotto assedio, soprattutto quando vedo cannibalizzati e banalizzati a merce di consumo interessi, argomenti, personaggi che coltivo da sempre con devozione quasi religiosa. Allora trovo conforto solo nel mio frutteto, e più ancora nella mia biblioteca, che un filtro sessantennale ha reso affidabile, ma che mi spinge inesorabilmente a guardare indietro. È la depressione post-postmoderna. O forse è solo lo scotto da pagare all’invecchiamento galoppante, uno scotto nel mio caso particolarmente pesante perché si somma ad una disposizione congenita. Insomma, è dura.

Non voglio però ricominciare con le geremiadi: al contrario, voglio testimoniare che è possibile, sia pure per qualche attimo, uscire dal rigor mortis della post-modernità e da quello dell’ineluttabile consapevolezza della propria irrilevanza. Che quando sembra nulla valga più la pena di essere visto o ascoltato, tentato o sperato, basta davvero poco a squarciare la bruma grigia che avvolge il mondo.

Anni perduti 05

È accaduto la primavera scorsa. Incontro per una conversazione extracurricolare un paio di classi terminali dell’ultimo liceo che ho diretto, su sollecitazione di un docente col quale si è creata una buona sintonia. Logorroico e semirimbambito quale sono, la tiro in lungo per quasi due ore, ma constato con crescente meraviglia che non uno dei cinquanta ragazzi presenti si alza e si assenta per urgenze: il che, stante la debolezza ritentiva dei nostri giovani, è quasi un miracolo. Non solo: dal momento che amo conversare deambulando, posso realizzare che nessuno si trastulla con lo smartphone, risponde a messaggi o si addormenta con gli occhi aperti (se accadesse, non la tirerei così in lungo). I ragazzi mi seguono con lo sguardo, avanti e indietro, come in una partita a tennis al rallentatore, e non in ossequio ad ordini di scuderia, né per una particolare reverenza dovuta a un dirigente: quando sono entrati in quel Liceo me n’ero già andato da un pezzo, e non mi hanno mai visto, e comunque quella forma di rispetto per i ruoli è venuta meno da un bel pezzo. Forse è l’argomento a intrigarli, perché la conversazione viaggia un po’ fuori degli schemi, ma alla fin fine non si parla né di calcio né di Greta Thunberg, della crisi ambientale o dei problemi adolescenziali: si parla di filosofia, o meglio, delle possibili e conflittuali visioni del mondo che stanno dietro ogni nostra scelta o comportamento. Non devo interrompermi nemmeno per un secondo, malgrado in queste occasioni sia molto esigente rispetto all’atteggiamento dell’uditorio: e magari m’illudo, ma ho l’impressione che quei ragazzi capiscano tutto ciò di cui sto parlando, anche se molte delle cose tirate in ballo non sono loro affatto consuete. Insomma, ne esco stupito, mi prende persino un po’ di nostalgia dei bei tempi dell’insegnamento, cosa che non mi capitava più da quel dì.

Ora, il passaggio logico successivo, quello che ci si aspetta (e arriva inesorabilmente) nei talk show, dovrebbe essere un proclama di assoluta fiducia nei giovani e di speranza che saranno loro a salvare il mondo. Invece no. Non nutro alcuna fiducia speciale nei giovani, non ne ho motivo, ma allo stesso modo in cui non la nutro nei biondi o nei mancini o nelle persone che portano gli occhiali, o in qualsiasi altra categoria morfologica o anagrafica. I giovani oltretutto, purtroppo per loro, saranno tali solo per breve tempo. Non so se salveranno il mondo o lo affosseranno definitivamente, so soltanto che lo abiteranno nei prossimi sessanta o settant’anni e temo che non sarà uno spasso; senz’altro sarà meno facile di quanto lo è stato per noi. Credo però nelle persone educate e responsabili, e quindi intelligenti. Il passaggio successivo è dunque che mi sono stupito di trovarmi di fronte, raccolte in un’unica sala e nello stesso lasso di tempo, tante persone con queste ultime caratteristiche. Non c’ero più abituato.

Ho anche provato ad immaginare la stessa situazione retrodatandola di sessant’anni e spostandomi in mezzo all’uditorio. Che tipo di attenzione avremmo prestato io e i miei compagni? Senz’altro silenziosa, per una coazione tutt’altro che tenera alla disciplina (l’aver lasciato cadere una penna dal banco mi fece sbattere una volta fuori dalla classe, dopo una solenne lavata di capo), e magari anche un’attenzione genuinamente interessata, se il relatore e l’argomento trattato lo avessero meritato: ma non posso dimenticare che io stesso, per tanti aspetti allievo modello, seguivo le spiegazioni dei miei insegnanti con un doppio taccuino, uno per gli appunti e uno per le mie creazioni artistiche, sul quale annotavo però anche il ricorrere di certi intercalari, per determinarne in maniera quasi scientifica la frequenza e arrivare ad anticiparli; oppure sottolineavo l’uso di termini che potevano essere piegati ad un doppio senso (era il massimo della licenziosità che all’epoca potevamo permetterci). Altri si tenevano svegli con distrazioni non molto diverse. Insomma, dietro la facciata, come nei western all’italiana, spesso c’erano solo dei pali di sostegno e dei tiranti.

Per questo, se provo a mettermi nei panni dei miei insegnanti, credo che avrei nutrito forti dubbi di poter trarre qualcosa da quegli adolescenti pieni di brufoli e pateticamente presuntuosi. E invece il qualcosa è venuto fuori: non in termini di “successo”, che non considero un indicatore di rilievo, e del quale non ho mai tenuto un registro, ma senz’altro in termini di qualità umana. Non c’è un mio ex-compagno che non riveda o che non rivedrei con piacere.

La stessa cosa potrebbe senz’altro verificarsi domani per i ragazzi di quelle due classi. Magari a vederli poi in giro, l’uno accanto all’altro ma ciascuno immerso nei suoi social, siamo portati a scrollare il capo e a chiederci cosa ne sarà tra vent’anni, e difficilmente ci diamo risposte positive: ma questo è accaduto dai tempi di Adamo nei confronti di ogni nuova generazione, anche se la nostra attuale perplessità parrebbe più che giustificata dalla accelerazione impressa alle trasformazioni dei costumi e dei rapporti. Forse però dovremmo avere maggiore fiducia nella capacità umana di fare fronte a cambiamenti anche traumatici, in quella che oggi con un termine abusatissimo negli pseudo dibattiti televisivi e quindi sempre più vago viene definita “resilienza” (in questo caso assunta nel suo significato originario). Se in una qualsiasi occasione questi ragazzi hanno dimostrato collettivamente intelligenza e responsabilità, significa che possono essere intelligenti e responsabili. Basta dar loro l’opportunità di esserlo. Che siano poi anche giovani è un valore aggiunto, una condizione né necessaria né sufficiente.

Dove voglio arrivare, con tutto questo giro? Semplicemente al fatto che di norma prestiamo attenzione solo a quello che non va, che non funziona, che ci disturba, mentre ignoriamo piuttosto ciò che proprio perché funziona ci sembra scontato. Ecco, io credo che il gesto veramente rivoluzionario, l’unico ancora possibile, sia quello di non dare nulla per scontato, e meno che mai le manifestazioni di una intelligente normalità. Queste andrebbero al contrario sottolineate, in maniera sobria ed efficace, puntando sull’effetto emulativo che può avere la pura e semplice ripetizione. Non si tratta insomma di riesumare il premio “Livio Tempesta”, quello che si assegnava ai miei tempi ai bimbi buoni che si prendevano cura dei loro compagni sfortunati o dei nonni, o percorrevano il mattino chilometri di sentieri con l’amico disabile a spalla per arrivare a scuola (anche se rispetto a quelli che quotidianamente si distribuiscono per le motivazioni più insensate ci starebbe tutto): il sentir ribadire ogni mattina che un comportamento intelligente paga, in termini di risultati, ma prima ancora di amicizia e di rispetto di sé, potrebbe fornire qualche rassicurazione ai molti che sarebbero portati a tenerlo, ma sono resi dubbiosi sulla propria normalità dall’esemplificazione malefica proposta in maniera martellante dai media.

Sto cercando di dire, anche se temo di non essere stato abbastanza chiaro, che a dispetto di tutto abbiamo ancora la possibilità di fare qualcosa. Come, lo vedremo la prossima puntata (e stavolta la prossima puntata ci sarà davvero).

(agosto 2022)

Anni perduti 06

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di Stefano Gandolfi, 10 ottobre 2022

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